I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
La vita agra
Sono curioso di conoscere se, una volta iniziato il testo smetterò o meno di battere sui tasti, lasciandomi avvincere dalla noia di non scriver in anapesto, lasciandomi abbarbicare da un dolore che da dentro mi devasti. Lascio andare la rima come chi non ha cose da dare scrivo dove non c’è scritto niente senza avere un vuoto da colmare come se ogni lettera rappresenti un incidente. Respiro lento, come un malato di Covid in riabilitazione, ai bronchi lascio l’aria e ai nervi la disperazione, non mi va di strozzarmi col cordone ombelicale e rassegnare ogni mio bene alle aule del Tribunale. Lockdownizzato fuori e carcerato dentro balbetto nenie come un Guglielmo Hotel senza degnar d’un centro la vita agra che da cinquant’anni mi accompagna a scriver versi che sappiano di lagna.
*
Mi trasformi in borghese
Parlano tutti di altro nelle assolate viuzze della letteratura d’inizio secolo, reprimo uno sbadiglio nell’invidia che mai qualcuno si accorga della mia scrittura, randagio leone col cuore truce di un anatroccolo, e conto i capelli bianchi che spuntano tra i riccioli della mia capigliatura. Non conta niente avere cantato ultimi, reietti, scarti di magazzino, se non hai indossato abiti densi di pulci o se non hai bruciato copertoni, la crisi occipitale, sfondata la crisi occidentale, è diventata il mio aguzzino, mi ha trasformato in un borghese, in un borghese senz’agoni. Una donna stabile, che amo, un cane, una casa acquistata senza mutuo un conto in banca regolare – la sola disoccupazione come idea fissa a rovinare l’idillio borghese-, costellata da uno sguardo triste e vacuo, l’unica coordinata a mettere in disordine la mia disordinata ascissa. Ed io che volevo cantare di sfaccendati, ladri e battone mi metto a sproloquiare come un Salvini di RescUE, MES, eurobond, e del Governo olandese accattone, del grano europeo che non si ammucchia dentro alle stie, ho adottato la vostra soluzione, smettendo di traghettare i miei frammenti in poesie. (inedito)
*
Covid
Scrivere sul Coronavirus, adesso, non ha senso, tutti a tamponarsi senza chiedere consenso stormi di ambulanze sciamano dal deposito dietro casa facendo della Lombardia una regione a tabula rasa, e loro, a correre sui marciapiedi o a formar crocicchi con grovigli di maschere che neanche un film porno di Schicchi. E i volponi UE mesi a discutere di Mes condizionato chi cazzo mi trova un lavoro che son rimasto disoccupato, mi attende una meravigliosa vita da recluso in casa a togliere i capelli dalla doccia sennò il tubo si intasa, viva il governo olandese che non vuol condividere il debito senza capire che a star seduti sullo Stivale l’Europa rischia piaghe da decubito. E il terrore di morire in solitudine corre sul filo, avanza, alcuni a reclamare i loro dieci anni di meritata vedovanza, altri a non voler finir scannati come animali a me, se muoio, buttatemi in una fossa comune tra battone e criminali, nell’attesa che un eroico ricercatore David riesca ad abbattere a fiondate il pandemico Covid. [inedito, 2020]
*
Cinquecento
Non scrivo niente da Maggio, e adesso che si è attivato Natale è ora di mettere fine al mio silenzio occipitale, l’Italia procede con chiasso, il mercato dei voti è all’ingrosso il Parlamento giallo-verde si è trasformato in giallo-rosso, coltelli tra i denti a dibattere sul famigerato MES che l’italiano medio non arriva alla fin del mes, da due / tre mes avvengono più sbarchi che in Normandia e le nuove risorse le piazziamo sotto ai cavalcavia. È tornato Renzi, con la faccia da Fonzie, oramai siamo trattati come una nazione di stronzi, con l’intento di ridestare la legge Fornero continuando a veder rosso nel bel tempo ci spero, Berlusconi è caduto sulla soglia del gerontocomio e subito mi scivola Fede e si rompe un binomio. Non scrivo niente da Maggio e a Natale niente è cambiato a Taranto si va avanti a morir di lavoro o a morir disoccupato, la maggioranza è diventata minoranza, la minoranza è diventata maggioranza Roma è diventata una discarica e la Raggi dimostra costanza si vede che adora l’Ama senza mostrare alcun surmenage che tra i cittadini romani va di moda il bondage. [inedito, 2020]
*
La poesia, lembolo e i conati
Poesia, comprata a cento lire sulle riviste come Atelier mai assunta a sorsi minuti come avveduti sommelier buttata allo strazio da centinaia di voci improvvisate regalata, senza pudore, su blog e antologie vendute a rate. Poesia, non ti interessi se il mio cane non arriva a bere nel cesso sbrodoli, versando versi maldestri, di fiori odorosi o me stesso, chiusa tra le Muse all’Elicona e l’autobiografia, inizio a delirare di te quando sono depresso, vittime, entrambe, di una sana alienazione da schizofrenia. Poesie scritte sul mese di Maggio, su terre d’Africa olezzanti di foraggio, su una gioiosa vacanza a Luino sulla saggezza di un vecchio taccuino. Poesia scritta su tutto, scritta su tutti, scritta su niente mi fai venire un embolo al conto corrente il solo sospetto che tu ci sia mi avvolge in conati di atarassia. [inedito, 2020]
*
La mia depressione è chimica
Ci sono giornate che non ti alzeresti dal letto non so se è questione di chimica o se son solo matto, non vedi l’ombra di un futuro, no future, punkabbestia senza cane, ti senti Mansell, in Williams, abbandonato a una chicane. Non senti niente da dire, non trovi tasti da battere la noia ti strangola dentro da non riuscire neanche a combattere l’idea di te, inutile, l’idea di te, insensato, idee senza senso non resta che stringere i denti e attendere i frutti di un altro scompenso. Ci dicono che non funzionino noradrenalina e serotonina pareggiano imbottendoti i sensi di dopamina e fluoxetina, il tuo io, schiacciato tra ansia e euforia, è un puck sparato sul ghiaccio e recita joie de vivre senza copione, farneticando a braccio. La disoccupazione è al 15%, c’è coda sul reddito di cittadinanza, i ratings italiani barcollano in mano agli squali dell’alta finanza, nei grafici del nostro bilancio mi manca l’ascissa: o sono alienato o io sono sano e l’Italia è depressa. [inedito, 2020]
*
Dissoi logoi al telegiornale
DISSÒI LÒGOI AL TELEGIORNALE In Tv, al telegiornale, hanno detto che un marocchino ha sequestrato uno scuolabus, in realtà hanno detto anche che il marocchino era italiano, non era ghiotto di cuscus, diciamo che un marocchino ha tenuto sotto sequestro un intero caseggiato e un italiano ha lasciato i sequestrati, illesi, fuori dal commissariato. In Tv, al telegiornale, hanno detto che Salvini ha requisito una nave in realtà hanno detto anche che la nave non era davvero requisita, ¿Quien sabe?, diciamo che il Ministro dell’Interno ha tenuto in ostaggio decine di non compaesani e il Segretario della Lega Nord ha tuonato: in ostaggio, «prima gli italiani». In Tv, al telegiornale, hanno detto che One Belt One Road è la nuova via cinese in realtà hanno detto anche che la via è un obiettivo importante delle nostre imprese diciamo che Xi Jinping si è trasformato in un crociato dell’Unione Europea e Juncker, il beone, stia facendo l’interesse della Repubblica Popolare Democratica di Corea. In Tv, al telegiornale, raccontano un sacco di dissòi lògoi, degni di flussi protagorei intinti in orinatoi, diciamo che i telegiornali hanno ormai il diritto di dare voce a ogni cagata, e noi italiani, davanti al video, di scegliere sempre la versione sbagliata. [inedito, 2019]
*
La giornata mondiale della poesia
Ricordo, anni fa, la giornata all’ospizio di Sesto San Giovanni decine di vecchi a lanciar versi come in una voliera di barbagianni, declamavano di amore, campagne, tutti i luoghi comuni del creato molto simili a muezzin infoiati sui minareti del Califfato. All’arte di Euturpe hanno dedicato un’intera giornata mondiale ai nostri eroi un anno intero a far versi non riusciva a bastare, cantano raggi di sole fino a condurre l’uditorio in stato di choc e io non riesco a cantare che di Ippocampi avvinghiati a cotton fioc. Oggi sarà la serata mondiale del corso e concorso con claque che nemmeno il Berlusca da Barbara D’Urso, centinaia di scrittori inutili, inquadrati in mostra alle decine di manifestazioni la maggior parte in cerca di un’ora di noia e i soliti furbi a arraffare gettoni. La giornata mondiale della poesia mi ricorda la Festa della Donna milioni di uomini in fila, con mimose, a cantare i loro osanna, lasciando bicchieri nel lavandino e mutande nella cesta che tanto, domani, a lavarli sarà compito della Festa. [inedito, 2019]
*
Siamo tigri di carta
L’una di notte non suona mai così spontanea dalle mie mani dense di ragadi non battono doloranti filastrocche, da anni, oramai, sono vittima collaterale di una metrica troppo risoluta schiava di no Tav, no Vax, no tax, no fly zone, i miei acidi gastrici carburano con tonnellate di Pantoprazolo con la digestione impedita da uno stomaco butterato dai buchi del vaiolo. Responsabili e irresponsabili allo stesso momento rogitiamo case come se dovessimo vivere in eterno, non ci fidiamo a essere padri o madri e, con nonchalance, adottiamo amori destinati a non sopravvivere un decennio non vediamo l’ora, dopo una giornata, che il destino ci scodinzoli alla porta e non ci rendiamo conto, allo specchio, di barattarci con tigri di carta. Pure va tutto bene e non c’è niente che funziona, attento alle calorie in eccesso, col contapassi da asino da soma, bulimizzo ogni sentimento, enigmatico come la sfinge di Chefren, nessuno saprà mai se sono pago o sto a tre metri dall’overdose d’En, ubiquo nell’arena, sotto il drappo rosso, bovino dall’aspetto esangue, non si capisce se sono qui o vorrei stare ovunque. [inedito 2019]
*
Il reddito di cittadinanza
Il reddito di cittadinanza è un animale da bestiario, si applica al barbone, alla casalinga e al milionario al figlio, inintestato, del magistrato di Corte d’Assise che abbia avuto la sollecita scaltrezza di cassarsi l’Isee. Da Maggio tutti in fila fuori dall’ufficio di collocamento milioni di italiani trafitti dalle solite manie di tesseramento con le nuove Postepay del sussidio i maestri del «mi spezzo, ma non m’impiego» avranno tre finte opportunità di lavoro cui presentar finto diniego alpinista in Molise, bagnino in Val d’Aosta, immigrato a Riace, tutti chinati a Novanta davanti a onnipotenti navigator in orbace. Per essere beneficiati dal munifico sussidio da nullafacente bisogna avere meno di 10.000€ sul conto corrente, insomma, bisogna essere un rom, un barbone o un delinquente. Chi ha una moglie che lavora, ahimé, deve correre alla Sacra Rota, chi c’ha il babbo imprenditore, forza!, deve fare come il Trota con le case intestate a terzi a Montecarlo e i rimborsi spese in nota. Il reddito di cittadinanza è la solita furbata elettorale, regalare soldi a Napoli, Cosenza, Palermo non hai mai fatto male, e alla fine, tra finti divorzi, terzi intestati, stato di famiglia modificato l’unico a rimaner truffato sarà chi è davvero disoccupato. [inedito 2019]
*
Desaparecido
In cerca d’uno dei molti me stessi, mi volterò, beffardo, sul calar della notte a imitare, nei miei urli, ricchi dessert da stridio di freni: ma cosa sono, stasera? Cosa siamo davanti alle montagne che ci circondano, sdraiate in punta di nuvola smunta da millenni e malanni d’uomini morti, abbandonate lì, a caso, dalle risate di divinità emigrate verso altre spiagge, verso altri nidi? Dove sono andati a camminare i milioni di vite che hanno vidimato i monti, nei loro arrancare di stanche comparse, desaparecidos, dove sono, stasera? I miei libri nelle librerie, nelle biblioteche, i miei articoli nelle riviste delle università, e io, desiderio inattuato di camminare, camminare, in una mano un amore straziato, nell’altra uno scricciolo occhio azzurrato in costante attesa delle mie fiabe post-industriali, manina fiduciosa stretta intorno a un mio dito, intorno al mio mondo. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Lontano dalle lame
Finirò triturato, immondizia riciclabile, sulle strade d’una carriera scartavetrata dentro ai cerchi infernali d’astrusa discarica, animale ad un’unica vita, senza zona franca da merito ereditario, senza via d’uscita. Credete forse che smetterò mai d’urlare ciò che vedo fuori e sento dentro, che smetterò di soffrire? Anche lontano dalle lame, tremo. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Faccio il logistico
Faccio il logistico, fuor d’ogni logica, stremato dall’immaginazione d’una vita magica, mettendo su carta, nel buio della notte, malsane idee da moderno donchisciotte. Faccio il logistico, vittima d’intensa sindrome da delirio artistico, ventilando mille dubbi, nell’aria rarefatta di monti abbandonati alla virtù coatta di mantenermi in bilico. Faccio il logistico, attraversando camere ardenti calde come celle freezer, ridendo alla sfortuna carica d’ammiccamenti, magazziniere in blazer, immerso in Paradisi senza santi che abbaino alla luna. Faccio il logistico, scrivendo testi spastici che vi consentan di rassodare i muscoli, rendendovi vittime di crampi esistenziali o di bernoccoli, raccolti lungo i cammini schizofrenici dei vostri inciampi. Faccio il logistico, essere inumano, schiavo di logiche deittiche d’invito al lastrico. [Il Guastatore, 2012]
*
Dyospyros ebenum
Alba scura, nero mattino dei miei mattini, dolore di ferita infetta trauma dell’abbandono, vedetta vendicativa d’ansimi strazi chiacchieri d’amore, dimenticandoti dell’unico sabato concessomi, dell’unica domenica, a camminare abbracciati dominando i cancelli automatici, coi cani che abbaiavano, tenaci, davanti al nostro incedere d’incendio. Parli d’amore, tu, mai abbandonata all’amore, d’amore abbandonato nelle segrete d’una clinica, Giuda Iscariota ciondolante dall’albero della serenità, ai margini della mia vita, e d’amore, d’amore, d’amore scrivi, scrivi, scrivi, mettendoti in ridicolo, come ridendo a messa. E nei weekend continui a farti i cazzi tuoi, dimentica di non esser uomo di mondo, dimentica di me, di tutto ciò che sono ero, e sarò. Potendo essere un tuo futuro, tu, mosca anonima, vivi un’unica giornata, scordando, irriguardosa, ch’io sarò eterno. [Carmina non dant damen, 2012]
*
Lexotan, amore
Potrei dormire, abbandonarmi, straziato ali e mani, all’abbraccio d’un orfico Morfeo, invece di scriverti, descriverti nella tua freddezza d’ambra racchiusa attorno ad una zanzara anofele, mala femmina, ore e ore, ore e ore, anche minuti, a volte. Potrei dormire, staccando coi denti - ne ho rotto uno!- i cento anelli delle mie catene, sottraendomi, incosciente, alla stretta d’un Orfeo dismorfico, invece di cantare, coi miei versi seducendo Persefone, le anime dell’Inferno, i dannati della terra senza voltarmi, senza incantarti. Tu, che hai occhi come cieli, non sai volare; io, che ho occhi come notti, non riesco a dormire. [Galata morente, 2010]
*
Per me, scrivo
Non scrivo, per te, che m'hai strozzato di silenzi, e di rifiuti, che non ti illumini, ad una mia poesia, ad una mia chiamata. Non scrivo, per te, seduto dietro a una cattedra, cavallo di frisia, incatenato ad una sedia dorata. Non scrivo, per te, fiore che sbocci a Maggio, e che muori a Settembre, in una continua rincorsa ad eterne resurrezioni, ad eterni ristorni. Per me, scrivo, immergendo i miei mille incubi nell'acido muriatico, disossando sogni, scaricando rogne, disinnescandomi. [Mostri, 2009]
*
Rapporti protetti
Nei tempi della mia giovinezza non c'è tempo per scrivere, non c'è tempo, per pensare, non c'è tempo per creare passioni, pazze, che non siano travolgenti, terremoti burrascosi nelle fogne tossiche di agglomerati urbani. Ma, nel buio delle nostre ore, molto moderne, broker vincenti non investono cuori bollenti in pezzi di ghiaccio, per trovarsi ancora, e ancora tra le mani rivoli d'acqua che sfuggano, inorriditi, alle loro carezze. Non riesco a non ferirmi al suono metallico dei tuoi silenzi; ma, quando parli, senza battiti d'ali, angelo moro caduto su un trinciapolli, esprimi, in un istante tutta la banalità inquadrata della nostra, vuota, de-generazione anni 'ottanta. [Versi Introversi, 2008]
*
Fiotti davena
Prendimi forte, tra le braccia, e tira la catena, maschera oscena, grido d'arena, sulle nottate vorticose d'anima in cancrena, sulle giornate stese steso ad asciugare all'ombra dei rancori, sulle tue scommesse messe in mano a scaltri allibratori. Prendimi forte, tra le braccia, e tira la catena, scianca altalena, sciocca falena, sui miei alibi avvinazzati senza sconto di pena, sull'innocenza violata d'ogni vittoria di Pirro, sulla mia mente straziata, tenuta insieme dal fildiferro. Prendimi forte, stringimi, spiazzami tra le tue braccia e i tuoi seni, tira la catena, dopo esserti abbuffata, bulimica abulica, di fiotti d'avena poetica, o, in vena, a volte, d'essere Dracula, maldestro verbo transitivo, senza copula. [Lame da rasoi, 2008]
*
Cyrano
Poesie, battute a sangue su vecchie tastiere ammaccate, attaccate a catene, infibulate nelle odiose notti d’odiosi inverni senza camini in cui bruciare cartellini rossi rimborsi aziendali assorbenti in rottura di stock. Poesie, irridenti delle vostre irredente velleità, miracolose come scatole di Dissenten, in bilico tra cascate di menti e cuori, in bilico tra lacrime e mandarini vomitati nei cestini di un ufficio incandescente. Poesie, ridondanti arrembanti al suono dell’atavica follia redatta, duplice copia, in carta carbone, su certificati mendici di graffi, sonni o amnesie d’acrobazia arrancante su mutui bancari d’intensità usuraria e nevralgìa. Poesie, canzoni, cubi di Rubik imprigionati in tele di ragno, viscose, e inutili, come incubi d’eunuchi stitici per le vite esplose intensamente tra i mercati surgelati di Baghdad. [Riserva indiana, 2007]
*
Anfibi
L'anima, squamata, è spezzata tra bicchieri di vodka donne in carriera 1407 euro lordi di sporcizia morale e di invecchiamento precoce; non c'è domani seduto su sedie a dondolo, niente futuri, luminosi, come squali in una vasca da bagno, o improvvisati, come torte di formaggio scaduto. Niente domani sulla strada, senza segnaletica orizzontale, o verticale, che porta a maturità infrante, calpestate da allegri buffoni che ballano un tragico twist. Siamo una generazione di anfibi: metà dentro l'acqua del disimpegno, cocktail di lacrime, sudore, umori neri e coiti in macchine arrugginite, e metà sulla terra, risveglio angoscioso da un sogno di mezz'estate, senza zanzariere voraci alle finestre. Generazione di fango, oggi, senza domani, dopodomani, o qualsiasi altro giorno dopo. [Underground, 2007]
*
Gli uomini senza cognome
Gli uomini senza umanità non hanno il cognome, vivono, inintelligibili, come uno spartito di sole semibiscrome, coltivando il loro misero orticello, due camere e un bagno, in cerca di condoni reiterati, su terreni del demanio. Gli uomini schiavi dell’indifferenza non hanno il cognome, ci immunizzano, inutili, come la milza nell’addome dal fervore, dall’interessamento, dalla solidarietà civile, convertendo l’egotismo dello stilita in uno stile. Gli uomini senza intelligenza non hanno il cognome, martellano, propagandistici, con l’arroganza di una réclame, condannando il mondo a un’esposizione a 100.000 röntgen col contegno truffaldino della piramide di Chefren. Gli uomini senza cognome, si chiamino Roberti, Lorene, Glorie, devono essere affogati dentro ettolitri di damnatio memoriae, non ci devono tangere, novelli Mario Chiesa, ché buttare i nostri valori nel cesso non è una bella impresa. [inedito 2019]
*
Spazza tour
La mia abitudine di cantarvi resoconti metrici sulle brutte abitudini dei concittadini ai vertici non deve assuefarsi nel farvi abituare che soltanto i politici facciano cagare. La g(g)ente è un abuso dell’uso del buso - la (g) di rinforzo non è mica un refuso-, ciascuno a competere nel non essere men scaltro e nel fare il ricchione col culo dell’altro. C’è chi lavoro e sudore non fanno assonanza, tutti in coda in attesa del reddito di cittadinanza, c’è chi tira, senz’onta, a mendicar due lirette con l’assillo avvilente di scroccar sigarette. C’è chi sbafa due versi al suo micro-editore e elemosina a rate anche il televisore, c’è chi impone al ragazzo una Mercedes in titanio lasciando al suocero i conti del suo matrimonio. C’è chi considera studiare un atto d’insania e sentenzia che il Nilo si trovi in Germania, c’è chi spara minchiate da ogni orifizio e corre a chiudere i nonni all’ospizio. C’è chi trova conforto in un bel rosatello e non salta una sera del Grande Fratello, c’è chi è arrivato in canotto senza neanche una giacca definendo l’Italia un paese di cacca. Questo non significa che i vari Juncker della Commissione usuraia non brucino l’ossigeno dei cittadini europei peggio d’una caldaia. Non bisogna dimenticare che bersagli della malattia invettiva devono essere anche i grigi bonhommes senza alcuna attrattiva e che tra i piccoli esempi che ho messo alla gogna il più pulito ha la rogna. [inedito 2019]
*
Rogito ergo sum
Preda di un brutale scollamento tra Bund e BTP, senza che ci tragga in salvo alcun modello CCCP, la nuova parola d’ordine è investire sul mattone che con il crollo delle borse inter-stellari ogni risparmio è un’illusione, Se la banca ci concede un mutuo bisogna levare alti i nostri tedeum e scaraventarci a scegliere tra un parquet o un linoleum, nascono, come funghi, agenzie immobiliari ogni due m², immobiliaristi dall’occhio bovino che ci costringono a diventar mezzadri, decerebrandoci in attività tipo il misurare una chaise longue, con i neuroni ancorati a Malta come le navi di una Ong. Lo Stato feudatario c’accorda lo ius primae casae nuovi acquisti e ristrutturazioni sono adito d’ukase, chi riesce, a fatica, a svincolarsi dal contratto d’affittanza è bandito dalle liste del reddito di cittadinanza, e avrà l’onore di finire a fare il barbone con il culo sul divano davanti alla televisione. Monolocale, cantina, bilocale, box, trilocale cantori, senza ascensore, abituati a far le scale, cerchiamo, allucinati, di non finire in uno slum, al grido unanime di rogito ergo sum. [inedito 2019]
*
L’epatite IVA
Il contribuente italiano medio tra tasse, imposte e accise subisce morsi e ricorsi stoici peggio che alla Corte d’Assise, navigando sempre in cattive acque, lo hanno dichiarato santo e contro le scottature da cartella esattoriale usa la tuta d’amianto. L’epatite IVA è una malattia altamente contagiosa, il cuneo fiscale ha la funzione di un catetere senza ipotenusa, drenare liquidi dai buchi neri dei conti correnti non millanta l’idea di far chinare concittadini sofferenti a quota Novanta. La metafora del drenaggio, verso lo Stato italiano, non è balzana, l’Agenzia delle Entrate ci rivolta i calzoni come indomita mezzana, la malattia è ormai cronica, come terapia sedativa resta la flat tax la calma piatta dei mercati internazionali non ci facilita il relax, tra salvare 5.000.000 di italiani o incrementar lo spread la scelta è tanto semplice che non ci vorrebbe un Dredd, speriamo solo che un nuovo dottor Sottile non emetta prelievi forzati sul 6‰ dei conti correnti dei soliti disgraziati. [inedito 2019]
*
Il chihuahueño di Port-royal
Quando ti svegli nella notte e ti avvicini, fragorosa, al batter dei miei tasti chissà se è me che cerchi, chissà se è me che trovi, col comportamento di una scimmia allo specchio, la scienza afferma ogni tua inconsapevolezza e non ricusa, nell’homo sapiens, la stessa consapevolezza con l’esperimento della televisione, mass-media, esiste chi vive o vive chi esiste auto-identificandosi dentro a un video, mass-media, la somma dei valori numerici delle masse cerebrali, fratta del loro numero. Quando guaisci, piangi? O è solamente una danza indeterminata di interazioni neurali a muoverti, muscoli, sentimenti, sogni? Quando dormi, sogni? Mi scopro, a volte, a interrogarmi sulla nostra reciprocità: sentiamo un amore senza condizioni, una resa incondizionata, vicendevole, e tu sbadigli, disinteressandoti d’ogni feedback, forse soddisfatta dall’immediatezza di una carezza, dall’autenticità di un sorriso o di uno scodinzolio. Quando non ci siamo, soffri? O è soltanto l’ipostatizzazione di una nostra mancanza, a muoverci muscoli, sentimenti, sogni? Quando ci studi, con il tuo naso indagatore da cerbiatto, rifletti o agisci d’impulso? Esisti, o non esisti? Esisto, o non esisto? Perché se non esisti, mio amore innocente, rifiuto d’esistere anch’io, e se rifiuto d’esistere, rinuncia ad esistere il mondo stesso. Sei la Tenochtitlan dell’ontologia, nata come fico d'India alla base della roccia, ritrovata – nessuno ti avrebbe mai coperta- da Álvar Núñez Cabeza de Vaca, sei stata saccheggiata dai conquistadores corsari della logica di Port-Royal e ridotta, da animali senz’anima, a oggetto inanimato del binomio schiavo / padrone, senza aver mai considerato che cambi le nostre vite più di Marx e della sua inutile rivoluzione. [inedito, 2018]
*
I giornalisti
Sul sito web del Corriere della Sera escono markette (in)degne del Gazzettino di Valmadrera, i freelance webeti, che non hanno avuto mai la sfortuna di lavorare, sfornano cottimi di minchiate che nemmeno Baget Bozzo sull’altare, alla ricerca reiterata della fake news e dello scoop ad ogni inserto, battono, a un tanto al kg, la strada che conduce a Studio Aperto. Questa è la medesima categoria che intervista insistentemente i disgraziati durante un sisma, senza subire, di contrappasso, in strada, l’applicazione al muso d’un abbondante enteroclisma, riuscire a far ragionare uno che campa sul numero di caratteri tipografici che batte in sala stampa considerando la dignità umana fuori moda, è come far guidare a Cicciolina un’autopompa. Qualcuno riuscirà mai a spiegare a un mestierante della cultura, vivacchiante in un’editoria di mercato da caricatura, vittima dell’ipertrofia d’offerta di articoli senza domande, che indipendenza e verità non convengono al lessico dell’orticoltura, i baldanzosi Houdini della neo-sofistica utilitarista col crollo dei meccanismi dell’editoria iper-capitalista, finiranno col restare, finalmente, in mutande, demoliti dal disprezzo d’esser stati «giornalista». [inedito, 2018]
*
Chi ci capisce è bravo
Se non mi chiamassi Nibbio, chi ci capisce è bravo vorrei scrivere versi degni del Dolce Stil Novo, nessuno si rivolti nella tomba, stile volta Gabbana, sconvolti che alla Fata alletti assai la Durlindana. Aletto, era una furia in un’Eneide da film porno, sulle cime del Pornaso scrive versi d’alto bordo, non riuscendo – come i Giuliani- a batter metri in anapesto, le riviste le rispondono: «ripassi nel 200 avanti Cristo». Se non mi chiamassi Griso, chi ci capisce è bravo Malena Mastromarino, eletta col Pd, recita in Uccelli di Ruvo, la lista Forza Italia rigurgita olgettine e olgettini, Rolling Stones millanta che, a troie, ci manderà Salvini. Saviano, Edizioni Mondadori, romanziere della Mala Vita raccoglie assegni in bianco con due svolazzi di matita, beati i mestieranti, di essi è la repubblica dei valentuomini, scarto sotto scorta, finge di credersi Salvemini. Chi ci capisce è bravo, in questo mondo di fake news, forse nel 2070 trionferà cassoeûla con cuscus, Berlusconi avrà trent’anni, il Papa sarà marziano, i romani, col canotto, fuggiranno a Città del Vaticano. [inedito, 2018]
*
La partitocrazia dei trolley è mediazione
Passati sessanta giorni nel deserto la partitocrazia dei trolley convinta dalla mafia democratico-cristiana a non rinunciare alle holiday, occultato l’alibi dell’assistito sociale di Cesano Boscone, ha dato ordine di tentare un’ultima arzigogolata mediazione. Luigi e Matteo, dal movimento allo scranno, dall’anti-politica al governo hanno 48h di tempo utile a togliere i colleghi dalle graticole dell’inferno, se salta, troppo presto, la XVIII legislatura, mamma mia, son cazzi loro: come faranno, i nostri eroi, ad abolirsi le pensioni d’oro? Matteo chiama Luigi sulla questione dei migranti extracomunitari, bisogna aiutare i terroni in loco con gli eurodollari degli eurofunzionari, Luigi risponde che l’accoglienza è dovere di ogni Stato litoraneo. Mediazione: creare tra Africa e Sicilia un enorme cimitero mediterraneo. Luigi chiama Matteo sulla questione del reddito di cittadinanza, bisogna aiutare i barboni italici sacrificando i rampolli della finanza, Matteo risponde che i lazzaroni son tutelati da due anni d’Aspi. Mediazione: subordinare ogni reddito al controllo del Monte dei Paschi. Resta il nodo di Gordio o la spada di Damocle del Presidente del Consiglio, se non lo nominano subito i mercati internazionali cadranno nello scompiglio Mediazione: rifugiarsi in un governo bis targato Gentiloni che a far crollare i mercati, con un suo ingresso, provvederà Pozzoni. [inedito, 2018]
*
Il tango del bandolero
Bandolero, da dieci anni la pensione ti ha levato ogni pensiero, passi i giorni alle bocciofile schiavo del tuo tempo libero, Bandolero, cinquant’anni trascorsi in banca a maneggiare l’altrui denaro e, ora, in coda a ritirar la social card felice vittima del rincaro. Bandolero! Bandolero, con il bancomat a tracolla cadi preda d’ogni phishing ignorando, con orgoglio, l’esistenza dell’home banking, Bandolero, doni al consulente finanziario provvigioni a palate accogliendo nel tuo portafoglio il meglio delle obbligazioni subordinate. Bandolero! Bandolero, irresponsabile correo del boom economico italiano, il tuo voto spensierato a Andreotti, a Spadolini o al dio craxiano, ci ha gettato tra le braccia di una troika assai baldracca, e mentre balli soddisfatto noi nuotiamo nella cacca. Bandolero! Bandolero, damerino impomatato con le vecchie al capezzale grazie all’uso spassionato di un catetere vescicale, balli il tango con maestria alle sagre del paese, Bandolero, contando i pasos doble della strada che conduce al cimitero. Bandolero! [inedito, 2018]
*
Fuori dagl’ischemi
Provateci, una volta nella vita, a smetter di vivere fuori da ogn’ischema, senza costanti interruzioni d’inchiostro alla vena del fonema, in modo che la crisi occidentale si traduca in crisi occipitale, col risparmio di formiche incrementano i consumi di cicale. Come hai smesso di leggere, smetti almeno di scrivere «pubblico» che non esisti e ci costringi a vender libri come aspirapolvere, Porta a Porta, dove Novi Aldi vanno in Vespa e ritornano Bompiani, dopo aver abbandonato la nave di Teseo, in sentore d’uragani. Questo è il secolo, o il millennio, dell’artista mestierante non sapendo fare niente ti accontenti di restare figurante, tra i vari attori e attrici smaliziati del mercato editoriale disposti a regalare i figli a un rom in cambio di un cm di scaffale nella prestigiosissima libreria Feltrinelli della tua città non vuoi smetter di vivere fuori dagl’ischemi, c'aggia fa? [inedito, 2018]
*
Me ne frego
Da un ventennio, circa, è tornato di moda il motto «Me ne frego», mandrie di decerebrati stitici, tutti, alla ricerca della rehabilitierung dell’ego, mattoncino su mattoncino, con la camicia nera dell’ignoranza a organizzare raid, con l’esito di finir stecchiti, basta un morso di zanzara, sul lettino di Freud. La nuova massa, senza nessuna forza, in attesa di un’accelerazione, messa sotto esame recepisce i suoi modelli dalle riviste della televisione, mossa da un’autostima sproporzionata all’effettiva entità neurale, ite, missa est, dare estrema unzione, essendo massa tumorale. Parlare con l’italiano medio è come dialogare con Luigi XVI, un malato di anencefalia che sogna di risiedere alla corte dei Medici, vivendo in Masters of Florence, la soap opera del Rinascimento, ti costringe ad arrenderti al Magone come Lucio Cincio Alimento. Con le generazioni del nuovo «me ne frego» dovremmo costruire la democrazia, roba da sterminare l’homo sapiens sapiens con un attacco di epiżoozìa, ci affideremo a un dettagliatissimo referendum deliberativo di protesta, che obblighi i nostri concittadini all’uso della testa. [inedito, 2018]
*
Mona Frida smile
Pensavo di intraprendere una vita battagliera bombardando il mondo in QWERTY dalla mia tastiera, raddrizzando i torti della società tardo-moderna, ombra di una valva sottratta al mitile della caverna. Simulando attacchi alla BCE sfidare Re Cecconi e finire a subir calunnie dai troll del web tipo Girolimoni, capitolato davanti all’irrealizzabilità di una ricostruzione dopo il sisma dell’arte metrica italiana, ritrovarsi a deterger colophon, novello enteroclisma. Giunto il momento in cui ti chiedi il senso di studiare non arrivando mai a un Bompiani la trasmissione dello scrivere risiede nella manomorta dei baroni, col senso d’inadeguatezza d’esser Baratieri ad Adua ti vince, all’improvviso, l’espressione seria di un chihuahua. Mona Frida smile, Mona Frida smile e la vita si trasforma in un Cirque du Soleil, dove reciproco è il ruolo dell’animale nell’anarchia d’uno scodinzolante Saturnale. Mona Frida smile, Mona Frida smile ti vien voglia di gridare a Berlusconi: «Heil!», habemus Fridam, abbaiar forte a San Pietro e salutare i deputati alzando la zampa di dietro. [inedito, 2018]
*
Fiorello m’annoia
Mi addormento davanti allo schermo di carta reo di non aver da raccontare niente di nuovo, le lettere che ho nel sangue non fluiscono all’aorta segregate come Padre Ralph a Drogheda in Uccelli di Rovo, riprometto che siano le ultime, lettere, tipo Jacopo (A)Ortis, F.r.i.d.a. mi anticipa sul divano avvolta nel suo petit-gris. Quando non hai niente da dire il cursore batte ritmi blues scrivendo a mano, almeno, mordicchi il tappo della biro, appare, tasto tasto, un testo d’inutile consistenza De Signoribus ti distrai, ti alzi, cammini, ritorni, coi sensi di colpa di un crumiro, dalla consapevolezza che scrivere di niente è sempre scrivere nasce l’equivalenza che vivere di niente è sempre vivere. Questa è un’occasione sprecata di continuare a dare un segnale, magari, invece, è un frammento, anodino, nello stile di Tomas Tranströmer, non mi emozionano fatti di cronaca, sarà forse il modo in cui uso il giornale, come lettiera del cane, mi è scaduto l’abbonamento annuale ad Atelier, chissà, forse, senza accorgermene sto scrivendo un capolavoro come i miliardi di scrittori italiani con prospettive da dopolavoro. Oggi mi sento anfibio, mezzo Rottweiler e mezzo Chihuahua, mezzo anfibio, blindo d’assalto, nella battaglia di Okinawa, sperimentando la sensazione dei mestieranti della Mondadori di sfornare word su ordinazione, non mi sorprendo che diano fuori e si rifugino, a coppie, rinunziando a contratti da fariseo, ad affondare, col far cultura, dentro La nave di Teseo. [inedito, 2018]
*
La page blanche
Á partir d'une page blanche se fabrique en quarante jours un beau bateau d’aujourd’hui mangez des noix. Mangiano voci se hanno carta bianca, i nuovi scrittori che cantano senza Musa emulerebbero Géricault nella sua zattera della Medusa. L’arte italiana è diventata un assalto al forno, sbocciano versi a «cazzo» che neanche i membri di un film porno, anche nel Poetryweb l’attore si confonde con il montatore, rigurgitando testi tanto anacronistici da finire in copertina su Le Ore. La democrazia lirica non deve essere una lirica da due lire, indispensabile è studiare e non è vietato, severamente, approfondire oramai tutti improvvisano, protesizzatisi con un bloc-notes, come se invece che far cultura dovessero iscriversi a Tú sí que vales. Per la scrittura sul www dovremmo mettere un test d’ingresso, vietato toccare la tastiera sotto minaccia di sollecito decesso, non occorre all’arte tardomoderna, Lucini docet, attempiarsi rivoltelle, la malattia incurabile d’inizio secolo si chiama Adsl. [inedito, 2018]
*
La malattia invettiva
Per scoprire le cause del mio vivere ogni evento come in dissenteria, hanno versato inchiostro, enorme svista, nella cannula della gastroscopia i medici anatomopatologi, e mi hanno diagnosticato la malattia invettiva, associata a reflussi letterari, dilagati dall’esofago, a ossidarmi la gengiva. Quando, cane cinico al collare, fiuto odor di malcostume o lezzo d’egopatia non riesco a tollerare l’altro-nel-mondo, vittima d’abuso di xenofobia dimentico ogni forma di fair-play, calo nella nebbia del Berserker, incazzato nero come uno Zulu costretto a sopportare un afrikaner, dico rom al sinti, sinti allo zingaro, zingaro al rumeno, rumeno al rom non riuscirei nemmeno a trattenermi dall’urlare a Hitler aleikhem Shalom. Se non vi digerisco sento dentro «uh, uh, uh» come Leonida alle Termopili, identificando i vermi, che mi stanno intorno, coll’acuirsi del valore dei miei eosinofili emetto, in eccesso, acido cloridrico e smetto di disinibire la pompa protonica con la disperazione di un Mazinga mandato in bianco dalla donna bionica, sputando, con l’accortezza del Naja nigricollis, ettolitri di cianuro in faccia a chi, dandomi noia, sia condannato a sbatter la testa al muro. Per comprendere l’ethos del mio vivere in assenza d’atarassia barbaro che incontra un cittadino nella chora dell’anti-«poesia», sarete tutti, nessuno escluso, costretti a inoltrarvi in comitiva nei meandri labirintitici della mia malattia invettiva. [inedito, 2018]
*
Lo smemorato di Cologno
Ho visualizzato le cartelle nascoste nel tuo USB driver, una sorta di testamento, non avevi ancora l’Alzheimer, avendomi chiesto di andartele a recuperare non appena non fossi stato in grado di intendere e di volare. Cosa c’era dei tuoi vent’anni chini su un tavolo di dottorato, nella ricerca ansiogena di un contratto a tempo indeterminato, le speranze, i sorrisi, i sacrifici di un’anima calzata da una tuta Adidas, conscio di combattere battaglie perse come la decima Flottiglia MAS. Cosa c’era dei tuoi trent’anni spersi nei corridoi di un magazzino, a cercare i tuoi alter-ego affaccendati in un sadico nascondino, i bonus in busta, la carriera, col desiderio di non finir sul lastrico intento a non farti guidar dal mondo come un autistico. Cosa c’era dei tuoi anni di scontri, con tuttologi e lillipuziani, nell’anfiteatro Flavio dei webeti dalle bocche simili a vespasiani, dove a non cadere, in rete, non basta essere un retiarius famoso da finir sui muri della Domus Tiberiana come fu Ianuarius. Per capir chi non sei, ormai, devi noscere te ipsum su un supporto digitale flessificando omoteticamente la tua forma con la iattura d’un frattale, ora non basta, come nei Grimm, consultar lo specchio delle tue brame: Berlusca, non sei riuscito a camminare sulle acque, non eri mica un falegname. [inedito, 2018]
*
Acufene
La vocazione è una crociata trans-inurbana e, tu, ‘ndo vai, se non c’hai manco la banana, il segreto del successo è un digrigno di mascelle, a forza di tirar Polvere di stelle. Non riesci a sentir le voci dal mondo in un campo disturbato da rumori di sfondo, finendo, come un kulak, tra falce ed incudine virtuale come Macondo in Cent’anni di solitudine. Cammini, transumante, sentendoti inadeguato dirimendo inferni come un diavolo bisolfurato, sui carboni ardenti dell’attuale sociodramma conscio di esser la falena, e non la fiamma. Forse, alla fine, ti troverà un valore, Dio, un’idea, Cervantes nella selva tra Chisciotte e Dulcinea, strappandoti da un’esistenza taciturna in modo da sentir gioia nell’urna. [inedito, 2018]
*
Hai perso la lingua?
