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Raccolta di poesie di Dereck Louvrilanmè
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Parco della vittoria

Dove è la fonte il gorgoglio racconta 

quanto è continua la portata scorrendo

la roccia. Ecco, questo è 

un collegamento al giovane che fece 

del legno di Luigi una specie di remi 

e dal varo alla secca infilò tempesta 

e bonaccia come perline di vento, 

alternandole poco precisamente

fino a portarle in vita. Una cintura 

che va allargandosi, oltretutto le faccio

il filo con torto.

La vita è, dunque, una formazione

che le capesante giudicano insufficiente

per due valve e, per una, solo amore, ossia:

in difetto di coppia meglio non darsi al volo.

Sapete come adeguarsi sia facilitato

dalle lame di scirocco. Una contemporaneità

di elementi abrasivi smerigliano gli occhi

ma la luce sfiorando la superiorità della sfera

riesce a far passare il rosso tramonto

e nutre la sera.

Ho trovato a quel tempo la mia specie 

in continente, già parco di ginestre.

 

*

Colto dal perso

Ma che sorte hanno avuto i rematori?

Tra uno scalmo e l’altro passano barche 

con l’aria di ondate che dal molo si liberano

in sequenza nonostante l'orizzonte

si disinteressi dell’agitazione che lo sostiene.

L’orizzonte ad altezza d’uomo è una misura

insuperata. Una teoria di confine priva di prova.

Per quale fede vanno in processione le onde?

Non più brevi tronchi affusolati introdotti

a ragione di fenditure salate che il bacino

del mare esprimeva con uno splash infantile

come la quaglia nel fontanino di ghisa.

Quei cappucci bianchi sono un ordine del vento? 

Non sempre, diceva Luigi, che sempre

con “non sempre” indicava per precisione

la sua conoscenza dei mestieri di navigatore,

distrutto dal galleggiamento fra le mura

del condominio di utenze e servizi, roso lui 

dal sale involontario del fitto, seccato 

dal turismo che cala le braghe alle spalle 

del primitivo splendore, verso le coste sarde, 

volto per il dove dalla terrazza al sole. 

Adesso, nelle ville del boom sul telaio costiero 

i muscoli copiano le armature e ciò che entra 

in corpo non sempre diventa energia

stanziale o di fortuna.

 

*

Il conteggio che ci prenderà

Marmo a perdifiato. Qualche nota 

di rilievo con il senso di fioriera.

Sbocciano dalle foto visi interi.

Ho toccato con mano un’ala 

di ferro battuto dalla ruggine

come migliore offerta all’asta

dei giorni che nessuno riceve 

come credo ma che si strappano

all’incanto dei vizi. Questa è solo 

una battuta annoto per chi osserva

come faccio le scale all’altezza

della vita. C’è una balaustra?

Un corrimano una ringhiera? Qui

c’era quasi una cintura. Non era 

un parapetto… E sono caduto!

Un parapetto protegge più in alto.

Con fede mi ripeto: siamo i muscoli 

di tutti i morti e quanti più agitano 

lo stesso nome più robusta torna 

la voce alla luce dei riassunti. 

Diffondiamo la loro lingua 

dando baci con la nostra bocca 

e spargiamo il loro sangue

ammazzando con le nostre mani.

Andiamo tra cadaveri 

senza trovare pace, 

che pure è morta

col big bang.

 

*

Corre voce

Corre voce che l’amore sia retrogrado

e che in solitudine l’uva si sposi con il vetro.

Il frutto è immancabilmente un bicchiere.

Sulla tavola sparsi grappoli seccati di brutto 

e pane trattenuto con durezza in luogo

della fraganza che accompagna mordere 

ciò che rimane del desiderio. Ho fame,

ma non è vera. Ho sete, ma non è sola.

La bocca sa di uva nera che secca 

pensarla fuori stagione; e il cuore, il cuore

è claudicante o ribatte con incertezza

se stesso per forza maggiore.  

Eppure l’uva più secca più dolce

conquista. Come l’amore 

o nel turno di notte la stella golosa. 

Ma la pancia ruglia e saliva il palato 

allungato all’uva così ristretta al seme. 

Niente da fare: l’amore è retrogrado 

in chi ti pianta.

 

*

Dato per Alan T.

L’ultima ostentazione è la polvere 

nella polvere con la possibilità di scorrere 

da polo a polo, a meno che grani di te 

(o tutto intero) ti facciano deserto, allora 

potresti un’altra funzione più a lungo.

Clessidra, vuoi?, che marca il tempo

prima che si rivoltino i canoni dell’epoca.

Alan, così portato alla grazia. 

 

Genio della formula logica: bastava 

carezzassi l’enigma cui facesti la guerra

perché la procedura fosse logica come 

capotreno e i binari questi passeggeri.

Poi i clang dei rotori divennero chip

che annidano le informazioni in una valle 

di silicone, Alan, per i seguenti. 

 

Anodo sacrificaleper la ruggine morale,

hai toccato l’incomprensibile tabù 

con ogni parte del carpo: nel palmo

il numero uno e posto a zero l’ormone 

del manicheo di londra. Non mi convince 

che il veleno frutti la mela che ti finisce 

in gola. Questo dato non solleva 

la polvere: il passato è sempre deserto.

 

*

Specchio delle mie trame

Penso faccia testo quello 

che fa riflettere incessantemente

nel vetro corroborato dall’argento

muto quanto esposto quindi ciarliero  

con una certa lucidità per dire di te. 

Sebbene l’immagine non renda l’idea

l’annuario e il narciso che nascondi

dibattono su chi più ne sa di riflesso. 

Non è che un rimando continuo

mentre piego e ripiego il capo

e poso e misuro e falsifico il profilo 

della ruga che fa il verso al pensiero 

incapace del tramonto. Lei sostiene 

la liturgia del corpo nello spirito 

del vetro, ma né l’anima cambia 

aspetto, né rinviene. Lei, prodomo 

dello specchio, riceve la luce 

e la rimanda al creatore. 

La scaglia, penso. Resto dei pesci.

