chiudi | stampa

Raccolta di poesie di Giuseppe Carlo Airaghi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Lettera di Persefone a Demetra

A quale stagione appartengo, madre?

A quale luogo? A questo temporaneo,

caduco fiorire, a questa luce materna,

 

a questo rimbalzare di campane in lontananza?

Oppure appartengo al mio ambiguo regno,

al mio matrimonio con le tenebre?

 

Madre, perdona la bestemmia eppure

nel mio scuro inverno non soffro

la tua mancanza. Laggiù sono regina.

 

Il sesso di Ade è privo di gentilezze

ma non è gentilezza che cerco

nel nostro letto regale.

 

La primavera mi entra nel cuore,

l'inverno nella vagina. Nello stesso morso

inghiotto verme e mela.

 

Quello che vorrei dirti, madre,

della tua primavera

lo dice la primavera stessa.

 

Per accoglierla è necessario avere fede

più che ragione. Ascoltarne la voce,

chiara, scandita nel frastuono

 

di questo orizzonte, di questo vento

che precipita dai monti

e mi confonde. Ho l'impressione



che gli occhi non sappiano reggere

tanto fiorire, tanta vita celeste,

tanto farsi e disfarsi di nubi.

 

Mi smarrisco a guardarle, a guardare

i solchi inferti ai campi dall'aratro

per aprirli al dono del pane.

 

Impossibile pensare al solco

senza immaginare l’onda del vento

che farà traboccare il grano.

 

Perduta tra prati e rogge

mi domando

a quali altezze cominci il cielo.

 

Se sia necessario

sollevare gli occhi per comprenderlo

o già nel respiro io stessa sia cielo.

 

*

Monologo allo specchio

Monologo allo specchio

Resto in posa di fronte allo specchio
a cercarmi nel fondo degli occhi
(non ben sapendo cosa l’anima sia
se non la fibra finale che completa
le ossa) la carne immutata,
nonostante la barba ingrigita,
del ragazzo che ero, che a mano piantava
desideri tra l’erba dei fossi, tra le acque
smosse delle rogge, tra le gambe
dischiuse delle regine. Per gioco.
Soltanto per gioco, per incoscienza.


Ogni passo all’indietro è una distanza
che raddoppia. Per meglio vedermi
dovrei allontanarmi fino a perdermi
di vista. Rigirarmi nella bocca parole
che non oso dire. Il vero di noi
sta in quello che resta non detto.


Credo oggi di avere risposte
alle domande poste in passato,
ci arrivo dopo anni di silenzi,
fuori tempo massimo, fuori luogo,
avanzando come gli uccelli costretti
a sfidare l’ostinazione del vento:

cercando riparo rasenti alle siepi.

 

“Se sono costretti” dici “la loro
non è una sfida ma una pura prova.
Quasi una sorta di resa”.

 

da Ora che tutto mi appare più chiaro (PuntoaCapo Editrice 2023)

*

Il gelsomino

Nel cortile lievita una parete

verde di gelsomino. Piantata 

la primavera in cui di comune accordo

decidemmo di sfidare la sorte.

 

Ospitò in estate un nido di merli, 

incauti.  I gatti di casa 

non gli lasciarono scampo.

 

Nella serena inquietudine propria

sconfina, d'estate, oltre il muro di cinta

per contrabbandare la gloria immodesta

dei suoi bianchissimi fiori.

 

La bellezza richiede la cura, 

i rami vanno sfrondati, addomesticati,

che non soffochino la parabola 

del televisore, non provochino 

le lamentele, legittime, dei vicini

per l’incruenta invasione dei loro balconi. 

 

A volte penso dovrei lasciare fare. 

Vederla conquistare la via 

ricoprire le auto in sosta, i cancelli chiusi, 

sradicare i pali confitti nel cemento,

Vederla creare precari alloggi

per nuovi nidi di paglia, 

dichiarare a squarciagola la rinascita 

di un'antica sterminata nazione.