A Unomattina hanno dato una notizia sensazionale, a forza di WhatsApp e dei disservizi del telegiornale, nella flebile speranza che non si estingua l’homo sapiens sapiens sta perdendo la lingua. Tutto iniziò, nel ‘900, dalla caduta dei muri del congiuntivo, e continuò, a cavaliere del secolo, con l’ipertrofia dell’aggettivo, tutto bellissimo, splendidissimo, iper-mega-conveniente a noi Sanremi costretti a romolar controcorrente. Consumatori disciplinati a sproloquiare cockney acquistando vocaboli usurati su eBay, brevettano neologismi, da una lira, al Gr alla ricerca del gradimento di un qualsiasi parterre. Casca il mondo, Casca la terra, in scappatelle pìcare Bruti intenti a intinger pugi nella lingua di Cesare seppelliscono lessici senza usufruire di condizionale accusati di crimen incesti con una ex-vergine Vestale. Giornalisti, fotografi, scrittori freelance, leccaculi contagiati dal delirium tremens, I.v.a.n. Project freelancia missili atomici da Pyongyang nella speranza che li attendiate, in vacanza, a Guam. [inedito, 2018]
*
Non riesco ad integrarmi
Non riesco a integrarmi, ho un disturbo borderline distribuisco gomitate tipo Greg “The Hammer” Valentine, nemmeno se mi impegno riuscirò a aspirare al Nobel deutoplasma irriducibile tra vacche nere d’Hegel. Non riesco a integrarmi, ho un delirio schizofrenico rifuggo dalle masse e intingo biro nell’arsenico, canto, fuori dal coro, come un mitomane a X Factor disinnescando bombe, spaccio col metal-detector. Non riesco a integrarmi, ho attitudini da killer, deambulo tra zombie, stile King of Pop in Thriller, volando a bassa quota quoto quote di quozienti, costretto a impacchettare sottotitoli per non-utenti. Non riesco a integrarmi, ho ogni sorta di fobia in coda appetisco il verde, come un virtuoso in dendrofilia, mettendo a fuoco il mondo e sfuocati i tempi con lo zoom, mi arrendo alla desuetudine della consecutio temporum. [inedito, 2018]
*
Il deputato
Con la quinta elementare e la condanna al riformatorio sin da ragazzo associato a una sedia di Montecitorio, figlio di una casalinga e di un avvocato di Sorrento si ritrovò, finalmente, in Parlamento. Camminò emozionato, avanti e indietro, in Transatlantico alla ricerca terminale di un munifico bonifico con la speranza, nella camera, di trovare Cicciolina, o, come minimo, nei bagni, una tirata d’eroina. Prendendo al lazo hostess con la destrezza d’un Bufalo Bill, mettendo in scena finte risse tipo Bud Spencer e Terence Hill, ha da passà 'a iurnata, fatta di tre ore, abbarbicato alla cadrega, a appoggiare decreti sorti da interessi di bottega. Quel giorno la fortuna esalò squilli di tromba la sede riconosciuta della Camorra finì vittima di una bomba collocata dal Movimento Anarchico di difesa del Disoccupato e l’onorevole, con gran baccano, morì trombato. [inedito, 2018]
*
Il ministero dell’inferno
Percossi sei mesi fa da un deficit della comunicazione nella scatola cranica nera i neuroni reclamano diversa collocazione, contestano, obiettano, s’indignano nell’anticamera del cervello megalomani come Cristiano Malgioglio nella casa del Grande Fratello. Sotto lo stipite dell’occipite Cecco Angiolieri e Percivalle, duellando a colpi di (novo) stiletto, vorticano le balle, il loro rigor mortis rivendica l’assistenza d’un Becchin d’amore mettendo in mezzo, alle balle, Obs de Biguli, incomodo trovatore. Fulminata Folgóre l’intera casata degli Uberti, Lapo, taches al trans, non disdegna d’aver inserti, della domenica del Corriere, in cerca di uno stupefacente flirt appagato come un corriere della droga iscritto al Sert. Boiardo truffa il Pulci, scacciato da Firenze con il Baygon, sul fatto che, in U.s.a., il Presidente non sia un tycoon, la crisi dei mercati americani sarà causata da una nuova guerra, Lenin diede la terra ai contadini o i contadini alla terra? La confusione regna sovrana nella mia crisi occipitale, come nuvole di cocaina nelle anticamere del Viminale, condannando la nazione al malgoverno del ministero dell’Inferno. [inedito, 2018]
*
L’anti-«promessa» d’amare
Da anti-«poeta», vittima della mia anti-«poesia» non sarei in grado di dedicarti che un’anti-«promessa» d’amore, la mia anti-«promessa» d’amore avrebbe i tratti d’una sinestesia, la durezza staliniana dell’acciaio e la dolcezza del colore, la finezza dell’amicizia e la consistenza dell’amore, i tuoi occhi, candidi, mi tramutano in cinico malato d’idrofobia, e contro la rabbia – monamour- non esiste dottore. Anti-«promessa» d’amore da leggere davanti all’ufficiale di stato civile, come riuscire a convincere un mondo tecno-triviale che ti ho amata dal Giugno del 1976, forse, addirittura, da Aprile, io ero un embrione e tu, ancora, eri immersa nell’aurora boreale, saresti stata sei anni un angelo, un fantasma, l’inessenza di un frattale, senza fare una piega a attenderti, sei anni, trentasei anni, senza niente da dire, i contemporanei montoni di Panurgo mi condannerebbero al silenzio totale. Sei la mia anti-«promessa» d’amore e, magari, il concetto ti suona insensibile ti osservo dormire, serena, come una briciola adagiata in un tostapane, il mio amore – mi spogli dal ruolo di «guastatore»- è abissale come un sommergibile, condannato a disseminar siluri sotto (mentita) spoglia di pesci-cane. [inedito, 2018]
*
La ballata di Villon
La morte ha i tuoi occhi colorati d’estate balla con l’impiccato e indossa teste decapitate, racconta ai suicidi le sue storie d’inverno, che la lacrima di un suicida riesca a spegnere l’inferno. La morte raccoglie fiori dalle ossa consumate dalla fuga dei cervelli e dalle orbite bucate, pianta fiori di ninfea nello stomaco dell’annegato, è mignotta, fragile, d’addio al celibato. La morte si sposa col cadavere dell’ustionato rimane unica forza fuori dalla logica di mercato, abbraccia l’iper-capitalista, l’anarchico, l’indifferente, senza mai accorgersi di non servire a niente. Strilliamo la vita e aboliamo la morte tentarono in tanti, col sostegno dell’arte, distratti da ricchi omaggi e cotillón, aboliamo la morte e cantiamo Villon. [inedito, 2018]
*
Tutti dietro al televisore
La televisione dell’orrore, la televisione dell’errore, ricorda i negozi vendo horror sponsorizzati dal televisore, lo share aumenta se un freelance dai neuroni anchilosati intervista, di notte, nelle loro macchine, decine di terremotati, che se io fossi l’intervistato, zio buono, chiamerei un carabiniere, o almeno lancerei il freelance a calci nel sedere. La televisione delle lacrime, la televisione dell’assuefazione, usa il marchio della marca come linea di demarcazione tra frammenti di film, tra spezzoni di trasmissioni, i romani de Roma basavano sullo sponsor la solidità delle obbligazioni, noi attribuiamo allo sponsor la forza di far decidere a esseri inumani se dare maggior valore a un tifone o a una strage di bambini afghani. La televisione della morte, la televisione del dolore, lo studio non è da frequentare da chi è debole di cuore, ogni notizia del telegiornale è un atto terrorista in grado di trasformare Jeffrey Dahmer in Hare Krishna, l’inchino all’Isola del Giglio è stato uno scoop eccezionale, l’unico difetto degli improvvisati attori fu di non saper nuotare. Stasera tutti dietro alle televisioni spente: a mettersi davanti, infatti, si rischia solo un accidente. [inedito, 2018]
*
Se-Polcri
Mi dicono stai calmo, lascia vivere, non ti devi incazzare, e i mediocri della fuga di cervelli, i loro, in America a insegnare all’eccelso homo insipiens americano a scrivere in tetrametri trocaici spacciando for italian poetry style whitmanate dai toni mosaici, tanto cadaveriche da riuscire a dividere le acque del Mar Morto, riuscendo a far diventare il Mar Rosso nero di sconforto. Sono rimasti con la testa completamente vuota a reggere i capelli e, nelle Università U.s.a., lamentano la sventura italiana della fuga dei cervelli, la fuga dei cervelli dalla testa, a loro son rimasti solamente i corpi, i nuovi zombies italo-americani sono abituati a sdegnar le cose turpi, non tollerano i «cazzi», i «vaccagare», e la cacofonia impegnati a riprodurre in Amerika il sistema dell’amata baronia. Mi dicono stai calmo, lascia vivere, non ti devi incazzare, in Italia rimane chi si veste da Morticia Addams coll’urgenza di declamare versi gotici, romano/gotici, barocchi, e, a trent’anni, accusano me di far baracconate travestite come custodi del cimitero delle Monache Revisionate, non mi caparezzo se l’arte nostrana è diventata fenomeno da baracconi in fila sulle sedie a leggere tra morti di fama, arterio e mignottoni. Non ci resta altra soluzione che emigrar su Marte, se davvero continuiamo a aver il desiderio insano d’imbrattare carte, io inizio a andare avanti e mi invento una cacofonia aliena voi restate dove siete, indietro, a baciarmi il fondoschiena, non vi attendete certo che mi fermi e vi rimorchi non ho la mano ferma e non son bravo a imbiancar sepolcri. [inedito, 2018]
*
Il pollice imponibile
La tassonomia caratterizza l’homo sapiens dalla forma della mano, non distingue l’ominide della Bibbia, l’ominide del Vangelo, l’ominide del Corano; l’anatomia moderna s’è imbattuta in una scoperta attendibile: l’italiano medio è dotato di pollice imponibile. L’aumento esorbitante dei tassi non comporta una sparizione delle tasse, nessun sessuologo animale è mai riuscito a uscire dall’impasse, le tasse aumentano, in caso di abbassamento o crescita dei tassi, saranno tasse ninfomani, lontane dal desiderio di ribassi. L’Italia è la repubblica fondata sulle tasse, da Nord a Sud, tanto che a rimettere le cose a posto ci vorrebbe un Governo Robin Hood, l’italiano medio, ogni giorno, è in ADE a misurarsi la pressione fiscale, arrivati al 50% chiameremo l’anatomopatologo a certificare l’embolia cerebrale. L’Itaglia è terra d’inventori, si mette una tassa sull’ombra delle tende dei locali, il massimo del cuneo fiscale (presa per il culo) è la tassa comunale sulle centrali nucleari, che, in bolletta, ti trovi una tassa EF-EN sull’efficienza (?) dell’energia elettrica, come cazzo riescono a convincerti dell’incoerenza è cosa comica. C’è la tassa sul televisore, c’è la tassa sulla tassa, d’incostituzionale disappunto, e scopriamo che la nostra spazzatura, soggetta ad IVA, ha valore aggiunto, la tassa sulla morte, intesa come certificato di constatazione di decesso, ragazzi, ditemi voi, se ci fosse stata ai tempi di Yeshua, Lazzaro come sarebbe stato messo. La tassa sulla morte, maronna dell’Incoroneta, a morire serve un nulla-osta ostia, il morto deve resuscitare e versare 35€ facendo la coda in Posta, la tassa sulle invenzioni che non si applica all’invenzione di nuovi tributi e ti accusano di diffamazione se affermi d’esser governato da una massa di cornuti. La tassa sugli spiriti, in senso alcolico, la tassa sul rumore degli aeroplani, il rumore degli aeroplani? Pensa alla tassa sul casino di un concerto degli Inti-Illimani, c’è una tassa sui gradini, l’imposta comunale sui cani, la tassa sulle cabine telefoniche. Ma andate a cagare, forse si stava meglio con le stravaganze fiscali borboniche. [inedito, 2018]
*
Il nostro Parlamento
La lezione di oggi verterà sul nostro Parlamento, che si divide in Senato, Camera dei Deputati e ufficio di collocamento di mignotte, ignoranti, criminali ed entità degne del codice miniato di un Bestiario condizione sufficiente alla cooptazione è l’esser stati iscritti al casellario giudiziario. Parlamento, associazione a delinquere che ha annodato l’Italia ad un tapis-rulant, termine immesso in circolo, come sifilide, dalla franchezza della Chanson de Roland, 945 bare, congiunte alla corte dei Conti Vlad, alla ricerca di un coagùlo, affacendate a farci scambiare un dildo anale con una presa per il culo, il dildo anale, o cuneo fiscale, da infilare nel sedere del cittadino medio obbligato a sopportare l’arroganza dei caproni, finendo a rischio genocidio. Questi finocchi incalliti sfruttano l’aglio di non autorizzare un referendum abrogativo sulla norma costituzionale del cosidetto divieto del mandato imperativo, temendo che, con tale decisione, il 100% dei cittadini trasformi le urne in obitorio, incenerendo le loro bare inutili con la fiammata di un forno crematorio, nelle camere c’hanno messo anche Cicciolina, maestra orgiastica di conclave, assicurandosi dell’impossibilità di abolire l’articolo sessantanove. Fortunatamente è sorta, con 40.000.000 di firme, una proposta forte, cioè di trasformare tutti i senatori a vita, in senatori a morte, credo che il progetto sia bloccato in Corte Costituzionale, in fondo, l’Italia è una repubblica fondata sull’associazione criminale. [inedito, 2018]
*
Www
Il web è una cosa strana, la libertà dell’ignorante regna sovrana, dicevano i latini, dal mento volitivo, della lega anseatica, necesse est navigare, e ci si trova imbrigliati nella rete come cozze messe a corrente da lampare. Ci immergiamo, ogni santo giorno, nella melma del World Wide Web senza bussola, come turisti nomadi intimiditi alla ricerca di un Club Med, siamo incalliti e spensierati come membri di una neo-avanguardia imbarcati, veri coatti, nelle cabine della Costa Concordia, incuranti che a forza di navigare si finisca davanti ad un machete, nella jungla sadomaso dei webmaster t’imbatti sempre in un webete, disponibile a imbavagliarti in un rapporto di connessione / sconnessione, convincendoti, senza fatica, d’esser tu il set da circoncisione. Questi miei stupidi versi dove andranno mai a parare, se qualunque palla finisce in rete senza possibilità di verificare, senza opportunità di criticare, ti saltano addosso in branco, come neo-fascisti, fasci in fasce con in bocca un biberon da insaziabili etilisti, davanti all’uomo webete ogni ragionamento cade, l’aristocrazia del web si incentra sulla marca di De Sade, «lasciate ogni speranza» o voi che entrate, in blog se avete il torto di non spartir merende col barone Sacher-Masoch. La verità è che navigare è diventato un dramma, senza aver attaccato all’USB del tuo Pc i fili dell’elettroencefalogramma: chi non ha intuito che il www sia diventato un outlet, sia condannato a osservar la rete come Boris Beckett. [inedito, 2018]
*
Epimilligramma
Non ti devi incazzare se, a volte, ti nomino, sai, t’ho reso immortale come un «ritratto d’anonimo». Incide meglio il mio inchiostro che una ciotola di cicuta: senza che nessuno lo sappia la tua fama si è evoluta. [inedito, 2018]
*
Scacco alla scacchiera
L’intellettuale moderno non è un intelle(a)ttuale, non acquista i volumi a cui collabora, disprezza ogni forma di auto-finanziamento, maneggia denaro scontento (se non sia un versamento); tra il dire e il fare c’è di mezzo un finanziatore, tutti intellettuali del dire, niente da fare, nessun intellettuale del fare, niente da dire, tutti intellettuali a giocare ai ricchioni col buco del culo di accaniti anfitrioni. La casa editrice non è casa di proprietà, è casa in affitto, in cui all’inquietante inquilino conviene rubar le finestre e bucare il soffitto in base al diritto d’autore, si crede umanista integrale, mantenuto come un cane, sotto il tavolo, a tentar di arraffare, come se due testi del cazzo scritti in cinque minuti fossero onesto cambio a ogni rischio editoriale. Presto avverrà il saldo di fine stagione, l’importante è non fare saldi nel burrone, in un’Italia stramazzata dalla T.a.r.e.s, finta repubblica, senz’ombra di res, col pubblico attaccato alla canna del gas, autori imbecilli, che vi sentite Dumas, fallita ogni forma di microeditoria sotto i colpi dell’Imu, inquilini di case fallite, come co-intestatari, vi divertirete a subire la T.a.r.i, e saran cazzi amari. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Ballata dell’amore distante
L’amore ha bussato alle ante delle mie finestre, i miei occhiali anti-rottura, con nocche delle dita delicate, diverse dalle mie rovinate dai cazzotti sferrati e ricevuti, accecandomi della meraviglia di acquistar di nuovo un’opportunità da sprecare, di avere ancora un treno da attendere alla stazione di Milano. Sei la bellezza di una nuvola ingoiata dai reattori di un Tupolev Tu-144, sei il sorriso radioso di un bambino in riabilitazione oncologica, sei una matita temperata allo spasimo, mi crivelli i dorsi delle mani, abissali come il cratere Chicxulub hai occhi che estinguono i miei banchi di nebbia. L’amore ha spazzato via ogni mio cavallo di frisia con la naturalezza di un lanciafiamme, ha stanato anticorpi e mine anti-donna disseminati nei territori delle mie battaglie, regalandomi un abbonamento settimanale al telefono cellulare con cinquemila minuti da spandere. Sei l’arcobaleno tossico che colora i mari di pioggia delle città industriali, stingendo mi macchi i vestiti, mi dipingi il viso, rivolandomi addosso, contamini di radioattività i miei movimenti, costringendomi ad insinuarti sottocute, sei lo splendore del combattimento e della resa, del combattimento e della resa, lo splendore dello spazio bianco da riempire o da strappare. L’amore che mi istruisce ad aver cura di te, te che dormi sul divano con la serenità del cucciolo di tigre, te che sogni farfalle e codici isbn, mi diseduca a curarmi delle mie cure, mi trasforma in milite ignoto deposto nel sacrario della tua spensieratezza. Amore distante che sconfiggi il terrore della morte con lo stesso valore di immortalità dell’arte, ravvivi lo zelo missionario d’un eremita in rime torte avvezzo a sopravvivere in disparte. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Ballata degli inesistenti
Potrei tentare di narrarvi al suono della mia tastiera come Baasima morì di lebbra senza mai raggiunger la frontiera, o come l'armeno Méroujan sotto uno sventolio di mezzelune sentì svanire l'aria dai suoi occhi buttati via in una fossa comune; Charlee, che travasata a Brisbane in cerca di un mondo migliore, concluse il viaggio dentro le fauci di un alligatore, o Aurélio, chiamato Bruna che dopo otto mesi d'ospedale morì di aidiesse contratto a battere su una tangenziale. Nessuno si ricorderà di Yehoudith, delle sue labbra rosse carminio, finite a bere veleni tossici in un campo di sterminio, o di Eerikki, dalla barba rossa, che, sconfitto dalla smania di navigare, dorme, raschiato dalle orche, sui fondi d'un qualche mare; la testa di Sandrine, duchessa di Borgogna, udì rumor di festa cadendo dalla lama d'una ghigliottina in una cesta, e Daisuke, moderno samurai, del motore d'un aereo contava i giri trasumanando un gesto da kamikaze in harakiri. Potrei starvi a raccontare nell'afa d'una notte d'estate come Iris ed Anthia, bimbe spartane dacché deformi furono abbandonate, o come Deendayal schiattò di stenti imputabile dell'unico reato di vivere una vita da intoccabile senza mai essersi ribellato; Ituha, ragazza indiana, che, minacciata da un coltello, finì a danzare con Manitou nelle anticamere di un bordello, e Luther, nato nel Lancashire, che, liberato dal mestiere d'accattone, fu messo a morire da sua maestà britannica nelle miniere di carbone. Chi si ricorderà di Itzayana, e della sua famiglia massacrata in un villaggio ai margini del Messico dall'esercito di Carranza in ritirata, e chi di Idris, africano ribelle, tramortito dallo shock e dalle ustioni mentre, indomito al dominio coloniale, cercava di rubare un camion di munizioni; Shahdi, volò alta nel cielo sulle aste della verde rivoluzione, atterrando a Teheran, le ali dilaniate da un colpo di cannone, e Tikhomir, muratore ceceno, che rovinò tra i volti indifferenti a terra dal tetto del Mausoleo di Lenin, senza commenti. Questi miei oggetti di racconto fratti a frammenti di inesistenza trasmettano suoni distanti di resistenza. [Scarti di magazzino, 2013]
*
L’attesa spasmodica
Inizio i miei versi con la frase: l’attesa è spasmodica, ché se l’attesa è modica non conduce a una vita spasmica, e attendendo mi faccio attendente, cavalier servente dell’arte ufficiale, spizzicando bastoncini di surimi e un bicchiere di Bellini, la rima è servita, non occorre nemmeno il rimario Virgilio Parole, mi butto direttamente dalla finestra del verso senza dover fare capriole. L’attesa m’attende, e, stando sull’attenti, con massima attenzione, ho scoperto che Mondadori ed Einaudi, i maggiori critici, il lettore mi darebbero ruolo di artista laureato se scrivessi versi di diverso spessore, tipo De Angelis, facendo un mischione insensato di emozione, sensazione, erezione in modo da consegnare sempre in tempo nuovi volumetti e incassare assegni senza l’imbarazzo che il significante dello scrivere a mischioni sia solamente uno scrivere «a cazzo». Proviamo, con la nuova metodologia: tre righe senza senso, e una riga mia, ingannare il lettore non è un reato che distrugga la coscienza se il 99% dei lettori, oramai, non sia malato di immunodeficienza, cerco di aprire il vocabolario «a cazzo» e, dotatomi di un’alta dose d’androfobia, decostruisco i miei testi incipitando da un termine estratto a sorte, l’unica fregatura è che ho a casa solo il dizionario di Greco antico e vorrà dire che mi laureerò (come cazzo si scrive?) grande artista tra lingue morte. Apro, e come incipit del testo esce il termine krateo: ho capito, va’, non ho il talento di scrivere da sadduceo. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Patroclo non deve morire
Patroclo non vuole morire vittima della sua dolcezza mascherata dall’ansia della diffusa aggressività [contemporanea], l’imbarazzo della città indaffarata nello scudo d’Achille non doveva essere indossato, l’incontinenza delle macchie di sangue sulla corazza d’Achille imbracciata, incedendo col correre a vuoto, stereotipato, di ogni eroe post-moderno nelle sabbie inquinate della piana di una Troia padana. Ettore non vuole commettere un loop di medesimi gesti orientare il carro, mirare, immerger la lancia nel cuore immerger la lancia nel cuore, mirare, orientare il carro, un rude guerriero mai gode a vedere lacrime di donna o cavalli, concentrato a trovare giusti vocaboli d’addio da rassegnare alla moglie, anti-dionisiaco deus ex machina, slot machine, disponibile a inforcare Patroclo, i corretti meccanismi di ragionamento, onore, nazione, famiglia. Achille non vuole ulular la sua rabbia frustrata accorrendo straziato, stralunato, stranito, sulla strada del campo di battaglia, i pit bull terrier rabbiosi s’abbattono con una dose letale di anti-depressivo, trascinare cadaveri dal carro, stracciar vesti, rapir sacerdotesse danae, non è in grado di negoziare affetti con la gloria di un padre e si avvicenda a se stesso, siamese superstite. Patroclo non deve morire, obbligandoci a brindare a un gioco delle tre carte dove dolcezza vince, ragione vince, vitalità vince, dolcezza soccombe, ragione soccombe, vitalità soccombe, Patroclo muore, Ettore muore, Achille muore, muoiono tutti, ragione trafitta dolcezza soccombe a una vita incompiuta, e noi, costretti a mediare, mai eroi medio massimi, martiri da mass media, restiamo a cantare a metà, condannati a restare smezzati. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Hotel Acapulco
Le mie mani, scarne, han continuato a batter testi, trasformando in carta ogni voce di morto che non abbia lasciato testamento, dimenticando di curare ciò che tutti definiscono il normale affare d’ogni essere umano: ufficio, casa, famiglia, l’ideale, insomma, di una vita regolare. Abbandonata, nel lontano 2026, ogni difesa d’un contratto a tempo indeterminato, etichettato come squilibrato, mi son rinchiuso nel centro di Milano, Hotel Acapulco, albergo scalcinato, chiamando a raccolta i sogni degli emarginati, esaurendo i risparmi di una vita nella pigione, in riviste e pasti risicati. Quando i carabinieri faranno irruzione nella stanza scrostata dell’Hotel Acapulco e troveranno un altro morto senza testamento, chi racconterà la storia, ordinaria, d’un vecchio vissuto controvento? [Scarti di magazzino, 2013]
*
L’epigrammista menefreghista
Per farti divertire, lettore sbracato sul divano, devo inventare senza sosta rime da sciamano, non bastano al feroce epigrammista assonanze cuore - sole - mare, desideri torcermi il cervello con rime tipo gong / sarong o bordeaux / trumeaux, ma, credendo di mettere i tuoi tredici neuroni in un caveau, ricevi, inaspettatamente, in cambio, un radioso «vaccagare». [Cherchez la troika, 2016]
*
Marketing e markette
Sopra a un blog assai sdoganato, tutto si sdogana dopo Schengen, oramai i contenuti dell’arte italiana son decisi dagli yesmen, ci si chiede, in acribia, con discorsi senza sbocco come mai una Cavalli si sia trasformata in brocco. Partì al trotto, da ragazza, disperando les bonshommes, apparendo e scomparendo, come fanno les fantômes, col fantino giusto, di cartello, imbroccò il galoppatoio e firmò contratti, a iosa, con diffida al mattatoio. Le Cavalli son cadute sull’altar dell’abbazia coi Frati(ni) ci(ste)rcensi a cantar la litania non si abbeveran al maniero, si son date alla maniera di racimolare schèi sventolando la criniera. Fare versi non dant panem solamente a noi carneadi: nessuno urla cave canem se la borsa è dell’Einaudi. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Sogno un mondo allincontrario: la ladra dantan
Nonna Angela, classe 1936, nata sotto l’auspicio del Frente Popular spagnolo, della dichiarazione dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana, dell’impresa razzista di Jesse Owens alle Olimpiadi hitleriane, della sottoscrizione dell’Asse Roma - Berlino, costretta a scartabellare cartellini prezzi ai supermercati Pam, salumi, no, mozzarella, no, aria, no, colpevole collaterale della «battaglia dell’euro», della vittoria dell’IMU, dei crolli delle borse internazionali e delle bolle di sapone immobiliari, dello strapotere dei tecnocratici bancari delle Banche Centrali, sopravvive alla periferia di Milano, barcamenandosi tra minimo di pensione e massimo di impotenza, infila nel carrello solo una scatoletta di tonno, e nella borsa una di Tic tac. Solerte, Valerio il direttore del supermercato, classe 1956, nato sotto l’auspicio di un cazzo di niente, magari terza media e stipendio da ingegnere aereospaziale dovuto, come si usa nelle catene della distribuzione, al merito di un eccesso di morte cerebrale, forte dell’arroganza moralistica di chi ha visto tutto, tranne i vari ammanchi nel suo inventario semestrale, manda il responsabile della sicurezza ad arringare: «Signora, signora mi scusi può mostrarmi la sua borsa?», e, convocata la vecchietta nell’ufficio umiliazioni, chiede spiegazioni, non vuol sentir ragione, l’ammanco di 0,75 centesimi di € è un reato degno di prigione, senza nemmeno un barlume di coscienza d’essere un coglione. Francesco e Arturo, agenti di Polizia, classe 1976, meridionali d’origine, milanesi trapiantati, nati sotto l’auspicio della disoccupazione e dell’emigrazione, accorsi in difesa della direzione e contro la vittima di una crudele recessione, davanti alle richieste testarde dell’ottuso direttore sull’applicazione di una durissima sanzione, davanti ad una vecchietta con 320€ di pensione s’assumono l’onere di una rischiosa decisione «Abbiamo aperto il portafoglio, e condotto noi stessi a termine l’importante transazione», rendendo, tra il ludibrio dei presenti, il direttore oggetto di meritata derisione. Sogno un mondo all’incontrario, da Pinocchio, in cui all’arrivo dei gendarmi col pennacchio tutti i Valeri ottusi vengano arrestati e ogni nonna Angela assunta a direttore di supermercati. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Je m’appelle Bonaventure
Questa mattina s’attacca ai vetri dei miei occhiali, come ogni avvento antimeridiano abitudinario, l’incappare in un venditore, di libri, extra-comunitario fuori da uno dei mille soliti bar cittadini: sentirti cantilenare, col solito slang universale «Amigo, tu compra mio libro, scritto da fratello d’Africa», ha arrestato la mia corsa folle da turista occidentale. «Mio nome è Bonaventure», il tuo nome è Bonaventure, indomito leone d’Africa, l’Africa che non ho mai sentito mia, oscura, fuori da ogni colonizzazione ellenica o dall’imperium latino, fuori dal mio mondo classico, conquistato in nottate di traduzioni da vocaboli simili al francese, difeso dalle colonne d’Ercole. «Vengo di Camerun». Qui, in Italia, sud di nessun nord, forse troverai un buon impiego da magazziniere o da facchino sottopagato in un’azienda di trasporti, scambiando ninnoli con cartamoneta sulle affollate spiagge romagnole, ci incontreremo all’entrata di una libreria, con sottobraccio (tu, o io?) volumi da due soldi. «Sono morto di Aids, stamattina». Il tuo nome è Bonaventure, il sabato ha continuato a consumarsi, noi abbiamo continuato a tirar dritto, schiavi della nostra abitudine a non voltarci mai, mirando a stordirci tra i rumori del traffico milanese. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Cherchez la troika
Soccombo alle frecciate innescate dalle mie bagarre, manco fossi Publio Crasso in uno dei deserti accanto a Carre, perso nella permuta dei medi di una tradizione arcaica: l’italiano medio sposa la brava ragazza, e cerca la troika. Gli schemi di salvataggio della famigerata troika, in realtà, non hanno nessun estro da perestrojka, col fine di scongiurare il rischio d’insolvenze sovrane non disdegnano di mandare le sovranità a troika, cioè a puttane, inducono a barattare usura con austerità come facevano i tre ladroni di Alì Babà. Per esempio la grande troika al governo di Berlino, manda Europäischer Zentralbank, Internationaler Währungsfonds e Europäischer Kommissione a risanare il debito d’Atene col cipiglio rigoroso del cretino, bloccando i bancomat ellenici e, magari, bombardando il Partenone, sfuggendo, tuttavia, alla disciplinata applicazione del bail-in su HSH Nordbank, Commerzbank, WestLb, con l’arroganza del rodato naziskin, passo dopo passo senza remore di pelle d’oca, e senza l’orticaria causata al risparmiatore italiano dall’inculata Banca Etruria. La troika ha disposto misure atte a ridurre l’evasione fiscale, il tasso, si sa, paga le tasse, benché resti un animale, con meno energia ha impetrato l’abbassamento del cuneo infilato con forza all’italica stirpe nel buco dell’ileo, Monti stesso, noto figlio di troika, con sospetto tempismo definisce la mamma ora male minore, ora colonialismo. La storia romana mostra monito attraente a ogni triumvirato Crasso tradito, Pompeo senza testa e Cesare assassinato. [Cherchez la troika, 2016]
*
I redattori di Vanity Fair escono in Mondadori
Ho smesso di scrivere in versi, senza avere ancora compreso la differenza tra un verso e un non-verso, leggendosi, entrambi, da entrambi i versi, dal 20/09/2014, e siamo, oramai, alle 04.00 abbondanti di una mattina fredda del 18/02/2015. Spinto dall’urgenza di finire una bottiglia di amaro Montenegro, mi riorganizzo amaro, Lucano, nell’ineluttabilità della Pharsalia, nell’amarezza di un mondo dove nessuno conta niente tranne Cesare e Pompeo, dove nessuno conta, l’uomo, in qualsiasi conta, è sostituito da macchinette infallibili. Ho scoperto di essere amaro: ironico, sarcastico, amaro buffone, nell’era della crisi della «poesia», vate-closed, accendo micce, da Pietro Micca, che micca esplodono all’istante: restano inavvertite – come mi faceva notare oggi Ambra, in Iran o in Cina l’arte è causa di omicidio di stato- in Italia, al massimo, sintomo di stato di suicidio dell’artista militante. Desidero essere condannato a morte, in modo che ai miei versi sia dato valore irriverente e ribelle, e condannato alla resurrezione, in modo che due neo-stronzi a Emmaus trovino spazio in televisione. Non desidero diventare redattore di Vanity Fair, uscire in Mondadori con un volume su come non rimanere single, vorrei che i miei versi siano temuti, retribuendo terrore a terrore, come cecchini appostati davanti al Parlamento, in fondo, di decretinisti, ne basterebbero anche cento, meglio un blow-job di una troia che un job-act di una troika a mandare avanti una nazione sulle rotaie del fallimento. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
La leggenda di Totyradz
La morte ti strappò alla culla e alla battaglia bambino e cavaliere cavaliere bambino - dicevano che fossi fatto d'acciaio inox- sacrificato alla salvezza indoiranica d'un dio caucasico. La lacrima intrisa del dolore di una madre disteso sulla lastra di una tomba scavò un buco tra terra e sassi, al tuo buio s'offrì un raggio di sole, e, dimentico dell'abbandono, smettesti di sentire freddo. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Angelo ribelle
Dietro alla curva, tetro silenzio da margine urbano degradato, fogliame sparso a terra, spazzatura a entrambi i lati della strada - sì, anche sacchetti Sisa, come ai tiggì campani-, arrivai, rallentando, destro sul freno ad allentare il buio. Due macchine da atmosfera surreale, stile Magritte, colavano una da Villasanta a Monza, l'altra da Monza a Villasanta, ungendo il manto erboso di cemento: una macchina rosso diamante, su fondo nero, vetri oscurati con un teschio incastonato sul volante stretto da manomorta; una macchina, modello Cadillac americana, in abito da sposa, sedili bianchi, fari accecanti surclassati dal brillare d'una corona aurea sul davanti. Intorno a me lo scontro, luci fiammanti cerchioni dardeggianti odori misti, di zolfo e alcol, benzina verde, vetri in frantumi, ruote stridenti, e dalla macchina rosso diamante sbalzato fuori un angelo ribelle, con un boato da far fremere i denti. Svanito, tutto, continuai la svolta, e, preso il raccordo, messa la terza, mi immersi nelle luci dei lampioni. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Riot-text
Questa notte è notte di elezioni amministrative comunali davanti alla tv accesa, democrazia dell’Amplifon, a vederci vittime collaterali vince il centro-destra, vince il centro-sinistra, vince il centro-cinquestelle, vince il centro, come da settant’anni, stessi nomi sulle schede, stesse bustarelle da infilare nel buco dell’urna del cimitero delle speranze di 60.000.000 di neo-repubblicani coi francesi, da mesi, sulle barricate contro il jobs act, proprio come abbiamo fatto noi itagliani. Da lombardo d.o.c., schietta razza padana, sogno la rivolta del meridione, sorta da un collage di riot-text a altissimo livello di testos-terrone, in grado di spazzare via, con la forza di un atto iugulatorio, le disonorevoli facce da culo abbrancate ai banchi di Montecitorio, ignoranti, marchettare, fai fatica a trovarne uno che sia migliore essendo maggiore il tasso di delinquenza a Palazzo Madama che a San Vittore. Politically correct, i figli di troika faranno un referendum sulle riforme costituzionali col testo confezionato direttamente a Panama in modo da ottenere discreti sgravi fiscali, i nuovi regolamenti mercatorii indispensabili a salvare banche e bancarelle coi soldi dei risparmiatori caduti in mano agli strozzini di Bruxelles, ci sarà il Grexit, no, ci sarà il Brexit, o lo Swixit, l’unione della Svizzera agli americani, tutti i padri europei a scappare dall’Europa e a Lampedusa 5.000.000 di extra-comunitari, tutti siriani. Non è sentir rancore verso i romani, se auguriamo a Roma un neo-Nerone che canti la sua Troika sulle ceneri di Palazzo Chigi dopo un’esplosione, nessuno ha nostalgia di «quando si stava peggio», di orbaci o Fascio Littorio, vorremmo solamente che la rivolta arrivasse a incendiar i marmi del Campidoglio, che, risorto, il milite ignoto domandasse davanti a un’Itaglia da rubare: «secondo voi, ditemi bene la verità, io cosa cazzo sono morto a fare?». [Cherchez la troika, 2016]
*
«Disoccu-nati»
Dovevo una manciata di versi ad un valente ragazzo campano che, certamente, deluderò non usando la mia recente rima corrosiva vorrei cementarmi, in versi di cimento armato, sulla scottante tematica del «disoccu-nato». Cos’è il «disoccu-nato»? Vorrei essere Jorge Francisco Isidore Luis Borges Acevedo, io che Acevedo e che Acesento, e redigere un magnifico elenco: i «disoccu-nati» sono: (a) appartenenti all’Imperatore (Equitalia), (b) imbalsamati, (c) introvabili oltre Cortina, d’Ampezzo, (d) tagliati al flessibile Bosh, (e) di una generazione che niente chiede e niente otterrà mai, (f) …, (g) cani randagi, (h) stagizzati o stragizzati, che è uguale, (i) della stessa diffusione degli autori slovacchi sponsorizzati in un famoso blog da [S], (f) scomparsi nel nulla come la IX Legio Hispana, (g) dove stanno bene i fiori: di fuori, (h) della stessa consistenza di una s.a.s., (j) senza la i (cioè Natural Animals Treatment), (k) in continua ricerca di uno stabile collocamento (ufficio), (l) nato è meglio di Pato, o Pato è meglio di nato (chiedere a B. Berluschina), (m) che hanno rotto il vaso, e, senza vaso, dove stanno bene i fiori?, (n) et cetera, (o) abitatori del tempo e non dell’ospizio. Dovevo una manciata di versi a Mariano, Mariano non studiare: la laurea è un errore di gioventù, Mariano non strillare: «sazio e disperato con o senza TV», Mariano non svaccare: tutte le vacche non sono matte e tutte le matte non sono vacche, Mariano non mollare: non ti servirà a niente cambiare decine di casacche. Odin: Non avere altri dèi di fronte a te. Non ti farai idolo né immagine: niente Amici o Uomini e Donne. Dva: Non pronunciare il nome del Signore tuo Dio Ivan(o). Tri: Santifica tutti i giorni di disoccupazione. Ĉetyre: Onora tuo padre e tua madre, e le loro pensioni. Pjať: Non ucciderti. Ŝesť: Non commettere adulterio, niente atti impuri, insomma, non commettere atti. Sem: Non diventare deputato o senatore del Regno. Vosem: Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo, menti in ogni altro caso. Devjať: Non desiderare il divorzio del tuo prossimo. Desjať: Non desiderare la casa del tuo prossimo, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo, insomma, rapina solamente - come la nostra amata nazione- chi non conosci. Dovevo una manciata di versi a Mariano, che non mi accuserà di essere un epigono d’un epigono d’un epigono zanzottiano è che alle 03.31 di notte, dopo una bottiglia di Sangria sono ubriaco come l’ignoto poetastro lucano non degno di nota che alita aerofagia, e se mi si sfida sul ring dello sperimentalismo si rischia di trasformarmi in uno spietato fautore del super-capitalismo mi costringi a scrivere, Mariano, che cazzo studi a fare filosofie: diventa un esperto di bilancio creativo o uno spacciatore di tossicomanie. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Nell’aria
E adesso che sei nell’aria, sui tetti stretti della tua città, mischiata ad acini d’azoto, non riesco a credere che ti arrivino i miei se, a credere che ti arrivino i miei ma. Canto doloroso disincanto, dai baratri, vette d’abisso, delle coltri di Dio, come usignolo nel becco d’aquila di Pindaro, mettendo a stento i buchi nei miei denti allenati a morder cenere, mettendo al bando i battiti lontani del tuocardio. Adesso che sei nell’aria, o in una tana nella terra mesta, ch’è uguale, amerò buco nell’ozono, inquinamento atmosferico o della falda acquifera, vermi, Sarcophagidae, batteri autolisici, e non mi mancherà coraggio di morire. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Delara Darabi
Dondola, dondola da un collo di corda l'ultimo tuo cavalletto, l'ultima tua telefonata, e ci stanno ammazzando. Dondola, dondola dente avvelenato estremo happening concettuale d'un'arte rimasta alla sbarra, al buio d'un chador verde, da ragazzina, occhi sognanti. Dondola, dondola nascono viole sotto i piedi degli impiccati nascono viole, del colore intenso delle loro labbra, nascono viole. L'aria ci mancò sotto le suole, appesi a te, morimmo, a malincuore. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Posso avere l’attenzione della classe?
Posso avere l’attenzione della classe? Posso avere l’attenzione della classe?! La lezione verterà su una nazione che trasforma vacche magre in vacche grasse, con lo scopo di mandare tutto in vacca, dalle isole Pelagie alle valli bergamasche, l’italiano medio non sostiene la rivolta, se rivolti l’onorevole cadon vacche dalle tasche. Il nostro Parlamento, deputati e senatori, ha diversi record all’attivo ad esempio la difesa a oltranza del divieto del mandato imperativo, circa novecentocinquanta delinquenti teleguidati dalle troike verso celeri guadagni tutti dotati di auricolari, collegati in BCE, che nemmeno marionetta Ambra e Boncompagni, dalla regia chiedono flessibilità, mettiamo tutti i sudditi a (quota) novanta ‘sti malati di decretinismo sarebbero capaci di dar da bere ai diavoli acquasanta. Posso avere l’attenzione della classe? Posso avere l’attenzione della classe?! La lezione verterà su una nazione che trasforma ogni tipo di occasione in tasse, nell’esame delle accise alla benzina il riccastro di sinistra non si indigna se, nel 2016, stiamo ancora tutti sostenendo Mussolini nella Guerra d’Abissinia. Da ogni braccio del carcere di Palazzo Madama e Montecitorio, tutti si augurano che, in spending review, i due edifici sian riconvertiti in obitorio, litigano, di comune accordo, su come attentare alle nostre scarse riserve aurifere consci della tutela garantita loro dall’istituto dell’autorizzazione a procedere, dalla regia chiedono tagli alle pensioni, in nome dell’ideale liberista della razionalizzazione, butteremo senza remore i famigerati e disonesti beneficiari INPS in una fossa comune. Posso avere l’attenzione della classe? Posso avere l’attenzione della classe?! La lezione verterà su una nazione che trasforma milioni di individui in masse, causa che a nessuno sia venuto in mente di sostituire ai muri di gomma muri di cemento, traducendo le molteplici stragi di stato in un’unica strage, in Parlamento. [Cherchez la troika, 2016]
*
Il destino di Siface
Tito Livio, contro Polibio, si compiace di spiegarci il destino di Siface. La cronaca: raccontiamo i meri fatti come farebbe Govoni coi suoi fiori soddisfatti. Gli antefatti: Scipione attiva Massinissa e Lelio contro un Siface costretto a dare er mejo. Per Siface, in Magnos campos, è amarissimo il boccone d’essere sconfitto al Bagrada insieme ad Asdrubale Giscone: Postero die Scipio cum omni Romano et Numidico equitatu Masinissamque Laelium expeditisque ad persequendos Syphacem atque Hasdrubalem mittit militum. Catturato Siface la resa di Cirta è certa i cavalieri di Lelio stravincono in trasferta la disfatta è colpa di Siface: nisba! ci finisce in mezzo Sofonisba costretta a ingurgitare una tazza di veleno come nel Critone fece Socrate senza esserle da meno. Scipio C. Laelio cum Syphace aliisque captivis Romam misso, cum quibus et Masinissae legati profecti sunt, ad Tyneta rursus castra refert ipse. Siface è imbarcato verso Roma, caput mundi incarcerato da una catena di gerundi, a Zama c’erano Mazetullo e Ticheo e Siface stava a Tivoli Annibale ebbe volatili da diabetici, cioè cazzi amari, e a Cartagine furono davvero cavoli. Morte spectaculo magis hominum quam triumphantis gloriae Syphax est subtractus, Tiburi haud ita multo ante mortuus, quo ab Alba fuerat traductus. Dove stanno bene i fiori? In un vaso: non servivano ventisei versi a distruggere il Parnaso. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Homo faber
Lontano dall’artista rimango un artigiano intento a batter ferro, finché è caldo, senza battermi la mano, avendo bene chiaro che battere è un reato in addebito al cliente, e non all’artigianato. Portatemi i chiavistelli dei vostri stomaci, cambierò serrature ai miei ventricoli, malati alla sinistra, continuando a fibrillare senza ostacoli. Fabbro di cuori, mattatore di danari, lavorerò l’argento di tutti gli alamari delle divise dei soldati adusi alla battaglia forgiando tappi d’oro da applicare a ogni mitraglia. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Socrate, se ne fotte
Cammini solo, ai margini del mercato, nelle strade di una città mai stanca d'esser fortezza contro i nemici, contro i barbari, tu, straniero abituato a brindar cicute, lungo la dignità di non aver marchio sull'orlo del chitone. Interrogando le tasche dei managers di successo, muovi i sandali svelti sull'acciottolato rivestito dai tesori di carta dei sans papiers, non cedendo, di un metro, alle sentenze dell'oracolo, ombelico della Grecia trafitto dal piercing della Glocalisation. Gironzolando nelle segrete dei desideri abortiti dall'homo eligens, scavalchi i cadaveri delle vittime collaterali d'ogni battaglia istantanea dell'oltre-moderno, e, consumato maestro d'ostetricia, non ti curi del mondo in fiamme. [Scarti di magazzino, 2013]
*
La ballata del politically scorrect
Se finisci folgorato sulla strada di Damasco nelle condizioni odierne sarà stato il logos di un missile russo, io frutto di una madonna concepita da un macellaio bergamasco scrivo, maalox, emettendo versi in acido da reflusso, non ho sete di fama o fame di seta coi sintagmi ruvidi non ti stampano la laurea da «poeta», in Italia la Fornero ha aumentato la fuga dei cervelli o chi resta è senza testa, o si aggrappa alla Bacchelli. Damasco, la metafora della transizione, la città dei Nabatei, oggi vittima della conversione delle bombe a mano in schèi, le multinazionali delle armi studiano il marketing dei feriti le multinazionali farmaceutiche studiano il marketing dei malati denutriti le multinazionali dell’unione nord-europea studiano di abbassare il debito alle nazioni terrone d’Europa che si trasformino in camping per il profugo, le multinazionali di ‘sto cazzo studiano come coprire questo orrido film hard outsourcizzando nelle strade di Milano immense moltitudini di clochard. La Chiesa cattolica universale si sbatte sulle adozioni dei froci consenzienti, tanto i banchieri dello Ior fanno i ricchioni coi buchi dei nostri conti correnti, indulgenza a scafi, scafisti e scafati, e l’italiano l’acchiappa nel didietro, sarebbe roba da scaricare 300.000 finti siriani sul sagrato di Piazza S. Pietro che li mantenga tutti, coi sacri ori della fede, il buon Papa Francesco ché se ci fosse stato al soglio Padre Pio c’avrebbe dato un pijo manesco, a calci in culo ai carcerati libici, spesati in albergo, che chiedono il wi-fi e un reddito di cittadinanza all’italiano che dorme in macchina rovinato dai soliti burattinai. Se finisci folgorato sulla strada di Damasco o a] sei Paolo di Tarso o b] o sei l’amministratore delegato della Esso, nell’Italia dei Balocchi ti acc(i)ecano con le azioni dei Monte del Pasco Pinocchio, oh, a forza di farsi seghe c’è rimasto fesso, nei Paschi, maremma maiala, t’inculano con l’abigeato e il bilancio creativo delle multinazionali non è mai reato, se ti frega Monti o ti fregano dieci montoni non starti ad incazzare dalla riffa di chi arraffa c’avrai in premio una cartella esattoriale. [Cherchez la troika, 2016]
*
Lalieno
Dei fari si accendono allo sbocco della tangenziale di Milano stride un rumore di impatto al suolo, brucia il terreno non è l’inondazione del solito Seveso a creare rumor d’uragano è sbarcato un alieno.
Arrivano in loco ambulanze e carabinieri richiamati dalla confusione, l’attracco di un Unidentified Flying Object non è un consueto risvolto; dalla torre di Cologno Monzese arrivano celeri i fanti della televisione l’intervista esclusiva su Mediaset Premium amputerebbe ogni indice d’ascolto.
«Dottor Alieno» - sgomita il giornalista pubblicista- «ha intenti di belligeranza?», nella speranza di strappare all’alieno una firma gratis sulla liberatoria; «Somaro mio» - risponde l’alieno- «secondo te sarei sbarcato in Brianza se avessi avuto intenzione di conseguire anche una mezza vittoria?».
«Sono un alieno, e vorrei lanciare un messaggio alla vostra nazione, che, insieme a Grecia, Portogallo e Spagna è terrona dell’Unione Europea, la Bca (Banca centrale aliena) è disponibile a favorire stock option - come dite voi- in modo che ogni banca d’Italia, attuata una ricapitalizzazione, abbassi i tassi di interesse ai conti correnti, irritando i colon dei milioni di risparmiatori italiani fino a crear loro una recessiva diarrea».
La giornalista trentenne, in minigonna e scollatura di rappresentanza tenta di interrompere l’alieno con una domanda d’ordinanza: costui, puntando col medio, le manda un fulmine, sparita, via, com’era abituata, di tanto in tanto, a sparir sotto qualche scrivania.
«Punto due della Bca – continua l’alieno- dovrete incrementare ogni forma di flessibilità, cioè usate un flex o una mola Bosch sui sorrisi di chi spaccia disoccupazione sotto la falsa retorica dell’opportunità: dall’era Craxi hanno esaurito ogni credibilità. Se volevate mandare l’Italia a troie tanto valeva tenersi in Camera Ilona Staller e smettere di votare, come ciucci, i microcefali epigoni sinistra-centro-destra della Merkel affrontando sul Transatlantico, MonteTitanic, la punta dell’iceberg della recessione».
«Punto tre della Bca – conclude l’alieno-, se da Arcore arriva Berlusca neanche inizio non vorrei, tra le varie nipoti di Mubarak, incappare in un’odissea nell’ospizio (di Cesano Boscone) o se da Firenzi mi arriva il Fonzie con la faccia da cassamortaro non vorrei spendere milioni di alien-dollari in detersivi a cercar di smacchiare un giaguaro, dovrete vendere le Alpi alla Svizzera, il Tirreno alla Corsica e l’Adriatico all’Albania e svuotare l’oceano di un debito pubblico col cucchiaio della gerontocrazia».
All’improvviso a sirene spiegate arriva un’autolettiga della Croce Verde Pavese due nerboruti infermieri, attenti a schivare medio e media, incamiciano l’alieno genovese che, divenuto immediatamente alienato, interrompe il discorso e si incammina tranquillo. Come cazzo hanno fatto a confondere messaggi d’alieno con un comizio di Beppe Grillo?
[Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Ballata dellamore respinto
Per una volta, vorrei evitar di celebrare i vanti d'Antéros, cantato in ogni salsa, dando notizia, coi miei versi rancidi, d'un amor respinto senza onore di rivalsa. Dall'unione adulterina, consumata in un talamo appartato d'un motel lontano dalle reti d'Efesto, sotto forma di sveltina nacque Antéros, secondo erede d'una coppia clandestina, che, tra sex outdoor e scambi, amava vivere senz'ethos. Per capriccio d'un fratello autistico Antéros venne al mondo incatenato al ruolo di siamese, restando vittima dell'utile domestico, lui, neonato, concepito, come molti, ai fini di risolver beghe terrene, come i bambini della durata d'un minuto, inventati in Cina o India, su mandato, ove al turista occidentale occorra un rene. Educato in un mix d'aggressività e bellezza, avendo come metro Ares e Afrodite, miti nel mito d'un adolescente conscio di dover crescer senza debolezza, all'ombra di una madre attenta ad ogni ruga con un marito assente e molti amanti, schiavo d'un fratellastro fragile, Antéros si diede in fuga. Genti d'ogni era, condizione, genere razziale bramando di stanare Antéros non vi rendete affatto conto come non sia normale che un amore ricambiato abbia confitte le sue radici in un ambiente tanto incasinato? [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Sileno
Balzando tra le antenne della televisione, corre il Sileno, di tetto, in tetto, dribblando i cavi solidi dell’alta tensione, cercando di tornare alla sua terra, i monti bruni, le forre dell’antica Grecia, in vista d’un Dioniso da ubriacare, mescendo whiskey. Scrutando intorno, rivolgi al cielo i lembi del tuo naso camuso, in cerca d’un orientamento libero dai gas di scarico dei cavalli a motore, chiedendoti i motivi della tua disfatta, come hai fatto a cadere, così in basso, sulla terra. Sul ballatoio scrostato di una casa comunale, incontrati i vetri mesti di una finestra intenti a rimandare al mondo immagini della maliziosa silhouette di una ragazza, ti fermi a guardare, dimentico delle lacrime e della tua eterna ricerca. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Sopra la banca l’amministratore delegato campa
Mi si chiede da ogni lato del quadrilatero di Villafranca di cessar di incaponire i miei latrati sulla filastrocca Banca: «sopra la banca l’amministratore delegato campa, senza la banca l’amministratore delegato crepa»; non appena metto mano sui mercati il crollo di Wall Street divampa, e, quando, disperato, cedo dalla posizione, il mercato o.p.a., cioè inizia la scalata inarrestabile dei listini con la celerità di un Messner come calamitano le crisi i miei portafogli finanziari non magnetizzava neanche Mesmer. Penso di esser riuscito a diventare un’arma di distruzione di massa ché se mi mettono in mano 10€ da investire, in dieci giorni l’indice FTSE si abbassa, chiedo al consorzio europeo delle multinazionali, con sede a Berlino, di darmi maggior fiducia se mi foraggiate sono in grado di migliorare il vostro tentativo di distruggere la Grecia, non c’è bisogno che la troika minacci l’applicazione di qualche indignitoso sinallagma datemi un fondo JPMorgan da curare e vi trasformo 1.000€ in una dracma, senza nemmeno bisogno di mandare l’aviazione militare a Atene investite su un mio investimento di mercato, che conviene. [Cherchez la troika, 2016]
*
Il terremoto
Sono stato condannato, dall’alter ego di Ponzio Pilato, a mirare, alza il cane!, col bracco a destra e il fucile a sinistra, a uno stile dinoccolato, a una stilo bizzarra, osti!, non diventerò mai Dmitrij Sergeevič Merežkovskij, ad alzar, ostinatamente, l’asticella come Bubka non si rischia l’atterraggio in sottoboschi, tutti russi, i miei nuovi modelli, tutti dalla steppa, tutti Sergey non vorrei svegliarmi una mattina ed accorgermi d’essere gay a forza di alzare asticelle e d’avere a che fare con l’asta, vendere il culo ogni giorno a scrittori arroganti mi basta. Cosa cazzo vuol dire che devo scrivere terremotato? Mi devo trasferire in baracca nell’Abruzzo non ancora ricostruito, le tangenti, in Italia, non si toccano mai, si organizzano in home banking anche la sana bustarella, sfidando la geometria piana, è diventata un fenomeno di trading. Ho tentato di scrivere una serie di versi, agitare il Pc, e buttarlo dalla finestra l’ho riacceso, trovandolo illeso, e nei word scopro sempre la stessa minestra, una scrittura surgelata come i maxi sacchetti della Orogel, con una forma flessibile simile alla scadenza di una busta di wurstell, nei centri distributivi, scaduta la busta, cambiano etichetta la mia è una scrittura calorica che condanna all’ingrasso ogni buona forchetta. I miei versi saranno abbastanza bislacchi? C’è chi mi confronta con Cecco, chi con Cécco Bèppe, anti-artista irredento, chi a Esenin, chi a un lanzichenecco, a volte io faccio fatica a equipararmi a me stesso, mellifono usignolo stonato, sarà forse il mio essere aquila a rendermi un terremotato? [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Lap dance
Prendi un dito in bocca, ballando attorno a falò di simboli fallici, cacciando, senza battute, i nostri animi saturi nelle reti della società moderna, a bollir di noia durante i numeri del tuo ammiccante varietà. Prendo un dito in bocca, volto frammenti d'ossa, incarnate in serrate carte, inumidendo vortici secchi, non concedendo storni di bolletta ai lumi dei miei occhi. Tu, danzi davanti a un mondo che dorme; io, canto davanti a un mondo che dorme. Duetto da due euro sculettante intorno a un totem, coll'onere di sorridere della morte, dell'amore, della raucedine di vecchi ideali intossicati da una stufetta a cherosene, della bellezza e della cultura. E non basterà colletta alcuna a farci uscir di scena, a tirarci fuori. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Luomo dacciaio
Crocifisso alla nuda terra, l'uomo d'acciaio inonda d'olio le luci dei lampioni, mascherato dietro al buio di una tenda, teso a tormentare i margini delle strade immerse nell'argento della notte. L'uomo d'acciaio, automa malinconico, arrugginisce dentro, inondato dall'assiduo sciabordio delle sue lacrime d'anti-ossidante, senza saper piangere della sensualità d'essere umano, senza saper ridere. La luna arrossisce, incontrando Socrate nelle iridi metalliche dell'uomo d'acciaio dietro alla tenda, avvolto dallo stendardo della sconfitta. Arrossiscono le nuvole in assemblea, e lo trovano lì, dietro alla tenda, davanti al mondo, uomo d'acciaio, e carne. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Inn tücc bàll
Le nuove direttive dell’Unione Europea, Deutschland über alles, dirigono i dirigenti di ogni Stato membro a curarsi l’herpes delle banche in fallimento coi soldi della brava gente, che coi consigli d’amministrazione delle banche non c’entra un accidente. Da inizio anno è entrato in vigore il famigerato bail-in bancario da interpretare tenendo nella destra il codice criminale e nella sinistra un dizionario, ogni risparmiatore – vil razza d’annata- dovrà svuotar boccette d’En, nell’angoscia che i plutocrati si fottano i nostri «cinque pippi» tipo film hard di Belen, azionista, obbligazionista subordinato, obbligazionista ordinario, correntista disponibili a restar senza mutande con la nonchalance dell’abusato naturista, vedranno lubrificata l’ubris di non contribuire all’ascesa del consumo a credito in attesa dello sfondamento dei loro fondi interbancari di tutela del deposito. Questa dell’Unione Europea è una trovata davvero iper-liberista coprire il buco del banchiere col buco del culo di ogni correntista, a fare i ricchioni col culo degli altri son capaci tutti il salvar milionari coi soldi dei disgraziati non è un mestiere da farabutti, dopo aver spartito la torta si incolpa il crollo del mercato azionario di Kuala Lumpur e i risparmiatori a far la fine dei Mille nella strategia astuta del conte Cavour. Fateci afferrare bene il concetto: se fallisce il salumiere della Garbatella sarà coinvolto nei suoi debiti anche chi ha acquistato caciotte e mortadella? [Cherchez la troika, 2016]
*
Non ti pago il copyright, Simone
«Non mi importa niente dei bambini del Burchina Faso che muoiono di fame» e a me non frega un cazzo dei banchieri con le mani sporche di letame. «Non ne voglio sapere delle mine antiuomo», immagino, ahimé!, ora che stai sdraiato all’ombra d’un lumino. «Se si scannassero tutti a vicenda sarei contento» nah!, fidati, avresti meno spazio attorno al tuo, di monumento. «Voglio solo salute, soldi e belle fighe. Giovani belle fighe, è chiaro», con l’€ in caduta libera ti servirebbe una montagna di danaro. «Che gli appestati restino appestati, i malati siano malati» e i dipendenti di ogni istituzione condividano la sorte dei cassintegrati. «E i bastardi che vivono in un polmone d’acciaio» con cui, magari, adesso condividi il verminaio, «fondano come formaggio in un forno a microonde» vorrei esser nel Walhalla a farti un milione di domande. «Voglio bei vestiti, una bella casa e tanta bella figa». La vita trendy – ti ricordo- ti ha trainato via in autolettiga. «Buttiamo gli spastici giù dalle rupi», in modo che nasca una nuova razza di Ciclopi? «Strappiamo fegato e reni ai figli della strada» e lasciamo arricchire capitalisti avidi come barracuda. «Ma datemi una Mercedes nera con i vetri affumicati», cazzo, in cambio hai avuto un carro funebre Ducati. «Niente piani per la salvaguardia delle risorse energetiche planetarie». Tranquillo, continuiamo a respingere, senza remore, le nostre deleghe accomandatarie. «Vorrei solo scopare quelle belle liceali che sfilano tutti i sabato pomeriggio» (Quali? Le finte pasionarie che lasciano il bmw ben nascosto in un parcheggio?), «con la bandiera della pace. Non ho soldi e la botta è finita» e coi soldi ti sei giocato a poker anche la vita. «Ma sono un uomo rapace, per le vacanze pasquali» dopo aver pagato sedici rate di tasse comunali «quindici milioni di italiani andranno in ferie lasciando le loro comode case vuote» Irpef, T.a.r.e.s, Imu, T.a.r.i avranno lasciato baracche ricche di banconote. «Alla fine non sono razzista» la razza, nei morti, non è oggetto d’intervista, «bianchi, neri, gialli e rossi non mi interessano un granché». e alla fine ho adempiuto al debito d’introdurti in versi un minimo engagé. Quando davanti ai miei versi bastardi si solleveranno i gruppi letterari i redattori di atelier, i democristiani, i versatori in settenari, e nessuno avrà compreso che ci ha accomunato una gran fragilità che scrivere questi versi non è indice di offensiva aggressività, manda a tutti, tutti i mezzi-uomini, un terremoto di scherno sacerdoti e democratico-cristiani ti hanno collocato in pieno inferno, o se davvero esiste un Dio che trasformi i suicidi in semi-dei, mandami una vita intensa e combattiva da dove cazzo sei. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Anacreante
C’è chi dice che imito, scimmiotto made in China, accusandomi di non esser molto innovativo. Come se l’originalità non fosse sogno romantico trapiantato nell’era delle catene di montaggio, ove sorseggiar bottiglie democratiche, tutte uguali, di Caribbean white rum with coconut (detto anche Malibù, baby), sotto girasoli di Van Gogh intessuti nel cotone. Ah, la creatività! Ma, a me, creativo in creatina, - meglio che sotto formalina, certo!-, servono versi cretini da inviare ad una certa rivista, senza che nessuno si offenda della mia malcreata increatività. Puledra tracia, ché mai osservandomi in tralice bizzosa mi sfuggi? Credi ch’io sia un somaro? Facilmente, sai, riuscirei a metterti il morso e a farti correre, redini in mano, intorno alla pista. Per i campi bruchi e folleggi balzando lieve, non avendo un bravo cavaliere capace di montarti. Più che alle Muse, logistico impenitente, - mica vero poeta!-, mi tocca rendere conto ai musi affilati dei conti alla fin del mese. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
La fuga di Mitridate
Questi momenti oscuri da instabile mondo terziario ci inducono ad una sottile costante mitridatizzazione, versandoci in versatori versatili di veleni metrici nelle arterie d’una società tossicomane, in crisi d’astensione. Fondo un mondo dove rari eroi eroinomani, ed eroine, inoculino, alternando, dosi d’antidoto e dosi di veleno nelle loro stanche vene artistiche, assicurando esiti incerti ai tests d’immunodeficenza, battendo soglie di tolleranza. Mitridate, assuefatto a Roma, indossò un’armatura di scaglie di vento, e non fuggì. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Hyperversi
Domandandoci, con candore, cosa ci sia accaduto di tanto strano da farci rimanere, entrambi, a sacrificar fondi d'intonaco, chiamandoci in ufficio, a mezzanotte d'un venerdì sera, ci ritroviamo, all'erta, irti d'aculei erti sulla bocca del cannone e dello stomaco. Perversi, siamo, attenti a non cadere nella rete di astuti bracconieri, intenti a non finire in rete senza desiderio d'esser cannonieri di razza, marchiati da 2 m, miseria e malattia, muovendoci, a destra, manca alternativa, come centenarii, come farfalle cieche incontro a riarsi lucernari. Più che sadici, siamo masochisti, rifiutando vite consumate all'aria rincorrendo tonici ciclisti, senza ardimento alcuno d'urlarci, in interfaccia, che il futuro ci riservi cartastraccia, imballata in bende di Linux come vecchi faraoni tumulati coi nervi, snervi, d'acciaio inox. Stemo atenti. A pagar no te impressar che pol darse l'acidente, che non ti paghi niente. [inedito, 2017]
*
La ballata del Luigino: cassa di risparmio
Luigino, sessantott’anni, è morto ammazzato strozzato da un decreto «salva-banche» inventato da uno Stato vittima, sempre interessata, del timore di sanzioni stabilite dall’UE con ordinanza e menefreghista, invece, se le sanzioni arrivano da anni sull’assenza del reddito di cittadinanza, uno Stato camorrista che si scaraventa al salvataggio delle banche e ai cittadini non resta che sperar nell’intervento del gruppo Malebranche, nelle Malebolge del sistema creditizio italiano, come nel caso della Banca Etruria, 130.000 cretini a salvar la banca, e, in nove o dieci, a spartir fette d’anguria. Dipendente dell’Enel, Luigino, mica alto dirigente di una holding consociata, vacci tu a capir la differenza tra una obbligazione ordinaria e una subordinata, che se uno, a sua insaputa, risponde dei debiti di una grande azienda di capitali, almeno dovrebbe aver diritto, una volta l’anno, di farsi un brunch in Ferrari, la Ferrari, o la Jaguar, dell’amministratore delegato esperto di raggiri che, laddove fosse stato Nippon avremmo tramutato una impiccagione in harakiri, siccome il manager è europeo o americano ha scambiato la vergogna col coraggio il coraggio di continuare, sotto nuovo nome, a collezionar medaglie di frodi ed agiottaggio. Luigino è morto con la corda al collo come i milioni di disgraziati destinati al macello, con un click da un bunker di Berlino o di Londra il super-capitale cancella una vita intera trasformando il consumatore in un maiale, non si butta via niente, del consumatore, si butta via il consumatore consumato nel Califfato, almeno, all’occidentale occorrono tre minuti ad essere sgozzato, non sessantott’anni, dilaniato dall’alternanza tra bail-out o bail-in, tipo slot-machines, tel disi mi, bilòtt, inn tücc bàll avrebbe sentenziato, con aria seria, mia nonna Ines. [Cherchez la troika, 2016]
*
Il mio ex-fratello è tornato mio cugino
Ho un ex-fratello, tornato semplice cugino, che lavora a Mediaset, è un tipo molto responsabile, ha avuto la faccia tosta di farsi mantenere un vita intera, fingendo di lavorare nella ditta brianzola del babbo, filiusfamiliae scatenato, in Mazda, Porsche, o Bmw, con contratti mensili da 4.000€, guadagnati in azienda a scrivere di wrestling nascosto nello sgabuzzino, irraggiungibile, del capannone, senza saper fare una n/c. C’erano babbo e zio, a spezzarsi schiena e cuore di fatica, a babbo s’è spezzato il cuore in azienda, invalido, trapiantato a sessant’anni, a zio s’è spezzato il cuore nel sonno, chissà cosa si sogna quando madama Morte ti accompagna al cimitero senza avvisare?, lui, fortunatamente, ha scarso cuore, senza emozioni o sentimenti da infartuare. Il mio ex-fratello, tornato cugino di centesimo grado, ha sfruttato schiene, cuori, altrui biografia, pubblicista della nuova generazione, cioè incapace di scrivere un articolo senza errori di ortografia, dopo tre tentativi di rimanere in Università, tre esami totali sostenuti, diventato opinionista, telecronista di wrestling e calcio, 0 contenuti (contano i contenuti delle buste fattura del trimestre), costretto a amministrare il capannone, in absentia, buttare 4.000€ di surplus sarebbe autolesionista, mettendolo sull’orlo del burrone, ha fatto un passo avanti, ciuccio manager addestrato al circo equestre. Però lui è l’eroe indiscusso dell’intera famiglia: è stato in televisione e manda il babbo, trapiantato, a sporcarsi il cuore nuovo di carbone, s’era creato, truffando operai, fisco, ex-fratelli e fornitori, una nuova new.co, da cui è fuggito senza remore non rimarginando il buco di (circa) 1.000.000 di € che ha lasciato in disastrosa eredità a babbo, famiglia, operai: a chi in televisione non ci va. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Poetry slam
Porte sbattono, assorbendo i costanti rumori di sfondo delle nostre realtà frammentate, divise in ore, minuti, secondi, modello uniforme svizzero Swatch, ticchettii di neuroni reduci da bombardamenti mediatici confondono Liabel e ambascerie subliminali di Gillo Dorfles, ancora arzillo nelle sue smanie da classificazione estetica. Come riuscire, entrando in tackle, a arrestare il silenzio del ronzio corrucciato dell'elettrodomestico, che accorda i ritmi del battere d'ogni tasto, rintracciando il filo d'un Arianna venduta tra i banchi dei mercati di bestiame? Come riuscire a distrarre disattenzioni, focalizzandoci, senza scottare? La musica suona benché i suonatori cadano addormentati, estenuati dal fracasso, i teatri diurni dalle mille voci assumono un sapore meccanico, oscillando metallici di moto perpetuo. Non si sentono battere tasti, non tastandosi battiti di senso. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Gramsci al contrario
Chiuso fuori, a fior di metafora, dalla tua cella d'idee sofferenti, attaccato alle sbarre, scuotendo col collo i nodi scorsoi delle catene d'oro che insidiano i tuoi asfittici assedi alle città del sole, nelle nottate innaffiate dalle lacrime d'un cielo steso ad essiccare, vorrei esser te, Gramsci al contrario, sorpreso chino sulle assi artiche d'uno scrittoio scalcinato a recitare serenate contro i rosari di regime, immerso nelle fauci delle tristezze a basso costo, renitente. Fuori dalla cella, carcerato d'oneri sociali, afflitto dalla soma di non esser nato bambino in bancarotta, vorrei esser te, Gramsci al contrario, vittima d'una mente indomita mai indotta a scendere a transazioni o transumanze, senza dimenticar d'essere umano in un mondo d'uomini, condannato all'ergastolo d'una esistenza spesa stando alla finestra. Guardo nella tua cella sudicia, Gramsci al contrario, e, attaccato alle sbarre, ti chiedo di farmi entrare. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Crocerossina
Penso agli zigomi delle tue labbra, maliziose fratture carsiche dove s’infoibano lampade e lampare, mari e reti da pesca. Mettiti tracce d’inchiostro, inusuale rossetto, riflettendo occhi diamante sui vetri rotti della mia dannazione; rimarrò esterrefatto davanti alla docilità sensuale della tua anima in catene, continuando a cantare l’oscenità della tua bellezza, continuando a disseminare ai venti le ceneri dei miei sguardi, rianimati dall’odore dei tuoi abbracci, ravvivati dal desiderio d’ogni minimo sfiorarti. Penso agli zigomi delle tue labbra, maliziose fratture carsiche dove s’occultano lampade e lampare, mari e reti da pesca. Questa volta, svestiti, e, messa a nudo, riusciremo a uscire. [inedito, 2017]
*
Stiamo tutti mali
Poetastri e giornalisti freelance da giorni ci assediano il cazzo con le stragi, eviscerando ogni dettaglio senza il minimo imbarazzo, stragi, a Parigi e nel Mali, di uomini/donne morti da anni, scordando che a Mosul o a Baghdād (Baudac) cotidie non si muoia d’affanni, non si esca di casa, o di campo, con la speranza di tornare, o di non tornare, tutti a urlare Je suis Paris, coperti dal rombo dell’aviazione militare. I Califfi, certo, non sono Brucaliffi, sono esempi di contro-contro-guerriglie, e noi, come dei minchioni, a vivere Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, senza renderci conto, a conti fatti, che morire di disoccupazione, flexibility, recessione non è meno da deficenti che tirare le cuoia decapitati da un arabo cojone, il destino non si svincola dal forte odore di camorra a sapere che Equitalia e il Ministero del Lavoro fan maneggi con la scimitarra. Cadono teste e testicoli e noi stiamo tutti Mali come Pinocchi alla ricerca d’uno sfruttator d’abbecedari, c’è chi si sente Garibaldi, c’è chi si sente D’Annunzio tutti a invocar su assoluti sconosciuti un drone con bombe allo stronzio, senza comprendere, nella storia, se abbia fatto maggiori danni l’Isis o l’Iri, se ci sarà concesso di morir decapitati o d’harakiri. [Cherchez la troika, 2016]
*
Atelier
Nel tardomoderno dell’antico mondo occidentale, ogni Atelier ci si tramuta tra le mani, da bottega d’artigiano, in vetrina di merci mediocri stile centro commerciale, dove scrivere, in sfiziosi settenari, da novello cortigiano, è esclusivo criterio mazdeistico del non essere anti-sociale. Cocainomani della scrittura, nel 2014 scrivono, aha, ancora in settenari, istituendo la costituzione del Pornasio, Biancaneve sotto i nani, o sotto i nasi?, Finocchi venditor d’abbecedari e locatori, ad ore, di sederi, i nuovi bottegai dell’Atelier han mille mani, e un curriculum bibliografico tipo “Ventimila seghe sotto i mari”. Come nelle catene della Grande distribuzione il moderno Atelier è dotato di un ufficio C[ontrollo] / Q[ualità], dove, con metodi di democristiana malversazione, i redattori atelierani si arrabattano a confezionare verità, asini santi e nuovi designati all’artigiana beatificazione. Imperator - o Valeriano (Publio Licinio Valeriano)?-, finalmente un atto non democristiano sacrificare una sincera amicizia decennale al difendere l’interesse di una società di capitale, imperatore oramai intronato da manie d’hypostasis contro chi non accetta nessun tipo di proskunesis. Non vi servirà a niente mandare i soliti cacciatori di taglia oramai, carburo ad XXL nei fetidi cunicoli della vostra Itaglia, ed essendo un barbaro feroce, nordico bandito, delle foreste, attendo di infilzare, una a una, attorno al mio Atelier, le vostre teste. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Fuori i secondi!
Dall'angolo destro d'un ring assonnato, novello Carneade, assisto allo scempio d'un boxeur ormai suonato, costretto a retrocedere, senza mai incassare, davanti ai sinistri del diffuso malaffare. Fuori i secondi! Secondo, a nessuno, nella vita assecondo i deliri innocenti annunciati da un bando in cui i vinti soccombono nell'amara ventura di subire solo colpi, bassi, sotto cintura. Fuori i secondi! Esco di scena, suonano i gong, ti incammini, tristezza, con indosso un sarong, intrecciato di trecce da corone di larice, vomitando veleno dentro ai fiumi d'un calice; t'incammini, dolce Aoide, in attesa d'un jab dal destino bastardo che trasforma in fight club i confini d'un mondo che inchiavarda alla gogna chi tra noi combattenti butti a terra la spugna. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
La nostra generazione muore di stenti
Lontano da conflitti toscani, e da ogni Muda, nella confortevole abitazione che una modernità diversamente abile ha convinto tutti ad acquistare, sennò s’è fuori moda, s’atteatra una storia, da Ugolino post-moderno, chiusa tra muri di cemento dove chi muore, muore d’infarto e chi resta, muore di stento. Generazione inversa rispetto ad ogni medioevo, senza assistenza o regola sociale, viveva cieco e sordo, e orfano di madre, nel vano di una casa comunale, insieme a un uomo troppo vecchio e troppo stanco, senza sentirlo, senza vederlo, chiamato padre. Padre, muori d’infarto e non me ne sono neanche accorto, non sentendo i tuoi rumori di dolore, non vedendo le smorfie di terrore di abbandonarmi a me stesso, non appena tu sia morto condannandomi a chiamarti tutti i giorni, ad alta voce, fuor d’ascolto, e a morire d’inedia, d’un inedia senza volto. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Bologna
Portici inscatolati nella nebbia d’una città assolata, assetata di avanzamento, tornata in serie A, crocevia di cento idee, mille idioletti a dialetto, mille voci dissonanti, madre di versi e sorella d’università, suora dentro, etera fuori astuta mendicante trasfigurata con vesti ed ori, Bologna. Bologna, marrana assonnata da agguati in trattoria, città d’arti, città d’anarchia, tenda canicolare d’extracomunitari d’ogni razza, capricciosa malandrina, testa di cazzo e cuor di ragazza. Piazza di bombe, viagra e passione, maniera carducciana, tormento di rivoluzione, bistecca al sangue e backstage da pornodive ci strazi a morsi coi denti bianchi caduti nella neve. Guccini brado bardo t’ha cantata con accento emiliano; un cantore, umile, d’inciviltà industriale, ti verserà in lombardo, a bicchieri di Sangue di Giuda adagiato su fette di lardo. [inedito, 2017]
*
Equitaglia
Nella terronia d’Europa, l’Itaglia, siamo tornati in clima di piena Inquisizione, se abbiam sventura di trovare un cedolino verde nella cassetta della posta il non sapere mai cosa ci aspetta riduce i disgraziati in stato di fibrillazione: multa, comparizione, istanza di suicidio, cartella di un’imposta magari inventata, la sera prima, dalla Corte dei conti Vlad non so, una tassa sulla disoccupazione, sull’aria, sull’usura degli ipad, ogni nuova tassa rende la confessione di reddito una sorta di sciarada da strappare sotto l’attenzione vigile del novello Torquemada, di solito burberi esattori InEquitalia o finanzieri con la terza elementare addestrati, con l’esperienza delle escort, a scovar qualcuno da succhiare. Facciamo i conti coi conti Dracula, i conti con 945 inutili bare, che si difendono, art. 67, dietro un cervellotico divieto di mandato imperativo un divieto che all’italiano medio ha il sapore del divieto di mandar tutti a cagare, il referendum, scientemente, essendo consultivo, abrogativo, mai destitutivo consente che il bene statale diventi un beneficio da dinasta servono soldi a pippar cocaina, andare a zoccole/trans, cenare a caviale ed aragosta, e i servi della globa(lizzazione), incatenati agli uffici di collocamento, a vivacchiare con 1.000€ al mese non hanno nemmeno l’energia di protestare contro una classe di dominatori corrotti, ignoranti, ridotti a meri pr tanto mediocri da far pena addirittura alle Br. Facciamo i conti, ad esempio, con una delle nuove originalissime vaccate il redditometro è l’ultima versione della gogna che, con una tolleranza del 20% tra uscite e entrate equipara, senza un minimo di vergogna, il disoccupato che, con 1.000€, ne spende 1.201 il crasso dirigente di Equitalia che, con 1.000.000€ di reddito, ne spende 1.200.001 ballano, insomma, 199.800€ tra i due evasori “virtuali”, che, ai fini della lotta all’evasione, meritano nel nostro ordinamento i medesimi strali, l’uno, magari, in un attacco di idiozia, per essersi mangiato a colazione due brioche, l’altro, impunito viveur per mantenere nei due box di Montecarlo sette Porsche, terrorizziamo i redditi bassi, con continue lettere di certificazione, tanto mister 1.000.000€ di reddito non manca dei mezzi d’affittare l’intera Cassazione. Davanti ad uno stato usuraio che massacra, indistintamente, in nome dell’equità fiscale il disoccupato che lavora in nero e l’amministratore delegato di una multinazionale non resta che tirare un’amara, disperata, conclusione: la camorra, almeno, chiede i soldi in anticipo e ti garantisce protezione. [Cherchez la troika, 2016]
*
La tentazione di esistere
(a Mariano Menna e Valerio Pedini) La tentazione di esistere della vostra generazione, si trasforma, nella mia, in esistenza tentata ad equazione: 19 + 19 = 38 + x, resta sempre un’incognita, nella speranza che invertendo il numero dei fattori la fattoria non fallisca, lasciando, in cambio, una generazione attonita a contarsi le ferite, ipocondriaca, in balia di accademici e dottori. Questo toccherà alla vostra generazione: la nuova nobiltà cafona, nata nelle culle d’oro della necrofinanza da córsa, risponderà abbassandovi i calzoni e mostrando il sedere all’idiota dito medio (art marketing), ubicato, a Milano, fuori dalla sede della borsa, e ai milanesi, in fila Caritas, a chieder l’elemosina alla neo-invasione dei tedeschi, abituati, ormai, a sostituire il finale della Nona Sinfonia con la marcia di Radetzky. Questo toccherà alla vostra generazione: i concerti di Ligabue davanti a 50.000 somari in branco, Mussolini, almeno, riusciva a far ballare 80.000 idioti alla volta, magari sarà stato un indifendibile, discreto, saltimbanco dichiarare guerra all’Etiopia coll’esclusivo uso di lubrificatori, senza aver l’opportunità di servirsi di chitarre elettriche e amplificatori. Questo toccherà alla vostra generazione: i nuovi cantautori defilippisiani alla Marco Carta, -“Carta canta e (François) Villon dorma” – vi condurranno, cojon cojoni, alla scoperta di vivere di notizie date in mondovisione, schiavi di una verità farneticante fatta d’indecisione. Mariano e Valerio, due ventenni in cerca di evasione due inammortizzate, mortacci vostri!, vittime della televisione, olocausti alla rincorsa della fame di fama, dei vostri cinque minuti di celebrità, trascorsi a rilasciare interviste a Paola Perego in tutta automaticità, o, tardomoderni arditi, discepoli d’un impresentabile sprezzante «guastatore», in conflitto inimmediabile e mortale col «potere»? Questo toccherà alla vostra generazione: schierarvi, col coltello tra i denti, oltre il Brillo Box o, come Roberto da Crema, vendere batterie d’acciaio inox, ahrarara, spacciare Delorazepam in versi che ci faccia ardere o vendere appartamenti in centro con servizi in periferia, non ideale per famiglia che non ami correre. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
La scrittura arriverà come un infarto in una notte d’autunno
La scrittura arriverà, ancora, innumerevoli volte, nella vita, spazzando via i colonnelli come una rivoluzione buttando a mare ogni ammiraglio, arriverà, ancora, a marchiare i dorsi delle mani timbrate dall’ardore dei carboni, a spolverare meccanici chiusi in una bara, artisti nello stringere, tra dita morte, chiavi inglesi, e arriverà, ancora, regolare come l’orario d’un carro funebre. La scrittura arriverà, sciacquando tonache e babydoll nelle maree di fango degli tsunami, sommergendo ogni reazione nell’atonia frenetica dell’attesa, trascinando via, nel moto ondoso della risacca, incrostazioni somatiche, sentimenti insaziabili, stress da malattia, sogni / progetti, frustrazioni da flessibilità lavorativa, nuovi amori, irrigando i relitti immersi nelle nostre tasche d’uomini di città. La scrittura arriverà come un infarto in una notte d’autunno arriverà sparendo, senza concederci l’ardire d’acconsentire, e sparirà, arrivando, condannandoci a rimanere a mani vuote. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Gli inflessibili
Non è drammatico riconoscerci finiti, mai incominciati, under construction, ansie trascendentali abbandonate tra divinità e immanenza, senza certezze di valere senza certezze di valore senza certezze materiali mascherate da assassine necessità economiche? Giovani smarriti, consumatori consumati come arti snodabili di bambole dai concetti inflessibili di flessibilità o divertimento, dall’alto della barricata ci troviamo a resistere, a mani nude, cuori di molotov, contro i conati vessatorii corazzati d’un sistema reo confesso d’indossar maschere di sfruttamento, condannati a desideri di carriere irrealizzabili, a desideri di bellezza innaturale, senza sostegno di relazioni stabili. Precarietà è vocabolo corretto a raccontare un mondo dove Dio, magari, è morto, senza esser furibondo. [inedito, 2017]
*
La società invisibile
Nessuna reale soddisfazione, di celerità in celerità, consumiamo i nostri beni e i nostri stomaci assuefatti al non lasciare traccia alcuna sulle strade della storia, diventando irrilevanti - da abili consumatori consumati- alle future ricognizioni archeologiche. Di noi, non resteranno neanche i rifiuti, monete, cocci, calcinacci di antichi insediamenti, di noi addestrati ad esser rifiutati, non resteranno progetti, idee, ideali, i monumenti dei ricchi, rimarranno, salvandosi dalla biodegradabilità della miseria umana, e niente altro. Nemmeno rimarranno i segni del mio abbozzare tentativi di scrittura, versi d’una stagnante concretezza, nipoti delle iscrizioni incise sui muri dei lupanari di Pompei, fratelli dei graffiti disegnati sui muri delle latrine d’ogni metropolitana, non avendo nessuna eccellenza artistica i sogni di chi sarà invisibile. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Oltre il Brillo Box
La mia ricerca sulla forma dello scrivere si innalza oltre il Brillo Box, butto i miei versi in cassaforte come se fossero a Fort Knox, start-up, ripetizione, riproduzione danno l’ergastolo all’originalità dei direttori centenari delle riviste ormai dimentiche d’ogni abrasività, d’altronde, si sa, le dentiere non vanno sollecitate da concetti intelligenti, a forza di accettar versi canini carmina dant panem solo ai loro denti, se a noi, adolescenti quarantenni, tocca la dieta del Professor Birkermaier a loro, bambini ottuagenari, sarebbe ora di diagnosticare un briciolo di Alzheimer. La moda attuale del critico scontato è latrare contro i successi del minimalismo milanese o romano, inn istèss, e noi, fantasmi anni ‘70, in cerca dell’agognato minimo spazio, ché a cambiare il mondo ci tornerebbe comodo l’energico vigore d’un massimalismo, a leggere certi versi in endecasillabi rolliani, nel 2016, ci si sente vittime d’un’odissea nello strazio, e il castigo delle nostre generazioni no future è di fare avanguardia a quarant’anni intenti a rivendicare un Lebensraum che non finisca con lo sfociare in Anschluss, noi Heermann condannati dalla flexibility a non sbocciar mai in arimanni, ci troviamo a riannodar cateteri a vecchi specialisti in trobar clus. Cosa ci tocca fare nell’intento di raggiungere i nostri quindici secondi di celebrità mostrare il culo da Barbara D’Urso, curare le rubriche culturali dell’Unità o brevettare rime che voi comuni mortali nemmeno osereste immaginare can che abbaia non dorme e addormentati – come ci vorreste- non ci aiuta a morsicare, è svegliata dalle carezze d’un emiro la tardo-moderna Bella addormentata da cocaina disponibile a succhiar US gal di oro nero come se fosse una pompa di benzina, signore, transgender e signori annuntio vobis gaudium magnum la favola è finita alle generazioni oltre il Brillo Box spetterà rosicchiare avanzi sotto la tavola imbandita. [Cherchez la troika, 2016]
*
La repubblica del Pornasio
Finalmente, l’Italia è diventata un Pornasio, l’amore di battere (sui tasti) ha adescato il cittadino medio, la borghesia ex democristiana si spintona nelle redazioni dell’atelier, epigoni, a branchi, pascolano sui monti d’Elicona, sui blog ipertrofizzano critici non degni di Nota, sono diventati tutti vati, arroganti e maleducati, l’attempato scrittore del ‘92 ci richiama, con insulti d’ogni genere, alla deferenza, lontano kilowatt dal capire che esser usciti con due plaquette Collelieto da 1000€ è indice di mera deficienza, vallo a far intendere che la democrazia lirica non è la democrazia dei dilettanti, non basta saper mettere una croce sotto un testo a diventare Cavalcanti. Mettiamoci una croce sopra, dai!, e una fossa sotto, a vecchi rincoglioniti blateranti con lo stile di Zanzotto, c’è un ritorno ad Omero, buon’anima, nella corsa al precipizio delle giovani promesse della poesia contemporanea, settantenni da Odissea (nell’ospizio), i dati sociologici ci dicono che s’è alzata l’aspettativa di vita artistica, magari con pasticche di Viagra a sbloccare afflussi alla vena conformistica, e noi, “generazione dimenticata”, a quarant’anni vagiamo rannicchiati in posizione fetale, accompagnati da cinquantenni e sessantenni in piena crisi prepuberale. Pornasio, l’arte italiana è diventata una Reggenza del Carnaio, tutti arrapati a mettere bibliografie sui siti come scambisti nel capannone d’un materassaio, a chiedere recensioni, a scrivere recensioni, a vendere recensioni, a sostenere, con burbanza, che collaborare ad antologie a pagamento è un gesto da cafoni, salvo scoprire i medesimi, coerenti, a vender corsi e introduzioni a prezzi di mercato, l’artista mestierante vuole essere appagato, o strapagato?, lasciando a fine corso, debito, certificato. Chi non sa fare niente scrive, o cerca di candidarsi in assemblea di condominio, rionale, comunale, regionale, nazionale o europea, roba che a saperlo Giordano Bruno sarebbe morto di diarrea, senza il fastidio di dover finire al rogo nel tentativo disperato di difendere un’idea, sono stati inutili cinque anni d’università, tre di liceo, due di ginnasio: se avessi fatto il baby squillo o l’enfant prodige della grammatica italiana, avrei meritato maggiore stima nell’artistica repubblica del Pornasio? [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Pensieri d’artista
Perché continuiamo a scrivere, travolti dal rischio di non esser chiari ai nostri vicini di casa, all’amico, alla merciaia dell’angolo, mai sazi di vergar lettere controcorrente, come arabi, lontani dalla linearità delle bollette della luce, dello scontrino del barbiere, d’un conto del solito ristorante cinese? L’arte non resuscita i morti dalle camere ardenti, o forse sì, non sottrae i malati dalle celle delle cliniche, o forse sì, non ci sottrae dai risultati in ribasso delle borse, o forse sì, non ci trova collocazione stabile nel mondo del lavoro, o forse sì. L’arte è memoria, viscida sfera di contatto con morti, malati, borse, lavoro, con essa versano inchiostro e affanni intere generazioni d’homo sapiens in cerca di un capro espiatorio, nell’intenzione, tutta artistica, di dar fastidio ai vivi, non lasciandoli dormire. Scrivere è sonnifero a doppio taglio, con cui radere al suolo chi vuol vendersi al dettaglio. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Nati al contrario
Perché continuo a scrivere? B., come Bangladesh, aveva sedici anni, sul davanzale del balcone d'un liceo milanese, ma sedici anni non erano abbastanza affinché Dio l'abbracciasse nel suo salto. R., come Romania, aveva tredici anni, sentendosene cento, e nessun angelo volava al suo fianco. E., come Ecuador, aveva tredici anni, senza che Genova le ricordasse Quito, nella solitudine del suo vestire fuor di marca, disintegrata. C., come Cina, aveva dodici anni, consumati in fretta, affacciandosi a un balcone col desiderio di non vedere il mondo, buttandosi nel vortice dell'ansia da rendimento. I loro nomi non sono difficili da dimenticare, sono nomi - come me- nati al contrario, schiacciati contro i vetri delle finestre della vita saltando dall'asfalto. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Il mostro e i tulipani
Mostro, dolore dentro, cocktail d'adrenalina, non fare caso all'onta immensa della tua berlina, senza esserti abituato alla risata mortificatrice di chi soppesa, cm su cm, fitta su fitta, i margini d'ogni tua cicatrice. Mostro, piangi nascosto, vivi interrotto, come i cocci taglienti d'uno specchio rotto, in cerca di un amore steso su assi da stiro, nell'attesa della carezza che ti spezzi il respiro. Mostro, nel buio attonito delle tue notti infernali, vedrai che, un giorno, le tue braccia esauste sbocceranno in ali, e sfrecciando, cadendo, cadendo in cielo, nel sogno d'un volo d'otto piani, riuscirai a dormir, sereno, ora!, steso sull'asfalto, avvinghiato ai tulipani. [Mostri, 2009]
*
Epilogo
Nei miei occhi rovinati dalle cicatrici vedi rabbia, rifiuti tossici urbani, bicchieri di cicuta, ricci di mare con aculei intinti nell'alkermes, stress, cuba libre diluiti nell'acido acetilsalicilico, un contratto, molto vantaggioso, da responsabile sottopagato. Nei miei occhi rovinati dalle cicatrici vedi brindisi sobri a sconfitte ricorrenti, scottanti kebab in città francesi di confine, notorietà immortale su riviste cieche, desideri frustrati d'adolescenti crudeli, canzoni d'amore e d'anarchia (quasi sempre nella vita, d'anarchia), anime diverse ciclotimicamente in divorzio, o in chiaroscuro. Nei miei occhi rovinati dalle cicatrici vedi sbarre, catene di cessi sudici, assalti di rinoceronti albini contro headhunters ubriachi di cocaina o di bellezza, cieli lebbrosi dell'hinterland milanese, bestemmie di magazzinieri delusi dalla vita e dalla logistica distributiva, sentimenti da harem, vodka e cozze marinate. Ma, nei miei occhi rovinati dalle cicatrici trova sangue, chi muore, trova lacrime, chi piange, trova vino, chi ha sete, trova amore, chi non fugge. Arrivederci. [Underground, 2007]
*
La generazione bombardata
Bivaccando tra aedi senza nome, casse di risonanza trascese da fitte di mal di denti, chiamo a raccolta mostri mascherati dal dolore e dall’angoscia sotto i bombardamenti abili funamboli sulle corde dell’incanto, o del disincanto, stelle comete a intermittenza. Rifuggendo desideri di Maurizio Costanzo Show, da vati anni ‘ottanta, scendiamo in strada a cantare, e a subire cariche come animali in batteria, senza mai arrenderci davanti all’intrallazzo creato da statisti estranei ad ogni imbarazzo. [inedito, 2017]
*
La bomba d’acqua
La bomba d’acqua Giovedì, senza dover raggiunger Tiberiade, ho camminato sulle acque, nella rimessa-auto, che al catasto classificano come casa, sembrava d’essere in boutique, galleggiavano, nei 7mq tra cucina e salotto, una decina di scatoloni e a me, nella nebbia, mi sembra d’aver visto 300 extra-comunitari sui gommoni, o è stata una bomba d’acqua o è esploso un residuato napoleonico sulla grondaia, fatto sta che sono scesi 20 litri d’acqua dal tubo della mia caldaia. Per sicurezza, anche se il vecchio locatore, dicendo d’esser assicurato, m’ha rassicurato al cenno improvviso dell’onda anomala ho staccato la caldaia non volendo rimanere fulminato, vate al water, stavo seduto sul cesso, al momento del ristagno tanto da avere la fortuna, très chic, di farmi un bidet sdraiato sulle piastrelle del bagno, avendo la rimessa-auto pendente a destra, essendo mio nonno camerata di Trescore Balneario, mi sono spaventato assai, temendo l’onda fosse un’ondata di flusso migratorio. Terminate le cure termali, armatomi di mocio Vileda, mi son messo a smoccolare su tutti i santi Veda, sciaguattandomi nella melma in stile anfiosso ho aperto le acque, nel cesso, come Mosè col Mar Rosso, ho trasformato il vino in urina, ho redento zoccole, ho dato a Cesare il conquibus l’unica cosa non vi aspettate che io riappaia a Emmaus, sono un terrone d’Europa, recordman dell’arrangiato, ma a far miracoli, ancora, non sono attrezzato. [Cherchez la troika, 2016]
*
Luciano in the sky with diamonds
Per una volta, una volta e basta, l’invettiva mi abbandona, sub-affittando la tastiera al panegirico, senza giri(ci) di parole. Siamo due volte membri di una generazione contraria, membri di una generazione al contrario e membri al contrario di una generazione, tu, figlio di un mondo solido, fatto di terra, «forsennato flâneur», nomade d’avanguardia, io, nipote di un mondo liquido, fatto di mare, quercia secolare attaccata alle sue radici, nomade di retroguardia, nomadi dello stesso esercito in esplorazione e ritirata. Oggi ti ho proposto: «Scriviamo un libretto a quattro mani», e tu, prontamente, da Bali, Bora Bora o dalla Thailandia: «Basta che non mi fai spendere troppo», ci siamo scambiati i ruoli di brianzolo e triestino, da te mi sarei aspettato la domanda: «Scrivere un libretto in due a quattro mani vuole dire realizzare un libretto da Ottomani?». Mi fai l’onore di prendermi troppo sul Serio, esule bergamasco in terra monzese, e io ti ricambio con ironia, non mefistofelica, l’ironia della stima e dell’affetto, l’ironia affettuosa che uso solo con doppia lingua o con M40. Per una sera abbandoniamo il sarcasmo e aiutami a continuare a strasbattermene di tutto. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
La solitudine del giocatore di videopoker