 

*

Quello che non ti ho letto

I

Sono un uomo fatto tra gli uomini 

finito in pasto alle note dolenti. Non suono. 

Tuttavia credo ai ritmi, alle abluzioni 

in calce alle voci; credo alle finiture 

delle cantilene; credo alle spoglie 

transitorie che mantengono la parola.  

 

II

Sono convinto che la coda, prima di sparire, 

reggeva tutto l’animale che ancora si vede

nelle trappole fotografiche. Il pollice fece meglio 

e il passaggio per oggi lo trovammo più facilmente. 

L’impugnatura divenne strumento di genere

per l’ergonomia dei caricatori: i calci partono

dalla dissoluzione delle mani tese. Adesso 

l’invocazione a te come detto.O come leggi. 

Nessun altro rifugio è più insicuro della mente.

 

III

Perciò ti scrivo da questa pagina di migrazioni: 

i periodi volano spiegando quello che possono.

Le date ormai sono vocali che ricordano poco.

Perciò scrivo non al volo e non ad ali di folla.

Fai attenzione: qual buon vento

porta quel che raccoglie ma non ritiene? 

Per tutti i corollari del mondo la perla

è il dittongo dopo la d. Rispetta il fiato 

corto: è lo scotto, il pedaggio della dedizione.

 

IV

Mi piace come ognuno viva per dire,

evade l’ascolto ma crede di sentire,

traduce in profilo il guasto della voce.

 

V

Ma perchè l’aria diffonda la corposità dei toni

è necessaria la consonante vocale.

Poi, tornando la parola, che almeno un timpano 

ci tocchi, a voler essere generosi.

 

VI

Così posati, renitenti alla stanchezza,

esprimiamo il volume incomprensibile

se non addirittura rilegato, cartonato

del bel tomo in visione. Questa che leggi

è la scrittura a vapore: puoi farci l’aerosol,

nient’altro che fumigazione.

 

VII

Infine, il bene placido dei led consente 

l’epica, indica il sentiero, perora ritorsioni.

Ecco, ripaga l’attrazione a cottimo. Ci prende 

l’incompletezza dei tronchi quando sfogliano 

per la nuova linfa: dobbiamo ancora decime

ai fogli.

 

*

Delle paci, che si nutrono di guerre

Dov’è la pace, sappiatelo, la guerra serpeggia.

Dove serpeggia la guerra, rammentatelo, la morte agguata.

Dov’è la morte in agguato, fateci caso, la vita sfugge.

Dove la vita sfugge, notate, la sopravvivenza geme.

Dove geme la sopravvivenza, segnatelo, il potere urla.

Dove il potere urla, vedete, la pace non risponde.

Dove non risponde la pace, sappiatelo, parla la guerra.

 

 

 

*

Delle guerre, che non trovano paci

I lombi della guerra sono una bomba, 

per questo tanti uomini le vanno dietro.

 

La lingua della guerra nasce con noi, per questo 

ci lascia solo dopo morti i fondi.

 

Il volto della guerra ci somiglia, per questo 

il suo ghigno mostra i denti caduti: e all'osso.

 

I piedi della guerra lasciano orme che battono 

sempre nello stesso punto per questo ci affossa.

 

La vita della guerra è la stessa vita della pace

per questo i suoi seni sono vizzi e asciutti.

 

Di che ti vanti Spirito che ci hai messi in luce 

perché ci raccontino le nostre ombre?

 

*

Dell’amore, che non si capisce

Dicono quelli che logorano l'udito

“l’amore straccia i calendari, non li sfoglia.”

Guru da led, al tavolo con le gambe

una sull’altra: incrocio di fibre legnose

che si è fatto strada in un corpo solo,

il bacino dietro lo scudo della sedia. 

Starei in amore, penso, ma non capisco

perché è sempre dannatamente confuso 

nonostante gli stessi brividi della doccia fredda.

Esco, mi dico. Non sono ancora dentro, rifletto.

 

La soglia fa più di un gesto di sostegno, 

riduce la porta socchiusa a testimone 

di passaggio: l’agile ragazza dov’è finita? 

La mancanza disegna pensieri. La penombra

sceglie i suoi toni e prolunga le fughe.

Il comune senso della pulsione segna 

sul taccuino dei nervi la distanza lunga.

Il cardine geme al notebook e preme 

il tasto all’osso, a resa quiescenza.

 

Talk di procellarie da ztl, uscendo.    

Secondo queste comode voci, sarà 

mai autunno se il bene può ancora reggere

al verde, nonostante su di te la neve schiumi. 

Tardo amore con la tossicità della ginestra. 

Non le dico molto, evidentemente; 

l’ambito è zeppo di presenze ambite. 

Il labbro sporto nel latte di segrete

conoscenze irride il silenzio che lo bacia.

Dal mistero personale verso cristallino 

la sua dichiarazione d'indipendenza.

La leggerezza che mostra poggia

la bella ragazza unguento. Una fetta

del tempo è fatta di mille briciole

che si spargono un altro adesso.

 

Di lei seguo feromoni confusi. Memorie.

E si eccita la lingua a raccoglierne

a bella posta. L’amore tardo è portento 

benché pare che nel suo mistero 

non ci sia spazio per me: io dovrò 

introdurre un nuovo elemento 

perché lo spazio per crederci si crei: 

una formula, serve. Nel formato 

che le serve.

 

*

Dell’orgoglio, come isola

Scrivo cose che non richiedono 

partecipazione e non partecipano

ad alcunché, quindi non sono competenti. 

Il sillogismo non spiega il termine,

il legno che si accetta è scelto per l’uso,

ogni termine è un buon inizio.

Le parole sono volatili, migratori

soprattutto se le vedi in formazione.

Vanno da un continente ad un altro 

che può contenerle. Siamo anche nidi.

Nudi fino a coniugare ascolto a ripetizione. 

Con niente vinco la mia sete 

ma perdo la misura quando verso.

Per questo indico i taralli: da tempo 

conservo i buchi come fatti e li utilizzo 

circondandoli di parole che finiscono 

tra i denti, masticate a ripetizione.

