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Raccolta di poesie di Liberopensiero
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Verso il Dopo




C’è solo un viaggio
che dietro non si porta bagaglio,
e anche quando … per religione o altro …

le cose se ne vanno
insieme a ogni pensiero
e le vesti se ne stanno
addossate a un palombaro
vuoto _ in mano al tempo_
o devoluto al fuoco per discioglierlo
in crema di cenere.

da trattenere in luogo asciutto e prigioniero;
da sprigionare in cielo, in mare, nella stessa terra
da cui perviene
fino all’ultimo dei desideri vinti
rari in mezzo ai tanti persi.

C’è solo un viaggio
che dietro non si porta né bagaglio
né un abbraccio:

non occorre aggiungere altro.

*

Doni: tutti felici tutti contenti




Non so tu,
ma io di questi tempi tremo anche sotto il vento fermo;
nel montgomery felpato imbacuccato il mio freddo non termico dinamico
non desiste.
Imbraccio qualche dono nel qualche sacchetto.
Ti vedo allegro,
e chiedo a caso (sei uno dei tanti che la fiumana ingrassa):
Conti le luci in cielo o quelle in strada attaccate all’albero centrale
che spero sia con le radici intatte?
Avete fretta e camminate intrappolati nella calca tra il luccichio singhiozzante che vi illumina d’immensa calma apparenza.
Tutte formiche insieme all’addiaccio (anche io che non mi c’entro un accidenti!).
Pensare che il freddo si diceva tramontato e che gli unici immigrati
pareva fossero i ghiacci caldi!

*

Se non ci fossero sudditi non ci sarebbero re




Nacqui nel mio castello
perché ognuno ha il suo castello
dirondirondirondello
forse un poco diroccato.
E anche se non è a Balmoral
e non ammazzo tacchini,
che poi le foto spariscono
e le menti dimenticano
la realtà sublime di un atto
acchiappato di nascosto
veramente vigliacco.

No, non ho quindi la corona
e nemmeno vivrò tutti quegli anni
tra bambagia e cappellini
perché Dio
se c’è
non è proprio tanto bilanciato.
Ma ho il mio tetto stellare con uso di cucina
e questo deve bastare a me
a un mondo che ruota immagini compulsive
vive di differenze
da venerare, schiacciare, emulare …
e le guerre non sono mica colpa sua!

Del resto a che servirebbero le schiene
diritte, piegate, in mutande, altrimenti decorate …
se non si possono prendere le distanze che tanto fanno bene all’Io?

Da strade, fiumi, torrenti, mari, laghi
a foruncoli di montagne e all’erba grassa delle vacche magre
a tutto il visibile e a tutto l’invisibile

pensa sempre il castello stradale di una bara

comunque essa sia.

*

Ti Cerco Poesia

 

E mi domando della  Poesia:

se sia infine giunta alla sua  fine,

se la si tenga attaccata a una spina aspettando di staccarla all’improvviso.

Perché i  detti  versi non sono che parole

sovente messi per stupire,

farne consuetudine di monotono apparire.

 

Dove il tuo canto, o Poesia!

Dove il mistero, l’eterno e l’assoluto,

la filosofia  divenuta musica,

il senso primo e ultimo d’esistere ?

Io m’affaccio alla finestra

>questa<

che vale altri cortili.

E non sento che lamenti  provenienti da propri appartamenti,

freudiane confessioni ,

lascive missive in conto terzi,

rimaneggiamenti d’autori grandi

ma  anche di piccini.

E l’amore a dettar legge!

Trito, ritrito, maciullato, cronico.

 

Amore che tutto crede di sapere a penne piene!

Amore spesso inventato, travisato, millantato, propinato, farneticato.

Quasi sempre triste e perdutamente perso

anche quando mai avuto.

 

Ti Cerco Poesia.

In Te Credevo.

 

*

L’acume del creato

 

Sta mancando l’acqua al grano

suggerisce il fiato

vienimi perplesso nella valle

e guarda:

 

ci sono i fiordalisi

oltre i papaveri

e polveri dorate

pronte ad argentarsi.

 

L’acume del creato

dota gli alberi

le loro fronde capillari

dallo sguardo che finestrella il cuore,

la colpa del passato mai passata

che è dato prezioso

nella più grigia delle tasche

per la sua sostanza.

 

E lascio questo mio polso

ad eseguire il braccio

ramo che ha radici nell’andare

e corpo nella mente.

*

Sul Golgota dell’ingordigia

 

 

Hanno spaccato il lume dei maiali

e il loro sangue cade sui peccati

su salsicce e braciole servite ai tavoli

dai veri <quelli sì> maiali.

 

Piange Lei i figli suoi sgozzati

innocenti occhi il sangue bagna

non meno preziosi degli umani.

Anche loro sanno soffrire e urlare

ma non possono parlare

né arrogarsi il diritto di giudicare.

 

E da queste parti

la fame è tanta sulla carta

di hamburger da ingozzare

di croste firmate

del vil denaro che armi fabbrica

e droga natiche

con la scusa di combatterle.