La solitudine del giocatore di videopoker non è spezzata dal tinnire delle monete anonime infilate in un bicchiere cartonato di Coca Cola, schiacciando, schiacciando, schiacciando in balia di combinazioni programmate a casaccio, abbacinata dagli effetti grafici e sonori, che ricordano rumori e luci di una giornata di Natale. La natura ride dell’innaturale scontro tra uomo e macchina, uomo contro macchina, macchina contro uomo, condannandoti all’atarassia di gesti stereotipati, liberando endorfina ad ogni tua impronta depositata sui tasti dell’indebitamento economico, e tu stesso ti isoli, schiacciando e schiacciandoti, dalle origini sociali del tuo malessere: abdicazione dal tetto coniugale, mobilità e disoccupazione, depressione da raggiungimento dell’età pensionabile o cancro. Resta l’immagine delle vetrate di un’oscura latteria immersa nel cemento di un’esistenza cittadina, d’un uomo, senza amore, in cerca di fortuna a Jacks or Better o di un rimedio contro i malanni della noia, d’una rovina incombente, come una corona scura di corvi, a circondare il tuo capo incanutito, abbandonato a naufragare, solo, nella tempesta tecnologica autorizzata dai monopoli dello Stato. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
I bassifondi dellinferno
Non domandavi niente di diverso da ciò che i sedicenni d'ogni momento e tempo richiedono, ingenuamente, ai diavoli d'ogni tempo e momento, desiderosa di rispetto e di attenzione, con quella voglia matta d'aprire una finestra su un'adolescenza subita come il carceriere vive la prigione, ma, fragile, contavi i battiti della tua connessione internet senza avvederti che, chi era seduto all'altro lato della linea veniva dall'inferno, nel tuo chattar serena con un diavolo moderno. Domandavi, cento, e cento volte ancora: «Come farò, a sentirmi bella?». Il diavolo tentatore ti scriveva di confrontarti a una modella della televisione, di non mangiare cibi calorici, di vomitare, associando lassativi all'apnea d'una ferrea disciplina alimentare, disinfestando ogni macchia di sporco da un corpo in crescita ormonale, fregandosi le mani d'aver trovato un nuovo scheletro da aggiungere alla sua danza macabra infernale. Domandavi, cento, e cento volte ancora: «Come farò, a sentirmi grande?». Il diavolo suadente ti chiedeva di mostrarti in cam senza mutande, d'ubriacarti senza ritegno alle feste in discoteca, di darti all'uno e all'altro, chiudendo i sentimenti in una teca, di chiuderti, alla vita, nella vita, di vivere e lasciarti vivere, senza discutere coi morti, vivendo come zombie senza ricambi d'abito, costruendo mondi assordanti sotto i rimbombi dei tuoi lombi. Domandavi, cento, e cento volte ancora: «Come farò, a sentirmi amata?». Il diavolo, mentendo, ti diceva di ostentarti uniformata nei vestiti, sempre all'ultima moda, ammiccando seducente, accentuando ogni tua curva senza dare ascolto al rischio di finire in testacoda, trasformando in necessario ogni accessorio, tollerando sul tuo derma l'indelebile marchio della marca, condannata ogni diversità allo spettro della forca. Fanciulle d'ogni tempo e d'ogni momento, contro ogni istanza educativa disobbedite a chi, diavolo moderno, dall'alto delle cattedre, dall'alto dei castings radiotelevisivi, dall'alto d'una scrivania aziendale, innalzi i vostri voli da usignolo ai bassifondi dell'inferno. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Sacrificium
Poesia, strido teriomorfo evoluto in sensibilità animale, liberati di me, cacciami nei recessi della tua silhouette da hinterland suburbano, margine di margine, confine di confine, insieme ai moderni numeri umani, calcolatori che non contano. Chiusa nelle nebbie aromatiche d’una sauna finlandese, liberati di me, come mi sarei liberato io di te, zaino soffocante sulla schiena d’una vittima sacrificale, imbizzarrita sul sentiero d’un feroce rito d’iniziazione metrica. Basta uno schianto, dolore d’un momento, a diffondere frammenti ossei, anchilosati da una cronica artrosi artistica, sulla scena drammatica del sacrificio, e ti sarai liberata di me, senza rimorso, senza alcun danno. Fallo in fretta, come farò con te, non appena ne avrò occasione. [Il Guastatore, 2012]
*
Raptus
rovate a vivere, in un mix di solitudine, rabbia, e malattia mentale, nell'assenza di un amore, un amore di cartone, in mancanza d'una minima retribuzione. Nelle serate di una Torino, illuminata, stanca, che mi ferisce, mi dilania il cuore a ogni risata, nell'agonia di sabati trascorsi a immagazzinar dolore, mi son sognato bomba, seduto con un cane, unico amico, nel mio veicolo a motore. E bomba sono stato, nel centro di Torino, vendetta d'un istante, lanciando me, macchina e cane, contro i tavoli d'un ignaro ristorante, straziando braccia, bacini e sentimenti, donandovi il mio incubo e i miei dieci talenti. E, ora, sono un caso da cronaca di giornale, dove definiranno raptus, il mio terrore di volare. [Mostri, 2009]
*
Terremoto
Cedendo alla violenza del mondo, è arrivato momento d'abbandonare i corsi dolci, tortuosi, della strada della ricerca, dove, intorno a me, cadono case, condominii, caserme, alberi, nell'orgasmo del terremoto. Quando tutto crolla rischiare di ritrovar cadavere sotto cumuli di macerie ciò che brami, caduto dall'abisso dei cieli alla banalità insensata della terra scossa dai conati, è eccessivo azzardo. Restiamo noi, sulla terra insensibile, noi, a terra, davanti ai nostri mille fallimenti, i desideri infranti, traditi a sessanta centesimi di euro dalla svalutazione, umiliazioni, sentori di diversità, tristezza, amori tra-le-braccia-di-un-altro, senza trascinarci addosso nuvole e asteroidi, abbandonando il cielo ai suoi destini di divinità tremante, malata di Parkinson, vittima inconsolabile del terrore di cadere. [Lame da rasoi, 2008]
*
Plasil
Pezzi di vita shakerati, mischiati insieme a vetriolo straordinari non pagati, malattia mentale e desideri sciancati, bucano cieli blu cobalto, senza nuvole o Boeing 757, cadendo sospinti da conati indomiti, come farfalle schiacciate da ciclomotori, in tazze di cessi sadici. Questo, a ciascuno accade più e più volte, non c'è riposo, non c'è rimedio, e, molto spesso, mi viene dubbio che non sia possibile riguadagnare i nostri pezzi di vita perduti chissà dove e chissà perché, senza colpa, nei meandri inaccessibili di qualche cesso. [Underground, 2007]
*
Catabasi
Più che Achille scontroso o insolente Odisseo andati a troia, emetto suoni stranieri, sconfitto, in marcia con diecimila decimati alle volte dell'Ellade, deciso a resistere - menestrello combattente- contro assalti ed imboscate dei barbari balbuzienti rintanati in tv. La mia sorte, sorte vostra, nostra sorte d'uomini uccisi - suicidati - dichiarati morti dall'eccessiva attenzione dedicata all'artista o all'artiere, nell'esercito in ritirata verso alee di casa è tornare sulle nostre orme stando attenti a non scansare di calcar calchi d'infamia, inclini a urlar thalassa, lontani da Cunassa. [inedito, 2017]
*
La ballata della croce
Perdonatelo tutti, su questa via infinita al Golgota a trasportare, anno dopo anno, la stessa croce, cadendo, rialzandosi e cadendo, esecrando il suo nome adespota, incapace di comprendere i suoni della vostra voce, si incammina, finito, verso la cima dell’ecumene senza il conforto delle spalle d’un Simone di Cirene. C’è chi si crede una delusione, tipo Maria Maddalena e non c’arriva, d’essere una vittima collaterale del crollo di un uomo in cammino ai margini della scena, lei si sente inadeguata, con i suoi occhi in cui annegare, e la sua bocca, impotente, i suoi bisogni di abbracci caetani con lui in cima a una croce a cantare «Eloì, Eloì, lama sabactàni?». La scena è l’intarsio contorto di mille falegnami fatto di schegge, brandelli, frammenti, tutti da assemblare, chè, a volte, i suoi versi hanno la scarsa consistenza dei liquami, fluidi in un mondo liquido, nell’acqua non c’è vino da annacquare, c’è l’uomo, e la sua croce, lontani dalla serenità del chiostro col centurione a strofinargli in faccia spugne d’inchiostro. Gli urlano, vox populi, che è stanco, che si deve riposare, la sua unica angoscia è di costruirsi una nuova croce da caricare sulla schiena curva, lui ha smesso di riuscire, Abba sognando che appeso al cielo abbian da mettere Barabba. [Cherchez la troika, 2016]
*
My brother is dead – frater meus mortuus est
Non ho mai temuto di rinchiudermi in una cella francescana, frate Leone butterato, 1.83 cm x 90 kg, colosso di porcellana, a chiedermi come fai ad essere ancora innamorata e attratta, me lo domando ogni volta che mi accosto un boccone al viso, ingurgito tutto, desidero invadere il mondo, come un frastornato Narciso, non mi muovo, disoccupato immerso nel lavoro, mi invento nomade sedentario non rimanendomi altro da donarti che un bicchiere di Bellini misto ad un abbecedario. Annego la mia fragilità in cocktail di alcool, Delorazepam e Paroxetina, mi immergo nella lotta sondando Bauman, distante da una generazione allevata a cocaina, convertendomi in menestrello – dovrei assomigliare a un elfo, non ad un troll- canto con la sgraziata cacofonia, in un capannone industriale, di una fresatrice Bosch, sperso auf Das Narrenschiff, sperimentati tutti i vizi, e, adesso, avanti marsch con amore, casa, affitto, bollo, benzina, neutralizzato anarchico in dolce quarantena, mi batto, cotidie, a disinfettare i tuoi sogni da trentenne minacciati da cancrena. Non è che la bruttezza mi avvantaggi sul carattere, schivo come Salinger il successo di The Catcher in the Rye, non riuscendo a trasformarmi in challenger delle angoscianti sfide di ogni giorno, morto di fame vs. morto di fame, mi avvicino ad essere l’anti-eroe omerico zittito da Odisseo, Tersite, soffrendo mal di testa atroci dovuti a calci in culo e sinusite, barcollo, senza mai mollare, ai ripetuti cali di energia: governi corrotti, disoccupazione e riforme inutili fanno una bella sinergia. Giano bifronte è morto nell’utero d’una vita baldracca che non desidero affrontare coi lamenti striduli d’una checca, resto da solo, davanti alla tastiera, condannato a smettere di battere a quattro mani, troppo spesso, sciocco arrogante, m’arrogo d’esser Gulliver tra lillipuziani, e non considero un disonore, ogni volta, debuttare a fianco d’un debuttante, significa che l’arte non è morta, infettata dalla necrosi del contante. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Memorie da cavia
Gabbia n. 3, neanche una ruota in cui muovermi in un mondo che non smette di correre attendendo veleni, alla fine del labirinto. Gabbia n. 8, ronzano i silenzi delle fusa, dormendo sogno un mix di gomitoli e aghi conficcati nelle iridi azzurre, affidandomi alla sensibilità delle mie vibrisse. Gabbia n. 13, irrequieto, incatenato in catena di smontaggio, osservo il gatto cieco imprigionatomi di fronte e, dimenticati naturali odii di razza, vorrei leccare ogni sua ferita. Gabbia n. 19, marciando lenta verso una foglia di lattuga fatico a ricordare, senza una casa radicata sulla schiena, d’essere ancora tartaruga. Gabbia n. 21, mi hanno strappato entrambe le ali in cerca di un rimedio contro i mali dell’uomo. Mi auguro che, almeno lui, mai smetta di volare. Queste gabbie d’ignoti animali, allestite da menti criminali, ci sussurrano che nuove sperimentazioni sono terapeutiche solo sui bilanci delle case farmaceutiche. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Il testamento dun kleenex
Dalle vette d'un cumulo di resti mortali in angosciosa attesa d'esser immessi nelle fauci d'un forno crematorio, racconto, memoria d'istante, frammenti di storie tristi, le mie. Nato dal fugace incontro tra bosco selvatico e brand aziendale, crebbi alla scuola d'un allevatore d'alberi, addestrato alla morbidezza d'un uso flessibile delle mie cento facce, realizzando ambizioni d'asciugare gocce di iride d'ogni sconfitta, di disinfettar ferite dei caduti d'ogni conflitto, di mondar tracce d'amor viscoso, di detergere i sudori della fatica d'esistere. Toccandomi d'esser rifiuto d'un consumo distratto, fantastico sulla reincarnazione in pagina di libro, nel foglio intonso d'un pittore spiantato, nella parcella d'un maturo avvocato, e, alle soglie d'un Acheronte a cherosene, non vi rimpiango. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Solo la morte potrà far tacere il mio canto
Solo la morte potrà far tacere il mio canto o una reiterata disoccupazione, un crollo definitivo della borsa di Milano, l’inizio o la fine di un amore, un mutuo e un affitto da versare. Solo la morte potrà far tacere il mio canto, o due anni in cassa integrazione, un immutabile destino ergastolano, l’incedere aggressivo di un tumore, l’istinto a non cercar di non crollare. Solo la morte potrà far tacere il mio canto o fantasie di beatificazione, i moniti di un critico nostrano, i cicli d’un disturbo dell’umore, l’idea di non dovermi mai fermare. La morte farà tacere il mio canto insieme ad un miliardo d’altre cose, non sono uomo da soccombere al millanto di scrivere in funzione d’altrui chiose, né mai sarò costretto a vender all’incanto il mio diritto a non cantare in overdose. [Il Guastatore, 2012]
*
Provaci tu
E adesso, senza fretta tocca a te, com'è stato mio destino d'un anno insano, ammaliato dall'ascesa a sentieri con abnormi rischi di caduta massi, di attraversamento stambecchi, nell'ansietà di salite senza corde di sicurezza addossato al manto roccioso morto d'inverno, di freddo, zigrinato dai morsi della tigre; tocca a te, canaglia d'un lettore, a scrivere versi su versi a macinare nubi di polvere pirica, assassinando i tasti d'un Pc scassato, d'una vecchia macchina da scrivere, avvelenando barattoli d'inchiostro, succhiando nettare direttamente dall'arnia, abbracciato all'alveare della creazione umana senza schermi. Provaci tu, da stasera, ad abbattere i costi della tua metrica in job sharing, a privatizzar l'effetto delle tue licenze poetiche, a stendere veli pietosi su tavoli autoptici, e dimmi cosa si sente a vedere che i tuoi sforzi sian considerati insulsi da branchi di critici assenti interessati a vender riviste per versare alimenti. Provaci tu, ché - armistizio di Tantalo- il mio stomaco ha smesso di battere su tasti dolenti, e, nella staffetta della storia, ho lanciato il testimone nell'acqua torbida d'uno stagno a tenuta stagna. Provaci tu, a intingere dita dense di marmellata nelle fauci dell'orso. [Galata morente, 2010]
*
Polifemo
Chi sei, donna, divina natura, o umana? Prima di conoscerti, di conoscermi, straniera, estraniato vivevo tra nuvole, antri d'antrace, cumuli di pecore, e, ora, abito, tra i cuori feriti, macerie di desideri, cieli senza senso d'orbo in orbace. Nell'eternità reale, novello Polifemo, mi trovo a risiedere, o meglio, a svernare, a Monza, una cittadina - modello Guantanamo- che ride, sarcastica, del mio star male, occhio per occhio occhio perdente, ai confini dell'aria, e di Milano; e non mi avvincono, strana straniera, ristoro, o consolazione, mentre m'infilzo di te, freccia d'allodole smarrita tra le aiuole, drogato dal sottofondo del digrignare infame d'un motto di buon senso, che recita, senza troppe scene, occhio non vede, cuore non duole. [Mostri, 2009]
*
Pinocchio
Son nato - un mattino-, son nato. Perché non mi hai fatto bambino? Il mondo non ha perdonato ch’io sia un burattino. Non mi lamento. Non manca l’ingegno, non manca l’ardore, non manca la forza: m’hai fatto di chiodi e di legno, ho dura la scorza. Che dirvi, allora? Fuggite l’amore, nel timor di soffrire, io, misero burattino, non capisco voi umani: davvero non riuscite a capire che dall’alto mille fili vi muovon le mani? Che cercate di rendere i sogni precari vivendo l'amore per gioco, e a me tocca vendere abbecedari e adorar Mangiafuoco. Che volete bellezza, volete danaro, vivete in modo assai sciocco: che anch’io mi trasformi in somaro, volete, del mondo-balocco? Sentendovi eterni, superbi, godete d'una libertà senza colpe, spartendo le mie cinque monete col gatto e la volpe. Del vostro pensare giammai farò parte cantare e volar mio destino scherzare coi versi è mia arte, io sono Pinocchio, io son burattino. Padre, mi hai dato tutto, mi hai dato il coraggio ma se la vita mi brucia, e mi incendia non è un dramma indossare armature di faggio? [Versi Introversi, 2008]
*
Soledad
Più che creare una nuova lingua, culterana, intinta nel barocco iberico, rannicchiata sulla breve tabla anatomica dell'acuto medico Luis de Gongora y Argote, fuori dall'ordinario, nell'amore dei miei mostri mi limito a cercare idiomi da slinguare, mettendo all'indice nostalgie da fanciullini e seti di futuro, scandendo i passi dei miei versi al suono del tamburo. Perso tra i fiori dell'immediatezza, chiuso nelle stanze d'una donna vizza, bisso la mia fuga dalle finestre del cesso, uomo indeciso tra noie dell'onore e monotonie del sesso, non abbandonandomi all'adorazione del binomio moderno Prozac/Platone, e scrivo, fascia nera al braccio, dalle terre solitarie di chi è solo, senza infondervi coraggio. [Lame da rasoi, 2008]
*
Passione
Sorridiamo insieme, numeri 33, in anonime corsie d'ospedale, con camici sporchi stretti da asole improvvisate sponsorizzati “Azienda Ospedaliera S.Gerardo” e calze troppo lunghe, anelasticizzate e giornate troppo corte, sgualcite, bucate. Eppure continuano a chiamare passione di Cristo tre soli giorni di martirio dimenticando chi paga una vita intera la responsabilità di un amore sbagliato con un sacchetto di plastica avvolto, come un collier di diamanti, attorno a un cuore sanguinante. [Underground, 2007]
*
Embolia poetica
Piantato nel cuore stiletto scrivano non lasci fluire ematico dire alla mano. Nelle urla, marciando a vuoto sulle corde di chitarra stonata, senza farmi tornare desiderio di correre senza far scorrere dentro di me desideri di tornire versi maldestri, urli, straziandoti i volti di lacrime, raccattando monetine a saldare i tuoi debiti, con nuovi debiti, su nuovi debiti, ancora. Piantato nel cuore stiletto scrivano non lasci fluire ematico dire alla mano. Non scambi nelle agenzie di cambio dei mercati neri i talenti di nessuno, con nessun talento orientando bussole, e stelle, nella direzione d’oriente di nessun cambiamento. Piantati nel cuore stiletti scrivani lasciate fluire ematici dire alle mani. [inedito, 2017]
*
Il medico dei matti
Dopo anni, la mia insana curiosità mi ha costretto a ritornare dal medico dei matti, son sempre stato interessato a definire i confini tra mie inadeguatezze e società anti-sociale, se l’esimio dottore mi rasserena, ogni tanto, sull’inesistenza, in me, d’ogni malattia mentale riesco a scucire 80€, a seduta, con fattura, senza avere i muscoli contratti. Questa volta l’illustre luminare, che illumina il buio del mio vuoto esistenziale, mi ha avvinto d’uno sguardo fulminante, dicendomi «lei si è arreso», lei che era un combattente, non riesco a non ammettere di dover registrare, nella sua espressione, una sindrome confusionale che blocca la sua bravura al non far niente. Domando, imbarazzato dall’aver deluso il mio utente bancomat favorito, «come facciamo a rigettare addosso tutta la responsabilità del mio star male ai danni sicuramente cagionati da anni e anni di costante impasse sociale?», non vorrei si diffonda la notizia sia mia la colpa d’essere impazzito. Pontifica il medico corrucciato, «No, non ha seguito i miei comandamenti: a] dire sempre ciò che crede, senza tenersi dentro emozioni stressanti, b] metabolizzare, finalmente, che ha la sfortuna d’esser circondato da troppi deficenti». Quindi, subito mi scappa, «sono, dunque, a rigor statistico certo d’avere un deficiente davanti». Col medico dei matti non funziona, è una iattura, ogni forma d’insulto è inclusa tra le voci di fattura. Se voglio cominciare a smettere di buttare via danari conviene che riinizi a dare dei cojoni, aggratis, a artisti e a critici letterari. [Cherchez la troika, 2016]
*
Santo cielo, perché assomigli a Bukowski?
Non è semplice stare alle 2.25 di notte, con davanti un drink, a battere sui tasti, non vorrei mai che i miei detrattori, oi parassitoi, mi accusino di scimmiottar Bukowski, dato che sto leggendo Santo cielo, perché porti la cravatta?, dove non c’è una traduzione di Tiziano Scarpa, restando – mi capite- in termini di abbigliamento, in una giornata dove Aldo Nove, alias Antonio Centanin, ha mandato via Facebook dei baci alla mia donna, e dove la moglie di Peppe Lanzetta mi manda Simplified Molecular Input Line Entry Specification, sempre su Facebook, e manca solamente Paolo Nori, che, fortunatamente, non ha un account accreditato. Poi Ambra, in crisi mestruale, sbrocca e mi accusa che i grandi della letteratura danno retta solo a me, senza che io abbia mai ricevuto lettere da Manzoni, da Foscolo, da D’Annunzio, almeno da un Federigo Tozzi, o da un De Amicis, o da un Collodi, o da un Fabio Volo – sono tutti morti!-, e mi costringe ad andare in gita all’Ikea, a comprare Köttbullar e Kycklingbullar, con salsa al rafano, e io accetto, in funzione anti-acquisto di mobilio in avanzo: librerie, mobiletti, fiori di legno svedesi. Però Ambra è uno splendore di ragazza, e mi ama, anche se assomiglio davvero a Bukowski: mezzo butterato, mezza vita trascorsa nei magazzini, mezzo amore regalato a troie senza cervello. Mi mette a dieta, volontà di farmi sopravvivere ai miei 90 kg, scrive cose bellissime, che ricordano Paolo Nori, o Aldo Nove, o Peppe Lanzetta, o Ivanovijc Pozzoni, mi conduce con un guinzaglio d’amore alle mostre d’arte moderna, Pollock o Pollon non ricordo, e quando piscio fuori dal vate – come tutti i maschi mediterranei- e mi difendo artisticamente affermando il mio diritto ad una oxidation painting warholiana sul pavimento non si arrabbia troppo, è una donna post-moderna, col terrore della muffa e della noia, con uno splendido culo. Questa notte, dopo aver creato il ventesimo utente Google Chrome, sono in crisi d’identità: sono Mollorso, Topis, Caterina da Siena, Ugo di Vieri, Giovanni Berchet, Giovanni Battista o Gesù? Sono Novgorod nel XIV secolo, il duca di Brabante, un mongolo dell’Orda d’oro, Stefano Nemanja di Raška, Nicola Bombacci, Ingvar Kamprad o un bicchiere di Amaretto tarocco? Forse, stasera, assomiglio davvero a Bukowski: e, allora, si fottano i miei dieci lettori, e l’unica che non si fotta, Ambra, col suo sorriso urgente che – lei non sa niente- da una settimana sta sostituendo il Daparox. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
L’impiccato
Quando ti è venuta a mancar l’aria, strozzato da bollette, fatture, decreti ingiuntivi, dalla recessione, creata ad arte, da un capitalismo mobile interessato a mandare a fondo nazioni intere con la celerità inafferrabile dei movimenti informatici in rete, e ogni banca, sempre disposta a mendicare aiuti, ti ha rifiutato l’elemosina di un sostegno, e ogni strozzino, sempre disposto a conceder credito alla fame d’aria, ha rassegnato le sue dimissioni, e ogni ufficiale giudiziario, distratto dal sogno di diventar docente di diritto romano in Università Statale, ha disseminato di sigilli i tuoi incubi, e ogni amico, assillato dal terrore di raggiungerti nella zona rossa della cartografia dell’inferno, ha rinunciato a dare ascolto ai tuoi noiosi rammarichi, e ogni senso della vita ha deragliato dai soliti binari, boicottato da bollette, fatture, decreti ingiuntivi, trovasti come rimedio, contro strangolamento finanziario, l’ultimo respiro d’impiccarti a un albero. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Immobilità insostenibile
Punti esclamativi verso un mondo a mobilità insostenibile, che ci trascina, di due / tre metri sul solido asfalto, a riflettere, dalle superfici delle acque piovane, sul covar ribellione, contro i miti di sabbia e di vento. Amo il traffico, intenso scambio d’astensioni intonse col ventre molle dei margini urbani, nell’idea d’un’umanità incolonnata da schiavisti, nell’ombra, servo dell’urgenza di scatenar uomini tristi, incollati a sudati volanti. Amo ogni affollamento, nelle strade e nelle spiagge roventi, metro d’annichilimento d’insipidi istanti, destinati a ricaricar batterie di fantasmi arrancanti verso mesi efficienti. Amo, inquinamento, e incidenti, noiosa mosca bianca cocchiera, annegata in boccali di birra al Malthus, nella certezza che - me incluso- decrementino i rischi di fiasco d’efferate leggi di Darwin. Punti esclamativi su mondi a immobilità insostenibili, abili a render diversi i conformismi sommersi. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Gli occhi della morte
Mettete, nella bara, i miei occhiali, bacchette a fildiferro, in modo che riesca a vedere in faccia madama Morte, di modo che riesca a vedere l’uomo di Neanderthal camminar sui monti, milioni e milioni di schiavi costruir mausolei di ricchi sciacalli nelle valli del Nilo. Mettete, nella bara, rivoli di sbavature d’inchiostro sui dorsi della mano, i denti dei miei bimbi incastonati in una crosta di Grana Padano, e i miei occhiali, lenti anti-riflesso, in modo da riuscir a stringere tra dita ossute una vita che si sottrae, tramutando campi di battaglia in campi santi, affinché riesca a vedere Cesare, al limitar del Rubicone, frenare cavalli e dadi, i morti di Crociate, monaci e monatti. Mettete, nella mia bara, le lacrime di un foglio in carta formato A4, i miei libri non scritti, i miei occhiali – da calcetto-, montatura anti-rottura, cosicché riesca a rimbalzare contro i muri neri del silenzio senza ributterarmi il viso, in maniera da riuscire a vedere indiani correre nelle distese dell’ovest americano, a tirare i baffi a Stalin, a metter dita nell’occhio celeste, Didimo novello. Mettete, nella bara, occhiali sui miei occhi chiusi, aiutandomi a non morire, come uomo, aiutandomi a smetter di dormire. [Il Guastatore, 2012]
*
Blow-job
Per me, sarebbe più facile vivere d'idee, di niente, o da niente, che morire, giorno dopo giorno, dietro tristi scrivanie, inalando angoscia, e odio. Per me, sarebbe più facile, dimenticare, smettere di amarti, che ricordare quei tuoi occhi da mare mosso che ho navigato, giorno dopo giorno, che ho visto splendere, splendere, rifrangermi, nel buio accecato d'una vecchia aula di liceo. Prendi in bocca i miei incubi, i miei dubbi e soffia, soffia. [Galata morente, 2010]
*
Groenlandia
Per alcuni anni, sei anni intensi, mi è bastata un'armatura zincata, con lamine in fitta ottonatura, senza ottonari, a scacciare i mille, e mille rifiuti, in università, nel mondo del lavoro, nel circo delle donne, a dimenticare danari, carriera, casa, fanciulle e madri, carico d'attese deluse come animale da soma, schiacciato a terra da attese inumane, celesti. Ma, la mostruosità della sofferenza, la terribile beffa del dramma, lontane dall'essere occorrenze eroiche, si nascondono nelle nostre case, imbevono d'aceto i nostri animi, nella banalità dei lunedì mattina, nella normalità d'un fine mese (scarsamente) retribuito. Messo a terra il mio scudo, levata di dosso la mia corazza, attendo, indifeso, l'ultima vostra freccia. [Mostri, 2009]
*
Mi doppio
Non riesco a cantare senza stonare, ciò che non siamo, non riesco a non andare oltre, con la mia mente, nella mia mente, correndo il rischio di intrepidi doppiaggi, correndo il rischio di sembrare indifferente. E, nelle sere vuote d'ogni stima, m'han contagiato i mali della rima, medico matto, senza ricetta né medicina, conservo i miei neuroni in vaselina, per render certi discorsi convincenti, nel metterlo nel culo ai deficienti. Non riesco a cantare senza stonare, testa dura, coscienza che non brucia, intatta, scartavetrata come il sedere d'un bimbo, seduto, sopra a una grattugia. [Versi Introversi, 2008]
*
Sono nudo
Poeta d'istanti, addormentato nell'anima torbida del novecento, artista distante, instradato, di notte, tra i risvolti del nuovo millennio, continuo a vedermi nudo - eroe nascente, aurora d'ombra- senza armatura, smarrita nei cubicoli del non-so-dove. Chiuso fuori da armadi ricchi di nuove vesti, sbatto il muso contro ante e -anta in avvicinamento, e, chiave sullo stomaco in attesa di trovare una dolorosa via d'uscita, non riesco a aprirmi. E, il freddo anestetizza la mia voce, le mie mani si fanno smorte, in cerca di vesti da indossare nel mio ruolo triste da buffone di corte. [Lame da rasoi, 2008]
*
Lalbero di natale
Prendi la mia mano bambino africano bambino indiano bambino slavo sollevati dalla culla di rame e filo spinato, smetti di dormire bambino africano bambino indiano bambino slavo coperto da stracci dei cassonetti Caritas. Padre lavavetri, e madre battona, bambino africano bambino indiano bambino slavo forse gli uffici postali ti recapiteranno, entro Gennaio, doni degni di un re (esiliato); non morire bambino africano bambino indiano bambino slavo nell'attesa del sorriso dei vincenti, i nostri occhi si accendono ad intermittenza, e i nostri cuori sono spenti. Gli alberi di Natale non mettono radici nelle strade cementate delle nostre città racchiuse nei ghiacci di emozioni congelate. [Underground, 2007]
*
Caronte, in riva al lago
Seduto su una roccia, in riva alle acque turbolente macchiate di ricordi del mio Lete lacustre, mi tramortisco col rumore ombroso delle onde che cantano dei miei vent’anni, d’amori e attese blande. Cerco un Caronte astioso e ansante, che meni la mia barca sui fiumi d’Occidente, rodato dosatore d’ansiolitici, seduta stante, scorbutico maleducato, rude bifronte. Cerco un Caronte, un Caronte vero, temerario consulente abituato a transumanze d’ogni genere, con remi, barba stanca, obolo di scorta che difenda all’arma bianca. Seduto su una roccia, rinvio a domani l’insulsa immaturità delle mie mani. [inedito, 2017]
*
Oggi è il giorno dell’amore
Oggi è il giorno dell’amore e la notte dell’odio, ché sulle mie ferite da britanno azzurro hai da versare litri di tintura di iodio, è da due anni che ti trascino di casino in casino come se fossimo separati dalla densità del muro di Berlino, e, a scavalcarlo, amore mio, ci vorrebbe un aviatore impermeabile ai colpi secchi di mitragliatore. No, Princeza, non siamo Neruda, Lorca, e nemmeno Prévert, meglio, che ad essere essi finiremmo sul dorso di una tshirt, nello star system dell’arte va ieri Majakovskij, oggi Evtušenko, domani Tranströmer, io e te restiamo e ci lanciamo in cielo con l’energia drastica di un booster, non c’è uno ieri, non c’è un oggi, non c’è un domani tra le stelle non rombano attoniti i motori degli aeroplani. Oggi è il giorno dell’amore e la notte dell’odio, c’è da infilarsi una muta e fingersi artista anaerobio, tratteniamo il respiro e respiriamo ciò che tratteniamo l’anossia cerebrale di chi ci circonda non consente reclamo, ascoltami, conviene convincersi a smettere di respirare, forse, accodarsi all’idiotismo dilagante non sarà un brutto affare, la catena te la stringono al collo se ti adatti al collare. Sei riuscita a farmi scrivere una ventina di versi senza nessuna trivialità, mi hai costretto a mantenere, senza multilevel, la mia forza di gravità, gravis, dall’etimologia latina o dal sanscito gur-ús, e mi fai far fatica a far coincidere in rima gur-ús con virus, il sanscrito tollerava la variante di andar a dar via il gur-ús, e il milanese, invece, si applicava a fagh la barba al Negus, intorna al bus del conquibus (pecunia non olet). Il mondo ci ha costretto a cantilenare, senza regole a lavorare, senza regole ad invecchiare, senza regole come un Saturnino e un Glaucia condannati a asciugar le tegole da incollare, senza troppa convinzione, sul tetto della Curia Hostilia in attesa di esser lapidati dopo aver commesso una quisquilia: tu scrivi poesia in prosa e io prosa in poesia, come dar via il culo o darla via, questa cazzo di poesia. [Cherchez la troika, 2016]
*
Campione d’incipit
Dopo attenta osservazione stilistica, con l’aiuto d’una valida filologa ho scoperto, finalmente, d’essere un campione d’incipit: i miei titoli sono incisivi, i miei versi canini, servono entrambi a mordere il sedere ai burattini, senza rompersi, - l’amica ironica Carla De Angelis mi sgrida, se uso termini sboccati- nell’Arcadia moderna sono apprezzati i sederi, i culi non sono ancora sdoganati (mi immagino un culo alla dogana: «Qualcosa da dichiarare?» «Prrrrr», la risposta che l’onesto cittadino dovrebbe concedere ad ogni question time parlamentare). Chiusa parentesi. Le poesie con le parentesi avranno un significato filologico, avranno un filo logico, un feeling logico, tipo di chiudere il pubblico fuori dalla pagina o fuori dalla porta di casa, non lo dobbiamo soddisfare, in fondo, attualmente, il lettore non ci garantisce da mangiare, e io mi specializzo in incipit, lancio un titolo, e se la veda poi l’astante, ci risparmio in carta, inchiostro e costi da stampante, titoli tipo Dall’euro alla neuro, Vate vobis, o Cinese ucciso a coltellate: è giallo, lo stesso Hemingway non si sarebbe sparato in bocca se avesse avuto un intervallo, anzi, lo stesso Hemingway non si sparava in bocca se aveva un intervallo, magari scrivendo solamente incipit, e godendosi la fatica d’un lettore in stallo. Insomma, un campione d’incipit è simile ad un campione d’urina, entrambi analizzati, l’una con GC/MS, l’altro con la vaselina, non mi consigliava male mia madre – da ragazzo- di trovarmi un mestiere, non studiare!, non sarei mai stato obbligato a regalare il sedere a critici, a direttori d’azienda, o a marinai d’acquasantiere, a cantar fuori dal coro, a pisciar fuori dal vate, perché Ambra si incazza se trova le piastrelle del bagno colorate. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Clochard
Saremo buffoni davanti alle lacrime di Dio, incanti a tempo determinato con un casino di idee in testa, sotto sterno,afferrati dalla frenesia di crescere, crescere, avendo coraggio di clocher sulle orme del terrore dei vinti, avendo coraggio di odiare miseria, violenza, brutalità, schiavitù. Pensando cento, e mille cose, saremo sfuggenti come carta stagnola nell’olio, saremo velenosi come antidoti d’angoscia, contro chi sfrutta, contro chi affama contro chi ammazza, contro chi annienta. Mi auguro di non risentirci: il risentimento annichilisce i cuori. Risate! [Patroclo non deve morire, 2013]
*
L’anoressia d’Ifigenia
L’altare mediatico innalza ai cieli odori di morte, cibi scotti da insaziabili divinità catodiche, mai sazie di bellezze eteree. E tu, novella Ifigenia, seduta a tavola, in silenzio, non canti come usignolo, nessuna forza d’alzarti in volo. Pronti, i bisturi sacrificali da vita trendy, tintinnano assonanze «emaciato / denaro» nei mondi diafani d’infinita sfilata. Ma tu, novella Ifigenia, venduta da Padre schiacciato da smanie di telegenia, chinata su un fianco vomiti e vomiti su utopie da rinfranco. Piangiamo. Predoni voraci, di che siete capaci, se da vite aleatorie ricavate vittorie? [Scarti di magazzino, 2013]
*
Una moneta
Per ogni consulenza gratuita, inserite un euro nel mio salvadanaio di cristallo, smettendo d’associarmi alle vostre iniziative: non ho altro colore, se non un bianco cadaverico che riesce a tenermi in vita, abbinandomi, a stretto contatto, con i morti. Gettate una moneta nel cestino delle offerte, e entrate nelle segrete dei miei occhi strani, ove rischiaran tenebre nell’attizzarsi delle fiamme di tramonti urbani, dove rabbuian sorrisi schivi d’aurora boreale, ove ululano cani rattenuti dai cancelli automatici delle villette a schiera, dove i mostri smettono di dormire, avviando iniziazioni canore, sadiche di bullismo. Per me, ragazzo seduto ad elemosinare davanti all’Università, senza nessuna Chiesa al di fuori dell’altare del mio talamo, senza nessuna sede di Partito, senza nessuna fede, mettete una moneta, certi d’un investimento degno d’azioni Lehman, mettete una moneta, rischiando la sfortuna. Per me, salice secolare seduto a terra tra le radici d’un mondo in fiamme, mettete una moneta. [Il Guastatore, 2012]
*
Fuori dal tramonto
Prima del cadere d'un sole freddo tra le cento braccia d'Ade addormentato, ci siam trovati, tutti, avvinti nel silenzio di un venerdì sera d'atmosfera natalizia, davanti ad un cielo mestruato, sterile, forse, rosso dalla rabbia di non esser madre di dèi, di vittorie, o di mattine senza dolore, davanti a un cielo tanto livido da annichilire tutti i nostri sogni d'inventario. E il dubbio di essere contagiati, per un momento, fugace, per un attimo solo, dalla serenità di esistere nei magazzini d'un'area industriale, ci attanaglia, dimentichi di doverci vivere anche fuor di metafora, fuori dal tramonto. [Galata morente, 2010]
*
Donatore sano
Non sono nessuno, niente, nell’ansia anoressica d’aver accesso, cesso malmesso all’anestesia beffarda dei vostri ardori, donatore di cuori, tra sterili camici, clisteri e dottori. Niente elmi, niente corazze, contro colori violenti di sorrisi da attrici, nessuno scudo, niente schinieri, ma la bellezza, sconfitta, di mille e più cicatrici. Canta, solitudine d’un’anima irriverente, trovata morta nell’anticamera dell’esistenza, tra conati di vomito, vestiti trendy, e mari madidi d’indifferenza. [Mostri, 2009]
*
Guardami
Non correranno mille, o ancora mille anni davanti ai nostri occhi di miele, e di lama d'amianto. Guardiamoci, ora, e dalle nostre lacrime esca tutto ciò che abbiamo dentro, nuvole di sabbia dalle nostre iridi. Pazzia, deliro, follia. Bevi questi versi quando i tuoi cieli saran disarcionati dalle stelle, quando il terrore ti ridipingerà la fronte, quando risentirai i morsi d'un'angoscia color ruggine. Ci saranno, allora, i miei muscoli di latta, a confortarti, e a stringerti in abbracci, metallici, incandescenti. Fidati di chi è tornato dall’inferno, crocifisso sul seno turgido d'una baldracca ingenua, ricordandoti di me: è un urlo. Guardami, di nuovo, e niente altro. [Versi Introversi, 2008]
*
Non nominare i nomi
Misericordia, tu, mi hai chiamato, dono di Dio, in un idioma caucasico freddo di steppa, taiga, tagliente come lamette da barba abbandonate a arrugginire nel lavandino. All'odore delle tue mille voci, mi sono erto, scimmia evoluta, incamminandomi scalzo su sentieri di vetri acuminati, senza riuscire a sentire i tuoi richiami, addolciti da frementi herz nell'etere marino d'onde radio, senza riuscire a insabbiare i tuoi misteri stressati, camminando sulle mani, ossa rotte, testa china, cercando amore nelle mie viscere, macellaio scontento, cadendo, assaporando il momento di rialzarmi. Ho urlato tanto, invano, senza che ti rendessi conto di come soffrano maree, scoiattoli, satelliti, noi, esseri umani, senza che ti voltassi all'abbaiare del cane, all'ulular del vento, ai battiti della tastiera; e stando zitto, adesso, nel silenzio ti costringo ad ascoltare. [Lame da rasoi, 2008]
*
Metropoli
Io non dimentico i tuoi silenzi e le mie tattiche sconsiderate ...non ti dimentico... imbuto, affilato come rasoio, che travasa certezze e dolori ma, non vedo, se da dentro o da fuori; amore, che nulla rimedia in attesa che vita, si discosti d'un balzo, ferita. Nelle città imbuti e amori, non corron incontro ai menestrelli, e i menestrelli, di norma, non cantano d'amore e d'imbuti. [Underground, 2007]
*
Mito-lógia
Pensare d’esser contadino di semi d’angoscia su una terra dura come monumento funebre, distribuendo sale sulle anime dei vivi, le anime dei morti sono meno sfuggenti. Pensare inquietando, a vicenda, le nostre inquietudini, «effringere ut arta / naturae primus portarum clausura cupiret», non smettendo mai di bussare alle finestre dell’amore smarrito, con la bellezza effimera dello shoe-shine. Pensare, straziati di lacrime come una madre davanti alla bara d’un bimbo, senza barare, novelli Yudhishtira, ai dadi del Dharma, crollandosi addosso tra i frammenti ossei del nostro scrivere, osservando cianotici volti. Pensare, e continuare a farlo, minuscole divinità creatrici del divino, mito-logiche chimere sbranate dall’occhio di giada della tigre, senza mai afferrare i mille sensi della vita. [inedito, 2017]
*
Mamma, sono un autistico
Mamma, sono un autistico, non un autistico dell’azienda trasporti municipale so che nel tuo cuore di madre hai sempre sognato di sistemarmi da statale, senza la preoccupazione del cartellino da timbrare e della disoccupazione a fare diciotto ore a settimana, tre mesi in ferie, con l’ansia di defiscalizzare la ripetizione. Mamma, sono un autistico, la sfiga ha deciso di incoronare, me, scrittore no, ma’, non scrivo rimedi terapeutici, senza fattura, come il dottore, ti ho spiegato cento volte che mi occupo di endiadi e allitterazioni dialogo, ogni notte, coi fantasmi e comunico coi marziani, e, oramai, come il Villa, no ma’, non il prestinè di via Mentana mischio latino, dialetto, italiano medio da navigata cortigiana. Mamma, sono un autistico, discetto in distico, o in anapestico, ma va’, che hai capito, non sono mica diventato spastico, al massimo flessibile ed elastico, lo dice anche la troika, sbattuto nella vita con un razzo come fossi Laika, vittima della mancanza di comunicazione dell’ambiente artistico inchiodate, all’incontrario, sul mio cenotafio l’epitafio: «Qui giace un autistico», siccome nessuno riesce a prendermi in qualsiasi verso o ma’, nun scassà o’cazz, sono un diverso. [Cherchez la troika, 2016]
*
Mala temporella currunt
Mala temporella currunt, i tempi dell’artista raccomandato, senza ricevuta di ritorno ad uno stile insanguinato, i tempi delle crocchie editoriali, degni epigoni del cucchismo, - Cucchi esordì all’Inter nel lontano 1982- un maestro d’antan-(agonismo), i tempi delle sensuali scrittrici in versi, prostituite alla sintassi versate, inoltre, con editor, redattori, dirigenti, a collaudare materassi, i tempi delle riviste nazionali aperte a cooptazioni almeno io mi vendo a tutti a 20€, senza rotture di coglioni. O temporella, o mores! Le mie Catilinarie post-moderne annoierebbero persino Cicerone, se non Catone, novello uticense utente, vittima di un’editoria latente, distinta in microeditoria, condizione di scarsità di risorse, e macroeditoria, causa aggregata di scarsità di sonetti, e, ultimamente, in necroeditoria, bene ipse dixit Ceronetti. Mafia tempora currunt, et temporella fugit, Marchesi se ne avvide in tempi di repubblica, il Cavaliere se ne avvede in tempi di monarchia, mafie, camorre, ndranghete s’agglutinano anche nell’editoria, l’atelier è dell’artista alla moda, dell’artista sbarbato, io, sempre vestito da barba, non verrò mai apprezzato, non mi ruga sul collo il cartellino del prezzo come Fantozzi, azzurro di sci, a Courmayeur (credevate, a Cortina D’Ampezzo?). Mala temporella currunt, i tempi dell’artista ermetico che non incellofana i suoi libri insieme a tubetti d’anti-emetico, i tempi del tutto gratis, del tutto dovuto, del tutto diritto tutto diritto, ci pensa Rocco a pub(bl)icare il manoscritto, dimenticando, senza commenti, che anche Dante Alighieri dové leccar molti sederi, nel reperir finanziamenti. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Radiobàn
Siam caduti entrambi nella crisi, crisi doppiamente, crisi del mondo occidentale e crisi del mondo occipitale, messi sotto stress mortale da due transizioni transeunti l’una dall’esterno verso il nostro schiacciamento, soffocamento, e l’altra dall’interno, incontro alla nostra implosione, minuscole schegge di acciaio, detritate, sbuffate via dai venti dell’est. La tua voglia smisurata di sparire misura la mia ansia d’abbandono del posto fisso, batti i chiodi nelle mie mani, messe a croce, con i tuoi scontri, crash-test dei tuoi sogni da ragazza, contro il muro di una vita che cammina troppo avanti, rottamandoti, rott-amandoci, lo stesso muro, anche mio, visto dall’altro lato dell’oblò di un aereo che decolla, che mi chiama ad essere, barone rosso, solo e senza paracadute. Caos totale, sbalzi d'umore, attacchi di panico, angoscia, speranze improvvise, ricadute, rialzate, ricadute, rialzate, ricadute, casino totale, baby, casino totale, tilt. Non uccidiamoci, davvero, non uccidiamoci a vicenda: io ho ancora la mia forza di sognare, riafferrandoti dal disincanto, e tu di slanciare una mano alta, nel cielo, facendomi credere di riuscire a tenermi in sospeso su un aereo in fiamme. Non uccidiamoci: la vita è breve, e le ferite che non ci uccideranno, ci faranno sopravvivere, e morire a stento. C’è il cruccio tardo-moderno del rischio di innamorarsi o non innamorarsi? A te rimarrà una strada dimenticata da tutti, su cui consumare i tacchi delle scarpe che ti facevano male; a me resterà la bella storia da raccontare ai figli, ai nipotini che non avrò mai, che sarà valsa la pena annientarli, pur di cercare di averti al mio fianco. [fine delle comunicazioni serali] [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Il Grigio
Passando tra le scale d'una casa comunale, straniero, troverai un tesoro d'ossa e carne fuori dal normale, svezzato, nelle notti d'irridente Primavera, a bottiglie di Barbera. Bambino scalzo, sandali di neve, allevato a calci in culo da un amore che non vide il terrore nei tuoi occhi incrostati di smeraldo, dentro a fondi di bicchiere comperati in saldo. Uomo senza denti, sorriso stentato, non lasciare che vendano i tuoi intenti nelle sale d'un'asta d'antiquariato, non lasciare che ridano dei tuoi vestiti stinti, delle tue storie d'amore caotiche come labirinti. Passando tra le scale d'una casa comunale, straniero, troverai un tesoro d'ossa e carne fuori dal normale, svezzato, nelle notti d'irridente Primavera, a bottiglie di Barbera. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Fermiamo tutto!