 

*

L’estate perenne

Tutte le parole dette e ascoltate
scivolano nella discesa quieta
che conduce al mare, alla spiaggia
dove passeggiare come di sera fanno
i turisti al lungomare illuminato,
dove sopra un telo giallo riposa
il bambino delle estati passate.
Con lui condivido le memorie
del presente, un orizzonte identico,
immutato.


Lui non chiede quanti giorni manchino
al termine delle vacanze, a differenza nostra
che li contiamo a ritroso, sorso a sorso
fino al fondo del bicchiere, alzando il braccio
in segno di saluto all’indirizzo
dell’unica nuvola bianca presente.


La risacca ci bagna i piedi, la sfuggiamo ridendo
lui e io. Condividiamo il medesimo nome,
la stessa avversione per i fuochi di Ferragosto.
A pelo d'acqua galleggia un uomo
con le braccia incrociate sul petto
storniamo entrambi lo sguardo
verso la collina in controluce,
verso un’illusione di durata,
di presenza immutata. Fin quando
nulla avremo più alle spalle.
Non rimane che definire che nome dare
a questa incolpevole nostalgia
del presente.

*

Precauzioni ed avvertenze

Per evitare equivoci ulteriori
mi specializzerò in stringate premesse
che approccino i discorsi alla lontana,
parole di circostanza che chiudano il periodo
dentro il recinto del proprio punto e a capo
senza avanzare altre pretese
ne alimentare congetture.
Parole galleggianti in superficie,
che si torcano la schiena in un inchino,
che non perdano di vista
il proposito finale.
Persuaso che omettere e tacere
siano lo stesso accidente o destino
visto venire di fronte
o allontanarsi di spalle.

*

L’estate del mondo

                                                      In debito con Gabriele

 

Tutte le parole dette e ascoltate 

scivolano nella quieta discesa 

che porta al mare, alla spiaggia dove 

passeggiare leggeri come fanno 

di sera i turisti sul lungomare,

dove sopra un telo giallo riposa 

il bambino delle estati passate.

Con lui condivido le memorie 

del presente, l’orizzonte identico, 

immutato.

 

Lui non chiede quanti giorni manchino 

al termine delle vacanze, a differenza nostra 

che li contiamo a ritroso, sorso a sorso 

fino al fondo del bicchiere, alzando il braccio 

in segno di saluto all’indirizzo 

dell’unica nuvola bianca presente.

 

La risacca ci bagna i piedi, la sfuggiamo ridendo

lui e io. Condividiamo il medesimo nome, 

la stessa avversione per i fuochi di Ferragosto.

A pelo d'acqua galleggia un uomo 

con le braccia incrociate sul petto

storniamo entrambi lo sguardo verso 

la collina in controluce, verso

un’illusione di durata, di presenza immutata.

Fin quando nulla avremo più alle spalle.

Non resta che definire che nome dare 

a questa nostalgia 

del presente.

 

*

Frammenti del poema del cammino

4.

Ora che tutto mi appare più chiaro,
il velo della foschia si è sollevato,
dissolta è la miopia che mi induce

a provare vergogna nel chiedere
se quelle intuite all’orizzonte siano
nuvole basse o profili consumati di montagne,

quale sia la consistenza vera
sospesa tra l’immanenza dei monti
e l’evanescenza delle nubi.

 

5.

Dicono che la natura dell’uomo segua
le regole dei fiumi, persi in percorsi
tre volte superiori al necessario.

Presa la distanza tra la fonte e la foce
moltiplicata per pi greco, il risultato
è un dipanarsi di anse, deviazioni

ansie, timori di essersi perduto
matematicamente corrispondenti
alla strada esatta da percorrere

in questo sbandare di fiumi indecisi
verso il destino, il mare che attende,
preciso alla virgola come un teorema.

 

6.