Uso una lingua a pettine, un parcheggio

da cazzeggio: le papille di dubbio gusto,

la cultura al dente. Bollito, io penso.

Parole come impasto spesso grasso 

o scarno per la consuetudine dell’agio

da concedere nell’esposizione, alla luce 

dell’avventore. Vento che scuote il senno 

per scoprire se contiene il seno.

Contornati i buchi sono vocali 

negli abbracci consonanti e la stretta, 

la bocca, li forma a ragione. 

Fa testo quanto manca.

 

 

A Mimì e Cribi, con devozione.

 

*

Della cura, come si diceva

A lei interessava il geranio

e sono convinto che la pianta

le andasse incontro con fiori

alla mano. Tipico delle sue 

radici. Queste congegnano 

le forme per il piacere 

dell’osservazione al ritmo

di qualsiasi rivoluzione. 

Tante menti superiori stanno 

sotto terra a staccarsi da quanto 

le radici fanno emergere di loro.

Ognuna ci ha resi portatori

di polline, insetti a tutto spiano.

Disse, pronunciando staccarsi

con la cadenza delle foglie e

spiano con un tono autunnale.

Al passo con il tempo, pensai,

ripetuto e riflessivo autunno, 

come ci voleva, ci prese.

Ma lei aveva colto il segnale:

l’anima non è schiava della fioritura

ma è probabile che la fioritura

interessi l’anima per superare

la periodicità del corpo. 

Prese una caramella, con gusto 

di menta e latte, dalla tasca, 

bucò la terra con un dito e depose 

come all’epoca dei pastelli 

il dolce al piede del geranio.  

Posava sui petali aria antica

con la cura necessaria.

 

*

Dell’alba, come ricordo

Questo è un POV dai piedi della notte 

alla cima della barca nella china schizzata 

dagli scogli. Contavamo su di loro.

Ci prese un tale inchiostro che i lumi 

si accesero a ragione, ma è l’emozione 

dell’ignoto che regge gli orizzonti che

in un dato momento sono la piazza

con i più comuni accessori: le panchine

nel raggio di un quarto di luna. 

Una degradazione del buio, disse lei, 

che fa immenso l’universo ridotto in chiaro. 

L’alba riallinea, cambia l’atmosfera 

in punti precisi del locale.

Il profilo dei promontori somigliava alle nocche 

sbiancate che distendono le increspature

del golfo. Appiattito e per niente riscosso.

Le ha disegnate pachamama come poteva

e noi stiamo esagerando con la gomma: cancelliamo

cancelliamo, ma sono i residui che ci spazzano

sussurrò, prevedendo quanto avrei scritto oggi.

Annuii: le femmine vedono oltre i maschi,

perché i loro occhi e il loro respiro arieggiano

il mondo, penso, come la brezza 

per non cambiare genere.

Vista da qui, infiamma l’ora e se la squaglia 

in un minuto ignoto. Un richiamo al giorno.

Parlò con quel tono strascicato da pescatore

che dava la sveglia ai cefali malaccorti 

rimasti muti nonostante la pastura 

abbia il sapore del tradimento. L’inganno

è una porzione d’amore, non tisana.

Eravamo giunti all’ultima rotonda

che immette sulla piazza in esubero

di posti - il posto preso a caso 

è un volume comunque, benché poco

letto seduta stante, a mezza voce 

suggerisco che il lungomare ormai 

è solo libreria dell’apprendistato in erba

che non si cura di noi, anzi, cura 

la libertà di crescere con distrazione. 

È passata l’alba tenuta al paradosso.

 

*

Per buona merce

Dal distributore di carburante fuoriesce 

il succo della crosta terrestre. Proprio lì 

condizioni di tempo buono trasformano

i rifiuti in pompa magna. Per dirla con lei: 

sono umori profondi per l’uso che più in fretta 

accorciano la distanza dalle dipendenze.

Obiettai che il pianeta è vivo ed è ruminante: 

siamo qui perché la Terra rimastica 

e affina, poi inghiotte il cibo brucato 

in una prateria di fenomeni contundenti. 

Tutto lo spazio fuori è occupato da esche

che coprono l’amo che ci stramazza. 

Con un gesto frustato, aggiustò la gonna

sotto gli occhi del benzinaio che guardava

avanti. A ragione si ribellava: seminerò 

i rifiuti più naturali; e seminerò i consensi 

più castigati; e seminerò le occhiate 

più torve; e costruirò i miei castelli di rabbia 

sulla riva del male; e non dirò pane al pene 

o vino al tino, ma come essere sicura

che non estraggano comunque la radice 

dalla gonna per i loro calcoli seminali? Disse. 

Ebbi la sensazione che un vento gelido

mi prendesse in giro come per farsi strada.

Era tanto mela quanto morso: si teneva 

coi denti alla vita e con la vita si teneva 

quell’aria espansiva da ottano infiammato

per il quale l’esplosione è sintomo 

di bruciatura non prova di guerra. Ma non c’è

vittoria che non sia conseguita con riserve.

Non potevo amarla diversamente dall’amarla 

per tanti versi. Così scrivo di lei per leggerne.

È proprio vero: un battere leggero di tasti

dal posto più remoto diventa qui una tempesta

di ormoni in assetto da corpo.

E passammo all’incrocio come clementine

cambiando le marce per buona merce.

 

*

Ah, vita!

Nella stanza d’attesa la visita è concessa

per grazia del santo e non c’è festa

per l’ambito seguente. È strano quanto

gli sguardi ci rendano scorpioni

e la coscienza somigli ad una rana.

Lei sosteneva che i visi pazienti

fossero volti altrove. Affermò che la speranza

deve concedere al timore uno sguardo vuoto.

E il vuoto è che la prossima ora potrebbe

farsi senza i resti delle stagioni precedenti 

e non tanto a breve il diavolo si lascerà

prendere per buon motore. L’errore fu 

dirglielo con queste parole. Che è come 

abbindolare la rana con la scelleratezza 

dello scorpione.

Lei disse che per approdare sulla riva

bisognava andare a fondo. E camminare

vs corrente trattenendo il fiato 

come assuefazione.