Fermiamo tutto, vogliamo scendere dal treno che arranca, fermata dopo fermata, arresto dopo arresto, i binari non arrivano mai ad essere tangenti, alloggiati, senza comodità, sul carrozzone di un ente statale, di un’azienda multinazionale, delle sedie di una riunione condominiale, sul carrozzone di coda è meglio, dicono, nel caso di incidente avremo la fortuna incontrovertibile di defungere di morte cerebrale. Fermiamo tutto, vogliamo scendere dall’ottovolante, che danza, e balla, e gira su se stesso, mettendoci a testa sotto, e a culo in fuori, lontani dal vincolo del riflusso delle liberalizzazioni, libertà di uscire dal mercato del lavoro, rifiutare corone d’alloro, ruttare a un concistoro, contestando IVA, IMU, IRPEF, ILOR, TAV Tavor e Serenase, assunti a urgente necessità a ogni smania di steccar fuori dal coro. Fermiamo tutto, basta, stop, ce lo chiede l’Unione Europea dagli angoli scuri d’un porno-shop, ce lo chiedono milioni di barboni dalla società americana lieti di accompagnarsi alle migliaia di nuovi soci della Caritas ambrosiana, ce lo chiedono i docenti d’economia, i maestri di finanza, disponibili a tradurre la disperazione della gente in ordinanza. con l’obiettivo, finalmente, di delocalizzare dall’area ungherese i centri di una grande industria, installandoli a Termini Imerese. [Il Guastatore, 2012]
*
Motherfuckers
Nell'acqua della mia fontana contaminata da stinto diserbante, messa alle strette da sterili correnti di liquame deodorato, s'è sdraiata, nuda, una battona, come fiore smaltato, conturbante nato, da prati di nobili sentimenti, su un monte di Venere rasato. Dell'acqua della mia fontana, testata da strumenti di depurazione, nessuno è in grado di vedere il fondo senza toccar con mano un cuore sanguinante da puttana, nell'ansia da divieto di balneazione a cui, oggi, è condannato un mondo costretto a cento all'ora, senza freno. Dall'acqua della mia fontana, resa indecente dalla mota, turbata dalle onde d'una storia messa a cantare controvoglia, s'asciugherà una voce ciarlatana, che, acquistata quota, coi ritmi lenti da giaculatoria, saprà scandire il tempo alla battaglia. [Galata morente, 2010]
*
Cecchina
Negli angoli nascosti, bui, del tuo cuore diroccato, si nasconde, in tuta mimetica da camaleonte albino, un infallibile cecchino, che, senza mira, senza mire, abbatte sagome di cartone, col mio viso, increspato di dolore, coi miei occhi, specchi del terrore della povera gente. Per me, nessun cedimento, non tentenno non mi giro, di schiena, davanti al tintinnio bruciante dei tuoi sguardi di ghiaccio secco, ma ti fisso, nelle iridi livide da cosacca, mentre premi il grilletto, e sparisci. [Mostri, 2009]
*
Lattestato
Poeti, cantautori, uomini d'arte, son desolato di non riuscire a vedermi consacrato nei righi candidi, tratto arabesco, d'un attestato. Non ho salvacondotti metrici racchiusi in un cassetto, della mia razza, Dio santo, son stato unico - l'ammetto!- ad aver cercato di scarabocchiare i miei schiamazzi in reti da bracconiere, nel desiderio matto d'evitar foglie d'alloro, e carote nel sedere. Poeti, scrittori, imbianchini stanchi, artisti da baccellierati non siete stufi di vendere, al metro, i vostri gioielli grafici i vostri starnuti poetici come carta d'apparati? Dal mio dolore, dalle mie sconfitte, non scorgo orizzonti mistici di vendetta: il calore infernale della fama non m'abbronza, in cerca, al massimo, di rime baciate con seriche terzine della Fiamma Monza. Poeti, cantautori, cattivi samaritani, autori di corte, son desolato di non riuscire a affezionarmi ad attestati, della mia morte. [Versi Introversi, 2008]
*
Poeta triste
Poeta triste, mi chiamate, certi delle vostre serenità incartate, con nastro isolante, senza smettere di cercarmi, nelle vostre serate di dolore, addolcite, come biscotti intinti nel caffé d'orzo, dalle lacrime indaffarate di chi muore. Poeta triste, dall'incavo delle mie mani nascono torrenti fluidi di rime, e intarsi, tinti da rancori urbani, che non mi salvano dalla desolazione di decidere tra zone d'ombra ed un posto al sole, nella coscienza che i miei versi non si acquistino, come le bibite, ad un distributore. Poeta triste, mi chiamate, vittima di mutui soccorsi rimborsati a rate da canzoni d'occasione vendute senza sconti, su occasioni incaricate a far tornare i vostri conti. Ma io rido, menestrello stanco di non riuscir a smettere di far girare le mie palle, come inesperto saltimbanco. [Lame da rasoi, 2008]
*
Dateci voce
È scritto nel destino: consuma diottrie i tuoi mesi i tuoi amori e mille emozioni sui doni dei morti, voci, ibernate, d'esistenze nebbiose. Chiudi fuori realtà e sorrisi, sguardi indecenti, incenso; rifiuta successi, o, in eterni ritorni di sconfitte insensate abita insicurezze. Il mondo, ora, è in una stanza, tra estratti, libri, libertà e desideri d'occhi azzurri. Quando sarò, reperto archeologico, nella mia ultima stanza di due metri sotto tubature fili del telefono radici, vermi, ratti e residui tossici datemi voce. [Underground, 2007]
*
Plotone d’esecuzione
Preso dalla mania del logos, davanti a fucilazioni d’endecasillabi tra ammiratrici fantasma e richieste editoriali (di denaro), mi rivelo scrivano di mezzi versi, dove nuvole corrono dietro ai vetri d’un magazzino Gdo, al sicuro dalla tracotanza dei carrelli elevatori. Frammenti di metro rinchiudono, in corto circuito, vivaci istinti, istanti di vita, rivestendo di Summer has come (sumer is icumen in), a canone élite, banalità, disinganno, anarchie mascherate contro i dilettantismi da liberoverso / liberitutti. Mi sento vecchio di mille anni, claustrofobico monaco immerso nel rancore di non scrivere di me che scrivo, nelle acque dello stagno d’un Narciso teramano, abitando ruvide cene aziendali come fossero occasioni mancate. Preso in ostaggio dal dubbio, mi decoro di silenzio. [inedito, 2017]
*
L’eredità
Su una famiglia borghese dell’onorata società è capitata, tra capo e collo, una sorprendente eredità, una vecchia zia di cui tutti, incluso me, di nascosto, tifavano la morte decedendo ha lasciato ai suoi nipoti danari, appartamenti e gioielli in cassaforte, e i nipoti, intelligentemente, lontanissimi dal mettersi a brindare hanno iniziato a litigare. Scattano i nipoti con le chiavi dell’appartamento che han l’idea di recuperare i gioielli con un record degno di Mennea, senza tenere in considerazione l’insignificante circostanza d’aver agito senza avvertire notaio e intera cuginanza. Reagisce infervorata la moglie del cromatore di Carate, impegnato a saldare il suo bancarottame a rate: è un ladro chi si fotte tre cucchiai è un santo chi non liquida il t.f.r. ai suoi operai. Risponde, fiero, il fratello dei novelli Arsenii, i miei fratelli hanno lasciato i libretti degli assegni, e tutti, indignati, si trincerano dietro all’ostruzione nel decidere che appartamento ciascuno avrà in assegnazione. I cugini del Veneto, abituati all’altipiano, desiderano a tutti i costi i cinque appartamenti di Bassano; i cugini di Monza non ci stanno: si mostran timorosi che le case brianzole affittate nascondano morosi. Come andrà a finire? Iniziano negoziati vis a vis degni del trattato di Cateau-Cambrésis, tutti reclamano scippi e tessono inghippi come se si trovassero ospiti da Maria De Filippi. L’unica sfortuna nera è la situazione mia, mia madre, nipote come tutti, vacca malora, non sì è ancora accorta della morte della zia! [Cherchez la troika, 2016]
*
Pene d’artista
Non conosco chi è N. Busà, - c’aggia fa!- non appena l’editore Kàros mi chiederà ancora 300€, così da essere inserito, con tre testi, ne L’involuzione delle forme poetiche, nun me resta che accettà, in modo da essere anche io migliore, migliore di come sono, 300€ migliorano la mia scrittura, è la vittoria dell’economia, sul conflitto tra natura e cultura. Chi cazzo è N. Busà? Forse un’emula di De Signorinibus, o De Signorinibus un emulo ermetico der medico de li mortacci, non funziona, quando bustrofedo alle due di notte, dopo succo d’uva e Sangria, un Bellini, Porto, divento incoerente, una sorta di Don Chisciotte, meglio dei vari Don Abbondio che bazzicano l’orto dell’irta arte italiana, disponibili a versare, non nel senso di fare versi, 1500€ a Barabba, con lo scopo recondito di farsi pubblicare, facendo sermoni sulla gratuità dell’arte quando vai a chiedere 30€ di quota solidale per sconfiggere i cartelli dell’industria editoriale. M’inchino a N. Busà - c’aggia fa!- senza aver capito se è una donna, un uomo, un trans, se è un uomo, o un trans, non m’inchino, minchia, mi sento troppo brillo per continuare, e non sono abituato a brillare, mi toccherà tornar da Ambra, a letto, come un’ombra, senza far rumore, lei mette i tappi nelle orecchie per non sentirmi battere, io, quando batte lei, nel senso di battere al Pc, mi metto un tappo in bocca, è meraviglioso spiarla scrivere, di lei sono sicuro che non è un uomo, o un trans, - svelando queste cose rischio di ritrovarmi cadavere-, un emulo imperterrito di Oronzo Canà davanti alla fama imperitura di N. Busà. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
La fucilata
La chiarezza delle nostre anime, sofferenti, è stata come una fucilata, sparata sulla mia mano impegnata a racchiudere il tuo cuore dentro a un pugno, sparata alle 23.00 di una domenica sera, come ce ne saranno tante, maciullandomi falangi, falangine e falangette, da te che hai studiato mani, e ferite, sui tuoi libri di anatomia (comparata). L’amore, a volte, è una fucilata nella schiena, in alcuni casi, una fucilata sulle mani, nei casi estremi, una fucilata al lobo occipitale, e tu me l’hai spedita sulla mano destra, obbligandomi a un battito mancino sui tasti, consigliandomi ch’è meglio continuare a scopare, nel frattempo, con chi abbiamo tra le mani (nel caso mio, tra la mano), e a prepararci, sempre nel frattempo, una dignitosa via di fuga, che, magari, col tempo, ci costringa a innamorarci, vittime: a] della mia mente diffidente e b] della tua inidoneità a dare un taglio a situazioni invivibili; e cammini in strade senza uscita, con la lupara in spalla, lupus in fibula, scrissi una volta, costringendomi a scrivere cazzate ametriche, che raffazzonati critici abruzzesi, in concorsi dove si vincono maialini da latte, valuteranno degni di un novello Cecco o, magari, di un becco Burchiello. Lasciami aperto un angolo del tuo cuore appoggiaci il fucile, e, presa la mira, spaccami anche la mano sinistra, cosicché non abbia nessun modo, nessuno, di ricordarmi di te. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Il Paradiso dei bimbi dimenticati
Paradiso dei bimbi dimenticati, ci giocano i bambini morti addormentati nelle macchine roventi, senza sollievo, vittime di crisi mnemoniche da affaticamento lavorativo che non fanno scordare budgets, riunioni o certificati. Giocano le bambine in un’incessante estate, indifferenti al sole che le ha disidratate, libere di librarsi in maree d’aria in barba ai brutti momenti trascorsi in crisi respiratoria, senza dover sentire caldo e sete. Paradiso dei bimbi dimenticati, ci giocano i bambini morti addormentati strangolati dall’insicurezza delle cinture, in accalorata attesa di riabbracciare, senza rancore, chi li ha assassinati. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Kill all Indies
Prendono la mira, con una frigida lucidità ammortizzando i nostri mal di testa con manovre, manovrine, addolcite sinonimie eufemiche del santo termine stangata, massacrandoci, come negli anni ‘Venti del secolo scorso li avremmo bastonati noi, si muovono, annunciano, dirigono, marketizzano, tra le braccia dei sonni della ragione, outsourcizzandoci a vivere fuor di retorica. Le borse si divertono sulle montagne russe, c’è vento di recessione sulle tombe della necroeconomia, e, noi, a contare ogni vittima della disoccupazione, a contare i movimenti, a ribasso, dei nostri conti correnti, noi, mai messi al corrente, che non contiamo niente, a contare i giorni che ci dividono dai nuovi New Deal, a contare le vertebre della fame di fama. Prendono la mira, con un’inumana determinazione, senza accordarci la rapidità cinese del tradizionale colpo alla nuca, abbandonandoci a dibatterci nella fluidità del fiume delle nostre sussistenze, a domandarci a chi donare il caos creato da un’umanità che brancola, a mandrie, nelle nebbie del tramonto, a chiederci come faremo tra vent’anni, tra dieci anni, come faremo domani mattina ad alzarci a combattere ancora, e ancora, e ancora. Le bandiere del reggimento sventolano nella brezza, e, noi, dissotterrate le asce di guerra, dipinti i visi, col colore della terra, c’inciteremo a non temere ecchimosi da inadeguatezza. [Il Guastatore, 2012]
*
Hic et nunc
Mi rendo conto di tutto, senza renderti conto di niente, ma, continuo, io, ancora io, io, nel bene, e nel male, a cantar canzoni sull'inutilità d'una ricerca forsennata di forma, forgiata dall'eleganza, d'un lessico d'accademia, per noi che viviamo in questo ritrito hic et nunc - incubatrice senza vie d'uscita- tra stridii di commissionatori, ronzar di caricabatterie, ghigni diabolici di stampanti a modulo continuo, bestemmie e risate di autisti, magazzinieri. Non c'è niente d'elegante, di raffinato, nella mia arte avvolta da vesti lacere, sudicie, d'officina d'artigianato, in questa mia ricerca eterna, senza lanterna, dell'incuria dei cinici, lontana dal successo, attenta ad incamminarsi autarchica sulla strada del decesso. [Galata morente, 2010]
*
Pezzi di ricambio
Flessibilità, adesso, in un mondo tanto moderno d'esserne stanco morto, è ridursi a minuscoli, irrilevanti meccanismi senza valore, senza futuro, a cui è toccato in sorte una sorta di adattamento allo sfruttamento. Cosa costruiremo, collaborando, in via continuativa, senza cantare, senza ballare, senza creare? Per chi mi ama, non sono materiale di ricambio. Per i miei mici, non sono materiale di ricambio. Per le nuvole nere, non sono materiale di ricambio. Per i fiori affranti, non sono materiale di ricambio. Non sono un materiale di ricambio, né mi cambio, se mi manca il sorriso, se mi manca, uno slancio, se mi rubano l'anima, tra tassi d'interesse, rate mensili, bollette del telefono, né mi cambio, se mi serve un aiuto a rintracciarti, a rintracciarmi. [Mostri, 2009]
*
Strategie di mercato
Resisti nei tuoi anni scommessi a testa o croce (sei Gesù o Giovan Battista?), resisti nei cammini scivolosi, scoscesi della bufera, instabile blattoide cosmopolita sulla cresta del burrone. Resisti, e continua a camminare in bilico sui miei versi ad alto tasso etilico, nave da scorsa, continua a correre senza cadere mai nei vortici dei tuo bastardi eterni ritorni tra illusioni e porti catartici. Resisti, contro te stessa, contro te stesso, contro i mondi dalla testa immersa dentro a un cesso, contro divinità inibite contro i miti del dovere contro i sorrisi ipocriti di qualsiasi saltimbanco, nell'obiettivo sadico di riuscirti a vendere a minimi offerenti come rottame stanco. [Versi Introversi, 2008]
*
Mondo immondo
Mondo / immondo, non è ancora chiaro, ma mi sono infortunato a un dito, ho segnato, di rapina, senza attenuanti e sono capocannoniere, ho mangiato tagliata con rucola, forse, e certamente fuori casa, ballando techno terribile, commerciale, tribale, occhi verdi, allucinato, due apple's drink, sweet and sour, vodka, ora legale (illegale), in magazzino di corsa, carrellista marocchino infortunato, nessuna cicatrice artificiale carbonara, e cotoletta alla milanese, occhi verdi, niente cena. Poi, non ricordo, stamattina ufficio, inventario bancali, niente di finito, niente di infinito non ancora a casa, incazzato con occhi verdi, non è ancora chiaro. [Lame da rasoi, 2008]
*
Crumiro!
Protesto, contro i muri tristi d’una azienda in festa, contro le autoradio vendute a rate nei mercati sudici d’auto rubate, contro i miti istanti della televisione, contro chi vende se stesso a cifre d’occasione. Protesto, contro chi muore nella vita, contro chi vive nel lavoro, contro i cantanti stonati che si nascondono nel coro, contro i barboni assiderati nelle cantine dei seminari, contro i sorrisi stanchi dei suicidi tra gli occhi lucidi di due binari. Protesto, contro i deboli marchiati dai simboli anemici della sconfitta, contro divinità mimetizzate negli angoli scuri d’una soffitta, contro i trentenni managers che vanno a battone, contro innocenti macellati sotto scariche di cannone. Protesto, contro me stesso, orribile mostro, assorto, contorto, a versar vagoni d’inchiostro, in attesa d’un sogno indolore, senza tender davvero il braccio a chi, disarmato, sfida l’orrore. [Riserva indiana, 2007]
*
Distillatemi
Quando tra cent'anni sarò morto non vorrei trascorrere millenni indolenti in confezioni di zinco, angosciato in eterno, di non riuscire a dormir comodo, annoiato, senza dolci compagnie, dentro casse ad una piazza. Non desidera bruciare in forni comunali né a benzina, inquina!, né a metano, chi -come me- ha una pelle tanto delicata; non sarebbe spettacolo molto dignitoso un cadavere unto di crema abbronzante. Non buttatemi nel Lambro ché, nemmen ora, schizzinoso, m'aggrada di nuotare tra rottami, lavatrici, profilattici bucati, e pesci ratto. Non lanciatemi su Marte: anche da morto, vorrei continuare a dare fastidio con enorme gioia e senza rimorsi a nostra madre terra, ed ai suoi figliastri. Che fare, vacca malora, di una salma senza fissa dimora? Distillatemi, invero, e aggrappati alla vita, bevetevi un bicchiere (di grappa) alla mia salute, o, se preferite, alla mia faccia. [Underground, 2007]
*
Storie d’Italia a modulo continuo
Stacca una banda, staccane un’altra, modulo continuo da continua violenza d’essere modulato. Parlavi al diavolo la notte in cui hai ceduto di schianto, sotto centimetri sussultori di terremoto, traducendo in esperanto, di sermo humilis, sublimitàda Cristo incarnato, cadendo a terra, verso un inferno senza ritorno. Stacca una banda, staccane un’altra, modulo continuo da continua violenza, d’essere modulato da un Dio in vacanza. Lamentavi raffiche d’assoluzione davanti ai banchi d’un tribunale interessata a mettere all’asta la differenza tra bene e male, versando lacrime nei letti del Nilo dei tuoi decenni senza cambiamenti. Stacca una banda, staccane un’altra, modulo continuo da continua violenza, d’essere modulato da un Dio in vacanza, d’essere assediato da una moralità d’assenza. Ricordi d’aver varcato confini d’aziendali di colonne d’Ercole, non vedendo Canaria alcuna nelle iridi chiare delle tue canicole, schiudendo il viso alle frustate aspre d’ispidi morsi d’accorto aspide. Stacchiamo una banda, stacchiamone un’altra, moduli continui da continua violenza, d’essere modulati da un Dio in vacanza, d’essere assediati da una moralità d’assenza, sentendoci brocchi da corsa, destinati alla mattanza. [inedito, 2017]
*
All’osteria dell’amore solido
Piccolo amore mio, solido, tu, oggi, cadevi e io non c’ero, a sostenerti, coi miei bicipiti aggressivi di barbaro delle foreste del Nord, la faccia dipinta di azzurro, distesi nello spasmodico berserksgangr del bere dal cranio dei vinti, inizia tutto con un tremolio, il battere dei denti e una sensazione di freddo, rabbia immensa e desiderio di assalire il nemico. Piccolo amore mio, fragile, tu, oggi, cadevi, e c’è un’osteria dietro casa nostra, tutta brianzola, il tuo nuovo mondo, c’è un’osteria che serve cento e cento tipi di risotti da spalmare sulle tue ferite e sulle tue ginocchia sbucciate, dove io, uomo tassativo, riesco ancora ad interpretare ogni oscurità ambrata nei tuoi occhi da bimba saggia, a manipolare il caleidoscopio delle tue iridi, scoprendo, volontariamente, il fianco alla daga della tua artica lucidità. Se non è un’osteria, il nostro amore, ci assomiglia: mangiamo e viviamo, retribuendoci, a vicenda, vittorie e sconfitte, hôtellerie, viavaiamo e mangiamo, finché l’oste Godan, il dio dei «poeti» ostinati, sbattendo un boccale di idromele sul tavolo non ci inviti a danzare al Walhalla, Mocambo a contrario, danzare lontani, alla fine dei mondi, tu tornerai alla freschezza semplice del tuo mare, ondivaga Sirena caetana di sabbia, e a me non graverà sullo zinco la terra umida di nebbia della valle senza salite o discese. Nelle antiche osterie dell’amore solido continuano a mescere nebbia e acqua-di-mare, fuori temporaleggia, fulmini e tuoni, liquefatto dal nubifragio tutto si stinge, e noi, mangiamo e viviamo, viavaiamo e mangiamo, al riparo, nella nostra riserva di felicità, consapevoli che, restando sospesi nell’aria, a lungo andare, i cristalli di ghiaccio brumosi confluiranno nel mare. [Cherchez la troika, 2016]
*
Un cieco non sa spegnere la luce
L’abbiamo tutti chiaro, un cieco non sa spegnere la luce, tutti i ciechi del mondo non sanno spegnere la luce dell’arte, e, se anche fallisse ogni azienda elettrica, l’arte continuerebbe a brillare, rabbuiando i conti del supercapitalismo nomade. L’abbiamo tutti chiaro, un cieco non sa spegnere la luce, e, quando saremo incasellati nell’archivio di un cimitero, o, magari, nella comunità solidale di una fossa comune, il buio non smetterà di scintillare, anche con la semplice forza d’un lumino rosso bagnato dal vento e rattrappito dalla pioggia. L’abbiamo tutti chiaro, un cieco non sa spegnere la luce, anche quando saremo chiusi nel buio di un’urna o di una bara, uccisi dalla recessione, dal cancro, da un colpo di stato, da un colpo apoplettico l’artigiano non smetterà mai di battere sui tasti o di comunicare con microchips inseriti nel cervello, erede del sumero, dell’ittita, o del lineare B, non smetterà mai di darsi fuoco, accendendosi, contro la cecità di un mondo abitudinario. Quando Odino comanderà di farmi da parte, in modo scorbutico, essendo una divinità teutonica, avrò la soddisfazione di non aver contribuito a fare fallire l’azienda elettrica nazionale. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Pensieri dun condannato a vivere
Stamattina, è nata come nasce il cielo, col terrore dell'automobilista ferito ai bordi della strada, seduto, testa e fianchi tra le mani, ad implorare il camion che ha abbracciato, con la tristezza del barbone sorpreso curvo a camminar sui sassi del selciato. Mi son sentito cielo, e nuvola, satellite, mi son sentito abbraccio tra anime d'acciaio, mi son sentito cane, sobrio barbone, erratico viandante distante dalle case, dalle chiese, del paese. Stasera, è morta come muore il cielo, col dolore di non essere chiamato al banchetto dei ricordi, di non esser riciclato, con l'insolenza dello scrittore illuso, condannato a declamare, dicendo a Cesare ciò che è di Cesare, e addio, a un Dio da contraltare. Mi son sentito cielo, terra seccata al sole, stoico alla corte di beduini nomadi modello Morgan Stanley, mi son visto anestetico ai margini d'una esibizione d'arte, bovide marchiato a sangue sotto alle stanghe. Tra nato, e morto, senza conforto. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Tomba d’ignoto
Cadavere n.2, l’ombra dell’onda riflessa nella mia retina destra, mani serrate ad afferrar sabbie mediterranee indossate sotto bermuda rossi da surf. Cadavere n. 7, tentativi di urla smorzati alla bocca dello stomaco cartine da hashish di Marrakech nelle mie tasche, scarsi, i dirham, seminati tra borsello e calzoni, mi condussero in bocca all’abisso. Cadavere n. 12, «Eloì, Eloì, lemà sabactàni», non ricordo chi l’urlava a chi non essendo scritto nel Corano: anch’io sono morto invocandolo invano. Cadavere n. 18, ritirata sulle strade tra le dune di Misurata, in slalom assetato tra missili amici e nemici, e morire d’acqua. Cadavere n. 20, benché i nomadi, come me, ondeggino sulle navi del deserto, fluidità detonate, mai s’abitueranno ad annegare. Ogni tomba d’ignoto migrante sussurra che è duro abbracciare una morte che viene dal mare. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Intervista ad un morto ammazzato
Il comitato di redazione m’ha affidato un incarico strano correre, filosofo in bicicletta, lungo le piste ciclabili di Milano nella speranza di sottrarre all’anonimato l’intervista ad un morto ammazzato. Cercando il cadavere d’un bandito, la morte dell’uomo comune non è fatto gradito, mi rifugiai al fresco d’un deposito mortuario, interrogandone ogni misero affittuario, e mi imbattei nel disdicevole pallore delle incallite spoglie d’un rapinatore. «Perché sei morto ammazzato» chiesi al colpevole dell’antiestetico reato, «non sei riuscito a farla franca dopo la tua rapina in banca, finendo vittima d’una revolverata esplosa dalla guardia giurata?». «Più che l’effetto d’una ferita» narrò la salma risentita, «fu la coscienza d’aver subito furto che mi causò morte da infarto, essendo vittima dello spavento del rialzo dei tassi al 30%!» Chi, abituato ai miei versi, attendeva una storia indigesta troverà, in conclusione, una morale anticapitalista: l’intervista a un morto ammazzato, a volte, chiarisce tutto sulla difficoltà di distinguere tra vera vittima e vero farabutto. [Il Guastatore, 2012]
*
Shalom aleikhem
Ai margini della decenza, forse, del ricovero in una clinica di malattie mentali, discuto con te, desiderando ridiscutermi, bloccato da una crisi nera come i chemio-cobalti d'un vecchio su una sedia a rotelle, senza sconti, senza storni cui mirare, tremolando. Nella certezza di non essere eterni, di non avere mille anni, nemmeno cento, cazzo, davanti, o dietro, nelle certezza che, in un momento, i cieli smettano di tuonare, i mari di battere i marciapiedi delle città costiere, per noi, per noi, senza un avviso, senza un'intuizione di senso, non invidio i tuoi soldi, vita brillante, occasioni, macchine, successi. Ti invidio lei, desiderio assassinato sulla strada di Damasco, meretrice sublimata in una vita di studio e di ricerca, senza rimedio, senza attimi estorti d'esitazione. Ritornando alle macerie dei miei disastri, ribonucleari, di vita dura, di vita vera, combattendo, casa su casa, via su via, in difesa di chi soffre, shalom aleikhem. [Galata morente, 2010]
*
Gerard et Dorine (in memoriam André Gorz)
Prendo nella mia mano assassina d'anime scaltre, d'istinti vitali, la tua mano fredda, caduta nel silenzio senza affanno della notte, asfissiata dall'oblio del nostro amore, anni vissuti a rimirare i colori dell'arcobaleno, a urlare in faccia a cieli blu cobalto, a sognare mondi senza inverno nell'inferno del conflitto di classe. Prendo, nella mia mano tremante di rabbia, intrisa di modernità, la tua mano sorda ai miei richiami da cacciatore abbattuto, nel vederti sfiorire come un bonsai di carta vetrata, scarabocchiato da demenza senile, Alzheimer, si chiama, senza ricordi, senza destino, urlando sotto i tetti di cartone d'una casa di cura, d'un manicomio, muovendo i tuoi occhi dolci, azzurri, nel vuoto d'una mente sconfitta. Ma, io ti chiamerò amore, tra cent'anni, sdraiati insieme, ancora - è una vita!- su un vecchio letto sfatto nell'Aube francese, le tue mani stinte nelle mie, in cerca d'una boccata d'aria, del vento stanco del mattino, ancora una volta, fino alla fine. E, io ti chiamerò morte, insieme. [Mostri, 2009]
*
Asino di Buridano
Liminale, sdraiato sui due letti di Procuste dell'orribile modello americano, corro, nocchiere ubriaco tra barbone e sultano, vittime sacrificate di istruzioni scritte a bic sotto moti sussultori, mai rivoluzionari, indòtti da carrozzoni di stato sociale, malessere, e nuoto in alto mare. Disintegrato tra fieni del successo d'un azienda senza sesso, e biade del dolore nei miei versi senza ardore sfuggo l'uomo in uniforme, ingranaggio obbediente, tra i magli d'un dilemma insano da prigioniero impertinente. La mia ricetta medica, scritta a caratteri cirillici su stringati rotoli di carta igienica, senza assicurazione, investe l'uomo della strada contro l'insonnia non poco inerte della ragione. [Versi Introversi, 2008]
*
Sentinella
Poesia, ne basta una, in una serata triste, a fermar lo scorrere del fiume, una sola, una, a rendere immortali attimi di scarso interesse, vissuti come intere esistenze fuori dalla storia, chiusi in storie condannate ad esser frammento di mondi di carta, da tessera annonaria, intrisi nelle carni trafitte da chiodi di schiavi sulla via Salaria. Poesia, fermati a riflettere i nostri ritratti sulle lamine del sole, illuminando a intermittenza i mobili delle nostre camere oscure, ritira i nostri dadi dalla mischia, mischiando i nostri tiri, carabina alla mano, contro ciò che resta in cielo di dèi nominati invano. Questo è il massimo che riesco ad architettare alle 02.00 d'un venerdì mattina, rammentando, dal collare, d'esser uomo da sentina. [Lame da rasoi, 2008]
*
Il posto fisso
Generazione, quella in essere, insensibile equazione a più incognite d’ex co.co.co, etichettati, i nostri cuori, come merci da incandescenti codici a barre, e coartati a mentire a genitori ansiosi inattivi, ostracizzati da qualsiasi mondo, in ossessiva trattativa sulle nostre relazioni stabili o su miraggi di posto fisso. Non temete madri, schiave del boom anni ‘60, dei vostri divani e delle trasmissioni TV: avremo tutti, presto o troppo tardi, un posto fisso in comodato gratuito, trentennale, di tre metri cubi, e non dovremo preoccuparci di arredamento, pagare stupide bollette del gas o della luce, perché, nel nostro posto fisso, non ci sarà fuoco nei nostri occhi, non ci sarà luce sulle nostre ossa. La stabilità, allora nel nostro, vostro, posto fisso, sembrerà, a tutti noi, insostenibile, e non avrà, mai, inizio. [Riserva indiana, 2007]
*
Diogene
Filosofia è un uomo (incrocio tra Robin Williams e Braccio di Ferro) dalla camicia a scacchi verde e marrone e dalla barba rossa che, in pieno dibattito, si alzi e,aria sommessa di chi lavora in magazzini d'ogni genere, dica, con umiltà: «Perdoni il disturbo, sono interessato, ma non ho capito bene» e che pretenda, consapevole del vigore etico della sua camicia a scacchi, di trapiantare accademici sbarbati, ben nutriti, incravattati in cappi retorici di tradizioni autistiche, dai palcoscenici d'amplificazione ovattata della cultura targata assessorato a ruvide birrerie di periferia suburbana, senza nessun giorno di chiusura. [Underground, 2007]
*
Stornello della morte e della resurrezione
MORTE Il caro estinto fu discretissimo «poeta», l'indifferenza dei colleghi lo mutò in anacoreta, e, un brutto giorno, morì di noia, vacca troia. Non si scherza con gli artisti morti, impegnatevi a raddrizzare tutti i torti, che a far rizzare i loro lapis, ci riesce meglio il rigor mortis. RESURREZIONE Son risorto di giornata, senza far molta chiassata, non si addice ad un fantasma, cagionare troppo marasma. Se mi s’incazza Jahvè e mi trasforma in un bidè, mi condannerà, ohi!, misero mulo, a sedere, in eterno, alla destra di un culo? Purtroppo, sono stato cesso e fesso, nella vita antecedente, né bello né indefesso. Con la lingua ne so fare delle belle, senza esser senatrice cinquestelle. Amici cari, mi dispiace, resto cesso e fesso, non son mai stato bravo ad accettare il compromesso. Starò sempre in rivista? Lassateme cantare sto’ stornello, so' cojone, non ancora cojonello. Mi mancan otto gradi, ma di vista, per tramutà ‘n somaro in un artista. [inedito, 2017]
*
Il barbaro e la principessa
A te che osservi con i tuoi occhi di bistro i miei malumori mi disinneschi con un sorriso, mi neutralizzi con un amore duraturo come una Compact Fluorescent Lamp, diventando aeriforme, neon, argon, kripton, forse è il kripton a disattivare le mie smanie da Superman, e ti arrampichi sulla mia colonna vertebrale con zampine da gatta, dissuadendomi dall’ingurgitare, dal bere, dal rissare, dallo smettere di scrivere. Princeza romana, eu sou seu bárbaro, continuo a mettermi canottiere bianche nelle mutande nere a non lavare i piatti, a battere sui tasti, meglio che lavare i tasti e battere sui piatti, ti ho rapita in una scorreria sulle coste di Gaeta, facendomi incantare da te, Circe tardomoderna, capace di trasformare maiali in uomini, il cuore del maiale è uguale al cuore umano, tu sola l’hai capito, in vent’anni, con la tua spensieratezza insulinosa, con le tue insicurezze, con i tuoi crolli antemestruali, col tuo viso interrogativo, sempre in grado di spiazzarmi, mimo da piazza destinato a andare in piazza, senza rimpiazzarmi. Princeza romana, eu sou seu bárbaro, senza tuttavia riuscire a dedicarti Odi barbare, non sono attrezzato a odiare nessuno, o a mischiare metri, - che facciamo, mezzo metro?- meglio la mia attitudine a duellare, a rocambolare, mezzo Cyrano de Bergerac e mezzo Socrate, sono convinto che mi preferisci intero, e a lunga conservazione, non avendo la velleità della donna moderna di trasformare il proprio uomo in un coglione. [Cherchez la troika, 2016]
*
Dall’euro alla neuro
Sto ancora a battere sui tasti, in cerca di una rima telefonata, una rima che a volte viene, a volte rimane a letto, mai alletta, in certi casi allatta, vittima dell’amara guasconata, del farmi rimanere umile scrittoruncolo in bolletta. Dalla bolletta dell’acqua alla bolletta dell’elettricità da disoccupato sperimento la mancanza di celebrità, senza fame di fama, continuo ad ingrassare nessuna canna (del fucile), essendo un mero alternativo, esente dall’urgenza di rubare. Prima i caffè costavano 1.000£, e adesso 1€, cose, che a rifletterci, dovrebbero mandar tutti alla neuro, neurodeliranti in Stato neuro vegetativo, nipoti di uno stato che fatica ad essere in attivo, viviamo, giorno dopo giorno, in completa assuefazione del fatto d’esser mantenuti dalla precedente generazione, complice del dissesto, attraverso decenni d’urne accomandatarie, che, speriamo, non si trasformino a breve in urne cinerarie. Dall’euro alla neuro, in Deutschland (über alles) non succede, noi terroni d’Europa non abbiam diritto d’uscire dalla recessione accompagnati al baratro da una classe indiligente in malafede, essendo terre ricche d’acque, meritiamo solamente stagnazione. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
En cherchant
Ho cercato emozioni nei macelli comunali, correndo dietro a Pasifae dinoccolate nascoste sotto veli d’ombretto e di rossetto a buon mercato, ho cercato emozioni sul fondo della Gehenna, scartabellando tra dichiarazioni di morte e dichiarazioni d’assenza, nella fretta del nostro correre disumano verso un destino altrui. Ho cercato emozioni sulla suola dei sandali di beduini nomadi, trovando sabbia, terra, e ferite, che vi hanno aiutato a crescere, e ad avvizzire, ho cercato emozioni rovistando, con le mani, nei bidoni dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, senza cercare diamanti da svendere ai ricettatori di bigiotterie. E una sera di Settembre, mi ha trovato un’emozione della durata di un minuto, mi ha trovato immerso nelle strade di una Milano senza traffico, sottofondo ritmato di musica reggae, mi ha trovato, mi ha stanato: sereno, finalmente, ho riso. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
La strana coppia
Tutti i canali della televisione daranno notizia sensazionale bloccando l’intero mondo davanti a un video nell’attimo intenso dei telegiornale: in una cava della bassa Sassonia due reperti archeologici saranno trovati un uomo e una donna trattenuti nell’ambra nell’atto di dormir abbracciati. Lui, un metro e sessanta su carnagione scura, utensili d’osso e un’ascia, tratti somatici d’homo sapiens, brandelli di carne consunta da morte di stenti e dolore con tracce anatomiche da delirium tremens; lei, un metro e cinquanta su derma chiaro chiazzato di ocra ad uso funerario, un flauto, accanto alla mano sinistra, simile ai modelli di Divje Babe, energica donna Neanderthal tumulata in maniera maldestra. Il mondo moderno, malato d’identità razziale, s’infrangerà, allora, innanzi al dramma abituale del dolore di un uomo per la sepoltura d’una donna amata contro natura. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Versi inversi
Non cantiamo manti erbosi inumiditi da una fine nebbiolina mattutina, nei nostri versi inversi, stanno distese d’erba sintetica, ammorbate da fumi d’inquinamento. Non cantiamo colli ridenti riscaldati dal sole mite di mite autunno, nei nostri versi inversi, stanno massicci di rifiuti organici accatastati in mezzo a una strada. Le scale scendono sorprendendo tossici nell’atto di bucarsi, con l’indifferenza d’essere diversi, ai ritmi della musica scontata dei centri commerciali. Non cantiamo mari cristallini intenti a cullar barche col rollio dolce delle onde, nei nostri versi inversi stanno vasconi idrici da sistema antincendio, colmi di zanzare e melme. Non cantiamo bimbe vezzose indaffarate ad acconciar boccoli biondi, nei nostri versi inversi, stanno mignotte sbattute a battere ai margini degli agglomerati urbani. Scendiamo in Paradiso, aedo narciso: non fare baccano, ti tengo la mano. [Il Guastatore, 2012]
*
Pazienza
Pazienza, signori della corte, signore della morte, se nell’amore, nello stile, non son riuscito a uscire da labirinti d’idee contorte, se nella vita, esperienza mistica d’acrobata annegato, non son riuscito a rimanere a galla su tavole di cioccolato. Pazienza, signori della corte, signore del peccato, se a furia di tenervi al collo son rimasto impiccato, se nei miei momenti, scaltri d’indifferenza, non ho notato che morivate dentro. Pazienza. [Galata morente, 2010]
*
Myanmar
È una marcia, di monaci in rosso, sangue e incenso, sulle vie birmane al socialismo, sulle rive dorate dell'Irrawaddy, nei recessi della città dei re, nei meandri eroinomani delle foreste del Tenasserim, a chiamar vendetta sulle teste dei nuovi dinasti, a chiamare a raccolta i grandi spiriti rimasti. Bonzi, immersi in mari di benzina, incendiate i cuori di chi vi tende mano assassina, accendente i visi di chi non sente renitenza verso i sacri simboli della non violenza. Bonzi, nei vostri animi imbronciati da adolescenti, non ostracizzatevi in mistici risentimenti, annegate i vostri inni, i vostri battimani, nell'odio catartico di tutti i rancori umani. Rendete incandescenti i sogni anemici dei nostri uomini santi, abituati a trovar rifugio nei conventi, in fuga da un mondo di briganti. [Mostri, 2009]
*
Poeta incazzato
Pesta i pugni sul tavolo, poeta incazzato, deluso da un mondo che, indifferente, non t'ha mai sopportato; pesta i pugni sul tavolo, o picchiali sul grugno dei nemici, perché non ti interessa morir di fame, di cancro o di varici. Ulula alle stelle, vomita alla luna, idiota maledetto, i tuoi urli d'angoscia sian taglienti come morsi di stiletto; non abortire rabbia, dolore e aggressività nella tua anima straniera, che, invecchiando, troverà i tuoi déi riversi, immobili, agli angoli d'una scacchiera. Pesta i pugni sul tavolo, poeta incazzato, schifato da un mondo ipocrita, celebroleso, imballato con pacchetti di cenere lavica, e filo spinato. [Versi Introversi, 2008]
*
Tic tac tic
Tu, a correre, incerta, nella sera, rumore della tua angoscia, tic tac tic, dietro i frantumi della mia schiena, tic tac tic, come correvi, tuo batticuore, mio batticuore. Lontana, di cuore, scostata, come cucciolo di cane maltrattato, hai urlato, con titubanza, di fianco alla mia freddezza da cinico scadente, "Sei uno scemo!", senza rimestare nelle sabbie mobili del mio dolore, senza tenermi in mano come asso di cuori bastardi; e, io, non voltandomi indietro, continuando a camminare, continuando a disertare, t'ho cantato, ruvida nenia d'addio, come noi, baciati dalla malasorte, siamo soliti cantare alla vita, "Vaffanculo!". Ma stanotte, mano sul cuore, idee tirate in aria da un elastico, continuo a sentire tic tac tic, tic tac tic. [Lame da rasoi, 2008]
*
Umane transumanze
Le altitudini rarefatte d’affetti delle scalate anaerobiche a mani nude sulle nostre rocce aguzze, foglie di fico d’India di ferite auto-inferte, condite con succo d’aceto balsamico e ammoniaca, senza alleviare, allevano, in batterie intensive d’un metro scarso di diametro, lottizzabile, uomini come carburatori ingolfati, dall’odore acre d’olio e cervelli bruciati invano. Uomini come conchiglie coi sigilli alle porte, vuote di desideri pignorati da insensibili ufficiali giudiziari nel difficoltoso tentativo di ostacolare rapaci accessi abusivi. Uomini come cambiali tratte di schiavi, statue di cera, di sale di uranio arricchito nei duri momenti attuali, col collasso delle classi medie italiane. Uomini, come sale d’attesa affollate d’indifferenza, nei viaggi onirici di una divinità stanca, buttata a terra sulla sua valigia imbottita di rabbia e fiori di Bach. Uomini, come bozzoli d’insetti viscidi, sospesi tra sonno e sogni icarici, ai basculanti arrugginiti del garage d’un condominio perso ai margini della serenità. Non c’è scampo alla serrata rancida solitudine d’una vita in branco. [Riserva indiana, 2007]
*
Preghiera per un Dio senza angeli
Dio, contromano, su autostrade madide d'olio e di lacrime s'è scontrato con un camion carico di bestiame o di liquami tossici nella notte di un sabato sera. Dio troppo basso in cieli carichi di nuvole e di sogni infranti, ha impattato contro grattacieli pieni di uffici e di gabinetti, senza scale antincendio. Dio, affamato, lacero, in mari ruvidi d'ansia e rivendicazione esistenziale è annegato, gli occhi sbarrati, anelando a barconi colmi d'immigrati apolidi. Dio, emaciato dentro letti anonimi cloroformizzati da sudari asettici s'è strozzato ingoiando valium per dimenticare stadi terminali di qualsiasi tipo o natura, maligna. Dio è morto, e continua a morire ancora giorno dopo giorno, senza un attimo di riposo, quasi mai di morte naturale; e non sempre ci sono angeli a ricordargli d'esser stato vivo. [Underground, 2007]
*
Bronchopneumonia
Sei arrivata dalle oscure terre del freddo Est, riarse dai roghi luminosi di Jan Hus e di Jan Palach - mi ricordano il suono indistinto del tuo nome che non so ancora dire, che non so ancora urlare-, sei arrivata con una borsa piena delle mie fatiche di Ercole senza riuscire a scambiare i tuoi occhi coi miei occhi, senza riuscire a scioglierti sotto i colpi del sapore corrosivo del mio alito (la mia lingua taglia, erode, brucia). Alle anime gemelle non occorrono due anime, si scontrano come corpi nella concretezza della terra, si scontrano sulle bollette da pagare, sui conti in rosso, su vite in bilico, alle anime gemelle non occorrono due corpi attraverso cui scopare, rotolandosi voluttuosamente in letti madidi su cui restano impressi i segni delle catene, alle anime gemelle non occorrono due menti, alle anime gemelle non occorrono due cervelli, alle anime gemelle non occorrono due cuori. Sei volata via come la brezza del fantasma di un amore fragile lasciandomi il compito di rimettere insieme i cocci della nostra nuova lingua: italiano - english - český, in un threesome che, ragionevolmente, caratterizzerà la nostra storia, a fare i conti con il tuo timore di amare e la mia incapacità d’essere amato, a tossire, a vomitare sangue, a bruciare (due mesi?) d’una inarrestabile bronchopneumonia amorosa. Alle anime gemelle non occorre niente, bastano a se stesse, figurine doppie sovrapposte sull’album dei ricordi della vita, a mettere in rilievo un attimo brillante di felicità al tatto di un Dio che colleziona cadaveri e esperienze altrui, a Milano, a Karlsbad, o a Milansbad. [inedito, 2017]
*
Assalto ai forni
Panem et circensens si chiede all’artista contemporaneo, fare il buffone ai readings concede 15 minuti di successo estemporaneo, leggono chilometri di versi, scritti in mezz’ora, con atteggiamento scafato, declamerebbero anche versi in arabo se l’Isis instaurasse a Palermo un Califfato. Leggono, leggono, leggono, tutta farina del loro infinito sacco e noi, con la bavaglia, a subir sbrodolamenti da finire sotto scacco, la regina, annoiata, è indecisa se scopare il re od un cavallo, e il contemporaneo legge, legge, legge, senza concederci intervallo, senza concedersi intervallo, tra una boiata e un’altra, senza mai essere appagato deve menare a casa la michetta, ohi, da artista che vaneggia d’esser strapagato. [Cherchez la troika, 2016]
*
Decreto sulle emissioni massime consentite
La burocrazia, madre di ogni stato civile, senza civili smentite, ha finalmente emesso un nuovo decreto sul valore sociale dell’arte da lasciare in bella vista, in sede prefettizia, sotto lussuosi fermacarte, in materia d’emissioni artistiche massime consentite. La certezza è che qualsiasi forma d’arte sia fonte d’avvelenamento onde l’urgenza decretomaniaca di una inavvertita mitridatizzazione (della popolazione), ha condannato il senatore del Molise a un quarto d’ora di santa abnegazione, fino a scomodare i sonni sacri dei membri del nostro Parlamento. Si ordina il fallimento di tutte le case editrici di modeste dimensioni, di tutte le associazioni a scopo culturale, dei giornaletti di rione, caso mai, con la cultura, ci scappino rivoluzioni, l’ultimo exit-poll mostra che il mix tra Faletti e Fabio Volo conduce a sedizione. I nove senatori intervenuti al dibattito e alla votazione, hanno equivocato, con inattaccabile tempismo: verso l’arte l’italiano medio non ha nessuna vocazione, essendo destinato a morir di decretinismo. [M’è sfuggita un’altra occasione di tacere in rima, che l’amico Giorgio rimprovera rima telefonata - come a menare il Kant per l’aia-; non si addicono, effettivamente, tentativi di rocambolare, con ‘sto clima di correnti intercettazioni di Telecom Italia]. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Divieto di sosta
Passare da un mondo all'altro, da uno stato all'altro, fino alla liquidità, da un'emozione all'altra, da una tangenziale all'altra, umani transumanti, senza mai esser risucchiati dal buco nero della nostalgia di una sosta risolutiva, libera da una cesura netta tra noi e voi, tra me e te, tra vivi e morti. Nuovi nomadi invadono i centri nevralgici delle società di mercato, sudando sui tapis roulant dell'avventura low cost, inadatti a stare fermi, e, a ogni inetto sedentario, non resta che subire i miraggi violenti delle novelle orde indoeuropee, armate di mastercards e di nessun bagaglio, rafforzate dalla certezza della loro inafferrabilità. Gli abitatori dell'attimo divagano in un mondo senza fondamenta trascinando il resto dell'umanità, in catene, nella loro folle corsa. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Frammenti ossei
La scala a chiocciola, librata in mezzo ad una scia di monumenti funebri di superficie, conduce nel cuore delle terre nere - a Occidente, direbbe il saggio Ptahhotep- conduce all’archivio storico d’una intera città sommersa da centinaia d’anni di corone funebri, lento incedere di corteo, benedizioni bagnate di dolori attoniti. Come un archivio di ministero, debitamente incasellati: i morti. Morti, d’ogni età, d’ogni secolo, morti stoccati in nicchie d’un metro in corridoi senza tempo, a due dimensioni, città nella città, città sotto città, un carosello di fiori sbiaditi coccarde nere fine ottocento, ritratti velati di nebbia, conditi da un’atmosfera di noia mortale, nome dopo nome viso dopo viso muti racconti ammantati dal sudario dell’oblio. Vorrei (e mi ritrovo a scrivere «vorrei» in un testo dopo troppo tempo), essere burocrate da casellario dando un minuto di voce a ciascun concessionario: al bimbo morto, a un anno, nel ‘43 condannato a vestire in eterno da bebè; a un magistrato, baffi all’Umberto, costretto a vivere la morte, di fianco all’umile, magari ladro, scafato tecnico da cassaforte; ad una contegnosa docente di Liceo, deceduta nel ‘19, che mai arrivò a spiegare ai suoi mille e mille alunni come mai morirono di ferite o campi di concentramento in un ventennio speso a risiedere in un reggimento. Fuggito dal remoto avvenire risalendo di corsa la scala i monumenti funebri di superficie ci richiamano all’oggi, all’istante, o a un futuro meno distante. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Cadono le bombe
Guardando il cielo non ci siamo mai scontrati con l’angoscia di vedere aerei neri coprire ogni ombra azzurra o cadere bombe, simili ad acini d’uva sulle nostre tovaglie, sono immagini care ai nostri nonni, e ad altri milioni di individui al mondo, condannati a correre tra lingue di fuoco nell’incertezza quotidiana di non far ritorno, di alzarsi, di mattina, senza urgenza di tornare. Non ci tormentano visioni di carri armati insinuati nelle vie d’una città, a noi tocca fare a botte con spreads diversi, tra Bund e bande armate di banchieri, toccano lotte greco-romane, tra Atene e Roma, fanalini di coda dell’unione delle repubbliche liberiste europee, tocca combattere inflazione, nostra, e debiti, altrui, nella certezza quotidiana di dover fare ritorno, di alzarsi, ogni mattina, con l’urgenza di non tornare a mani vuote. Gli aerei nemici non affossano nella nebbia i cieli di Milano e noi ci consideriamo immortali, nei locali alla moda del Bicocca Village, non temiamo treni che ci deportino a Mauthausen, autorizzando, in silenzio assenso, svariate caste a deportare i nostri sogni in resorts a cinque stelle, vestiti alla moda, uguali tutti, tutti tatuati dal marchio della marca, immemori dei danni delle bombe cadute sulle banche. [Il Guastatore, 2012]
*
Non avvicinarsi, il cavallo morde
Passerei intere nottate davanti alla schermata di outlook, a rincorrer metafore nei recessi grotteschi di sorella metonimia, di sorella vita, mordendo polvere, anziché aspirarla, anziché annusarne a piene nari i fumi mefitici, chiuso in una stanza stretta, con venti secoli accatastati tra scrivania e carta vetrata, assaporando il gusto amaro della sconfitta, senza virare d'un metro, d'un metro. Il cavallo triste, brucando erba e radici d'anima, brucando odio nel suo recinto, avuto un sussulto, un richiamo d'orgoglio, diventò farfalla, ridendo in faccia ai vostri cuori malati di successo, di denaro, di carriera, e volò, via, nel cielo nero delle fiabe di mezzanotte, da dove non si torna. [Galata morente, 2010]
*
Donec ad metam
Cammino svelto, in solitudine, sulle strade deserte intinte nell'asfalto, lastricate dai bollori della carne, e dell'Inferno, incontrando, di tanto in tanto, i miei lineamenti, seduti, a meditare, lungo i bordi di una pietra ollare, incontrando, in rare occasioni, i vostri valori, sdraiati, volatili come locuste, lungo i bordi acuminati d'una sdaio di Procuste. E, vado di corsa, senza fermarmi, senza voltarmi, ad ascoltare i vostri urli da naufragio in alto mare, coll'espressione attonita d'un bambino senza divieti di sosta, con l'arroganza d'un magro vaglia ritirato in Posta; e, vado di corsa, in questi giorni di luna piena, aspettandomi pernacchie, lacrime sadiche, e pugnali nella schiena. [Mostri, 2009]
*
Braccato
Ma che mi viene in tasca, a rottamarmi tra uffici aziendali stanchi come statue di marmo, non contaminati dai virus della creatività, dai virus dell'urgenza d'un cambiamento umano? Ma che mi viene in mente, nel continuare a bivaccare in anticamere senz'anima, senza chiavi che tutelino i miei desideri intimi, o in aeroporti, dove nessun blocco di partenza arranchi i ritmi delle mie corse matte verso i cieli? Niente coraggio d'un salto nel vuoto, senza reti che attutiscano le mie cadute, tra le numerose reti che addormentano i miei ansiti di libertà. [Versi Introversi, 2008]
*
Silenzio!