 

In questo tondo paradiso

dove l’aria manca e il ghiaccio si scioglie

sul Golgota dell’ingordigia

crocifisso.

 

*

Un mare bianco

 

Sarà un mare bianco a cantarti la neve, il verde

di un prato a illudere il tempo, un nodo scorsoio

sul colle, le canne di rami ruspanti a unirsi

in un organo.

 

                       / il pianto bambino lo vuole

                         l’ombre di seta dei corridoi

                         tenace pensiero tra i sogni /

 

Son fatui fili a filare la vita, a narrare la storia

del mondo:

del tuo e del mio che è nostro, l’ulivo nel bosco,

le prove dell’ultima cena.

 

E un regista di fuoco dove un dio si raccolse

e ora trema sceso da un trono di pietra.

 

*

Soliloquio

 

 

L’ombra calava, quasi investiva il passo obliquo

che andava tra pozzanghere ghiacciate.

Il fiato caldo valse sulla stanchezza sudata al giorno che piegava

foglie inumidite alla settima levata.

C’era ancora tanta strada tra il tramonto e l’aurora, il pioppeto chiaro e

il cielo di fuoco.

Finché non avvenne che la cima del colle rifinisse il soliloquio, l’ampia

valle di sotto, il fiume scorrere fragore.

Per lasciare un pensiero nella notte:

L’acqua non ghiaccia quando si muove

*

Stella scoppiata

 

Inginocchiato davanti a un volto

di bambola, sentivo il mio morbo scatenarsi.

La resina che avevo nascosto per anni

colava, mi frustava l’anima solo dopo.

Non sapevo che altro fare se non

pregare sollevato di aver conosciuto il limite

che la tornava cosa mia.

E adesso mi ritrovo con la sigaretta mozza, in mezzo

ad una corte a puntarmi il dito addosso a dirmi

che non era amore. Ha scavalcato con forza inaspettata

la mia staccionata al cambio della guardia.

Le stagioni inducono a riflessione e io

odo la voce d’una santa.

 

Fratello, mia cura è assolverti, darti penitenza.

Sappi che i peccati si pesano col pentimento, vero,

che non torna indietro. Spero che il tuo non sia   

una stella scoppiata.

 

*

Colli di lana

 

Non sono solo questa sera

son con me stesso ad ascoltarmi.

C’è sempre in mezzo a noi

il vento a trapassarci

e il cielo a sbandierare pezze volanti

che quasi non mi credo.

 

Nemmeno un rumore di posate

osa levarsi dalla tovaglia bianca.

 

Posso riflettermi e pensare,

in questa istantanea dipanarmi

anche fra l’erba ghiaccia

che dalla finestra mi guarda,

affacciarmi nell’inverno

tornato ai suoi colli di lana.

*

Nemmeno i figli dei maiali

 

Sta passando questa malattia dell’anno

che se sei vivo accade.

Natale per ricordarti quanto  manca

al tuo tratto, dove sono fuggiti gli altri,

quanta la gente che resta senza pane, con troppa

acqua di sale i migranti.

 

Lasciate almeno che pace abbiano gli alberi

che il torto hanno d’essere sempre verdi.

Non hanno bisogno di luci e di palle le radici,

sono denti per la loro terra.

 

Non immolate nemmeno i figli dei maiali:

se dio esistesse

annegherebbe nel sangue

 

*

Geometrie

 

 

La sua decadenza sa di dolce amarezza.

Sugge ogni grammo di pioggia,

si spoglia con acre piacere fra lunghezze

ombrose.

E l’acqua cade a spezie bagnate,

conto non tiene delle vene

dei corsi.

In sincronia cosmica ogni ruolo,

brilla un lampo la coscienza addestrando

al boato del tuono.

 

Vigili i pini nell’ultimo tratto,

radici hanno ferme che vanno sul tagliere

dei tempi.

Forse si credono eterni.

Il loro verde spudorato lo impone,

non interpreta lo sgretolio

della ghiaia.

Tenaci resistono al vento

la schiena piegando purché ci sia

un ritorno.

 

I piedi che li guardano

passano.

Cantare vorrebbero di una gioia

perenne,

dell’erba novella che nuova luce promette

in contemplazione d’orientali

fiabe,

dove il bene bianco nutre le ali,

e l’anima riluce di un seno latteo ogni colpa

dando all’inverno.

 

°Geometrie°

per la giustezza che impone il Respiro

a due piccole lance che battono

prima che la notte lo chiuda per sempre:

 

sia terra, sia fuoco, sia marmo

 

 

*

Zolle

 

Era in un bosco d’acacie

/folto/

l’unico castagno

/spoglio/

che perso aveva  la sua cupola.

 

Di un tenero verde raccontava ardente, 

mentre la tenacia della gleba

sotto la sferza dei colpi stava senza alcuna colpa.

E muto il dolore ovunque si vergava

esplodendo  viscere in polvere

così come i pensieri.

 

Da una nuvola calda

un raggio di sole raro sfuggiva alla ventura.

Qualche rimbalzo s’infiltrava agli occhi

colori mungendo da stagioni

cha da  un profondo marrone

in azzurro trasfondevano degli accenni viola.