Era lucida ironica spietata. Oh, lei 

indubbiamente aveva sensibilità a fior di terra.

Lungo la schiena saliva il grido

come l’asino di Buridano: tirava tirava

senza raggiungere la bocca. E si spense

a vita.

 

*

Simili orpelli

Tutti gli appartamenti hanno vasi

che gocciolano il nettare prodotto

in cucina, diffuso nel salotto

e consumato in una piazza comoda.

Lei allora disse che avevo in mente il buio

come un peso sullo stomaco. Un ambiente 

corroso che non fa distinguere il pensiero

dall’alfabeto incerto che lo sostiene. 

Credo intendesse che la penombra contiene

la singolarità degli occhi mentre libera

dai confini i cuori in funzione. Mi corruppe.

Disse, mi pare, "filtro da te", poi si spogliò. 

Era splendente in assetto di Venere.

Le feci notare che quelle osservazioni 

rendevano il divano poco adatto a reggere

il gioco, mentre una carezza sulla nuca 

avrebbe trasformato ogni battito in gemito. 

Dio è una espressione del genere e, 

in quanto morenti, questo ci serve.

Lei concesse la schiena andando diritto

a come la pensavo, ma l’anima, per il flagello

della coniugazione e la supremazia del peccato,

si era già data in pegno in forma di corpo,

la sua compagine avversa. 

A modo mio le do il bene che posso

come un acino, poi un altro ancora: a grappolo.

La colgo dal mio filare. Mi trattengo. 

Per la sommità del seno dove giungo in affanno

in grazia della sua disposizione millenaria. 

So che al buio la lingua può farsi luce. 

Divina mentre mi ricorda

di non pubblicare simili orpelli. 

 

*

Nella cruna dell’ego

La vita mette la freccia nel senso che vuoi. 

Non sei arciere? Credi in quello cui tendi.

L'arco è un petalo del cerchio costruito

sull’anagrafe con una certa prevenzione comune.

Mira al tuo ricco annuario per dare attrattiva

allo stelo: la rosa degli acufeni è una menzogna. 

È il ronzio che sugge la gioia. Ha il profumo

degli avanzi in un grave digiuno. Cos’è la gioia? 

Un fuoco artificiale tra tanti fulmini, la mano 

di vernice che copre le ruggini e, in quanto 

copertura, la gioia sbiadisce e si vede poco.

Eppure, simuliamo di attraversare porte

aprendo finestre che si sbarazzano del buio:

tra le pieghe la notte spiega lo sconcerto 

come gong di fine ripresa e secchio e spugna.   

Torni in pugno alla vita che avresti detto 

grazia d’amore, a scanso d’equivoci.

 

*

Ho conosciuto chi mi viene in mente

Non do i numeri, ma pure a decine

non potrei dire quante decine. Quindi

approssimo gli abitanti delle mie parti

in parte devastati, parte consunti e parte

in bilico mentre parte si allontana

per quel vicolo cieco nel quale

questo corso si trasforma al passo.

Sono eletto a rappresentare un popolo 

che non soltanto io conosco, ma che io 

soltanto visito da capo a piedi. In certi 

momenti, anche il loro parlamentare 

è superfluo e i commessi stanno

a memoria tra i banchi in quiescenza. 

Tacciono quelli legati ai luoghi rifatti

per farsi ancora e quelli con due corpi

in un solo cuore. Tacciono quelli legati 

al diario ed al periodo corretto, quelli

che hanno lo spirito della camera aperta

e dimestichezza con le commissioni interne. 

Comprendo il silenzio degli onorevoli eletti 

con la legge universale non ti scordare di me.

 

*

Al successivo con fine

È affannata la piazza, cuore del paese;

che non è più tale da quando in tanti

l’hanno fatta città. Moltiplicando le piazze

le strade non si contano più, come se venendo

da una mela con otto semi, ci si perdesse

tra mille mila semi in coscienti 

perché un’altra pianta ci ha presi.

Quella piazza si ritiene ancora al centro 

del lastricato da passeggio con un sedile 

disoccupato per quanto urli: circolare, 

circolare!... Ma non è più 

una rotazione cardine. Lì, aprivi commenti 

che finivano in saluti e uscivi dai saluti

per finire in un commento. Bastava il tono

a spingerti alla periferia dell’argomento

amico, più che punto, svirgolavi.

Qui, e adesso, le frasi lunghe 

sono fuori periodo.

 

*

L’imbarcata degli angeli

Gli angeli non ci guardano 

dall’alto in basso. Stanno attenti 

a dove mettono i piedi. Le scarpe

lasciate a causa di un richiamo, le orme 

che hanno curato la profondità 

più che l’altezza o la natura dell’appoggio. 

Checché se ne pensi, gli angeli 

non hanno ali: salgono camminando 

comuni tra i comuni accomunati bene. 

Una fortuna. Si può dire ci passino sopra. 

Fanno percorsi concitati perché siamo

agitati dalla contabilità. I contabili in questo

tempo sono semafori che plaudono 

agli investimenti e i passanti 

sono come le cinture che li attraversano: 

si tengono in vita spremendosi. 

La loro anima compare nella versione

più adatta alle radici dell’acqua

non più in voga.

Cerco angeli con le scarpe a mollo.

 

*

U=E, per il resto cancello

Nella cruna dell’oscurità ci passa un’onda

con le gobbe che fanno da sole. La sua velocità 

costante fa quadrato per redimere la massa 

dall’ignoto e conta negli oceani e per le more. 

L’osservazione del fenomeno posiziona il creato 

fuori dal miracolo, moltiplicandolo per tanto 

ma non per tutto perché se è vero che la mela 

si trasforma in forza e la pianta in disegno, 

come mai dalla coloritura ricaviamo

l’indizio che ogni parola si allontana nel nulla

per tornare come vagabondo fino al cancello?

Giocoforza abbiamo grandi spettacoli e maghi 

da pulpito che fanno manovalanza a notte fonda. 

Il trucco è far scivolare la presenza nell’eco

e la stella nel ventre del motore. Tra mille

primavere si saprà perché la parola si consuma

e perché tra altri mille ancora soffriremo

prima del cancello, l’ultimo presente.