È di moda, nella società alla moda, un crudele ritorno d'analfabetismo dei managers in carriera, dei carrieristi, braccianti del successo, senza interessi veri verso chi soffre, verso chi è estromesso. Questo analfabetismo, strisciante, da titolo di studio, da titolo di credito, d'uomini d'oro servi del savoir faire, mentori del laissez faire, che sanno, sanno analizzare teoremi, stendere reports, vincere cause, curare virus, senza minimi, storici, d'umanità, nell'oblio totale dei morti, a tutti i costi. Vuoti, a rendere, a rendita fondiaria, assecondati dall'incultura dell'elettricista, del lattoniere, del barista, del salumiere, del sacerdote e della battona, in cerca di serenità sfitte da disinteresse. Questi, i nuovi analfabeti, umanità tutta soldi senza sostanza, a servizio del niente o del noi. Non hanno occhi, nessun tatto, orecchi chiusi. Le bocche? Parlano di morte. [Lame da rasoi, 2008]
*
Niente da dire
Non mi interessa trasmettervi emozioni creare mondi rianimare i vostri cuori in defibrillazione, non mi interessa scuotere i vostri torpori masochisti da gregge di anime stanche, castelli di sabbia imbrigliati nei morsi desertici d’un io sovrano, annichilito da contrasti interni, vassalli ribelli, cariche urbane di menti in tenuta antisommossa. Non mi interessa dar colore ai muri intristiti dal bianco delle vostre case o incendiar d’ardore le ore sorde dei vostri inverni: non ho niente da raccontare. I miei versi asimmetrici da scimmia urlatrice chiusa in una gabbia di Faraday mirano a scaricare a terra tensioni nevrotiche, annacquare inferni strettamente personali, o, qualche volta, insidiare vergini con misogini mazzi d’ortiche. Non ho, davvero, molto da dire, se non intingo originali sturacessi nel calamaio dei miei reconditi recessi. [Riserva indiana, 2007]
*
Gli incubi, a volte, sognano
Notti senza sonno a battere su tasti di tastiere, sporche, e con poca anima; giorni vissuti dormendo senza inseguire chimere senza costruire mondi su misura senza salvare suicidi da inferni smemorati. Presto arriveremo a dimenticare la differenza tra notte e giorno: allora sarà un incubo smettere di sognare. [Underground, 2007]
*
Jana went to Prague
Jana went to Prague chiudendo a chiave in un cassetto tutta la dolcezza dei suoi cristalli di bohèmienne, si sente in trappola, chiusa fuori da ogni gabbia, e, rimanendo alla finestra, abbracciata alle sbarre, osserva incuriosita la confortevolezza della non libertà. Jana went to Prague mettendo nella sua borsa tutti i suoi dipinti, le sue idee, la sua interpretazione triste della ferinità brutale di ogni maschio, inchiodato sulla carta, condannato, come mero organo, a suonare nelle chiese durante i funerali, a trasportare l'inaffidabilità dei propri ormoni come macigni di Tantalo. Jana went to Prague col cuore scoraggiato dalla noia della solitudine, dimenticando il coraggio di noi free spirits nel resistere alle svendite o ai saldi di emozione, moderando i nostri istinti alla soddisfazione, tiene stretti nelle sue mani d'artigiana, fredde come sanno essere fredde le mani delle ragazze di Karlovy Vary, i disegni di un drago, i segni degli incisivi dell'amore di sua figlia incastonati, come fosse ambra, nella dura plastica di un sex-toy. Jana went to Prague con il suo sorriso da diamante smarrito in un giardino a mettere in discussione il suo indiscutibile valore davanti a un bicchiere di vino e di imbarazzo, l'imbarazzo angosciato di noi dirty persons, quando cerchiamo di rateizzare le nostre schiavitù, affidandoci alle braccia di chi ci mostra scarso interesse. Jana è andata a Praga, e non so se tornerà, inebriandomi ancora col sapore del suo sorriso con la contagiosità del suo profumo, con l'entusiasmo della sua pelle, Jana è andata a Praga, e io sarò lì, con lei. [inedito, 2017]
*
Pane al pane
Pane e mortadella contengono zaini e borse dell’arte «neon»-avanguardista alcuni gruppuscoli di scrittuscoli romani darebbero ar popolo brioches, non ci arrivano che i versi suonan cavi se non son limati da una fresatrice Bosch e che i testi lisciati con la lima delle unghie non convincono neanche l’estetista, nel gruppuscolo romano sono tutti maestri dell’estetica, estetisti ante litteram, l’etica dell’est, tutti a nominare, a sproposito, Osip Ėmil’evič Mandel’štam. Er popolo ci chiede «pane ar pane», testi energici, che dormano all’addiaccio se voleva immagini avrebbe hackerato tutti i film di Milly D’Abbraccio, «pane al pane» o «pene al pene» al barista all’angolo non fa differenza i gagà ottuagenari che scrivono che non si capisce niente creano danni o indifferenza alla strategia della democrazia lirica, una lira all’etto, con la D’Abbraccio a letto, che con Moana la mano tesa ai lettori almeno sappiam dove la metto. Questo gruppuscolo di scrittuscoli romani che sta a copiar Tranströmer ama metter traduzione in testo a fronte col sostegno di scafati copywriter discutono, tra loro, di cose che non interessano a nessuno, facendo dell’arte un sodalizio, senza intuire lontamente che da Nessuno subiranno sanzione, sì, d’Odissea nell’Ospizio. [Cherchez la troika, 2016]
*
Il signore dell’anello
Non so, allo stato delle cose, «uno stato che non riesce a stare fermo – mi insegni coi tuoi sguardi adulti, interrogativi- che stato è?», se avrò l’onore di non impazzire in mezzo alle grida della battaglia, se sarò ancora in grado di abbracciarti quando sognerai di inghiottire cicche finte, se avrò sempre la forza di trasfigurare in voce i tuoi disperati silenzi, se sarò vivo, vivace, come vuoi tu, anche superati i quarant’anni. Allo stato delle cose c’è un anellino di nebbia, che miro e rimiro, sul mio anulare sinistro, forse sarà l’effetto dell’alternanza notturna tra cocktails e delorazepam, c’è un anellino di nebbia rubato al banchetto delle caramelle, dove eri tutta intenta a fare incetta di cuori di gelatina gommosa da nascondere nell’armadio a oltrepassare l’inverno, e nessuno s’è accorto che ne ho rubato uno, nessuno che lo indosso, che di tanto in tanto ne succhio la circonferenza, sa di fragola, e mi frena le lacrime, e mi frena la convinzione di non avere futuro, no future, insomma, mi hai conosciuto che ero un punk, un cinico, senza cresta. Se avrò l’onore di non impazzire in mezzo alle grida della battaglia, se sarò ancora in grado di accarezzarti quando ti svegli a notte fonda, e mi trovi a scrivere, a leggere, o a inventare chissàchetipo di nuova follia, se basterà il contatto della mia mano a farti da Daparox, se saremo ancora vivi, vivaci, superata quest’infinita recessione, ci basterà fondere oro e nebbia, conservare un cuore di gelatina gommosa, e avere un unico anulare sinistro, signore di ogni anello. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
L’annegato
Menestrelli di canzoni antiche i nostri nonni camminarono senza sosta tra edicole di Madonne e tappe della loro lineare biografia, macinando centinaia di chilometri sulle carriere dell’antemoderno, maltrattati dalle fatiche, nell’intera loro vi(t)a Francigena, dalla culla alla tomba orientate da cartelli indicatori fabbricati in materiale indistruttibile in grado di dare senso a una stanchezza senza fine. Vittime dell’esplosione di un costante boom tecnologico, i successivi abitatori del moderno hanno marciato in auto, addestrati a rispettare i segnali e ogni forma d’autorità, disciplinandosi a svoltare a sinistra o a destra e a fermarsi ai semafori, comodamente seduti su interni in serie, viziati, dalla culla alla tomba, da uno stato sociale vittima dell’implosione di un boom economico costante. Noi, costretti a nuotare tra le onde dell’oltremoderno, tra i riflussi fluidi di una eternità flessibile, sviluppiamo attitudini e ansie di chi sia circondato dall’acqua, fuori da ogni carriera, fuori da ogni autostrada, alternando a vigorose bracciate il sistema di «fare il morto», spinti a una resistenza immotivata dal terrore di annegare. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Canzone dei due neonati morti
I battiti del tuo cuore anestetizzati dalla densità del liquido amniotico non sanno trovare una via d’uscita, non sanno trovare i battiti d’un altro cuore, annegando in cerca del conforto d’un dialogo con un neonato morto. Chiami tuo fratello, tuo fratello dovrebbe essere nello strano vocabolario dei neonati vivi, e intanto sogni di vivere una vita da sogno, non diverrai un minatore delle miniere della Saar, né un venditore di automobili, non diverrai un logistico, né un meccanico, o un sacerdote. Chiami tuo fratello, oggetto estraneo d’affetto fino all’infezione che da giorni ha smesso di sognare, scandendo una ninna nanna, rubandola alla voce che ti batte in testa, attraverso il cordone ombelicale, mentalizzando, con tutto l’amore di un neonato condannato a morte, la voce dolce che ti canterà una nenia dinnanzi a un’anonima stele tombale. Cullato da un silenzio irreale ti addormenti, attendendomi, fratello, nel limbo dei neonati morti. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Kundera ti ha resa immortale?
Perché, Kundera ti ha resa immortale diversamente da come ti renderanno immortale alzarti ogni mattina al freddo indifferente delle 05.30, correre, nodo alla gola, tra le braccia di un amore, affittar le setole ai tergicristalli di un’utilitaria acquistata a rate, dribblare la morte seduta, da sola, al tavolo di un ristorante cinese, cambiar batterie ad un vibratore, tre velocità d’uso, dar croccantini al cane, al gatto, alla scimmia o a un fidanzato, urlare che sei stanca di una vita senz’arte o di un’arte senza vita? La letteratura non rende immortali, e, a volte, ammorba mortalmente i mortali di noia da vita. Perché, Kundera ti ha resa immortale diversamente da come ti renderanno immortale sei mesi infiniti di speranze chemioterapiche, l’aver fissato nel cuore occhi di bimbo in attesa, scarabocchiare inutili versi bevendo vodke siberiane, le lacrime soffocate nella nostalgia di Karlsbad, scegliere il rossetto adatto da baciare, attraversare le sbarre abbassate di un passaggio a livello, maledire la tua bellezza in cambio di sguardi sinceri? Nesmrtelnost è affrontare i pugni dei destini degli spreads è immigrare stipati come bestie su camions frigoriferi è scavare i fossi dei condannati a morte è lavorar nei call centers con una laurea in lingua morta è commettere abigeato su esseri umani riuniti in branco è buttar bombe carta su topi da biblioteca, to je nesmrtelnost. Kundera ti ha resa immortale? [Il Guastatore, 2012]
*
Cammino solo
Preferisco camminar solo nelle intemperie dell’esistenza, cuore e mani congelati, steso, sul fondo di una vasca, da bagno, come cubetto di ghiaccio in bicchiere di vodka liscia, mosca avvolta nella tela d’ebbro ragno. Preferisco camminare, camminare, e camminar solo, nei reconditi cubicoli della piramide sociale, in cerca di uno spazio, tutto mio, che non consista nello starci seduto in punta – ché fa male!- come capita a molti, troppo spesso, in vite che ci scivolano via senza versare dazio. Preferisco camminar solo, lungo strade pavimentate di denti rotti, sotto tormente di neve, sotto tormente di navi senza rotta, abbandonate, nell’interstizio dei confini di città sbrecciate, senza dolori di stomaco, o di sedere, nelle mie notti infuocate da pompiere. E, un assolo di solitudine, si staglia su cieli tersi come cocci di bottiglia, messi a difesa delle vertiginose altezze delle nostre anime, per difenderci dagli incubi, per difendere gli incubi da noi. [Galata morente, 2010]
*
Resistendo, mordo
Benché nella mia vita, attuale, nolente, senta decisivi / incisivi, netti richiami a trasfigurarmi, come studioso, come soldato, come artista, colorando i miei cento volti di cenere, dolore e marasmi d'acni cistiche, resto immerso, senza toccare, in certezze della necessità d'un'iniziativa tua, mia, nostra, dell'umanità intera. Avrà valore? Perché darvi valore? L'urgenza, in un mondo moderno divertito a viverci, a dilatarsi con l'invadenza di madri ansiose, a disarcionarci, come cavallo imbizzarrito davanti ad umili Nietzsche, è resistere, resistere nella dignità decorosa del ringhiare d'un randagio ferito, senza certezze, senza successi, senza carezze, ai collari della resa, alle catene d'un sentirsi accettati, alle abbondanti ciotole dello svendersi ai vincitori. Questo, è il senso dell'accordo: "resistendo, mordo". [Mostri, 2009]
*
Spari allUniversita (15/06/2003)
Università Statale di Milano, Università di Teheran. Noi in attesa di una laurea, di un dottorato, di essere sminuzzati dai tritacarne aziendali; voi, in attesa di botte, bastonate, di torture, nelle stanze oscure della rivoluzione. Chino sui miei studi, vivo nella mia camera, con un desiderio matto di conoscere, con un desiderio matto che il vostro conoscere non sia fermato. Noi, in attesa di un lavoro, in maniera acritica; voi, in attesa di un futuro, in cui ogni critica abbia voce, attenti a non addormentarvi, a non morire, stasera. Noi circondati, da mille, mille e mille, mille titoli di studio, mille euro di salario, mille chilometri sulla strada di una buona carriera; voi, circondati, stasera, circondati e basta. Noi, professori e assistenti incatenati alle cattedre; voi, Professori e Assistenti incatenati con voi, sotto, dietro alle cattedre. Noi, rintanati nei nostri bar, nelle discoteche, domani esame di economia, di diritto o storia romana, contenti d'un 24; voi, nascosti sotto i vostri letti, domani esami duri davanti ai vostri tribunali, contenti che non vi tocchi un 28, senza condizionale. Noi, seduti nelle nostre macchine, a discutere di art.18, desiderando d'essere in vacanza, morendo dal caldo; voi, insultati, in lacrime, massacrati di botte, morendo e basta. Ebbene, merde di universitari dell'Università Statale di Milano pensate alle vostre macchine, alle vostre lauree, alle vostre carriere. ai vostri soldi, ai vostri bei vestiti, ai vostri muscoli, ai vostri cervelli uccisi da raffiche di televisione, ai vostri dvd, ai libri di Grisham e alle canzoni di Max Pezzali. Mentre a Teheran nascosti sotto i loro letti e nei loro scantinati muoiono, o costruiscono democrazie. Io vi sento vicini, Università di Teheran, vi sono vicino. [Versi Introversi, 2008]
*
Sobrietá palindroma
Poche idee, ruvide, nella mia testa svuotata dei ritmici rumori di tamburi da combattimento, continuano a sfidarsi, le une le altre, a duello, con scaramantica diffidenza, continuano a sfilarsi borselli, e borse d'oro, defilandosi, man mano, sulla strada che dalle nebbie va a sbocciare nell'Oceano Indiano. Forze sfiancate si affiancano, a due a due, senza affrancarsi dal ricatto d'essere uomo d'affari, uomo d'inferi, a metter dieci millilitri di Xanax, sobrietà palindroma, nell'ansia del verso, colmata coi miei versi, sottraendomi entusiasmi in certe serate tristi d'ambìti stentati chiasmi, in notti strambe, insensate come disegni di bimbi attaccati su abuliche vetrate. La stanchezza, individuo nobilitato dalla mobilità, mi rincorre, ed io, seduto, attendo. [Lame da rasoi, 2008]
*
Teste di legno
Se non ci foste, se voi non foste fantasmi arroccati negli anfratti dei sogni metallici di carri armati, sarei scoiattolo addormentato nel vento imboscato nei boschi intontiti di verde -divieto di caccia!-della serenità. Se non ci foste, se voi non foste, torri d’avorio nelle profondità doloranti d’un bicchiere di collutorio, sarei bolla d’aria iniettata d’odio e di sangue nelle vene del tossico, in cerca catartica d’eroi, d’eroina. Se non ci foste, se voi non foste treni senza binario stelle comete imprigionate nelle strette maglie d’un lucernario, sarei elettrodo incastonato nelle corone d’amianto di condannati alla sedia elettrica, incatenati, in attesa, nel braccio della vita, corrente. Per noi, teste di legno, burattini tosti in recite tristi, seghe mentali senza imbarazzo sono, aldilà d’ogni dubbio, più pericolose che per le tante teste di cazzo. [Riserva indiana, 2007]
*
Preghiera a Madama Morte
Madama Morte non abbracciare il cuore madido di un uomo brutto, innamòrati dei belli, affascinata dall'abitudine di non esser mai stata rifiutata. Madama Morte non abbracciare i desideri strabici di menti folli, ma rincorri, senza requiem, i "nella norma", in modo tale che chi è inautentico non dorma. Madama Morte non abbracciare gli occhi umidi dello sconfitto, e invita a danze macabre i potenti, condannando ghigni sclerotici musi beffardi a guidare, nella nebbia, a fari spenti. Madama Morte non abbracciare gli abiti lisi dei senza casa, dei senza lavoro, costringi i milionari ad acquistare, a suon di assegni circolari, le più lussuose ed eleganti pietre tombali. Madama Morte non mi abbracciare; bionde, rosse, more alte o basse, mi piaccion tutte - è vero- ma dalle vecchie, per ora, resto restio a farmi toccare. [Underground, 2007]
*
Se i versi non protestano
Se i versi non protestano sulla natura delle accise dell’Itaglia tasse su tasse, contro natura, faremo la fine del Brexit della Gran Bretagna con la benzina alle stelle dovremmo battere in canotto in senso inverso la via extra-comunitaria e, ahimé!, saremo noi costretti davvero, ad invadere di nuovo la Tripolitania. Se i versi non protestano sulla natura dei condoni ante costruisco in modo illecito e post mi trovo una villa a sette piani, come se Biancaneve mangiasse la mela e, da morta, conoscesse i sette nani, valuteremo cento giorni a pecora meglio che un giorno da leoni. Se i versi non protestano sulla natura dei referenda abrogandi con affluenza alle urne minore del giorno d’Ognissanti, - ogni referendum è stato abrogato dall’intervento delle due camere di lestofanti- dovremo implorare l’importazione svizzera di un referendum destitutivo di 945 delinquenti. Se i versi non protestano sulla natura al parking Italia di milioni d’extra-comunitari ci troveremo, tra dieci anni, con l’incremento di 60.000.000 di cittadini americani, e, a Milano, Firenze, e Roma, con 200.000.000 di rifugiati asiatici e africani, il Presidente americano sarà un avvocato di Matera e il Papa un beduino del Kalahari. Se i versi non protestano sulla natura delle acque dei mari di Taranto e Crotone straziate dalle fumate cancerogene dell’iper-capitale, faremo una gran festa, aperta a tutti, all’ospedale, invitando l’80% degli abitanti del nostro avvelenato Meridione. Se i versi non protestano sulla natura delle chiappe di Belen, interesse mediatico con audience alle stelle e conseguente fusione dell’auditel, l’aumento del desiderio avrà una contrazione tipo yen, e saremo costretti a urlare «siamo stati stronzi» a 10.000 decibel. Se i versi non protestano, mi sento un Titanic in una lotta titanica, morso da una biro bic senza l’antitetanica, arrugginisco di punta, la punta dell’iceberg, a secco di inchiostro come un distributore della Erg. [inedito, 2017]
*
La doppia lingua
La doppia lingua non è un organo da bestiario serve ogni giorno al tipico critico letterario: se non hai due lingue, dai forti talenti ondulatori, non avrai opportunità, non appena cambi il direttore editoriale Mondadori, di leccar sederi, recuperando il tempo dell’esilio causa òstrakon di cera (c’era?), e, colla doppia lingua, di risparmiare i soldi dell’inserzione sul Corriere della Sera. La doppia lingua è un organo di utilità marginale all’aumentare del consumo di un sedere, la serietà non sale, dispensatrice di «giudizi critici» oggettivi, a naso, ricorda il caso di un artista che, da amico, era sovrano del Parnaso, dopo un litigio si è trasformato in animale. Questa è la bellezza immune del mestiere del critico letterario, aver la doppia lingua rende, su ogni cosa, dissacrante e turiferario. Intellettuale controcorrente, svelto a dedicar salmoni al massimo offerente, immune da ogni critica, non immune dall’essere immuno-deficiente a furia di scambiar siringhe di formalina contro ogni reazione irriverente, consolida la doppia lingua, incassando un tot. d’assegni di reputazione al mese nella speranza di riuscire, dopo anni di italiano anonimato, a diventar svedese. Perché la doppia lingua, a forza di mulinare, t’abbia finalmente annichilito il frigno, abbia neutralizzato il mantra «nessuno mi commenta», «nessuno mi rammenta», t’abbia dato, quasi ottuagenario, i tuoi quindici minuti di celebrità col ballo della lontra, è dovuto intervenire addirittura il Chelsea di Mourinho. [Cherchez la troika, 2016]
*
E ognuno applaudirà
Ridendo di non esserci sarò in mille città orso uscito dal letargo, mostrando mille volti e mentendo cento identità, senza che vi rendiate conto di non subire affronti da attore consumato, consunto dallo iato d’un io esente da indulti. Ridendo di non esserci, scacciatomi di scena nell’ansia d’aver Giuda maitre d’ultima cena, eroderete mesi stordendovi d’incensi, come chierici in chiesa in vani attimi d’attesa, con l’ansia di immolarmi a platee di controsensi. Ma io non ci sarò nelle sale di lettura, mascelle chiuse, strette in odor di contrattura. Non v’accoglierò, menestrello, alla ribalta, lontano dalla nostalgia d’un pubblico che ascolta. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Baby losers
Baby losers, abbiamo nome, in marcia verso futuri fluiti da un mix bizzarro d’acidi e melassa, chiamati a difendere la terra, con l’unica arma della volatilità del turista nomade, nei deserti dei centri distributivi, nella viscosità di ricatti emotivi elevati a norma. Perdenti, etichettati come scatole di tonno, non ci fermiamo un attimo a riflettere i bagliori dell’autodafé dei nostri roghi, a saldare, con fiamme ossidriche, i rubinetti dei nostri nasi. Corre, il mondo, corre, arrivando dopo ogni umano cambiamento, senza concederci di capire di non essere mai in testa, doppiati doppioni appollaiati sui finti alberi della cuccagna d’una civiltà vestita a festa. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Con le tue ultime forze
Con le tue ultime forze hai buttato il cuore oltre l'ostacolo una disperata spinta, la tua mano di nonna intarsiata da rivoli di venette azzurre su una carrozzina indifesa davanti alle ruote motrici del camion. Pensavi a milioni di flashback, al desiderio di morire sola, è raro che un uomo ambisca a finire in solitudine estrema, morire da sola, ninnando canzoni d'amore nello spazio di cinque secondi a chi, incosciente della tua morte, affidavi tutta te stessa. Le ruote di un camion non mostrano alcuna clemenza verso i canti di nonna, e la carrozzina muta, dinnanzi a un lenzuolo steso sull'asfalto, non ha fatto notizia. [Scarti di magazzino, 2013]
*
I funerali della morte
Ho una nuova migliore amica: madama Morte, non chiede niente di tanto eccessivo tranne che vivere una notte intera tra le sue braccia, non chiede niente di così smodato tranne che stare, in silenzio, davanti ai suoi occhi scarni, senza discutere della sua falce. Non chiedo niente, a madama Morte, amica di corse sfrenate verso l’inferno, calore di mattini freddi, tranne che restar nuda dentro le piaghe della mia alcova, tranne che star cauta, con le mani ossute, nelle sue carezze alle mie cicatrici. Fai testamento, amica Morte, inserendo un codicillo coi miei versi, cosicché essi si conservino, e si tramandino, da erede a erede, contro l’intensità dei venti avversi. [Il Guastatore, 2012]
*
Etilometri
Non c’è delirio di onnipotenza, non c’è biglietto da pagare, salato, per assistere a queste serate stordite dai fumi dell’alcol, Sangria e Grand Marnier, da torrenti di cazzate, dette, ridette, e ripetute all’inverosimile, senza che io ci creda, senza che nessuno ci creda, mentre le belle ragazze, adolescenti con facce da troia, corpi efebici da modella, siedono tutte ad altri tavoli, davanti a noi, smemori di Lorca, di Evtushenko, del sarcasmo iberico di Marziale, immemori di non essere niente, ruote di scorta dell’esistenza. Ma, io, continuo a scrivere, nella certezza che vivrò, in eterno, all’ombra delle mie scemenze metriche, nella speranza d’essere goccia di Valium versata nel bicchiere d’un universo stanco, facendovi dimenticare bellezza, amore, piacere, ricordandovi d’essere polvere, sì, ma non polvere bianca. Ma, io, continuo a scrivere, a volte, in maniera meccanica, a volte, con sordida emozione, tenendo il cuore in un bicchiere saldo nella mano destra, l’altra sulla coscia d’ineffabile bagascia, sbarrando i vostri occhi, con stuzzicadenti, e ubriacandovi d’angoscia. [Galata morente, 2010]
*
Business plan
Nella mia vita, nella vita vostra, moltissimi costi, rari benefici. Molti: rifiuti di chi non ama, esclusioni da escursione termica, attribuzione ad altri di meriti tuoi, tumori, disfatte, sensazioni d'asfissia, e mal di denti. Pochi: adesioni incondizionate, sentimenti vibranti, mici da coccolare, amore. Potrei dirvi, in altri termini, che vivere vi costa molto, sotto assedio, abbracciati e vinti, costretti a nascere, curiosi di cosa vi riserverà un futuro buttato nella lotta, aiutando chi intristisce, scudieri di sensibilità e cervello, condivisioni sfortunate. Potrei dirvi, un mare di cazzate, sulle vostre vite da lumache corazzate. Vorrei esser scudo di chi si sente male, lancia nel costato di chi si non s'è voltato a vedere un Cristo nudo, massacrato di botte, senza dover essere un nuovo Don Chisciotte; vorrei esser Sancho, rifiutato, e sconcio, deluso, brutto - dannazione!-, con nel ventre rabbia e umiliazione, dallo scudo rotto, senza una bilancia, per poter mettere costi a destra, e benefici nella pancia. [Mostri, 2009]
*
Riformatorio
Non cercate chicche stilistiche negli anfratti dei miei versi, immersi, dispersi in umori carsici, senza carezze, che rinfrangan mondi diversi. Non cercate rime stabili, odori a ritmo di sardana, mistica arcana, non mi servono trucchi, ombretti per vestirmi da puttana. Poeti nuovi, colletti bianchi, io, reo confesso d'esametri scianchi, mi muovo a disagio nel vostro mortorio, stanco di correzioni da riformatorio. [Versi Introversi, 2008]
*
Bacco dannato
Preso nella rete del boia, nelle fauci della chimera affronto, a muso duro, da mastino rabbioso i vortici d'una vita senza vertici, - in attesa di diventare quadro, da inchiodare ai muri dell'azienda-, e non mi interessa salire in cattedra, inebriandomi dell'incenso d'ostiche cattedrali, frate circense ammaestratore di maiali. E attaccando a scrivere, ascrivendo schiamazzi metrici a salite stitiche, senza sostituirmi, ridendo, a Simone di Cirene - ci tramandò Basilide!- mi libero, a forza di surrene, dai vani sogni abulici d'una crisalide. E continuando a scrivere, Bacco dannato, Bacco d'annata imbottigliato nel traffico d'inferno della mia memoria dissennata, fitte alla bocca dello stomaco, bloccasterzo allo sterno, resto in attesa di somministrarmi un farmaco che mi renda immune dallo scherno riservato alle verginità rubate nei motel delle mie cento anime disadattate. [Lame da rasoi, 2008]
*
Le quote rosa
Dopo le chiacchiere, ridondanti, di decine di, a detta loro, artiste, scappa il proposito di importare dalla Svizzera un referendum d’altra natura non come l’inutile sulle trivellazioni che mi indirizzerebbe a battute maschiliste, un referendum in grado di imporre lo 0,045% di quote rosa alla letteratura. Prendiamo ad esempio una scrittrice, a detta sua, la Policane, scrive, tipo il labrador del mio ex-zio, boiate degne delle migliori veline democristiane, lamenta sempre di sopravvivere in condizioni miserande sarà il motivo del suo apparire, dappertutto, in selfie senza mutande? Poi, dico io, ne esistono di giornaliste freelance flessibili dotate di microcefalie, che, a forza di camminare con tette e culi in costante esibizione, abituate a flettersi con inflessibile orgoglio sopra divani e sotto scrivanie, esibiscono articoli e rime dotate d’alte dosi d’analfabetizzazione, scambiando un reiterato abuso dell’anal con l’uso delle anàfore nella speranza di sfilare dalle pagine dell’Unità a una camera da letto d’Arcore. Queste nuove generazioni di intel(lett)uali malate d’alitosi, accorte a farsi strada succhiando cazzi al ritmo di Bela Lugosi, non si offendano se ovunque le definiscono col termine «mignotte»: magari è il momento di abbassar la testa, sui libri, e di alzare le culotte. [inedito, 2017]
*
Nazar Gul
Poeta afghano canta storie d’un mondo con consistenza di bomba a mano, dimentica, inch’allah, il terrore negli occhi di tuo figlio, vittima d’una insana sari’a, dimentica al ritmo del tuo dohl spezzato ansia e dolore che, ieri, nella notte, sotto un uragano di sassi assassini t’han raffreddato il cuore. Poeta italiano dalle tue celle umide da frate francescano non lavar via, mai, moderno donchisciotte le lacrime di chi, sotto silenzio, muore nella notte. [Riserva indiana, 2007]
*
I morti di fame stanno nelle accademie
Non mi resta che brindare, ai maneggioni d’ogni risma (di carta A4), brindare ai docenti universitari di sociologia del diritto che ti costringono a elemosinare 45€, chiedendoli a ripetizione, loro con le ripetizioni ci campano, campano coi libri sovvenzionati dall’università, e venduti ai frequentanti e non, eppure – dicono- non riescono a tirare alla fine del mese, alla faccia del disoccupato, del cassintegrato, del vario tipo di esodato, che, almeno una volta nella vita, hanno davvero lavorato, senza trascorrere intere giornate a leccar sederi nei corridoi, fingendo di stampare volumi, facciate di isbn, in vista dei concorsi, a racimolare raccomandazioni, a brigare con le commissioni, in Italia le commissioni d’inchiesta arrivano sempre tardi a rompere i coglioni. Non mi resta che brindare, coi soldi del sussidio, otto enfatici mesi contro tredici anni di contributi versati, alla faccia dei filiifamiliae mantenuti dieci anni a fare, nell’ordine sacrale: studenti, cultori della materia, dottori di ricerca, ricercatori con bustarella, docenti associati (a delinquere), e, infine, docenti ordinari, fascia 1, fascia 2, fascia 3, l’Italia, terrona d’Europa, si sfascia, loro si fasciano, neo-fascisti ossia fascisti in fasce, di corone d’alloro, minacciano, rimbrottano, correggono, dimentichi dell’abolizione di ogni ius corrigendi e ius primae noctis (con le ragazzette somare che studiano da giornalista e sognano da velina), l’idraulico di loro se ne frega, l’elettricista di loro se ne frega, il macellaio di loro se ne frega, di loro se ne fregano tutti, inclusi carabinieri, finanza e ufficio delle entrate. Non mi resta che brindare, alle cattedre regalate a vita a chi spende un’intera esistenza inutile, a discutere di interpretazione autentica della Corte Costituzionale. L’inutilità delle loro esistenze sarà il nostro massimo, ontologico, successo. [Cherchez la troika, 2016]
*
Vate vobis
Vate vobis, finalmente è arrivato il vostro turno di a] tirare avanti l’ingranaggio della catena di montaggio, b] fondare case editrici, riviste, rigorosamente a vostre spese, c] sudare, come maiali, sull’organizzazione di antologie e volumi collettivi, d] ricercare di fare seria ricerca, e] inventare testi battendo tristi tasti di tastiere toste. Vate vobis, è venuto il regno della dissoluzione di ogni forma poetica, fiat lux et fiat facta est in stabilimentum Thermae Himerae, or Tychy (Poland), or Sterlingh Heights (Michigan), è il momento dell’ortolano, avanguardista del rafano, di tentar la metrica, la metrica all’amatriciana del ristoratore, vincitore del concorso di Trescore, o l’endecasillabo sdrucciolo di vaselina, distintivo dell’artista ragazzina. Vate vobis, siamo in democrazia, la lirica a due lire, lo stile è in svendita a chiunque abbia una stilo, il medesimo Giovanni lo stilita ci ha insegnato che cagare dall’alto di una colonna (di rivista o di giornale?) non è peccato, essendo addirittura requisito di santità dell’oggetto defecato. Vate vobis, non incito alla cultura codina del circolo ristretto, che restringe l’accoglienza culturale a muri di lazzaretto, è che, le avanguardie, tutte e mille, hanno avuto unanime sentore ch’è il momento esatto, adesso, di strappare la casalinga di Voghera alla sua telenovela, gli scambisti di San Salvatore alla loro (meritata) orgia con tre uomini di colore, o il sacerdote di Masera ai vespri della sera, senza rilevare sociologicamente, facendosi un minimo di mazzo, se a costoro dell’impresa artistica interessi un cazzo. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Stelle comete
Non si deve vivere in eterno vicino, o lontano, ai nostri fallimenti; per questo si sparisce, e per questo si riappare, stelle comete mai inseguite, e, mai cercate in dolcissimi, angoscianti, disimpegni; o amori così coglioni da non morire mai, così testardi da bussare ancora, così coraggiosi da gridare tutto a squarciagola. Piccola sofferenza insicura, swarovski fragile, non è detto che restarti sempre vicino voglia dire restarti vicino sempre. [Underground, 2007]
*
Cccp
Cantando le lettere italiane dei morti di fama, spremute dalla carica d’elefanti, d’Annibale, a Zama, le balle mi mulinano vorticosamente in centro all’Elicona, dieci minuti di successo trasformano una monaca in battona. Cianciate, idioti, sui blog, sui siti, sulle riviste online confusionarie nessuno pagherà mai le vostre tre minchiate semi-letterarie, la microeditoria socialista è CCCP: «col cazzo che paghiamo» coi soldi nostri la velleità del vostro libertarismo narcisistico freudiano. Noi del comitato di programmazione quinquennale dei costi abbiamo deciso di mettervi all’indice come scafati ecclesiasti, il vip dello star system letterario si vende e deve essere fucilato dal miliziano dell’arte neon-avanguardista allergico a ogni forma di mercato. Decreto n. odin emesso, vox populi, dalla sede centrale del sacro comitato: se fai cultura retribuito sei un mestierante e vai sfanculato, devi essere trattato come tutti coloro che svolgono un mestiere nessuna libertà di dire, fare, baciare e tanti calci nel sedere. Decreto n. dva emesso, vox populi, dalla sede centrale del sacro comitato: abolito il diritto d’autore e il vocabolo stesso, «autore», condannato alla damnatio memoriae del lettore, animale in via d’estinzione, coatto a subordinare la testa a trattamenti di circoncisione. Decreto n. tri emesso, vox populi, dalla sede centrale del sacro comitato: se il «pubblico» è diventato «privato» non va vezzeggiato, nel secolo del tardo-moderno immaginario l’ignoranza è una dote e il lettore medio è intossicato dai sonniferi peggio di Truman Capote. Per scrivere in rima bisogna esser poeti avere, di norma, almeno due didietri, e il dono della doppialingua critica: leccare i famosi e farsi leccare dalla massa stitica. [inedito, 2017]
*
La ballata di Peggy e Pedro
La ballata di Peggy e Pedro è latrata dai punkabbestia di Ponte Garibaldi, con un misto d’odio e disperazione, insegnandoci, intimi nessi tra geometria ed amore, ad amare come fossimo matematici circondati da cani randagi. Peggy eri ubriaca, stato d’animo normale, nelle baraccopoli lungo l’alveo del Tevere, e l’alcool, nelle sere d’Agosto, non riscalda, obnubilando ogni senso in sogni annichilenti, trasformando ogni frase biascicata in fucilate nella schiena contro corazze disciolte dalla calura estiva. Sdraiata sui bordi del muraglione del ponte, tra i drop out della Roma città aperta, apristi il tuo cuore all’insulto gratuito di Pedro, tuo amante, e, basculandoti, cadesti nel vuoto, disegnando traiettorie gravitazionali dal cielo al cemento. Pedro, non eri ubriaco, ad un giorno di distanza, non eri ubriaco, stato d’animo anormale, nelle baraccopoli lungo l’alveo del Tevere, o nelle serate vuote della movida milanese, essendo intento a spiegare a cani e barboni una curiosa lezione di geometria non euclidea. Salito sui bordi del muraglione del ponte, nell’indifferenza abulica dei tuoi scolari distratti, saltasti, in cerca della stessa traiettoria d’amore, dello stesso tragitto fatale alla tua Peggy, atterrando, sul cemento, nello stesso istante. I punkabbestia di Ponte Garibaldi, sgomberati dall’autorità locale, diffonderanno in ogni baraccopoli del mondo la lezione surreale imperniata sulla sbalorditiva idea che l’amore sia un affare di geometria non euclidea. [Cherchez la troika, 2016]
*
Penso che all’inferno si parli inglese
L’importante è iscriversi a un corso d’inglese, conversare in un inglese impeccabile, anche se non si ha niente da dire, soprattutto se non si ha niente da dire, arrivare a non aver niente da dire è un must di ogni nazione civile. L’inglese è indispensabile, è l’idioma della Lehman Brothers, dell’alta finanza che naviga su internet, nel cyberspace, senza inglese non si trova lavoro, non padroneggiare l’inglese è un disdoro, il macellaio si intristisce a colloquio con la mucca Highlander, il meccanico non comprende il senso delle Goodyear, l’impiegato d’un’azienda galvanica, con baricentro tra Renate e Carate Brianza, si smarrisce a far bolle in brianzolo con l’inglese che avanza. L’importante è iscriversi a un corso d’inglese, e non sia un corso di còrso, all’inglese l’imperatore Napoleone non avrebbe mai fatto ricorso, english is the language of future, benché, a noi, generazione no future, non serva l’inglese, ma serva soccorso. Glocalizzati, novelli servi della gleba, incatenati al territorio, coviamo la funesta sensazione che l’italiano ci accompagni all’obitorio, senza dovere mai rimpiangere di aver sprecato denari, in corsi, insegnanti, lezioni e dizionari, perché, abituati a spingerci al massimo fino a Varese, abbiam la certezza che all’inferno, almeno, si parli inglese. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Spero di incontrarti in una giornata di sole
(in memoriam Simone Cattaneo) Per me, nei battiti affievoliti dall'eco d'una vita ormai succinta, la crisi è stata definitiva, nodo di non ritorno dalle lande dei fantasmi, la crisi è stata definitiva. La cassa integrazione scolorisce, scoloriscono i fallimenti bancari, il crollo della borsa scolorisce, scoloriscono i tassi di interesse nelle terre dove tutto scolora, dove sono diventato buio, a brancolar nell'ombra tra i cavi dei lumini elettrici e briciole feretrali. La crisi è stata definitiva, vittima di un io carnefice feritosi sui cocci dei miei denti aguzzi, m'affretto verso tenebre tetre, smettendo di raccontare i margini, mai rimarginati, delle ecchimosi dell'uomo. Spero di incontrarvi, in una giornata di sole. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Cocktail Molotov
«Riempire una bottiglia di benzina» [Mi nutro di vita] «Avvolgere uno straccio attorno al collo della bottiglia» [Penso ad una soluzione] «Bagnare di benzina lo straccio» [Chiamo: nessuna risposta] «Accendere l’innesco» [L’animo indignato si infiamma] «Spaccare la bottiglia tra le mani» [La morte dell’artigianato] Le istruzioni, viviamo ormai senza cartine, sono impresse a sangue negli ostraka ateniesi, o su vasi dozzinali etruschi, sui muri dei bordelli di Pompei, o negli intonaci delle celle di esicasti bizantini, sulle lettere di cambio dei mercanti veneziani, o nelle trincee della Grande Guerra, tramandandosi / tramandandoci di era in era, di millennio in millennio, dai cantastorie aedici ai contastorie cibernetici, e continuano a ustionar l’(in)umano, comburente e combustibile allo stesso tempo, consumandolo nelle fiamme dell’incendio, inesauribile, dell’arte, che brucia, spegnendoti, senza mai spegnersi. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Carmina non dant damen
La storia di una moneta non interessa a nessuno due facce mai tanto ardite da vedersi in faccia: su un lato impressa l’effigie d’una regina, austera, drappeggiata di sete e assetata di drappi, sull’altra l’immagine di un menestrello, vestito d’un manto di terra, circonfuso dall’aurea tristezza dei canti di guerra. L’incanto d’amore si trasforma in moneta due mani, sistemata con cura e artigiana, si stringon le mani, e due visi, due occhi meteci si sporgono dai rilievi del rame, tenendosi vivi, abbracciati, sospesi nel vuoto, l’uno a osservare l’amenità di un reame dove corrono liberi i fiumi, sorridono i fiori, rivestito di boschi e di frutti in eterno, l’altra a guardare l’inferno. La mia arte è impotente a lanciare incantesimi tanto influenti da tener senza tempo sospesi nel vuoto due volti, mescolando in fucina i due mondi in un unico mondo in cui menestrello e austera regina si armonizzino a fondo. Menestrello, continua a cantare il tuo inutile canto col cuore spezzato, in attesa che frammenti di lacrime si rimettano in circolo nel sangue d’un amore smezzato. [Carmina non dant damen, 2012]
*
Penelope
Ti chiedo scusa - cantore d'un amore fuori luogo, fuori tempo- di non esser mai riuscito a non dirti d'esser pazzo, di non esser mai riuscito a dirti d'esser pazzo; conscio che i miei versi non risuonino nelle tue orecchie, certo che i miei inferni, di cristallo, non scintillino nelle morene dei tuoi occhi, ti viaggio a distanza siderale, assiderata stella senza massa, Penelope in attesa d'un Ulisse immersa nella danza a ritmi di calipso, e tu, nuda sulla soglia della camera da letto, non attendi i miei ritorni, assaltando acquitrini, come fossero mari. [Galata morente, 2010]
*
Malocchio
Guardando travi, travi di rovere, mentre tutti ballano, mentre tutti ridono, mentre tutti scrivono, immerso in un dolore che non dimentica i nostri trascorsi da belve umane, nascondo i miei salici in camere oscure, nell'attesa di cuccioli che mi mordano i sandali, nell'attesa oziosa di te, inventata dalle carte di una chiromante ubriaca, nell'attesa oziosa di me, invenzione subdola d'un mondo sudicio, artista scialacquatore, artista sciacquone. Guardando travi, nelle tempeste della vita, messo in ginocchio, senza trovare pagliuzze d'oro dentro le notti buie di Malocchio. [Mostri, 2009]
*
Tristezze
La mia tristezza non è tristezza vera, ha consistenza atomica d'istrionica chimera, mezza cornuta, mezza felina, e mezza velenosa, come viperide assassina; è coscienza, un po' etica, d'aver voce di tuono in sale d'incisione votate all'abbandono, è amore, appassionato, per dolore e verità, sotto tavoli nascosti ammanniti a sazietà. La mia tristezza non è tristezza vera, ma saetta scintillante nel candore della sera. [Versi Introversi, 2008]
*
Dal fondo del burrone
Dal fondo del burrone rimiro i mille cieli d'azzurro fiume, rimiro i mille soli afferrati con le mani, ferite da ossa rotte, terrore di non riuscire a volare via dalla notte oscura, da madama morte. Dal fondo del burrone, ti chiamo, Madre, ti chiamo, mamma, nell'angoscia, io, occhi vitrei dal dolore, cranio fracassato, di non riuscire a far smettere i trilli del mio cellulare, di non riuscire a far cessare i trilli di questo mio cuore. Dal fondo del burrone, ti chiamo, Padre, uomo di cultura immensa - a cosa m'è servita, mentre cadevo, uccidendomi- ricordando di te, diviso tra Herbart, e i miei trofei della "Canottieri Alto Sebino", mentre cadevo, senza riaffiorare, senza una boccata d'aria. Dal fondo del burrone continuo a rimirare neri arcobaleni, ma non sono solo. [Lame da rasoi, 2008]
*
Rose bollenti
Dai vostri scranni di tribunale e dalle cattedre, dalle vostre sedie smaltate in teak da uomini d’oro dell’alta, media o bassa finanza, dai vostri pulpiti ricoperti d’argentei sacri paramenti i vostri cuori dormono, i vostri occhi dormono inspiegabilmente in mezzo al rumore infernale, metallico di ingranaggi inceppati, fegati ingolfati, gazze sbeccate. Mi chiedo, -dove siete?- se ci derubano più volte, e più volte ancora d’ogni speranza, d’ogni coscienza, nei viali stretti, pieni di buche, dell’esistenza. Mi chiedo, -dove siete?- se ci massacrano nella monotonia metodica d’uffici amministrativi o, se ci irretiscono nell’asfissia catodica d’amori irriflessivi. Mi chiedo, -ma dove siete-? Ora, lo so. Nascosti, dietro a scrivanie cariche di carte e di equazioni, voi, vivete, impenitenti, dimentichi di chi osi non calzare guanti d’amianto per strozzar rose bollenti. [Riserva indiana, 2007]
*
Giorni come rasoi e notti come nuvole
Giorni come rasoi movimentando merci senza valore movimentando umani, cani clonati, in cerca di ossa da mordere, e di polvere, da mordere. Giorni come rasoi in inferni di latta, e di cemento armato perduti tra rabbia, rancori, odio tra anonimi danni collaterali dei nuovi schiavi di un boom economico auspicato. Giorni come rasoi in centri che distribuiscono, non sempre in parti uguali, angoscia, disperazione, desideri frustrati, risate, amori banali, molto o poco zucchero nei bicchieri di caffè. Giorni come rasoi, notti come nuvole bianche in una sera d'estate ad Assisi; e i miei gatti, seduti sopra un libro aperto, vivo, miagolano voci di morti, che, da altrove, narrano sogni. [Underground, 2007]
*
Gli alieni, i cormorani e te
Fare discorsi assurdi alle 04.00 di mattina nel tentativo di scovare se ancora esista, in Italia, un vero romanziere e non sentire inutile il discorso? La gens umana è condannata all’estinzione, ogni forma di romanzo, o d’arte, è condannata all’estinzione, mi restano immagini di insipidi cormorani svedesi, speranza nell’esistenza degli alieni, e te. Il mio stile, mostruoso - mi sono costretto ad abbandonare la rima- è tentativo di concretizzare una nuova langue aliena, in modo che i nostri dialoghi oltrepassino lo spazio non si estinguano con la morte dell’homo sapiens sapiens, il tuo sorriso d’ambra non si spenga al deflagrare importuno di Helios. Gli alieni arriveranno a salvare i versi, di me, homo insipiens, sbattendosene il cazzo di cormorani svedesi, di albatri francesi, di asini italici, si divertiranno coi nostri discorsi delle 04.00 del mattino, ai tuoi sorrisi, ricorderanno noi, salvandoci dall’estinzione di massa, salvandoci dalla cultura di massa, noi alieni alla contemporaneità. Gli alieni, alla fine, ci comprenderanno, noi, alieni dalla fame di successo, e la memoria, come fossimo Greci in default, testimonierà una vita intera, e la memoria non ci spazzerà via dall’Alzheimer dell’universo. Stasera scrivo ermetico, er metico de li mortacci, tanto i miei versi non raggiungeranno mai anima viva. Confido nella follia di un filologo alieno, di un allegro demiurgo, che, smascherati i miei lazziscazzi da Panurgo, su una nave spaziale guidata da schiere di veltri ci resusciti, senza il deus ex machina d’angeli e sepolcri. [inedito, 2017]
*
In vino vanitas
Pur avendo il desiderio che i miei versi ricevano assegni da 100.000 euro sono artista abbastanza scafato da non esser sequestrato dalla neuro, a sentire i «colleghi» casciaball, che collegano endecasillabi e sette nari, servirebbe un naso d’oro a aspirar la polvere fattasi sulle loro raccolte coi grandi editori, tutti sono sfiancati, decine e decine d’opportunità, vittime disperate di un contratto «colossale» e festeggiano su Facebook l’uscita di due minchiate scritte in rima sul Giornale Parrocchiale. Che dire del maggior esperto di cinema, mondiale, del domani, il classico uomo Trivial Pursuit che al bar sa tutto sui film americani, si occupa nella vita reale, con scarsa velleità da dilettante, di titoli, borse, import-export, come massima argomentazione cita a memoria la Gazzetta dello Sport, ora che ha messo su famiglia vedrei opportuno che citasse l’etica dei Promessi Sposi se è vero che la moglie, in gioventù, ha onorato il mondo con più succhiate di Bela Lugosi. Pur avendo assistito, il 19/03/2016, al reading della Giornata mondiale della Poesia il mio cervello in loop non mi traghetta minimamente l’idea di una giornata buttata via, in fondo, anche a un noto e affascinante magnate della televisione han concesso l’onore di operare alla Casa di Riposo di Cesano Boscone, a me, umile menestrello, senza arresti domiciliari e senza inganni m’è toccato assistere alla recita dell’ospizio di Sesto San Giovanni. Che dire dell’anziano critico letterario che si auto-definisce un ciabattino, danno collaterale del conservar bottiglioni vuoti su un angolo del lavandino, forse il suo obiettivo artistico sarà aprir nel Lazio una nuova vetreria o sbarcare in America col biglietto da visita di una nuova antologia, imperniata sul criterio di valutazione del binomio amico / nemico à la Carl Schmitt, ciabattino, chiudi la ciabatta, o ci costringi ad effettuarti un salutare retrofit. «Pur avendo» e «che dire» sono termini da bandire dalla loggia dell’Atelier l’ubriaco è scusato dall’abuso di vocaboli che non san di sommelier, in fondo in fondo, se non mi salva la Bacchelli, il mio futuro sta alla Caritas dove mi aggirerò molesto, da delirio di riforma, con in bocca l’aforisma in vino vanitas. [Cherchez la troika, 2016]
*
Il gatto di Keats
Nelle lande brumose del romanticismo inglese c’era il gatto di Keats, il gatto di Keats a dare all’arte speranza di eterno ritorno e all’artista sensazione di tornare all’eterno, lontano dalle inquietudini, tutte terrene, delle bollette, delle fatture da emettere a fine mese, dello stipendio da incassare, dal far quadrare i conti accontentando i quadri (aziendali). Nelle case londinesi impregnate d’etica vittoriana c’era il gatto di Keats, si accoccolava sulle gambe di chi scriveva versi, senza scappare, tendeva agguati ai sogni e alle farfalle azzurre, a viole e a fate, sussurrando, ad ogni carezza, miaulii d’immortalità a uomini che morivano di niente: tisi, influenza e tubercolosi, malnutrizione, sifilide, stenti, battaglie e inverni freddi. Ci vorrebbe ancora il gatto di Keats: i gatti tardo-moderni sperimentano cosmetici e farmaci, hanno aghi infilati nelle splendide iridi verde lacustre, e, impegnati a frugare in sacchetti di innaturali croccantini, a diventare obesi come l’homo consumens, non si preoccupano di incalzare topi da biblioteca, non si curano della grandezza durevole dell’arte o dell’artista. C’era il gatto di Keats, allora, specie oramai estinta, e noi, abbandonati alla disperazione dell’istante, giochiamo a foggiarci felini, sinuosi e flessibili, timorosi di tutto ciò che è liquido: amore, vita, paura, fingendo di avere milioni di vite, e sprecandone una. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
I miei versi hanno titoli difficili
La dimensione narcisistica dell’ego spiazza ogni tentativo di scendere in piazza schizza ogni abbozzo di mistico schizzo condannando l’artista all’impiego, salario fisso, a far da torcia, lungo la via Salaria votandosi a mendicare voti, di casa editrice in rivista, insinua la mania di esaurire un’inusitata collezione di bollini di presenza da incollare a una tessera annonaria. Il maestro A consiglia maggiore stringatezza, il maestro B non teme vincoli d’estensione il maestro C inneggia a maggior levigatezza il maestro D chiede abrasione, e, in mezzo, l’autore junior a barattare illibatezza contro un warholiano quarto d’ora d’attenzione. Scrivi sulle città in fiamme, no, canta della società annacquata, oh, infiamma di sesso i versi, ehi, versati acqua nelle mutande, metti su fogli bianchi A4 il contrario di ciò che ti chiedono i critici o una critica di ciò che ti chiedono i contrari, accetta l’omaggio di tutti, tutti sono maestri di tutto. Tu resta, a vita, l’allievo d’un sogno distrutto. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Villanoviano
Prima di vedermi sdraiato, nel mio sonno senza fine, sotto i riflettori della modernità, fenomeno da baraccone del teatro della morte, del teatro della cultura, camminavo all’ombra delle mie valli, tra Verrucchio e Castelfranco, camminavo, e ridevo, camminavo e vivevo. Prima di vedermi accucciato come feto in una nicchia di museo, nudo ai vostri occhi indiscreti, reperto archeologico, catalogato dalle vostre manie di schedatura, camminavo al fresco dei miei mattini non ancora etruschi, camminavo, e ridevo, ammirando i monti. Ma adesso che m’avete messo sotto chiave, vi scruto dalla mia strana tomba, vuota di dèi celesti o vittime sacrificali, studiarmi, carichi di catene, e rido, a non vedervi camminare, e rido, a non vedervi vivere. [Scarti di magazzino, 2013]
*
La furia nera del rottweiler
Ferocia e violenza arrivano all’ombra della notte, ti scattano dentro senza farsi annunciare, corrono sui muri imbrattati d’ira, di sudore, corrono in silenzio, e correndo, come bradi bufali tutto istinto, troncano cuori o teste, sradicano amicizie e amori, stralciando il conforto di decidere se ingabbiare il tempo, o esserne ingabbiati. La furia nera del rottweiler è in me, io che soffro di chi dorme in strada, mi commuovo alle lacrime del lutto, alle urla della madre che ha smarrito un bimbo, redigendo documenti word a nome di chi assapora la sconfitta. La rabbia cieca del rottweiler è in me La furia nera del rottweiler è in me, dandomi occasione d’essere fragile, in balia d’una conferma di lettura attesa, e attesa, macerandomi nei solchi scavati da dolore e sofferenza, contraccambio di un minuto in cui trionfino sensi d’indocilità. Il destino di tutti noi, rottweiler, è d’essere ammansiti o addormentati, dopo una vita alla catena dei miti sociali dell’aggressività, e non c’è rimedio ai nostri momenti di follia, se non render l’intera nostra vita folle. [Il Guastatore, 2012]
*
C.e.