 

Non so se il tempo lo si inventi,

ma so che suona ad ogni porta.

Di bacchiature vive le sue morti

e a  generosa premura.

Sordo l’ansimare delle zolle,

dure sotto il manico duro che brulica tempesta.

 

Avessero un collare per portarsi a spasso

anche da sole!

O braccia i loro nasciti.

Invece che rami dalle perse foglie

che un antico pittore s’ostina a immortalare

ovunque possa e passi la sua statua

 

*

Una arancia ad orologeria

 

Da ogni albero le sue forme scolpiva

per soffiarvi altra vita, e nuove storie.

Fuori se le portava sulle sbrogliate cinte

a tacchi acri e dolci.

E così si raccontava, se stesso promosso

in un dio su bianca carta. Preziosa

come quel latte nella tazza in smalto

che da bimbo custodiva, caldo, sognando della neve.

 

Di sbieco lo strapiombo, tanta la paglia per i campi intorno

in punto fuga dal suo terzo occhio.

Pagode luccicanti coi seni arsi dal girasole più giallo e più alto.

E il grigio degli ulivi non mentiva.

Acuto lo staglio, vaporoso il rosa:

Vedi la risposta dell’alba, la mano che dà al nuovo respiro?

Si domandava avvampando fuori dalle mura

dei camini la fuliggine.

 

Quanto il giorno durasse non gl’importava,

né se da qualche parte ci fosse un’arancia ad orologeria.

 

Nel tino ora viveva e invecchiava la sua spagnoletta riavvolta,

vena d’inchiostro a sgravarsi dall’arcaico dorso  

*

Descrivimi quella curva che scivoli

 

Incipriata è la strada

vendemmia bianca

liscia, arcana, fatata.

 

Descrivimi quella curva che scivoli:

 

l’ultima, la più preziosa, dalle anche soggioganti

che il tuo sguardo .intera. vorrebbe solo ora.

A gomito incide il braccio dentro l’altro

in continuo andare senza un mosso ciglio d’orbita.

Ha labbra spezzate, piccoli commi

che infinitamente grandi incombono

senza alcuno sfoglio.

 

E balenii da un lucernaio

a schiene basse c’inquadrano cespugli

col vento a strapazzarci.

La neve vortica pazza

ovunque il pensiero possa posarsi,

senza un pasto caldo ghiaccia

.Noi. con uso di memoria

 

Fino alla porta priva d’occhi

che a muso calvo aspetta

e ogni senso ingoia di ciò che fummo.

Universo a tempo,

istantanea  di un Cosmo

troppo pregato per nulla

 

*

Nel primo giorno dell’anno

 

 

Volano la pioggia i gabbiani,

piccoli aerei alati in perlacea area.

 

Non hanno voce stamane.

Con le grida tra le piume

ogni goccia d’aria traversano

in rigoroso silenzio.

Quasi fosse un santuario il cielo

messo alla terra, e lei coltre a riflettere

e a pregare su ciò che è stato.

 

Un’istantanea

dai bagordi sbarca

con la sua bocca asciutta

da ogni illusione illusa.

I più fortunati, svenuti in letto,

tardi s’alzeranno ancora più stanchi

dalla notte consegnati.

 

Ed ecco, qualche faro si sveglia

dalla mia finestra sul mondo,

nella sua rarità prezioso.

Mi scrollo una fissità avvolgente

al domani pensando, ai negozi

che riaprono, al tutto che odio quanto amo

nella sua consueta forma, se mai ci fosse.

 

 

Nel primo giorno dell’anno.

Nel primo senza te, Madre

 

*

E uccida l’anno Vecchio ...

 

Arcano questo lasso

di botti buoni a mutilare.

Come forca pende nel Creato

a somiglianza creato

da uno scibile colpevole

d’essere quale è.

 

Voce si dia a urla che cantano

con ritmo fatto di accenti tribali,

in battere e in levare

la storia delle genti, la realtà

alla rinfusa sui viali.

A sentinelle di pini che stanno ad aspettare. 

 

E uccida l’anno Vecchio ...

anche chi ammazzarlo non vorrebbe,

finché la luce veste e il destino

non marchia

la sua spoglia in un cantiere

di marmi

*

Un presagio di nascita

 

 

Qualcosa di biondo

sussurra al bianco della prima alba.

Il gelo della mia maremma

non nuoce all’occhio che guarda,

e accoglie nella sua pace parallela

il Natale che avanza.

 

Pini e faggi bianchi

hanno rami austeri, arti

senza monili che non sia il ricordo del  pane, ma s’abbracciano.

E col pensiero abbracciano ogni visuale in tronchi netti

dalle radici ferme, autoctone,

che spingono nella loro terra

un presagio di nascita.

 

Tra colline e campi

si vive costellati dal mare: burbero in questo tempo,

avvicina e allontana corpi piccoli e grandi sparsi

sulla colonna del dorso. 

 

Tollerano il vento gli indumenti spogli, lo sbarco di ogni

sembianza sulle rive di un coito amaro, le bandiere morte.

Non potrebbero altrimenti, ma sempre sperano

nella brina che salva almeno il più di un giorno.