 

*

Acquisti di stagione

Da poco fioriscono i pianeti

ma uno che frutti come conviene alla specie 

non è a breve. Intorno ruota l’inverno 

a prescindere da quanta primavera

la notte chiara invogli a vedere.

Troppo lontani quei petali, per me.

Fisso le mani in assenza del corpo e tu 

che sei rosa da vendere cara la pelle,

piccola da qui alle stelle riunite 

nel linguaggio dei segni astrologici,

visibilmente le informi nonostante

l’inarrivabilità le manifesti prive di numero 

ma con una certa fondatezza. Come l’amore, 

dissi alla luce del desiderio.

 

*

Prezzi alle stelle

Sulle scansie una forza oscura ha disposto

cose innumerevoli e preziose, ma c’è spazio 

libero dove ciondolano ottici del cosmo

e spazio occupato dagli spioncini in orbita. 

Eppure, i prodotti senza etichetta hanno origini 

certe e, forse - udite udite! -, una filiera come

i tarocchi. E poi una stagione che li rende dolci.

La speranza esattamente è toccare con mano,

metterci le suole: lassù dormono i commessi, i fatti

delle illuminazioni, le fonderie degli spiccioli

del caos.  Mi è possibile sapere tutto questo

perché dove sono finito comincia l’infinito.

 

*

La versione del corpo

Costruito in tanti esemplari dopo il seme 

e dopo l'amore, piùi n generale ad innesto

continuo di termini e alloggiamenti fortunosi.

Viene da un furore di catastrofi terrene e pietraie

universali. Puoi dire che è d’acqua e calcare

ma si descrive meglio con un miracolo

di sangue misto a linfa e resine, con più dubbi

che radici. Portato al limite è rimasto a lato

di specie ancora in furia. In seguito alle mani,

colse da sè la cupidigia da un ramo e liberò

dal velo l’essere e quindi il sono. Cosicché

tolto quel velo azzurro si scopre il vero viso 

di dio, immenso a tal punto che l’eternità 

neppure lo ricopre.

 

*

Ho provato a saltare sul primo pianeta possibile

Abbiamo attraversato grandi distanze

e per immensi spazi ancora dovremo

regatare, più mortali che forzati a vita.

A bordo abbiamo un manuale di nodi

per dove atterreremo, ma in cuor nostro

non sappiamo ancora scioglierli.

E non c’è un’idea di rotta; o la rotta

è presa dalla prua in un circolo vizioso

sul lobo della nebulosa: la buona

stella maturi la mela azzurra. Eppure 

nel minuto è ancòra ostile la cruna 

dell’àncora, o è àncora ostile la cruna 

dell'ancòra.

 

*

Questa che muove poco

 

La generosità è caduta in disgrazia. Si vede

in prossimità degli androni: chiunque 

dorma sulla soglia coglie la libertà in terra

ma funziona come un fazzoletto usa e getta. 

E solo questo, benché non sembra 

avere senso appena terminata la pulizia 

del condotto alla minima aspirazione. 

Ma di notte il gelo lecca la lisca

come un gatto delle nevi. La lingua

di ghiaccio della luna è cattiveria pura

sprofonda nelle orecchie dagli occhi

con la stessa parola rasposa: copriti

meglio che puoi con il sonno di turno.

 

*

Il tranello dell’eco

Ho pronunciato il nome consapevole

che nessuna voce diventa presenza 

se la fonte rimbalza a caduta, ma l’eco 

si ostina a tirare la coda all’udito. 

È tutta farina del mio sacco.  

È quella con la quale impasto frammenti 

e il turno di notte sforna bocconi amari 

senza alcuna reticenza.

La memoria è un panificatore che ti lascia

a stenti. E tu che usi la solitudine

come pala che gira e rigira

diventa farcitura, stringi i denti 

perché il morso non ti sfugga di bocca.

L’eco che risponde alla distanza

rende le parole accidentali. Non si pronuncia.

Eppure ha tutte le voci, come ricordo.

 

*

Desiderio da impiagato

 

Vorrei tornare in fiore, a gambi levati. Amerei 

cogliermi in fiore nonostante il polline caduco. 

Ah, lo so che profumo di armadio, ma desidero 

ancora tanto - il desiderio è di solito appiccicoso 

e te ne lavi le mani così svaniscono 

altre ipotesi beneamate. 

L’uomo in fiore mostra il corollario personale:

gambo diritto a mo’ di richiamo per operaie

e l’interminabile seminario potenziale. 

L’uomo in fiore - non so bene con quale formula 

essenziale - snocciola fraudolenza nel solco 

delle mani invasate.

Così viene il prato spiantato su tutte le furie 

e viene in casa. Viene di persona su gambe umane:

non bussa, ha la chiave per trasferirsi in altro ambito. 

L’uomo in fiore sarà mezzo salvato, se manterrà

il divario tra l’abbattuto e l’edificato.  

Fino a qui nulla è cambiato: tra tommaso e la piaga, 

un uomo in fiore muta la ferita in cielo assolato.

È un punto fermo nell’epica orale: te la teli

quando la tua casa è invasa. 

 

*

Credenza crudele

 

O signore tra cielo e mare

stai interamente nel mezzo

piantando grane e suppellettili

edificabili e ramificate.

Come terra ti vorremmo

calpestabile; e da noi conquistato.

 

O signore tra schiaffo e bacio

sei rappresentato dalla guancia

raso al solo e demotivato dal fatto

- appena approssimato -

che sviluppiamo in alto soltanto

il nostro profilo patrimoniale.

 

O signore tra sperato e certificato

rivolgiti a noi con gli elementi dati

accessibili mentre respiriamo

privi dell’impotenza dei sotterrati

e testimoniabili nelle sfere d’influenza

delle iene e degli squali.

 

O signore tra poi ed ora

attraversiamo il brutto momento

lasciando noi l’orma

mentre ci accompagni: pensi

sia desiderato caricarsi del tuo

bagaglio immane benché contratto?

 

O signore tra il santo e il sarto

dacci oggi i nostri panni quotidiani

asciugati in pace.