Ogni accadimento di questa mattina
sarà quindi un imprevisto calcolato,
compreso nel tragitto programmato,

una sbavatura del tratto sulla mappa
che distrae il percorso ma non l’inganna,
il pi greco scientifico da moltiplicare

per la distanza minima tra la sorgente e la foce,
l’esperienza che fa divagare il fiume
lo gonfia prima di giungere al mare

 

*

Giorno di mercato

Nella luce distesa del mattino

resta qualcosa impigliato alle fronde

dei platani protesi a proteggere

i banchi disarmati del mercato.

Resta qualcosa impigliato ai tendoni

ai vulnerabili carciofi esposti,

già sbucciati, all'arcobaleno stinto

delle magliette appese alle grucce,

all'afrore di pesce fritto, a quello dei cani

trattenuti al guinzaglio

che si fiutano l'un l'altro il sedere,

ai sorrisi azzannati, condivisi

da questa umanità animale

aggrappata feroce alla vita,

alla fatica della presa.

 

Resta qualcosa impigliato

a qualcosa che rinasce,

per cui vale la pena esserci e confondersi

e innamorarsi ancora come i vecchi

che ancora non si fidano

di lasciare a casa il cappello,

che si tengono per mano

trascinando il carrello

con le verdure che spuntano

più colorate di un fiore,

più saporite delle rose.

*

Per scrivere poesie

I

Per scrivere poesie sincere
è necessario essere innocenti
e spietati come bestie senza morale,
essere il morso che strappa la carne dall'osso,
il cane bastardo che non molla la presa,
che scava nel fango della terra smossa,
che porta alla luce la preda occultata.

Per scrivere poesie vere
non si potrà più mentire,
ci toccherà colpire,
svelare il sudario,
lacerare la benda
a mostrare la ferita
viva.

Per scrivere poesie sincere
non ci cureremo di farci del male,
di strapparci lacrime dagli occhi,
di cavare denti ai sorrisi.

Per scrivere poesie vere
è necessario condannarsi
alla solitudine e al disprezzo,
lavarsi le mani nelle lacrime
del fratello inconsapevole,
inchiodarvi a martellate nella testa
la bellezza del mondo
che non volete vedere,
inchiodarvi a martellate nella testa
il dolore del mondo
chiuso fuori dalla soglia di casa,
l'urlo che non volete ascoltare.


II
Se scrivessi davvero poesie sincere
sarei condannato alla solitudine,
bandito, messo all'indice,
scacciato oltre le mura della città,
nei boschi profondi dai quali
non sarei più in grado di tornare.

Ma io non scrivo poesie vere,
mi accontento di versi
che non mi condannino alla solitudine
e al vostro disprezzo,
versi che non siano chiodi,
che non siano lame,
che non siano raggi di sole.
Io mi limito a impostare la voce
per darmi fiato da vecchio trombone,
per spettinarvi i capelli
che riaccomoderete a pagina chiusa,
per adescare applausi
che non vi costano nulla.

*

La foglia verde

Qui dove tutto ci dimostra
che è solamente febbraio
(quale altra definizione potremmo azzardare?)
sediamo, dando le spalle al senso di marcia,
sedotti dall'illusione che tutto sia un gioco
che potremo interrompere al richiamo per la cena,
una specie di autoconsolazione,
un lieto fine scontato in dissolvenza.
Ci arrendiamo al sollievo
della rassegnazione della sera,  
mettendo a tacere l'impressione sgradita 
di non aver compreso appieno i segni
che avrebbero potuto rivelarci i motivi.
 
Il traffico è un alone trascurabile
sulla condensa umida dei vetri,
le donne che attraversano la strada 
sono donne bellissime 
nei loro cappotti di luce,
nei loro volti di erba nuova,
nelle promesse dei loro silenzi.
Persino il conducente del tram,
a quest'ora di sera, nel tepore che stordisce
accarezza i propri desideri muti 
nel silenzio di uno sguardo dritto sulla strada
e abbozza un sorriso di foglia verde
malgrado il buio 
di questo febbraio.