Unione di menti, dementi, addestrate a sbraitare odiosi comandi, carcerieri bloccati a istruzioni da terza media, camminerete avanti, e indietro, indietro, e avanti, consumando i selciati dei vostri sudici esercizi, di addizione / sottrazione, con tasche farcite di soldi raccolti con insulsi espedienti inizio anni novanta, con creste sulle croste di michette salate, non avrete voci da cantori, non avrete nessun ruolo nella storia dell’homo abilis. Presi a rubare 10 € dalle cassette delle offerte di chi mendica fidelity all’uscio delle vostre attività, sarete ingannati dalla malversazione d’avidi distributori, continuando a sbraitare odiosi comandi, sentendovi vette del mondo, non sentendo invettive, - bruto chi legge-, camminerete, camminerete, indietro, e avanti, racchiusi nella boccia di neve sintetica delle vostre esistenze. [Carmina non dant damen, 2012]
*
Rivendicati
Rivendìcati, negli abissi asfittici delle mie naufraghe ossessioni, nei miei versi diuretici, solidi senza vertici, bolidi senza spigoli, carne da impiccagioni sotto inferni deittici. Rivendìcati, rivendicami, imbarcàti sulla caoticità d'una anonima zattera trovata a monte dell'Acheronte, nella rottura della lettera d'un io di rottura, scalfitura sulle note asincrone della mia partitura. Poesia, res vindicata tra me, e voi, figli d'una società malata, resta lì, nel mezzo, non ti spostare dalla strada che dai venti sbocca al mare, resta salda tra gli scrosci da nubifragio di questo mondo intontito dal naufragio. [Galata morente, 2010]
*
Cera bollente
Barando, nelle anticamere oziose del mio horror vacui, nelle giornate da uomo esausto, corro, sbilenco, a nutrir ragni nella mia ventiquattrore, coltivando ragnatele d'edera, mani d'artrite e fitte di cuore. Dalla Milano da bere, mi disinnesco astemio, naso nascosto alle risate, ritmate col sedere, d'un mondo chiuso in manicomio; non c'è moda indotta da madre televisione che mi bruci il cranio come albino sotto solleone, nessun consiglio per gli acquisti m'ha handicappato le cervella tranne quello, molto accattivante, di scoparmi una modella. Bluffando, senza assi nella manica, o nelle mutande, m'accendo, nella vita, a mani giunte, come un cero, dalle immagini contorte, acceso alla nostalgia di menti morte. [Mostri, 2009]
*
Nella mia anima
C'è un dolore sottile nella mia anima nell'anima di tutti c'è un dolore sottile che si insinua strisciante, come un vicolo irretito dalla notte, nella mia anima, nella tana dell'orso, nel nido del corvo, nella borsa dell'idraulico, nell'indifferenza del ricco, nelle corone di fiori lasciate a marcire nelle celle degli obitori. C'è un dolore sottile, nella mia anima, malinconico, insofferente ai sorrisi, alle carezze, compagno di vita, compagno di strada, compagno di sbronze, nelle corse sui monti, nelle immersioni nei mari, nelle escursioni tra nuvole e chicchi di grandine. C'è un dolore sottile, nella mia anima, costante, irriverente, simile al vostro: centinaia di dolori sottili, insistenti cambieranno un mondo retto da pareti di chiodi, e stuzzicadenti. [Versi Introversi, 2008]
*
Paranoia mortale
Parlami, madre televisione, dimmi cosa devo fare dimmi dove andare, culla me, re extraterrestre, sovrano intronato d'un mondo disciolto nel bicarbonato, restio a non sentirmi abbastanza uomo da esser roccia, innamorato della mia immagine riflessa nello scarico della doccia. Parlami, madre televisione, dimmi cosa sono - sono divino, io, sono eterno- o finirò a bruciare come carta straccia tra le fiamme dell’amico inferno? Nessun diavolo mi canta dolci nenie nelle orecchie, questa sera, le mie lacrime avendo toccato il fondo dell'acquasantiera. Parlami, madre televisione, non ti ingannare, non sono sordo!-, ma, chiuso nel mio mondo, mentre mi mondo, ti mordo, bardato come un bardo, schizzato di buca, in buca, seduto su una palla da biliardo. [Lame da rasoi, 2008]
*
Non riesco a scegliere
In tutta sincerità non riesco, ancora, a scegliere tra dare l’impressione d’essere incapace, negligente, o semplicemente inconsistente come un fantasma suicida, morto di abnegazione negli abbacinanti mesi di tormento consortile. Fai bene a non contare su di me, onnipotente divinità aziendale; non sono un cespite, un bene o una merce tanto comoda da inventariare. [Riserva indiana, 2007]
*
Nelloscurità di queste celle
Incatenateci ad una scrivania, modello Ikea, tombale buco nero attento a sbiadire interessi, uccider coscienze, e impantanar discorsi d'una certa, vitale, sensatezza. Lasciateci senza amore o con amori ubriachi, molto flessibili e divertenti, da consumarsi preferibilmente entro la data stabilita sulla confezione. Fateci sentire orribili, persi da qualche parte in incubi bulimici, a ingurgitare desideri, modelli inarrivabili, spot d'un minuto e quaranta secondi, e a vomitare gogne. Ma nell'oscurità di queste celle senza finestre, continueranno a bruciare i soli dei nostri cuori; e chi non si sarà impiccato alle sbarre di queste celle addenterà, prima o poi, la luce tenue della libertà. [Underground, 2007]
*
Leopoldus
Mando questa mia raccomandata a Leopoldus von Attolicus, certo che nel rapporto di forze lui sia Pompeo o Crasso ed io sia Spartacus, sperando che la risposta non arrivi mediante piccione viaggiatore, mio nonno, sangue valligiano, aveva dote di grande cacciatore. Chiedo a Leopoldus von Attolicus e alla sua vivace ironia salace di spazzar via doppielingue e critici letterari, come Traiano con un dace, senza riuscire a volermi mai essere maestro di dizione, chi l’ha fatto nascondeva sempre manovre d’addomesticazione. Tentò, anni fa, a racchiudermi nella tela che ammazzò Simone il Gran Maestro dei sarti, l’ultimo fu, invece, doppialingua, il Jep Gambardella de’ noantri, in mezzo il flâneur con l’Alzheimer e l’esito contemporaneo d’una merda d’artista, oramai sto lontano dai maestri - non soffro i Ponteggi - il fegato amaro m’ha trasformato in etilista. Leopoldus von Attolicus, io, discendente di Villon, arrogante scribacchino, ti chiedo di dedicarmi un motteggio o dei versi di spirito che mi ubriachino: meglio, senza mezzi termini, crepare fulminati da cirrosi epatica che morire, lentamente, confinati in questo star system d’arte apatica. [inedito, 2017]
*
Lo star system dell’arte
Gilda dei mercanti, lo star system dell’arte organizza meeting ed eventi letture scopo marketing, nelle librerie, tipo assemblee di bilancio dei distributori d’alimenti, le nuove star del sistema, tutte seriose e mendicanti, fanno rima con incastro s’infrattano in ogni reading, meeting, cum-swallowing con ettolitri d’inchiostro. Per reperire i fondi delle bollette i nuovi miti dello star system dell’arte non faticano, si vendono all’editore (famoso) come battone imbrattacarte, sperando di recuperare 500€ di diritti d’autore dalle royalties che ci mettono di meno a racimolarli i vu-cumprà, sulle spiagge, vendendo petit-gris. Lo star system italiano dell’arte è costruito da sottoboschi vari alla disperata ricerca dell’euro-cent tipo fautori indefessi del no-EAP che vendono blog e lettori decennali alla holding Youcansprint, la coerenza vittima di carenza, o tipo cialtroni che difendono a spada tratta l’editore aggratis al 100% al fine etico di mettere, tra autore ed editore, la loro società di servizi editing a pagamento. Questo è il risultato della crisi: iene che ti sbranano, sputtandandoti su blog d’ultima de-generazione, dieci contro uno appoggiandosi su matrioske di server americani a evitare accuse di diffamazione, come i falsi fascisti, agrari consortili, merde e morti di fame, non tollerano ogni forma di dissenso spacciando a un pubblico di quindici lettori schifezze impudiche senza nessun senso, G.P. Lucini docet, come leggittima difesa da queste boiate, le facce da culo di questi mediocri meriterebbero decine di revolverate. [Cherchez la troika, 2016]
*
L’officina dei morti di fame
Ai margini dell’ex-Brianza commerciale, oramai fitta di capannoni sfitti si erge nella sporcizia, morale e materiale, degna di una fabbrica di catrame l’Officina dei morti di fame. Sognando di avere creato un impero industriale degno d’un Ferrero verrà ad accogliervi, all’entrata, in sella all’inseparabile muletto un omino tutto nero, voncione cromatore, crapapelada col baffetto, d’etimologia hitleriana, sdrucito maneggione finto burbero, arricchito dai famosi anni ‘70 crestando su stipendi e tasse, con cinque o sei operai scazzati a sbrogliare ogni tipo di sua impasse. Voncione il cromatore è l’arroganza dei dementi che alzano la voce con i deboli leccando i culi dei potenti, è sintesi dell’ignoranza dell’uomo che ha sempre in tasca una soluzione truffare il fisco, fare nero, inquinare, scampando sempre la prigione, grazie ad appoggi comunali e a un esercito di ragionieri, dotti consulenti, vantandosi d’un’azienda che ha come massimi clienti vecchi collezionisti di cianfrusaglie bisognosi di cromar bulloni. Pontifica su tutto, dalla contabilità semplificata alla calligrafia e a scrivere un’email di tre righe, sgrammaticata, ci mette il tempo d’una serigrafia, mischiando orografia e ortografia, voncione il cromatore, confonde i monti con Tremonti, la valle con la torta che si spartisce insieme al figlio Topgàn, maestro di gestione e controllo sulla carta, la carta dei vini al ristorante, dove trascorre le giornate a non far niente. Chi si avvicini alla Cascina adotti massima attenzione alla famiglia milionaria di voncione il cromatore, capostipite, in un magazzino colmo di ciarpame, dell’Officina dei morti di fame. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Milite, ignoto
Soldato, tra cielo e terra, berretto in testa, divisa accomodata come uovo in cesta, marciavi svelto, vivo furetto, verso i dintorni di Caporetto. Marciavi vivido nell’aere mattutino fremendo brame d’ardore adulterino, senza intuire neanche di sfuggita d’essere vittima d’un crudele carovita; marciavi lesto senz’ombra di tristezza, diluendo i dubbi in avventatezza, nei tuoi vent’anni di vita amara chiamati a chiudersi dentro a una bara. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Chat noir
Son tornato, tornato dal tunnel che m'aveva ingoiato, riducendomi a bonhomme, a ribelle sfollato, latin lover in mezze maniche trite a turni da impiegato. Son tornato messomi a scrivere, adrenalinica mina intinta nell'arsenico, decretum dissennato di diritto canonico, mi sono liberato librandomi dalle fauci dell'accademico, e del logistico. Senza vergogna d'avere rotto i denti ad Ares in una rissa, d'aver rubato il cuore a una ragazza russa, ricevo sms dalla mia amica Rotowàsh facendo foto al fidanzato senza flash, membro dei Viking's (riuscendoci senz'elmo), incontro Hunziker diffamo Ratzinger m'invento Mazinger avvelenando ogni mia dieta cenando ad hamburger, mi fingo rapper finito in corner insoddisfatto d'essere studioso in bunker. Sono tornato dal carcere dorato del sentirmi buon soldato d'ostilità latenti in conflitti differenti tanto edulcorati da far cariare i denti, in cerca di una zuffa da miraggio randagio, in arra della forza emanante dal disagio. Son tornato battendo ogni viale al suono del conato dell'avvinazzato, astinenza da drogato, intingendo nel cesso le mie doti d'avvocato, mi sento un San Bitter da seminario in odor di diaconato. Come un agente tossico faccio il cacico nell'harem dell'amico, rubando la fiducia a ogni bonifico, di Croce me ne sbatto ho testa da coatto, e mi rifiuto di non maltrattare il gatto, scrivendo ti desidero, fanciulla, senza pepli, lasciandomi l'opzione d'invii multipli sul cellulare senza annegare, né soffrire, se mi mandano a cagare. Sono tornato, braccio forte da sicario e verso di bicarbonato, ingordo d'inventare farmaci adatti a svuotare i vostri stomaci. [Carmina non dant damen, 2012]
*
Le Cimetiere des Pauvres
Getto cumuli su cumuli, cirri e nembi, di terra e anidride carbonica, sulle mie domeniche d'astio, bastian contralto ostracizzato dal coro, sulle mie serate stanche, sulla iattura d'un io di rottura, da combattimento, cicatrizzato tra mari suburbani di sabbia, e di cemento. Mi vedi buttar terra, vermi e radici, raccolti, mia cura, tra i solchi straziati delle tue narici, su ideali morenti, senza nessun vanto, su cambiali scadute, senza nessuno sconto, col candore dimesso d'un'alce in vetrina, mostrata da cacciatori armati d'ettolitri di vaselina. E, un mese di Giugno, meno freddo degli altri iniziò a scavarmi la fossa, dove scriverete, con mano sicura, comici epitaffi, nel cimitero dei Poveri, nel cimitero degli affranti, nell’incoscienza di non esser stato solo uno dei tanti figuranti. [Galata morente, 2010]
*
Orchidee dAchille
Come sei riuscita, scoiattolo albino, ricettatrice d'assi e di cuori intarsiati nelle cortecce, nelle ferite, d'aceri contusi, a seminare semi neri d'orchidea, a tradimento, nei buchi della corazza d'Achille, nelle fenditure delle mura di Gerico, nei recessi della mia corazza, nelle incrinature delle mie enormi mura da tossico colosso d'amianto? Da istanti stantii come stanze chiuse, i tuoi semi incoscienti si schiuderanno in fiori, a stretto contatto coi fertilizzanti irati concimi moderni della mia esistenza, e coloreranno scontri, e inenarrabili momenti d'assedio, e aromatizzeranno corvi, e cumuli di cadaveri insensibili alla morte, alla bellezza, e daranno vivacità ai miei sacrifici, alla mia rotta. Fiori rosa nella corazza dell'eroe sconfitto. [Mostri, 2009]
*
Avulsi da ogni classifica
Perdenti, avulsi da ogni classifica, nella coscienza della nostra inferiorità numerica, stiviamo i calchi dei nostri animi su navi da guerriglia, negli occhi rostri di nuvole o di coriandoli, e nelle mani una bottiglia. Sconfitti, esclusi da ogni ridistribuzione di terra, donne, documenti d'autocertificazione, vaghiamo, rapaci come svagati pettirossi, in attesa di dormire, kleenex disidratati, tra le lacrime di vetro resina dei nostri fossi. Più forti d'ogni consorzio di ricchi, interessati, uomini di tonaca, mostri d'autorità, noi, avulsi da ogni classifica calchiamo il campo di battaglia rinunziando ad esser larve da microscopio sui vetrini opachi dell'Italia. [Versi Introversi, 2008]
*
Pacchi / fragili
Pacchi fragili, succedono statiche estati ad inverni estatici, nella corsa ossessa a batter cassa sulla via del successo richiesta da vecchi sadici d'umori, d'amore mendici, tra i nervi scossi d'un ascesso. Pacchi fragili, scarti contabili, ballano su scale mobili come disabili, mentre i cani rincorrono code d'asteroidi, e, altri animali umani, indifferenti, sacrificano emorroidi sull'altare delle candide vestali immerse in voluttuosi baccanali. Pacchi fragili, da usurare con cura, cuori imballati, da curar con usura, travolti da un film, estensibile, d'incredibile bruttezza, inerti, come mosche abbracciate a un parabrezza. [Lame da rasoi, 2008]
*
Grandi cuori
Nei carrùggi tortuosi del mio spirito c’è un De Andrè arrabbiato, che, con una chiave inglese stile Breda risponde senza sosta, e per le rime ad un Brassens tutto sudato. Nelle osterie dei miei ricordi Guccini, oste d’altri tempi versa in alternanza vino ed anapesti, diagnosticando senza ritegno cirrosi epatiche e mondi piccoli a Guareschi. Nelle allergie della mia anima, Bukowski, gigante buono, è uno starnuto butterato, e Tolkien s’è perduto a tirar sul prezzo con nane ed elfe in mezzo a un prato. Paolo Conte rende inutile Gozzano, mentre Socrate s’è innamorato di Cyrano. Beatrice, -ahimè!- s’inchiappetta Dante, e tutti hanno notato Eraclito nascondersi in mutande. Dietro a questi grandi cuori il mio cammina circospetto, come un clochard sorpreso dalla morte a cercar versi nel ventre umido d’un cassonetto. [Riserva indiana, 2007]
*
Queste giornate
Questa giornata ha ritmo di sega elettrica intenta, ghignando, a circoncidere nani, abbarbicati sulle spalle di giganti; questa giornata ha idea fissa d'occhi azzurri che impugnano il mio cuore con grazia di vibratori, in finta pelle, pronti, ondeggianti, allo strap on; questa giornata ha cicatrici d'acni roventi, cistiche conglobate, su tutto il busto e su tutto il viso, senza rimedio d'un peeling all'acido glicolico. Queste giornate uguali, mastine, quotidiane, scorrono ricordando passati che mai muoiono o anelando a futuri strabici, destinati ad essere trascinati per la coda, come buffi, e stupidi, gatti marroni. Queste giornate sole mie, nostre, vostre, eterni ritorni d'arrancanti istanti daranno voce, daranno senso, a fotografie nascoste, sbiadite, tra i bordi malinconici d'un monumento. [Underground, 2007]
*
Quando la Musa tiene il muso
La sala F del museo della scrittura presenta la scena del Monte Calvario coi giovani scrittori ottuagenari contemporanei che insistono a far rima in settenario, a forza di battere sul metro, a misurare i bracci della croce, hanno spezzato gambe e braccia alla generazione fantasma che cerca di estendere il torace nell’afferrare un sorso d’aria, l’hanno strozzata di debiti e di rime, interessati a organizzar riviste e a dirigere anteprime. La sala L del museo della scrittura è dedicata agli «impiegati» e alle «massaie» che intingono le loro biro bic nella tazza del cesso usandole tipo mannaie, va bene la democrazia lirica, non la lirica a mille lire di composizioni scontate costruite sul trinomio emoticon cuore - sole - amire, analfabeti, di andata e di ritorno, che, di mestiere, insegnano snowboard, senza essere mai stati capaci di imparare a usare il correttore word. La sala U del museo della scrittura ritrae uno scenario da savana dove novelli Dante si allenano alla concorrenza del mercato vestiti da battona, vendono e comprano versi al chilo come se fossero alla Borsa di Milano senza comprendere che lo scrittore di mestiere è uomo abituato a destreggiare l’ano, difficile il concetto far sopravviver la cultura essere nostra massima missione se ogni stronzo di inutile freelance crede un suo articolo di merda abbia valore de Il Milione. La sala O del museo della scrittura è riprodotta come la camera di un blogger con dei grossi scarafaggi alla tastiera che si tengon sotto tiro reciproco dei loro fogger, non sono esperti di niente, riescono a dire la loro su tutto, amanti dello scattering, tutelati dall’anonimato di un sito si danno all’english, dissing, pissing, trolling e fist-fucking, chissà che fregatura si beccheranno con l’attivazione della Brexit, dovranno abbandonar l’inglese e tornare a vivere giornate di pettegolezzi. La sala X del museo della scrittura è dedicata a me, famigerato Orfeo, buffone da circo intento a strappare i deficienti dalle braccia di Morfeo, io che non esisto, me che non esiste, I.v.a.n. project, Injurious - Virus - Anonymous - Neon-avantgarde artist senza budget, impegnato a tappare le falle del dilagante consumismo bohemien, con compresse di versi al Plasil e compresse di versi al Dissenten. [inedito, 2017]
*
La democrazia dell’Amplifon
La democrazia dell’amplifon corre tra i banchi dei mercati rionali: «accattatev’illo!», urla il garzone dell’ortolano annunciando la repubblica dei finocchi, sbraita il tronista, intronato sul trono del Maria De Filippi Show, richiedendo telegeniche assoluzioni o condanne a boati abbonati, allo stadio, l’eccezione è un minuto di silenzio, la norma il cantar nel coro, in migliaia a strillare, a ritmo, come mongoli dell’Orda d’Oro. La democrazia dell’amplifon corre sugli scranni parlamentari: «mortacci!», urla er cafone de destra al baronetto (finocchio) di estrema sinistra, sbraita il camorrista, nella gabbia del maxi-processo, augurando il decesso del giudice (comunista), davanti al sommesso ronzio delle videocamere, applausi ai funerali, alla performance del defunto?, applausi ai generali, applausi rumorosi al silenzio sulle centinaia di vittime collaterali dei rumorosi bombardamenti a tappeto, volante, delle aviazioni liberali. La democrazia dell’amplifon corre in mezzo ai palchi degli artisti: «va’ in mona!», urla l’eminente scrittore (saccente), sbattendo la porta del poetry slam sordo al rumore di sfondo «poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve», sbraita il muezzin dal minareto a sponsorizzare l’islam, accompagnato dall’ingioiellato arcivescovo di Milano, ite, missa est, e taches al tram, strepiti ai semafori, grida ai cortei, alle riunioni condominiali schiamazzi tipo duracell la democrazia dell’amplifon si regge sulla monarchia del decibel, subordinando all’amplificazione il valore d’ogni argomentazione. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
L’acero contuso
Mi ricordo di me a occultarmi negli anfratti delle catacombe urbane, rinserrato tra videocitofoni, cancelli elettrici, sporgenze a scivolo, telecamere, i moderni cavalli di frisia di una città mixofoba impegnata a incarcerare i suoi abitanti. Mi ricordo di me a sfuggire ad ogni progetto di vita, liquidandomi giorno per giorno, me che ho ricusato addirittura il suono del (di)lemma «amore», componendo melodie in sol, sol, sol, irresponsabile rasserenante solitudine. Mi ricordo di me, ingurgitato schiavo dall’ideologia del lavoro, a vivere su banconi, dietro scrivanie, tra macchinari d’ogni genere, terrorizzato dall’idea stessa dell’assenza dell’oggetto odiato. Mi ricordo di me a tenere in disciplinato ordine, in serie infinite di cartellette marroni, serie infinite di documenti inutili, scontrini, CUD, bollette onorate, assicurazioni scadute, carta su carta, albero su albero, milite ignoto del sopravvivere quotidiano. Mi ricordo di me a strepitare in vorticose code d’automobili, a dilapidare il tempo in inutili file in banca, alla cassa di un supermercato, davanti allo sbrilluccicare natalizio di una slot machine elettronica. Le mie mani pleonastiche, adesso, graffiano, battono, martellano una cassa d’acero risucchiata nel ventre duro del terreno lottizzato d’un cimitero, e i bozzi fatti sulla cassa non staranno mai a dimostrarmi d’essere stato vivo anch’io. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Di giorno in fabbrica, di notte al cimitero
Ti scoprirono i carabinieri a dormire nella cripta d'un cimitero nei dintorni della città di Padova, dove avevi sistemato un talamo anomalo su un tavolo mortuario, mentre leggevi Proust, a lume di candelabro, nell'atteggiamento di scomodo affittuario. Tra riti satanici, messe nere, violazioni di cadaveri commessi, con abominio, in tutt'Italia, tu hai rivendicato un ruolo nella città dei morti, ucciso con dignità dalla crisi dell'industria che, nell'ex ricco nord-est, a un certo momento smise di connotare come eccessivamente austero andare a dormire al cimitero. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Cantastoria periferico
Posso smettere di dirmi poeta, finalmente, non creando in endecasillabi, sciolti nell’acido, caustico, delle mie intuizioni. Creo in volgare, senza misurar su nessun metro i frammenti secreti dal conflagrar delle esistenze, Giovanni decollato, e atterrato sulle due ruote davanti, davanti allo schiamazzar delle sirene dei vigili del fuoco, davanti al muso ironico d’un cane incontrato in un cortile, davanti ai silenzi assenso dei muri d’un cimitero urbano, davanti alle urla di titolare e direttore editoriale, davanti a una camminata tra i correnti d’un magazzino, davanti alla certezza di non aver bisogno di nessuno. Poeta? No. Grazie. Mi sento cantastoria, scrittore di disgrazie, cedendo ogni vittoria ad anime mai sazie d’onori, e di corone, raccolte a pecorone. [Il Guastatore, 2012]
*
‘Mortacci!
Passando in auto fuor dal cimitero, città nella città, affitti bassi da scarso acquisto, ci siamo accorti come non tutti i cari estinti abbiano compreso d’esser morti. Urla, lacrime e sussurri, col mite borbottio dei men buzzurri, rincorrono voli di farfalle, simili alla monotonia costante dello scolorir d’un vecchio scialle. C’è il vecchio maresciallo dei carabinieri che, non ancor abituato agli stranieri, chiede a gran voce, sull’extracomunitario, duri divieti di cippo funerario. C’è la fanciulla, spirata adolescente, che passa la giornata a non far niente, tappezzando a foto di giornale i muri della sua stele tombale. C’è il maniaco, fresco di cassa, che, non ancor arresosi alla fossa, vaga narrando a tutti di com’è bella l’orrenda vista della sua cappella. C’è la ninfomane in tuta da tennis presa a saziarsi di rigor mortis cercando di sfruttare, con disinvoltura, i vantaggi propri della sepoltura. Perché – mi dite- è inverosimile che vivano i defunti, in barba ai beccamorti, se voi che v’ostinate a dichiararvi vivi, vivete come foste morti? [Carmina non dant damen, 2012]
*
Anti-moderno
Il sottobosco intenso di voci, di sesso intonso, della metrica moderna, italiana, nuova di millennio, nei dialetti, nelle dialettiche irrisolte, in universi anarchici di versi spersi, s'accalca di richiami strani, allodole sui mille rami, schiamazzi, proni, intarsiati sulle costole incrinate di cavalli istrioni, nel ruminar di cannabis senza forti sconti, nell'ulular di Labrador dietro a lucciole ammiccanti. Sul frastuonare intenso d'orizzonte silvano in caduta verticale, a tarda sera, in modo brusco, ma radicale calan schietti silenzi da clamore urbano, nel dilagare d'un rumore, nel deflagrare di una bomba, col cuore ansioso d'una donna deflorata dal ritmo stanco d'una scianca rumba. E i miei versi saran detonatore, e i miei canti saranno bomba, dati in sorte alla mia testa matta, per zittir poeti affranti, intirizziti, a due metri dalla tomba, per rimarcar che i miei chiassi ritmici - somma iattura!- più che dell'io, a tutti gli altri sian di rottura. [Galata morente, 2010]
*
Cavalieri del lavoro
Niente via di fuga, niente via di scampo, incatenati a scrivanie insensibili come marmo, lugubri come monumenti a cavalieri del lavoro, infrangibili, con consistenza organica di corpi infortunati, mutilati, morti, di menti squartate, usurate da orizzonti troppo vicini, e sempre uguali. Non c’è via d’uscita, non c’è via tracciata, invischiati come farfalle tra modelli di carta caramellata, nel terrore insano di abbandonarsi a guardare mare, cielo e stelle, nel desiderio invano d’un incubo nato ribelle. Cavalieri del lavoro, spronando, con ferocia, i vostri ronzini scianchi, misurata metro a metro la distanza dalle pensioni, sventolate stendardi stanchi, muovendo serrate cariche contro politicanti, feccia romana, iene senza coglioni. [Mostri, 2009]
*
Vano promotore
Più che patetico, son peripatetico, puttana dell'arte e del mercato, senza interessi in marketing o in concorsi d'antiquariato; non mi interessa vendere, spartirmi fette di torta, e non ho nemmen l'astuzia ben remunerata di reclamizzare arte porta a porta. Non vado ai reading, sfuggo presentazioni, non reggo gli occhi dei cento e cento rompicoglioni, non scrivo dediche, col sangue, né a docenti né a muratori, son nato anemico, nella disperazione d'amici, madri ed editori. Cazzo, mi dicono, coi tuoi modi da orso ti scopriranno solo da morto! Restate calmi, - io dico a tutti-, vedrò di farmi seppellire col cappotto. [Versi Introversi, 2008]
*
Senza andare a capo
Non mi va di abbeverarmi - bue con velleità da toro- alle fonti intirizzite d'arti da trivio, triviali, di volta in volta, d’inchinarmi alla corte del Gran Khan, abbaiando senza mordere, chiedendo scusa alla carta bianca dei miei mille rivoli d'inchiostro, mutati in vita, resuscitati da attimi di rigor mortis. Non mi va, insomma, d'andare a capo, vittima d'un verso sciapo, canopo di sentimenti, imbalsamando momenti contundenti tra stenti, mani vincenti e camere ardenti d'amori inconcludenti d'umore cupo. Non mi va, insomma, d'andare a capo, spezzando corde vocali lungo baratri di dirupo, stella cadente senza paracadute oste sorpreso nell'atto di rimescolar cicute, scrivo senza soste tenendo strette strette, in pugno, manciate di roventi caldarroste. [Lame da rasoi, 2008]
*
Logistica distributiva
Provate a sotterrare emozioni infoibate in calici coibentati d’adrenalina smistando prima a destra, poi, a sinistra, corsia su corsia morse d’accorti sorsi di nitroglicerina; smistando prima a sinistra, poi, a destra, corridoi su corridoi corde morbide, lubriche, atteggiate a nodi scorsoi. Inventare, o riempire vuoti, vender tesori e scaricar rifiuti, smaltir cartoni d’inaudita potenza, inghiottendo bestemmie, angoscia, melatonina, e pisciando assenza. Scartiamo prima a destra, poi, a sinistra, e poi ancora a destra stendendo lauree, passioni e doti, sopra cadaveri di ferro e cartapesta. [Riserva indiana, 2007]
*
Accanimento terapeutico
Poesia, non occorre che tu ti nasconda dietro sabati annoiati, cavalli maculati, scrosci su tamerici sotto sale, a un amore, ieri sera, a te, che sei chi sei, o albatri irretiti da marinai crudeli, o anche nell'amico, rugiada e ristoro del cuore. Son sabati annoiati nei centri commerciali; e cavalli scuoiati da corse clandestine o nei macelli comunali; non crescon tamerici nei magazzini di ortofrutta, o amori, soffocati tra mura domestiche e desideri degenerati in drammi matrimoniali. Gli albatri in via d'estinzione; i marinai in cassa integrazione. Gli amici, restano, vanno, svaniscono nelle nebbie infartuate di città nuclearizzate. Poesia indaga i margini delle sconfitte, plana sui consultori, nei manicomi, nelle galere, sulle code in tangenziale, negli uffici, nelle aule di tribunale, nei reparti d'oncologia infantile, sulle banche, nelle palestre, e infilati sotto le tende dei club privè. Poesia, sii accanimento terapeutico, amplificando, per chi non sente, gli inferni gelidi, i sogni strabici delle esistenze. [Underground, 2007]
*
La ballata delle bestemmie
Oggi, involontariamente, ho offeso dementi, morti di fame cronici, ignoranti e inconcludenti, in realtà mi interessava mandare a bersaglio un unico messaggio a un malato di mente non è che se sbrodoli un milione di sillabe al secondo hai diritto di rompere il cazzo al qui presente se sei cretino e te ne vanti fai la figura della Bruschetti davanti a un nugolo di studenti. Cazzo, ho fatto l’errore di paragonarmi, in forma ironica, a Gesù Cristo, innanzitutto, io non trasformo l’acqua in vino: so trasformare il vino in orina. Circondato da lazzaroni, non ho mai tentato di ridestare Lazzaro per ravvivare il palinsensto, se fossi stato davvero Gesù Cristo, in un minuto, i miei nemici sarebbero stati unti da un’angina, come minimo, e non ho ancora imparato a camminare sull’acqua, nella società fluida ci nuoto, senza il miracolo di esser diventato un miliardario giocator di pallanuoto. Quando morirò, dopo tre giorni, non sarò affatto sicuro di resuscitare l’unica certezza è che chi vende l’arte al tempio riceverà il mio stonato vaccagare, sinite parvulos venire ad me, senza rompermi troppo i cojoni odio l’emergente arrogante e i vati ottuagenari conciati da barboni. Per essere politically correct, in verità vi dico, sostengo che Buddha è figlio di buddhana, Maometto, inch’allah, non ha niente, lo stimo molto, je ne suis pas Charlie non tengo affatto a finir nella buriana di una bomba pakistana, Abramo, Geova, Vishnu e Zoroastro mi sanno di frifri, finirò arancione, Hare Krishna o tifoso dell’Olanda, a suonare un tamburo sempre meglio che, dando retta ai deficienti, continuar a piallo ar culo. Questa ballata contiene tutto: turpiloquio, bestemmia, offesa al sacerdozio, non mi resta che aspettare che Joshua risorga un terza volta, così da chiedere il grandioso miracolo dell’auto-fellatio, o, se la fisiologica estensione del mio membro non necessiti d’intercessione arcana, ti chiedo, caro Yahweh, di tener Joshua alla tua destra e di far resuscitar Moana. Ho messo abbastanza immagini? [inedito, 2017]
*
Quel blog laggiù nel far-west
C’è un blog laggiù nel far-west dove spopolano i poeti dell’est, l’importante è desinare in oskj con la solidità del Monte dei Paschi, l’obiettivo è rasar sottoboschi il risultato è raccoglier falaschi. C’è un blog laggiù nel far-west dove ogni giudizio è un pap-test, sono fermi, nei loro dibattiti estetici, a Marx e Heidegger che è come assegnare una riforma liturgica a Ratzinger, in fondo, entrambi, in gioventù, indossarono la stessa uniforme la chiarezza di un Valerio Magrelli mette tutti in allarme, il modello è lo stile oggettivo di un Tranströmer bravissimo a trasformare un negro in afrikander, e scusatemi il politically-scorrect, come affermò il famigerato lucciola, a Milanabad il nero è negher e la lümaga è chiocciola, mi auguro di non finire come Emilio Villa a scrivere in francese su imbeccata d’una Sibilla. Oramai, oramai, oramai serve un nuovo job act a levarci dai guai, un’assunzione a tempo determinato che dura dieci giorni lo scriviamo sul blog e i successi si trasformano in scorni, o l’insuccesso si trasforma in successo basta che il blogger di turno sia seduto sul cesso a deliziarci delle sue deliziose cagate oddio, come riesce un’ombra a darci risposte illuminate? [Cherchez la troika, 2016]
*
Gul Makai
Il tuo nome è Malala, Yousafzai, nome impegnativo da pasionaria pashtun, da Giovanna D’Arco afghana, su una ragazzina di quattordici anni, studentessa nella regione pakistana di Swat. Il tuo nome è Malala, Yousafzai, scoppia, rumoroso, come il proiettile di un kalashnikov infilato nel tuo cervello, a quattordici anni, rivendicazione, da barbudos difensori della shari’a, di talebani repressi (dall’invasione occidentale). Il tuo nome è Malala, Yousafzai, desideravi fare il medico, una vocazione, combatterai, tra vita e non-vita, negli ospedali di tutto il mondo, simbolo di una nuova generazione, «Dov’è Malala?», chiese il tuo aggressore, e, da te terrorizzato, sparò. Il tuo nome è Malala, Yousafzai, continuavi ad andare a scuola contro un’interpretazione brutale della shari’a, rinominandoti Gul Makai, sul tuo diario, mentre talebani decapitavano, a Swat, innocenti vittime di comportamenti anti-islamici. Il tuo nome è Malala, Yousafzai, fiero Fiordaliso dello Swat. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Cinese ucciso a coltellate: è giallo
Giornali, network, blog, tutti abbiamo il diritto a scrivere, senza un minimax di addestramento culturale, scriviamo a sensazione, schiavi dell’urgenza di sensazionalità, sensali di righe battute ovunque, mai vincenti, dallo scherno di un Pc. C’è chi registra una notizia banale, condendola in maniera sensazionale, c’è chi incendia un’esperienza avvilente, definendola entusiasmante, c’è chi, bramoso di successo, racconta su facebook ogni suo soggiorno al cesso, c’è chi precario, nella vita e nelle convinzioni, infarcisce i giornali online di disattenzioni. La banalità è sempre in agguato, uomo arrabattato, mezzo salvato dalla smania di informazioni a buon mercato, in un circolo mediatico dove fa notizia solo il suicidio di artisti celebri, ormai ospiti da decenni nei depositi delle agenzie di pompe funebri. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
La strage
Ma voi, rilascerete alle antenne della radio, o della televisione, l'accorata dichiarazione di non conoscere i motivi della mattanza, come se due anni di cassa integrazione non aumentassero la distanza tra menti sane e menti malate, ree di trovar l'unico rimedio in dieci coltellate. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Prigionieri del presente
Prigionieri del presente sbucciandoci le nocche delle dita rimbalzando contro i muri di chewing-gum dell’arte, affaticandoci nelle corsie dei magazzini, corriamo, a vuoto, sui tapis-roulant del fitness, tra negozi alla moda e spese da discount, sempre, o a volte, in cerca di ciò che abbiamo avuto, che avremo o avremmo dovuto avere. La vita di tutti i giorni è un vuoto a rendere affittato, a extra-comunitari, sotto equo canone, è un sovraffollamento: decine di individui in una stanza, senza opportunità di scendere, a compromessi, o almeno di diminuire la distanza tra urla forsennate e voci atone. Prigionieri del presente senza vie di fuga, criceti da laboratorio stimolati dall’ansia dei mass-media, ambiamo a amori tanto grandi da sfamare oceani di zanzare e ci spruzziamo ettolitri di Autan, tirando a sopravviverci fino a farci consumare. [Il Guastatore, 2012]
*
Liquide amour
Non vivendo a Tokio, Mosca, Dubai, contemporaneamente mettiamo barriere di tremila km tra Monza e Milano tu, concentrata a volare, usignolo esiodeo, a Parigi, e nei resorts, io, deconcentrato dal tonnellaggio delle catene che annodano masse di stanziali alle fabbriche, alle case, ai magazzini, danziamo, multitasking a velocità diverse, coi sandali (i tuoi, alla Cleopatra; i miei rigorosamente francescani) su cocci di diamante o tagli in vetro, stretti in abbracci estranei come i robots delle operazioni chirurgiche a distanza. Abituata a tessere tele di selezione, disfandole ogni notte, Penelope oltre-moderna, a scegliere, indossare, buttare ogni cosa, troverai mai il coraggio di vestire le mie camicie di forza, senza garanzie da sdruciture, di stanare la furia nera del rottweiler? E a me resisterà l’incanto, me, che conto cicatrici come stelle sulla volta celeste del mio volto, nello specchiarmi nei tuoi occhi meteci, nascosti nomadi dietro a taguelmoust smerciate Bryan & Barry, senza infrangermi in frammenti da raccontare ad altri occhi meteci, e ad altri ancora, fino all’infinità seriale? [Carmina non dant damen, 2012]
*
Dovè il poeta?