 

*

Inseguendo il presente

 

Certo che al mondo fatti non mancano

a vivere come bruti, ma chi segue virtude

e conoscenza è tremendo per sommo conto.

Come sempre tiene banco il mattino solo 

perché ha l’ora in bocca. Usa le lancette

per pungolarmi al risveglio, ma il salto

tra due raggi al confine del buio intenso

è stato compiuto da fermo, disteso dal fiore 

della sera: la camomilla mantiene la calm

se preferisco la melissa per la notte 

di congetture a frammentazione e sirene.

Così riescono i sogni e gli incubi: provo 

a fermare i primi per fuorviare i secondi 

dall’attimo che risuona nello sterno. Tuttavia 

ho cura delle scarpe che reggono all’attrito 

tra il cammino inevitabile dell’orologio

e la resistenza all’ignoto. Il respiro è tormentato

dallo scendiletto, ormai! Come se l’esistenza 

fosse giunta a quella lingua di terra

che spiega perché restino così tante lettere

per i raccoglitori di storie a tappeto.

 

*

Come funziona il morto

 

C’è pericolo che si perda l’equilibrio, 

che una colonna diventi collana

di una città a nome del Paese: un nucleo

urbano con le bandiere sterminate.

(Quando cito “nucleo”, l’aggettivo

cui rimanda esplode fuori luogo

e guardo e tremo per i figli in fumo.)

Il calendario non sembra coinvolto:

volta pagina la brutta storia, 

si sfogliano i marmi e i numeri

sfidano il permesso dai ricordi.

Vedo tutto dall’oblò sul mare d’Azov:

i led rendono liquido quel che muore

e noi sopravvissuti a pena scomposti.

 

*

Formi d’abilità

La diffusione dello spazio si insinua

in una porzione di vetro a seguito del cielo.

Le stelle: che viene dopo? L’uomo 

che cerca sè trova loro, comparse a parte.

Tutto quanto è fuori entra come per rubare

attenzione. Non una carezza tentenna, 

eppure la paura del contagio un po’ frena.

Sarebbe tardi, comunque; e il formidabile 

occhio 

prende l’esterno. Un modo per scoprire 

che il panorama rimuove la notte insopprimibile. 

Nel buio due finestre sono camaleonti sui davanzali. 

Fanno un solo boccone dei segreti; e il formidabile 

noi

compare in tempo per giocare la mano vincente. 

In questo senso puntiamo la mente e si perde 

il cuore. Il cuore può essere un totem. 

Gli idoli spingono per l’illusione, mentre il sangue 

gira tra le lenzuola contenuto

e in seguito a scapicollo fugge 

da manigoldo; e il formidabile 

seno

poggia sul mio braccio dove orbita 

il pianeta che mi viene addosso. E la formidabile

silhouette

s’informa dal soffitto: cala l’ansia 

come un asso di briscola sulla carta imprudente.

 

Ti guardo: cielo alla rinfusa; se guardo il cielo 

precisamente, trovo corrispondenze

in luce. Che ho scritto di te, ieri?

Dillo per bene. E il formidabile

dia letto

a chiarezza del momento,

non la nebbia che tergiversa. Quest’ultima, pare 

l’autobus del passato, perché solo alcuni

scendono ad oggi; e il formidabile

presente 

è segno della ribellione incessante degli occhi,

l'udito più fragile della rosa, al tatto 

dal ventre; e la formidabile

pelle 

impone ai polmoni un profondo fremito.

Non c'è altra acrobazia nel luogo

oltre l'agilità

che hanno le tue ciglia; e il formidabile

pudore

mi apre alla grazia del fatto.

Ricordo la scintilla innestata dalla carezza: 

provocò un tremore incauto

alla barriera del ventre, tenero 

sulle labbra se combatte prima il viso

l'allusione del desiderio. E il formidabile

rossore

posato come asse 

tra desiderio e paura: quanto questi due infingardi 

durano, come insinuano trattenimenti

in questi corpi con tanto spazio! E le formidabili 

mani 

inattese sulla schiena. Campo 

esposto a semi labbra. E una formidabile

sonnolenza

istantaneamente fa ritrarre le ali.

 

E' evidente che volare è cadere anche per poco,

ma temere e amare sono collaudi; e il formidabile

esubero

per questo gioco.

 

*

Gioco di rimando

 

Come un segugio il naso punta 

in fede il polline denso del panorama

schierato come in censo (conta che sia

smarrito, per rifiutarlo semplicemente).

Si agita la coda degli occhi

quando trova trame nel vetro

e il segno è in odore di miracolo,

o in dolore. Invoca di uscirne presto

così diminuiranno gli inserti

volanti delle guide metalliche

proprio come transenne 

della stracittadina corrente.

Perso per perso

ho già vinto l’universo.

 

*

Ad ire

 

Diciamo che mi piacerebbe restare

in questa sera d’annata

più a lungo del consentito

e per l’età discreta fino alla tenebra 

- giungesse di colpo e non per colpa.

Vorrei evitare di diventare vecchio col sole.

La vecchiaia è l’ultima pelle che s’impiega

per coprire la vita a breve. Penso 

che le cose non sanno che sono

correnti. Una sorta 

di via ferrata, dice la persona

cui è dovuto il loro essere, ma come tracciato

l'impiego si regge sulle traversine

non nei vincoli ciechi.

Quella Signora, o Signore, che stringe 

in pugno la sabbia di ognuno

ha millemila mani e altrettante palette

verdi o rosse. Ferma o avvia. A caldo o a freddo.

Quella Signora, o Signore, stampa tutti i calendari

ma non il suo: un chiaro conflitto 

d'interessi.

 

*

Halei

 

Come sai forma sapere 

quanto matura dai bei tomi 

e per la polvere che viene a pezzi 

da quel che si consuma

in no: i tipi, innanzi tutto. 

Ho preso a cuore pure tutto 

tramonta solo quando è ora (*)

preso da te: il grande gesto 

del mare che più pare scontato 

più la luna costa ai continenti 

una marea a braccia e produce 

passeggeri carenti, umidi 

per venti complessi. Vanno 

nelle corsie a strati invisibili 

i frammenti di materia lungimirante.

Poggiano dove cadranno i resti.

Fai che non si tolga la terra 

dalle biblioteche.

 

(*) “Incisioni” di Cristina Bizzarri (qui)

 

*

Ad agio

 

I limoneti producono gialli

quando le gemme virano bianche

al viola di ponente e il battello 

dei colori imbarca vitamine 

in forma di goccia per entrare

in circolo prima che si iscriva

l’agrume. E secca l’acume

liberato dalle scorie della liquidità

con il bene placido di Dio. Dio! Oh, 

se non si arrabbia per lo spirito infuso 

perché dovrebbe farlo per quel giallo sfusato

e acerrimo: Dio non ha 

una posizione certa per definizione, 

quello che si intuisce sull’argomento

è che lo nomino tre volte mentre il gallo

canta per il vigneto fruttuoso

e per il castagno frangivento schierato conto tersi. 

Riconosco al momento l’eternità come passa tempo 

che toglie spazio ad altra materia

con un po’ di terra.

 

*

Ad ombra

 

Chiami il medico e risponde: "sto visitando:

descriva i sintomi come le sono venuti, passerò

non appena finisco i malati."

Quando il medico o la medica sono crudi

per loro natura guidano sale d’attesa

dove la deontologia consente la posa

dei mezzi morti in cura.

Sono stanco di essere paziente

per il bene dei discorsi in pillole: uno

l’aria di casa ha i suoi lati sicuri; due

la ressa nel vocabolario dà caratteri a folle; tre

vai a calcare tu e il distanziamento. 

Mi viene difficile usare la lingua 

per acconciare il passo.

*

Ad opera

 

Il contadino usa il giorno in breve

come momento opportuno 

o come adesso possoCome

mostra il grano rincarato alla fiera 

con sorte dubbia. Ha speso tutto in luogo 

di un buon raccolto: il suo torna conto

- tutti puntiamo sul bacio

ed esce la lingua perché si perda.

 

È stato piantato da poco e, si sa,

l’abbandono è la chiave nella seccatura,

aria fritta dell’addio - larger than life,

la bocca si sbraccia con parole abradenti.

Il contadino è provvisto di elementi

naturali, in realtà artifici a tempo.

 

Egli è scomparso, perché vedeva 

lontano ma si è ridotto dov’è. E dov’è 

l’invidia semina scontento mentre in campo 

scende il suo seme - figlio, il tuo maggio 

scioglie la mia ultima neve. E mi rende 

geloso non della Rosa che ti porta, 

ma di quella carezza che gira sole a te.

 

*

Ad oro

 

Le braccia incrociate, custodi 

del diaframma, frenano lo spirito 

al crocicchio da nullafacente.

La prospettiva della vetrina del negozio

lancia linee di moda che vanno in fuga 

subito dopo averle ottenute, ma il desiderio 

di apparire ben messo in quel gruppo 

diminuisce il vestito che indosso.

Lascio che il mio avatar prenda posto

nel polline dello schermo, lo stelo curvo

tuttavia, lavorando con il tono giusto.

Ricordo di aver annunciato alla regina

che vespe e calabroni attaccano in volo

benché lo sciame li accalori

a morte.

 

*

Ad atto

 

La il i lo gli le, poi termini così. 

E’ come dire sei ai sensi di un articolo 

ad atto. Questa è ossessione per l’ordine.

È il mondo categorico in genere.

È il trip del costato: un prezzo 

da pagare con sconto per la condotta.

Chiamiamo l'idraulico per l'idraulica.

Chiameresti l'idraulica per l'idraulico?

In termini di lavoro, il torace non è 

cassa ma scavo, una fossa 

che ha bisogno di un viso 

per riconoscersi ad uso. 

Si può dire ad un ciclamino: cambia colore

Può darsi che l’identità lo aiuti. Talvolta. 

Talaltra radica. Tra l’altro il futuro

non viene ancora, ma non manca 

di strizzare l’occhio all’universo:

l’articolo mette i soli a fuoco.

 

 

*

Ad ora

“La parola, se non altro, ha le mutande grosse”

Fausto Torre - Il tempo della soprastanza

 

Quale meridiana allunga l’ombra ai presenti

per adesso? I presenti che convengono, ad ora 

sono binari nella memoria del computer;

un convoglio ritengo - lasciando correre 

il nonsenso passeggero. Ho un cervello 

 

in scatola, potrei dire, ma la mia mente

è un’altra cosa da fare in seguito. Ad ora

picchietto sui tasti e non telefono, digito 

nome, cognome, premo l’invio e trovo 

che sei nella lista doveri ancora.

 

Così poi si cercano i volti; i volti sono 

tra loro concorrenti, come le statue 

che mantengono in vita manifesti vuoti,

ma per tutti i santi manca il posto, ad ora.

Credo che la mia scrivania sia un buco di Wheeler

 

e divori i convenevoli: tra questi fogli ammassati

i battiti e i sacramenti. Quello che so, ad ora, 

è che lo sterno è manovrato dal suo interno

e se si chiarisce quel sintomo di colore vivo

scompare un intero percorso. Come ti ricordo 

 

ognuno è la chiave della sua portiera. Il piano

da occupare è l’intera sera. Meglio i lampioni. 

Meglio l’artificialità del sole che il suo metro 

per tutto il tempo, così lavoro da controfigura 

nelle pagine che mi recitano, ad ora.

 

*

Contrazioni

 

Cosa c’è nell’intensa azione del viso

che sostiene il rossore ma non perde

occasione di sbiancare? L’ammore 

colora un greto sommerso da rovesci 

e seccature. Noi lo attraversiamo

come i fiori attraversano la letteratura:

belli sempre ma abbandonati per inciso.

Ammore è un torrentello increscioso 

dovuto alle precipitazioni frequenti

in un percorso dannatamente breve.

Chi ha messo il myosotis a pagina tot

e pestato la corrente in quel guardo?

Lì, proprio lì, lasciammo orme sull’acqua.