Mentre nella solitudine afona delle vostre stanze butterete occhi distratti - stanchezza, orrore e indifferenza- sui miei versi scarni, chiedetevi: dov'è il poeta? C'è. Lo troverete, a dormire, nella cella d’un carcere di massima sicurezza, o in stanze imbiancate d'azzurro stantio; a mondare auto, schizzate di vernice nera, nella noia mortale d'una domenica mattina; nei corridoi d'un supermercato, tra sacchi di spazzatura e bottiglie d'olio, senza tessere, senza contanti. Lo troverete - lì, vicino a voi!-, sdraiato e sconfitto, nelle corsie d'una clinica di malattie mentali, abbandonato, sfatto, su letti di chiodi; a correre nella notte da un'avventura all'altra, indomito, indomabile, come un cucciolo d'orso avvelenato dai bracconieri; nell'astrattezza di un concerto di musica classica, o, seduto a tavola, Bacardi Breezer davanti, in attesa di amori dannati, in attesa d'un cenno sensato da Madama Morte. Dov'è il poeta? Lontano dai vostri occhi, dalle vostre menti, dai vostri cuori, affittati a rate d'un tanto al mese, dai vostri dieci metri di vizio vitale, irrinunciabile, dove la catena d'oro che indossate stretta al collo vi autorizza ad arrivare, senza rimorso. [Galata morente, 2010]
*
Cervelli assassini
Non riesco ad inserirmi, in maniera rigorosa, senza indecoro, nei vagoni della vita, nei meandri del lavoro, eterno neo-laureato, adatto ad offerte inesistenti che, in determinati casi, nella norma, rasentano umilianti sfruttamenti. E umiliazione, è un carcere, frustrazione, è carcere di non essere vissuto, e di non essere vivente, d' esser non lavoratore, senza essere studente. È un carcere d'odio, d'ansia, smarrimento e de-moralizzazione, d'animali braccati carnefici di violenza, e brutalità inattese, che muoion dentro, uccidendo mondi mondati a stento; un'alternativa tra cervelli morti, o assassini attanaglia, inumana, i nostri cuori, senza interessare i cuori marci di qualche semi-divinità romana. Perché i cervelli morti, distesi nelle camere mortuarie d'un ospedale, sono milioni, sono milioni, e non fanno male. [Mostri, 2009]
*
Boccette dEden
Stretto a boccétte d'Eden, narcotizzato, mi immergo nella vita con nodi alla cravatta da bungee jumping anelasticizzato, giocando, senza sosta, molte pose, a esser artista, in attesa che un cervello attento, sano arrivi a denunciare questa svista. E, intanto, emetto versi bisbetici nel chiarore delle stelle morte, nella vecchiaia di stanchi mantra, e, intanto, animale braccato, emetto versi emetici sulle salite dei vostri colli chini, sui dorsi ripidi delle montagne di cemento armato. Stretto a boccétte d'Eden, narcotizzato, mi immergo nella vita, tenendo il fiato. [Versi Introversi, 2008]
*
Firenze
Firenze malsana, ammorbata da turisti, ed amori, ammassati in fila indiana, nelle tue vie d'arte senza commozioni, nell'idiozia dei tuoi uffici informazioni. Firenze, museo chiuso alle 07.00 di mattina, odore di corallo, odore di latrina, città dai mille colli città di uomini ombra, scheletri, senza midolli. Firenze, n'ho sentite tante all'ombra scomoda, un po' becera, del tuo sommo Dante, non credere che il morso mi si secchi avend'io sangue di cento e cento Cecchi. [Lame da rasoi, 2008]
*
Dinamite!
Ricordando come i vostri cuori abbian sostanza cartacea di d.d.t. dimenticati dentro un ufficio chiuso a chiave alle sei e mezza dei miei mattini, in incendi di nebbia e insonnia, vivo, in bilico, sull’orlo del burrone, immerso nella necessità urgente di decidere se abbattere le vostre porte, o scassinare fragili serrature, in modo che qualche fabbro, più esperto di me, in futuro, sappia trarne cassefòrti. [Riserva indiana, 2007]
*
I bimbi delle vostre anime
Gli occhi da bimbo sono azzurri o verdi nelle strade deserte della mia anima, e un sorriso da bimbo imbocca, contromano, sensi vietati. Non anestetizzate i bimbi delle vostre anime; essi erediteranno i vostri dolori, e, piangendo, ne trarranno emozioni. [Underground, 2007]
*
La ballata della raccomandata
Che ti perplima che stia aiutando la mia compagna a trovar lavoro, mi delude al quadrato, forse chi c'ha un genitore con la fabbrichétta corre meno rischi di rimaner disoccupato, e spesso nemmeno corrobora la sensibilità che, in una mente disperata e vinta, basti a crear forza e speranza anche far finta. Queste, alla faccia del cazzo, sono le risposte di chi lavora nel sociale, ore ed ore a dis-educar ragazzi, esperta nell’arte di sapersi far raccomandare, che, se ti va male, attendi, anche dieci anni, in una casa guadagnata col sudore, sì, il sudore della fronte della fabbrica del genitore. Cosa dire, ti auguro, molto in fretta, di cadere e farti male, senza babbo e mamma che ti segnalino immediatamente al direttore, di una cooperativa dove il proletario sperimenta anni e anni di precariato, e te, magari, oggi, c’hai l’indignità d’un contratto a tempo indeterminato. [inedito, 2017]
*
La vera storia della dieta di Roncaglia
La spassosità dei cookie di internet riesce ad essere origine di creazione artistica. Documentandomi, in modo superficiale, con wikipedia, sulla dieta di Roncaglia, ecco apparire, in una nuova scheda, l’esilarante spam: «come dimagrire celermente […]». Pensavo: come non associare alla dieta di Roncaglia, l’idea di un Federico Barbarossa defraudato di tovaglia? Pensavo: è curioso meditar sui mutamenti della Lega, allora, alle prese con la difficoltà quod placuit principi, habet vigorem legis di un brocardo, e, nell’attuale, messa in discussione sulla dieta mancata del Trota e company, su rimborsi dei conti al ristorante da un miliardo. La vera storia della dieta di Roncaglia insegna che il magna magna di una politica bugiarda conduce, in Europa, alla vittoria del tedesco su ogni forma di nuova Lega Lombarda. [inedito, 2017]
*
La crisi
Mi chiamavano schizofrenico, ero un malato, da manuale, ora sto steso su un filo elettrico ché nel mio mondo non ci so stare. Quarant'anni rinchiuso in me stesso, vaso inchiodato tra i fiordalisi, son molti a contarsi, son molti a scordarsi, vorrei viver normale, rincorrendo la crisi. Ventun'ore son tante, tra milleduecentosessanta minuti e settantamila secondi, mi mancan le forze, non sento le braccia, contando i miei battiti in attesa che affondi, che sprofondi nel vuoto senza molti sorrisi della fine imminente, rincorrendo la crisi. Nelle vicinanze d'una casa di cura di nome Villa Serena, - mi domando che vi sia di sereno, nel ricovero d'uomini scivolati in cancrena-, dondolo da un traliccio dell'alta tensione, afferrando con dita veloci le notizie della televisione. Parte inattiva statistica della nostra nazione senza nessun imbarazzo, mi son sentito in diritto di reclamare un lavoro, urlando: «altrimenti m'ammazzo», e, coerente, almeno una volta, alla solennità dei miei avvisi mi buttai dalla vita, rincorrendo la crisi. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Aeternitas
Dove finisce l’amore eterno di chi si è giurato amore eterno? Mi dici, l’amore eterno non esiste. E allora, cercheremo i nostri amori nelle discariche, nei cassonetti dei rifiuti. E allora, troveremo i nostri amori sui fondi dell’oceano, tra i letti dei manicomi, sui treni d’Auschwitz, nei terreni minati dall’odio, tra le fauci del leone, sulla sedia elettrica del condannato a morte, nelle domande dell’umile cercatore d’azzurri cieli, sui tavoli delle autopsie, accanto ai cani, nelle autostrade, tra i banchi della frutta a Acireale. E allora, sentiremo i nostri amori sulle scale delle case comunali, tra i rollii di canotti libici, sui muri delle stazioni, nell’elenco telefonico delle nostre città, nell’eccitazione dei siti scambisti, dentro a bicchieri di En e Gran Marnier, nelle folle che ondeggiano tra le vie di Teheran, sotto i bombardamenti di occasioni mancate, nascosti sotto i saldi di versi scotti, sul filo dell’orizzonte dei monti, dalle finestre di casa. E allora, troveremo i nostri amori nelle discariche, nei cassonetti dei rifiuti. [Il Guastatore, 2012]
*
Ogni stanza d’ogni albergo di Milano
La mia scrittura bustrofedica transuma e ogni stanza d’ogni albergo di Milano si intirizzisce dinnanzi ai miei racconti, all’inceder di cursori su video scabri, davanti all’irresistibile smania d’abitare ogni stanza d’ogni albergo di Milano. E tu mi chiedi, accendendo un’altra sigaretta dov’è che albergano realmente i miei sogni e come mai mai mi rimiro negli specchi in cerca di cicatrici che tu continui a non vedere, e ti rispondo: in ogni stanza d’ogni albergo di Milano, una bottiglia di bevanda, mai bevuta, naturalmente alcolica, e una donna che, fatto sesso, si allontani sorridendo, e una risma di carta bianca da imbrattare. Forse noi stessi racchiudiamo ogni stanza d’ogni albergo di Milano, condannati ad indossare tappezzerie rammendate zebrate nere trendy, circoscritti in sessanta mq d’inferriate alle finestre, contemporaneamente sempre altrove come ogni stanza d’ogni albergo di Milano. [Carmina non dant damen, 2012]
*
Carmina Burina
Poesia scritta in fretta, di sera nell'incertezza triste d'un mondo che non cambia nel suo intenso cambiare, nell'atroce incostanza dei miei sentimenti scostumati, incalzanti, come nani insabbiati nei deserti del Gobbo di Notre Dame. Poesia scritta in una notte fredda, i miei ricordi come neve a cubetti nei bicchieri di whisky d'una divinità scozzese, che nasconde, ed esibisce i suoi diamanti, ondeggianti sotto il kilt della volta celeste, dove c'era una volta, ma, ora, c'è un cielo nero. Poesia scritta in inverno, di corsa, immerso, sommerso nella vita, fino al collo, la testa altrove, davanti a camini bollenti intasati da sindromi aride di Munchausen, senza consolazione di cotte, di maglia, sudato alla sola idea d'essere cavia, nei labirinti d'un esistenza da Minotauro scornato. Poesia, condannata ad esser scritta, di notte, d'inverno, nelle serate stanche durante settimane, anni senza ritorno, senza ritorni, sotto i tetti d'amianto dei fabbricati aziendali, nell'odissea del traffico, su treni arrancanti tra i monti dell'inferno, nelle ore sotto sequestro d'una carriera imbarazzata, nuda, davanti agli occhi indiscreti dei secoli, nelle aule dei corsi d'inglese, correndo - vorrei iscrivermi, per amor di paradosso, a un corso di còrso- su bastimenti carichi di morsi, e di rimorso, spazza via, a colpi d'anarchia, senza timor d'esitazione, chi rivendichi il diritto di condurti in cassazione. [Galata morente, 2010]
*
Diavolo moderno
Con te rinasco, mille volte, ancora mille, senza riuscire ad arrendermi, senza alzare bandiera bianca ai tuoi ricordi, al ricordo di te, bambina effimera, escort d’alto bordo, senza carte nautiche, senz’assi nella Manica. Nell’eccitarti, ti incito, mirando all’angoscia, alla tua insicurezza, d’animale braccato, con pallottole calibro 9 intinte nel sonnifero, e nello zucchero filato; e non piango lacrime elettriche di disperazione, perché abbaiare alla luna non mi ha mai dato molta soddisfazione. Pur sei stai zitta, con l’insistenza a non esistere dei i tuoi silenzi, nella tua scelta d’esser mio inferno, non ti dannare, brutta stronza, nell’affossarmi: io, cuore bollente, mi trovo ad agio in queste vesti, incandescenti, da diavolo moderno. [Mostri, 2009]
*
Cuore di belva
Non entrate nella tana del leone quando dorme, quando soffre, quando è stanco. Non entrate in quella tana buia e fredda sudicia di carogne teschi e amori infranti, satura d'aggressività, di rabbia, di occhi lucidi e di malinconia. Forse tu, tu sola, domatrice da circo, cuore beffardo nell'anima di gazzella fuggitiva, hai il coraggio per entrare nella caverna dell'orribile mostro. Ma, mi raccomando, non dimenticare frusta, e una rete con giunture ignifughe; nella dolcezza della loro inutilità serviranno ad asciugare le lacrime silenziose della belva ferita. [Versi Introversi, 2008]
*
Mani vuote
Non hanno nessuna intenzione di capire, bimba mia, neanche di lontano, che non riusciranno, mai, a rubare l'anima ai poeti, finché vive chiusa in casseforti dalle pareti di zinco, con borchie d'ottone; rubare anime di fanciulli, non conviene, perché si rimane, sempre, a mani vuote. [Lame da rasoi, 2008]
*
Riserva indiana
Nelle nostre notti incubi insonni, resi irrimediabilmente ansiosi da un mix esistenziale di delusione e taurina, danzano in camere, a volte ardenti, a volte oscure, mai in affitto nella loro violenta definitività. Nelle nostre mani, nere carbone arrossate da aloni di rabbia somatizzata, unghie sporche pelle strappata, ferita, dannata non ci sono più linee suadenti della fortuna, né gocce d’inchiostro, spremute, d’impeto, da bacche selvatiche. Nei nostri visi abbruttiti da madre e natura segnati dai debiti e da intolleranze all’alcol è divampato devastante l’incendio insensato della noia di vicissitudini cadaveriche stese, occhi e bocche divaricati sul divano, autoptico, di un Freud in veste di medico illegale. Pisciaci in testa, esistenza, e poi sommergici di baci, incapretta i tuoi figli, e fanne braci, capaci di cicatrizzare i cuori stanchi di chi, senza preavviso, mai hai voluto riscaldare col tepor del tuo sorriso. [Riserva indiana, 2007]
*
Danse Macabre
Ossa candide in tute da tennis firmate, trendy, inceneriscono in tenui istanti sorrisi, e storie ancestrali vissute ai bordi delle fermate dei bus di linea cittadina. Ghigni sadici di mandibole digrignanti amministrano, con pugno di ferro, pub e centri commerciali svendendo, su card fluorescenti brandelli di carne in scatola a massaie scheletriche. Orbite vuote oasi di deserti acefali conducono SUV senza marmitta catalitica, o, a volte, senza marmitta, sulle strade di un Delacroix dove Libertà ha testa di Marilyn Monroe. Il mondo continua a morire, sipari di ragnatela cadono, e io ho soltanto sonno. [Underground, 2007]
*
Anima stanca
Avanti, animi stanchi i morsi delle mani i morsi della fame stretti sui fianchi, avanti, animi duri nel buio anonimo delle vostre camere e sull'intonaco scrostato dei vostri muri. Mi annego nella vita come neonato spastico, concepito in vitro, bilico autistico tra mangiatoie termiche e rupi Tarpee, trattenendo i sospiri di mille mondi rinchiusi, costipati nelle sale degli specchi rotti di ritriti Luna Park. Il mio amore sconcerto in mi – fa di braccia bucate seda tremori sull'aria di Tavor, Valium e serenate non brilla, nell'ancheggio tra bidoni incendiati, di notte, cercando d'abbracciare tossici, maniaci e mignotte. Avanti, animi stanchi scritte di mosto e bianchetto nascoste sui banchi, avanti, animi duri nella numericità anonima delle vostre matricole aziendali e nell'algia nevrotica dei vostri chiaroscuri. [Versi Introversi, 2008]
*
Versi introversi
Pure io, senza volere, forse, forse senza coscienza, nella mia sfinente elemosina d'esser uomo mi son vantato, triste anatomopatologo, d'avere constatato i decessi esausti delle nostre divinità infere, e celesti; ma adesso, laidi consacrati, ci restano, angoscia, vuoto, silenzi, aziende, e irrealizzabili sogni di maternità. L'onnipotente è morto, denigrato, bestemmiato, assassinato; ora, a chi imporre i nostri vincoli d'insulsa impotenza, se non a me, se non a voi stessi, denigrandoci, bestemmiandoci, assassinandoci, nell'ergastolo distonico di un'esistenza schiava dell'introversione, con l'unica amnistia, solo mia, a canoni inversi, cullata in antri d'alchimia da versi introversi. [Versi Introversi, 2008]
*
I grandi «poeti»
Gli ultimi due anni della mia vita, con estrema noia, si son scoperti a colmarsi della conoscenza di grandi «poeti», nessuno di essi, strano caso, vanta il fatto d’esser nato in una mangiatoia: meritano tutti una copertina, bianca, dell’Einaudi, con l’arroganza d’esser sommi sacerdoti. Centinaia di dilettanti inconcludenti, distanti da ogni forma d’umiltà, col motto del «je rode» uccidono anodini versetti, col veleno dell’inchiostro, come fossero re Erode, tutti eccellenti, refrattari ad ogni critica, martirizzati sul monte degli Ulivi, non concepiscono che l’unica nostra salvezza sia infilar loro sulle mani due preservativi, e, anti-concezionalmente, risparmiare a tutti il torto d’assistere ogni volta ad un aborto. Scopro che, secondo Goethe, l’«ironia è il sentimento che si svincola dal distacco»: ironia, eirôneía, madre di distopia e dissimulazione, resta la lancia di Don Chisciotte, lancia in resta contro i mulini a vento, avvento dell’attesa dello scacco contro chi inanella versi tarentini tanto sciapi da condannarci alle garrotte, svela al cittadino bue come mai un disperato in bancarotta sia arrivato a assassinare un magistrato e non una mignotta, indica all’uomo della strada come versi senza neustico siano in grado di liberare il male cronico di un mondo stitico. Scopro di essere in balia di una scrittura a immagini tridimensionali che costringerà tutti i lettori a cambiare in 3d le (tre) lenti dei loro occhiali, segnalano a me, correttamente, ex magazziniere in blazer che tra trecent’anni vincerà i mondiali la Svezia di Tranströmer, che stiamo vivendo in contemporanea una decina di rivoluzioni copernicane senza accorgersi che un millennio prima di Tranströmer c’era arrivato Alcmane. [Cherchez la troika, 2016]
*
Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni
L’austriaco, di vera stirpe ariana, è molto severo, non si incanta, achtung kaputt kameraden, pretende massima flessibilità in modo da rimettere l’Europa intera a quota Novanta, bombarda le borse di Milano assolutamente gratis, meglio di quanto fecero Radetzky o Bava Beccaris. Potremmo tentare ancora con uno sciopero del tabacco, mischiando hashish a marijuana con distacco, anche se non credo che funzionerebbe lo sciopero del lotto, siamo troppo lontani dai moti del 1848, ora l’intera nazione tira a arrivare alla mattina, sognando di incassare un ambo o una cinquina. Sperando in un ritorno della dinastia Borbone i milanesi non sono avvezzi alla rivoluzione, scalpitano, reclamano, ti mandano a cagare, tornando il giorno dopo in ufficio a lavorare, non avendo l’energia dei siciliani buontemponi, l’unica regione a statuto speciale a protestare coi forconi. Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, la Merkel tuona da Bruxelles minacciando risoluzioni del Consiglio Europeo, in cui siedono retribuiti in modo sovrannazionale i vari prestanome dell’una o dell’altra multinazionale, indecisi, con rigorosità scientifica tutta teutonica, se far fallir la Grecia o un’azienda agricola della Valcamonica. [Qui gli austriaci sono più severi dei Borboni, 2015]
*
Marinetti non l’avrebbe mai scritto
Ciao, come va? È tutta sera che ti osservo. Ciao, zio! Mica sarai un Baldocci o un Babbaluga, eh? Guardo solo te! Perché mi lumi? Starai mica a broccolarmi? Sei una bellissima ragazza. Grazie, zio. Ce l'hai una geografica per una bomba? Dobbiamo invadere l’Albania? Non mi far sclerare, abbiamo finito la gangia, e non ci sono Majabba nei dintorni! C’hai neuri, dai?! Non fare il T-rex! Per farsi una canna, non ho money: non concepisco chi si droga. Zio, mi perplimi. Mica sarai un robboso? Sei afef! Al massimo Tronchetti Provera! Dai: non sono noioso. No, non sei un asciugone, né un fonzie. Pure tu m’attizzi. Non sei un Sancarlino! Sei un aristofreak? My sister dice che scrivi libri. Grazie, sono un ragazzo normale. Sì, sono un artista. Bella, frate. Mi fai andare in sciambola. Sclero! Sai scapersare? No, non suono, non scrivo musica. Scrivo versi. Meno male ke non sei una melochecca… Sei proprio un O.G.M.! Come ti citofoni? Boh, di norma scendo in strada, suono, e ricorro in casa. Non è sempre facile ritrovarmi. Che disease! Mi fai morire, o, se non altro, non mi fai sminchiare come i ragazzi della mia età! Preferisco i ragazzi maturi, come te. Comunque mi chiamo Ivan. Bello, mi piace abbestia! Hai un fazzollo? Tieni. Grazie. Come vivi? Sono responsabile in un’azienda della distribuzione organizzata. Tu? Uni, che sbatta! Sono alle pezze, sempre a studiare. Interessi: non sei un fungo! Se fossi un fungo, sarei un Cortinarius, velenosissimo. Bastard inside. Ti bevi un ape? L’ultima volta che ho bevuto un’ape, mi hanno ricoverato in ospedale. Ddddaiiii, non fare il babbo di pezza! Non sono una figa di legno. Sei una che va subito al dunque? Antisgamo. Con te ci andrei, al dunque. Henk! Che bazza… Mi sa che vuoi solo bombare! Come sei messo a Caronte? Ihihi Sono in grado di traghettare te e tutte le tue amiche… Smettila di garlare. Non fare il grozzo! Scusami, hai ragione. Sempre a pensare a inzaccare, voi maschi. Camomillati, o mi tocca asfaltarti! Non è che concedo il frisby al primo che incontro. In tutti i casi, se la concedi, te la rilanciano. Sei troppo scemo, simpa! Non ti voglio scagliare! Ti va di ribeccarci, magari, un puntello, non, così, damblee… Sì, ho voglia di rivederti. Magari un chinese, un cinemino? Dobra! Ci sto dentro. Sgamiamoci domani: lasciami il numero di cella. Hey! Dove avrò messo la cella? Hai visto la mia cella? ‘spetta, non imbruttirti! Più brutto di così, non riesco, anche impegnandomi. Sono in chiusura, zio, non ti seguo. Oh, non mi rimbalzare, squilliamoci. Certo: ti chiamo. Ma non sarai mica fidanzata? Zibra! Zero al quoto! Poi che cambia? Eh, che cambia?! Sei troppo fuori. Domani è Ferragosto, è tutto chiuso. Fregatene: ci vediamo al bancomat, e magari ci archiviamo a letto. Cia’, zio. Ciao, bella. [Patroclo non deve morire, 2013]
*
Lehman Brothers
Correndo sciancato come scarso debuttante ai balli sfrenati della bolla immobiliare, mi sono accorto con mesi di ritardo d’esser morto di ferita d’arma in grosso taglio, messo al corrente d’esser sotto conto, durante un’escursione al campo santo. È il libero mercato, scotto da certificato, in testa alla finanza, creativa, compulsiva, beccata ad armeggiare, le mani nella borsa, con nobile burbanza. Cadono banche, titoli scendono come stelle nella notte dell’Ade, innescando catene di suicidi tra schiavi altolocati, in tazze nude. Libero mercato, nato intorno al ‘900, autotreno trainante in movimento, liberaci, animali sul bordo della strada, dalle tue manie di investimento. [Scarti di magazzino, 2013]
*
Il ballo di Sant’Ambrogio
Frenesia, concitazione, delirio il ballo milanese di Sant’Ambrogio danzato tra un briefing e un ufficio marketing nell’ex capitale morale dell’ex nazione, ballato da operai, impiegati, dirigenti di ogni azienda, entro o extra articolo 18, ondeggiato senza tregua tra le maree d’un traffico anestetizzato dall’area C, zona demilitarizzata, nell’arco di tutti i lunedì mattina e i venerdì sera, altalenato nelle fauci della metropolitana, zigzagando le carcasse dei barboni in Piazza della Borsa, frenesia, concitazione, delirio. Le tarantole non mordono a Milano, città di nere vedove allegre, mordono i bancomat a getto continuo nelle strade inondate dalla nebbia azzurra dei lampioni, mordono i negozi di Louis Vuitton in Montenapoleone le modelle grattacielo sperdute nelle settimane della moda, i Mc Donald’s cittadini saturi di formiche umane mordono, costruiti sull’anima delle antiche osterie meneghine a u.s.a.izzare ogni orizzonte, mentre il Principe di Savoia è una fortezza che rinchiude i nuovi nomadi, trattenendo, in strada, indigeni stanziali. Frenesia, agitazione, delirio il ballo milanese di Sant’Ambrogio oscillato tra una ribalta di magazzino e la ribalta della Scala, ballato da precari, cassintegrati, disoccupati, di ogni genere e nazionalità, volteggiato senza respiro tra i treni in ritardo della Stazione Centrale assaltati dai nuovi bagaudae pendolanti con borsa da lavoro in una mano, Pc nell’altra, biglietto in bocca, fremuto dall’angoscia della busta a fine mese, farneticando di trattenute, addizionali, contingenze, frenesia, concitazione, delirio. L’infattibilità dello star fermi nella Milano da bere (con un goccio d’En), il veleno neurotonico della vita da Navigli, in una città dove rilassamento è movida, cocainizzano uomini-dinamo in moto perpetuo, trasformando il tempo in un febbricitante formicaio. Frenesia, eccitazione, delirio il ballo milanese di Sant’Ambrogio. [Il Guastatore, 2012]
*
Maldida alma: electrotango
Guardi fuori dalle nostre due finestre e non t’accorgi d’aver costruito un muro, in stile etrusco, dalla velocità sembravi un muratore bergamasco, e mi continui a chiedere di ballarci sopra un tango elettrico, con equilibrio instabile, in bocca, come argentino asettico, steli di rose rosse, facendomi sputare denti e spine, rigurgiti di tosse. Contro il tuo muro si infrange ogni messaggio, nella bottiglia, rifiuti ogni mio sintomo d’ebbrezza scansando a muso duro ogni carezza, inconscia che, finiti i vuoti a rendere, mi dovrò arrendere insofferente a barattar dieci minuti d’ansimo con vitalizi d’alcolista anonimo. Se dici che non vuoi una «storia», donna assediata da voci adulatorie, a che ti serve il mio cuor da cantastorie votato a trasformar conquiste in rotte, tu, novella Dulcinea (io Don Chisciotte), desiderosa solo d’ottenere in dote un nuovo amico sacerdote. Electrotango, tango di tormento che carichi i miei versi a sentimento smussata nel tuo abbraccio ogni diffidenza, abbatti il muro dell’indifferenza, o, memore d’avermi sempre accordato cose turche costringimi a ballar, con altre, lubriche mazurche. [Carmina non dant damen, 2012]
*
Lupus in fibula
Poesia, torta von Sacher Masoch, sono tuo schiavo, essere senza coerenza che brilla, di notte, nel ventre umido della tua incoscienza, sono una bambola in tuo potere - mia dolce ventriloqua- con una tua mano sulla bocca, e l'altra nel sedere. Privo di te son come l'Iran senza bomba atomica, son come un seno senza forma conica, son come busto di Mussolini senza saluto romano, rimango un brutto Socrate senza Cyrano, senza di te, sono un Saddam scollato che cerca di risolvere un rebùsh, sulle strade di Milano son autovelox pietoso senza flàsh. Poesia, fuori di te mi sento un Crasso senz'arte né Parti, e tu, come un nano in spiaggia devi stare attenta a non incazzarti, (per non gettar sabbia negli occhi ai miei patetici scarabocchi), sentendomi mito della taverna, mitile ignoto senza giberna, ragazzino bizzoso, e bizzarro, meraviglia d'erre moscia costretta a dir ramarro. Poesia, sei fiat lux accessoriata, (Dio Enel da Dio Enel) su bolletta non pagata, indizio cosmico di celesti emicicli, dinamite capace d'accender fanali di mille bicicli, Nietzsche, nell'atto d'abbracciar cavalli o accavallar braciole, neonata abbandonata tra i flooding d'un mare senza aiuole, coltivatore di retti in un locale omosessuale, eccezione nei casi ratti d'un malinconico duale. Poesia, rombo di tuono, cemento indomo contro muri del suono, le divinità muoiono, i nani corrono sulla sabbia, e noi scriviamo, sotto l'effetto, stupefacente, del tuo richiamo. [Galata morente, 2010]
*
Mostri
Quando i mostri, zitti zitti, s'avvicinano, rubandomi i comandi, stralciando i miei sorrisi c'è vuoto, oblio di mille mondi, sulla mia schiena, nella mia mente, da non riuscire ad alzarmi, nell'ansia di difendermi da ogni delusione, da non riuscire a alzare scudi di cartone. Quando i mostri, zitti zitti, s'avvicinano, attentando a desideri, ammazzando nuvole, c'è dolore intenso, senza sensi, senza senso dove ci sono cuore e stomaco, nell'apatia d'un insidioso blocco neurale, nella certezza di non adottare bimbi, che non ci saranno altri mici, credendo di annegare mille lacrime, senza riuscire a piangere, senza riuscire a navigare. Quando i mostri, zitti zitti, s'avvicinano, arrestando i venti, molestando salici, vicino a me non c'è nessuno, cercando di mandar dentro aria, e fuori sogni d'una testa vuota, di scuotermi con violenza, sguardo fisso alle pareti, male ai muscoli del collo, boccheggio devastato, come i resti della cena nel buio d'uno scarico intasato. Quando i mostri se ne vanno, io resto, mostro d'intensità minore senza manie d'arresto, narciso caduto in una brocca di fango in corsa su binari umidi nelle urla d'un dittongo, a terrorizzare i tuoi mostri, tragici schiavi di moralità cablate, mettendo aceto,e sale, nell'olio delle tue insalate. [Mostri, 2009]
*
Niente, oltre confine
Guardare, aldilà di consunti guardrails, incolonnati, come formiche ubriache dentro scie d’Avana invecchiato, inscatolati nei vani motori delle nostre vetture, vani vettori di rabbia, e non vedere niente di nuovo, e non vedere nient’altro nelle case tristi, senza finestre, incastonate, semi senza terra, ai confini del mondo autostradale, ai confini dei nostri orizzonti cittadini. Oltre i muretti divisori, tra i due sensi di marcia, non c’è senso, nessun senso nel vuoto, visto allo specchio, delle nostre andate e dei nostri ritorni, tra frammenti ossei di musi duri, mascelle serrate, degli altri esemplari della nostra razza dannata, nei distributori di benzina che non bruciano, nelle mie sensazioni da autocisterna sfitta. E non arrivano carri attrezzi, navette di soccorso, a impedire ai miei occhi di annegare, di affondare, nell’infinito, sfinito, d’un mondo seduto a tavola senza appetito. [Lame da rasoi, 2008]
*
Via Crucis
Pitturato da attoniti schizzi di dolore cado, mi alzo, cado, e mi rialzo ancora nel mio cammino dannatamente incredulo, bianco e riarso dalla sabbia, su strade addormentate a cavalcioni tra rottami urbani e infiniti orizzonti da ‘600 barocco. Nessun divieto d’accesso, nessun divieto di sosta nei vicoli dei nostri amori sgangherati, assicurati in attesa di minimi massimali contro infortunio e malattie mentali; nessun cartello di caduta massi sulle nostre mani sulle nostre menti sulle nostre idee adocchiate da avvoltoi, scambiate, peer to peer, in bramosi mercati di reti d’acciaio e nodi scorsoi. Mi alzo, cado, mi rialzerò - ancora, e ancora!-, cinto a cilici stinti da lacrime di salice piangente, ebbro di madide viae crucis senza ritorno, solitario, ingannato, con animo sconfitto, cuore fiero, finché, d’un tratto non muoia il giorno. [Riserva indiana, 2007]
*
Poesia precaria
La mia poesia è precaria, senza collocazione fissa, fragile, senza retribuzione, niente diritti. Non ha tutela sociale, - è imprevidente!- e, a volte, puoi trovarla dentro ai bagni a non dir niente. La mia poesia, è precaria, in stage costante fa fotocopie e porta caffè roventi ai capi, agli uomini di successo, e ai dirigenti; rideranno i troppi poeti d'apparato del perenne affanno d'un ritmo instabile, d'un io ingestibile, a tempo indeterminato. [Underground, 2007]
*
Il pollice imponibile
La tassonomia caratterizza l’homo sapiens dalla forma della mano, non distingue l’ominide della Bibbia, l’ominide del Vangelo, l’ominide del Corano; l’anatomia moderna s’è imbattuta in una scoperta attendibile: l’italiano medio è dotato di pollice imponibile.
L’aumento esorbitante dei tassi non comporta una sparizione delle tasse, nessun sessuologo animale è mai riuscito a uscire dall’impasse, le tasse aumentano, in caso di abbassamento o crescita dei tassi, saranno tasse ninfomani, lontane dal desiderio di ribassi.
L’Italia è la repubblica fondata sulle tasse, da Nord a Sud, tanto che a rimettere le cose a posto ci vorrebbe un Governo Robin Hood, l’italiano medio, ogni giorno, è in ADE a misurarsi la pressione fiscale, arrivati al 50% chiameremo l’anatomopatologo a certificare l’embolia celebrale.
L’Itaglia è terra d’inventori, si mette una tassa sull’ombra delle tende dei locali, il massimo del cuneo fiscale (presa per il culo) è la tassa comunale sulle centrali nucleari, che, in bolletta, ti trovi una tassa EF-EN sull’efficienza (?) dell’energia elettrica, come cazzo riescono a convincerti dell’incoerenza è cosa comica.
C’è la tassa sul televisore, c’è la tassa sulla tassa, d’incostituzionale disappunto, e scopriamo che la nostra spazzatura, soggetta ad IVA, ha valore aggiunto, la tassa sulla morte, intesa come certificato di constatazione di decesso, ragazzi, ditemi voi, se ci fosse stata ai tempi di Yeshua, Lazzaro come sarebbe stato messo.
La tassa sulla morte, maronna dell’Incoroneta, a morire serve un nulla-osta ostia, il morto deve resuscitare e versare 35€ facendo la coda in Posta, la tassa sulle invenzioni che non si applica all’invenzione di nuovi tributi e ti accusano di diffamazione se affermi d’esser governato da una massa di cornuti.
La tassa sugli spiriti, in senso alcolico, la tassa sul rumore degli aeroplani, il rumore degli aeroplani? Pensa alla tassa sul casino di un concerto degli Inti-Illimani, c’è una tassa sui gradini, l’imposta comunale sui cani, la tassa sulle cabine telefoniche. Ma andate a cagare, forse si stava meglio con le stravaganze fiscali borboniche.
[inedito, 2017]
*
Oltre il Brillo Box
La mia ricerca sulla forma dello scrivere si innalza oltre il Brillo Box, butto i miei versi in cassaforte come se fossero a Fort Knox, start-up, ripetizione, riproduzione danno l’ergastolo all’originalità dei direttori centenari delle riviste ormai dimentiche d’ogni abrasività, d’altronde, si sa, le dentiere non vanno sollecitate da concetti intelligenti, a forza di accettar versi canini carmina dant panem solo ai loro denti, se a noi, adolescenti quarantenni, tocca la dieta del Professor Birkermaier a loro, bambini ottuagenari, sarebbe ora di diagnosticare un briciolo di Alzheimer. La moda attuale del critico scontato è latrare contro i successi del minimalismo milanese o romano, inn istèss, e noi, fantasmi anni ‘70, in cerca dell’agognato minimo spazio, ché a cambiare il mondo ci tornerebbe comodo l’energico vigore d’un massimalismo, a leggere certi versi in endecasillabi rolliani, nel 2016, ci si sente vittime d’un’odissea nello strazio, e il castigo delle nostre generazioni no future è di fare avanguardia a quarant’anni intenti a rivendicare un Lebensraum che non finisca con lo sfociare in Anschluss, noi Heermann condannati dalla flexibility a non sbocciar mai in arimanni, ci troviamo a riannodar cateteri a vecchi specialisti in trobar clus. Cosa ci tocca fare nell’intento di raggiungere i nostri quindici secondi di celebrità mostrare il culo da Barbara D’Urso, curare le rubriche culturali dell’Unità o brevettare rime che voi comuni mortali nemmeno osereste immaginare can che abbaia non dorme e addormentati – come ci vorreste- non ci aiuta a morsicare, è svegliata dalle carezze d’un emiro la tardo-moderna Bella addormentata da cocaina disponibile a succhiar US gal di oro nero come se fosse una pompa di benzina, signore, transgender e signori annuntio vobis gaudium magnum la favola è finita alle generazioni oltre il Brillo Box spetterà rosicchiare avanzi sotto la tavola imbandita. [Cherchez la troika, 2016]
*
Sono la Democrazia Cristiana
Visto da destra, mi dissimulo uomo di successo, forte di un contratto a tempo indeterminato, attualmente non garantito al 100%, direttore, collaboratore, autore, prestidigitatore di cultura, soldi, quanto basta, collocati in banche differenti con la certezza fiduciosa nel Fondo Interbancario di Tutela dei Deposti, amanti sufficienti a soddisfare ogni richiamo fisiologico, nessun legame, nessun vincolo, a contrastare il mio libero mercato. Visto da sinistra, mi registro vita consumata, abbandonata a giornate malinconiche nei magazzini di mezzo Nord-Italia, in bilico tra ideali di vita astratta e durezza del concreto quotidiano, ovunque sottovalutato, in recessione costante, in inflazione con la certezza sfiduciata di essermi investito in titoli di stato greci, ricordi confusi di un amore, intenso, smarrito nella nebbia, nessuno scudo, nessuna corazza, a tutelarmi dal mio libero mercato. Sono la Democrazia Cristiana, in fondo, sono la Democrazia Cristiana schiacciato tra moniti di conservazione e impulsi di rivoluzione, sempre in sella al mio cavallo, brocco di razza, cambiando governo ogni tre mesi, di governo in governo, soffrendo i mille spifferi delle correnti, moroteo, doroteo, andreottiano d’impegno democratico, fanfaniano di sinistra, rimango al potere, raffreddato, senza mai adagiarmi su una stabilità serena. Sono la Democrazia Cristiana, obbligato a giravolte, trasformismi degni di un De Pretis, mi crogiolo nell’abitudine di mutare, repentinamente, le mie sembianze, in modo da caratterizzarmi, in pochi istanti, sempre diverso personaggio inserito nel medesimo contesto scenico e/o drammaturgico della cultura di massa, mi abituo a collusione, corruzione, concussione, sfruttamento della mia prostituzione indeciso se incassare la tangente o rassegnarmi alla prigione. Sono la Democrazia Cristiana, impegnato a negoziare tutte le mie mosse nel ventre d’una dialettica malsana con stragisti neri e brigate rosse. [Il Guastatore, 2012]
*
Uomo in rivolta
Per non finir sul lastrico, maschero i miei mille mattini da veglia funebre d'ardore orgiastico, fingendo, scaltro, di scommettere su me, come cavallo vincente, nella corsa al trotto d'una vita spesa a correre controcorrente. Per non finir sul lastrico, lastrico i miei mille mattini di perfidi cubetti di porfido, seminando con mistica attenzione i viali della resistenza, con semi che rendan pioggia, e grandine, all'occorrenza. Per non finir sul lastrico, organizzo i miei mattini tramando all'ombra d'un acrostico, eludendo, deluso, i ritmi d'una vita trendy, rivolto, uomo in rivolta, a accendere estesi focolai d'incendi. [Galata morente, 2010]
*
Underground
Clandestino, amo di nascosto, e di nascosto scrivo di notte, schermato, dai fari accecanti di un mondo malato di rabbia, d’invidia, e di cemento armato. Furtivo, amo di nascosto, e di nascosto vivo, nel chiuso anonimo di una stanza, o nel ventre claustrofobico di un ufficio inventando rivendicazioni, contro ricchi, arroganti e rompicoglioni. Sotterraneo, amo di nascosto, e di nascosto schivo i treni del successo, - asini deraglianti- o meglio, mostri celati dalle nebbie dell’eccesso della logorrea fraterna di, voi, grilli parlanti. Underground, resisto, staccando col martello i chiodi conficcati nelle mani di un Cristo, abbracciato alla sua croce, in attesa di martirio, sputandovi negli occhi versi, e gocce di collirio. [Underground, 2007]
|