Avevamo costruito un ponte con la lingua

così da traversare le arterie evitando

i patemi del traffico d’organi in genere.

Ugualmente il corpo aveva apparecchiato 

i suoi dipendenti con la stoffa che aveva.

Una conoscenza tardiva, come l’età e il lockdown,

mi dicono che ammore porta contrazioni 

pericolose e potenti, messe in gioco 

da un sospiro appena letto.

 

*

Del chiosco

 

Per quanto provi a battere le palpebre

gli occhi non vincono la sonnolenza

e una frase quale “Dormo in piedi

come un cavallo” è uno stato di forma. 

Inoltre, il bancone accetta i gomiti 

poggiati sul suo livore. L’attesa

si acquatta dove beccano i piccioni.

 

L’uomo ha messo l’anima nel distributore 

nel quale il ghiaccio giubila lo sciroppo.

L’anima è il fossile che sopravvive 

alle intenzioni dei bicchieri. Ma l’anima 

parla da saputella del vigore. Per il distributore 

ci vuoleva fegato: l’inedia non è la danza

dell’acqua liberata dall’attitude al freddo.

 

L’uomo conta e stima i cestini, sacrari 

del monouso. Resi delle secche labbra

che per altra via contaminano l’ambiente:

oggi, cinque o sei, lo hanno messo 

al centro della sete e del ristoro conveniente

ma più che il mantesino immacolato 

l’anno va in bianco da più di un mese.

 

I polmoni pompano il calore in circolo. 

Sangue che dovrebbe bollire ma gela

all’ombre del chiosco. Lui pensa che il sole 

aumenti l’attrazione, benché la massa 

nella rotonda sia ridotta, e che induca 

al doppio gioco tra desiderio di spegnere 

la sete con le tasche lise e l’acqua pubblica. 

 

Pensa di doversi occupare della fontanella

e si apposta disteso.

 

*

Voci in confidenza

 

- Se non hai altro da fare, io ti consiglierei
di fare altro. Dice, sporgendosi dalla nota
che altro non era se non colletta di suoni.
Così la nota grave mantiene il timbro
della voce, la sua, ricca di tendini. Tesi,
fuoriusciti tirando le cuoia. Tese, mano
a mano da qualche parte lo spirito
compresso lentamente si distende. Dalle
mani alzate, ricordo, l’intenzione. Di farsi
guanti del mio sangue - non se ne parla
nel ricordo stesso: nè con la lingua dei conciai,
nè per confonderle con la preghiera. Più
di un voto, come d’altro canto voi. Lettori,
stranieri per poco, poi clandestini: così
vi avverto. Fermo restando che mai si capisce
compiutamente un altro e mai ogni altro
appare uguale io per adesso. Per un momento
può bastare la condiscendenza (quasi a dire).
- E qui mi abbandono risposi allo stesso tempo
per altro.
 

 

*

Epica dell’attrazione

 

Il satellite si squarta; e quasi una fetta 

ci tocca con approssimazione aperta parentesi. 

La luna si muove da macina luminosa 

in un fiume albino che la fa ruotare

e trae a sé il fior fiore del mare. Il pesce 

San Pietro pesa la vita secondo Archimede

e l’avvia al principio del nuoto. Il mare,

antenato di ogni destinazione, è un tratto 

in comune alle onde. Il molo duole

quando gli sbattono contro - da che parte? 

Inspiegabilmente porta altrove. Che c'entra?

Amo il fatto che mi diede tempo. Nato 

non fui a viver come eterno, ma per seguir

te a momenti. Amo il trasporto 

che mi abbandona sullo scoglio, infine.

La cresta sbatterà di sicuro, di sicuro 

ci metterà la faccia l’abile spirito che sguscia 

per rifarsi sorgente. Sicché ogni foce 

succhia, ogni foce ha una mammella in terra. 

La luna, faccia in ballo fine a se stessa,

antenata degli antenati dei discepoli, 

priva di tentennamenti della guancia lattea 

affollata di efelidi: solo per questo 

riceve il bacio da un telescopio: sfruttamento.

Luna a breve e l’altro a lungo.

 

 

*

Tornio al lavoro

 

Oggi ho disegnato un marchio. Il tizio 

mi ha scelto nel nome del padre nostro.

Non lo pregai di venire da me, come

non si invoca la sveglia nella notte.

Essere fratelli è stato a piedi nudi, 

ma non si sta in piedi da soli, fratello. 

La commissione parlava chiaro: devi metterci 

l'anima; però l'anima non si spiega a parole 

nè per grandi linee. Il simbolo sulla carta 

mena visioni per aria

così uno schizzo si riduce a vista. 

Ora, una matita è un’affettazione del foglio

mentre sul monitor scappa di mano. 

Qualcosa trae dal nero una forza luminosa.

Io trovo il simbolo e dentro altri simboli:

per ogni geometria illustrata dall’inchiostro,

l’estro adopera il punto in cui sono 

per generare i punti del creato.

C’è una melagrana, c’è un’onda, c’è l’ospitalità

del mare nostro che il padre appare disteso.

Il disegno mette mano ovunque, sequenzia

ogni figura complessa finché le grandi linee 

non raccontano altro: questo nistagmo 

lavora fino alla nuca e attornia 

privo d’arti, il mestiere di vivere;

e più difficilmente l’idea è resa.

 

*

Che viene dopo

 

Ci sarà sempre un disegno e poi il gesto 

di temperare la punta del miracolo 

nel legno: la gemma appare 

chiodo sul tronco crocefisso

al lavoro di diffusione. 

Che comunicatori tolleranti sono i fiori vs gli occhi!

In special modo alla mano 

stemperata quella tesa

sui capelli corvini del compianto

giovanissimo amore,

che non è stato 

mai ricercato nel verde in calore.

C’era un disegno che stufava, allora?

Divenire oggi dolore.

 

*

L’artefice di tanto

 

Ho messo il silenzio nel soffiato.

Normalmente il seme scaraventa

nel panino tutta la farina del suo sacco

e il rumore della macina

crea l’effetto farfalla in mente

per i millemila pensieri in campo.

Me ne nutro senza risparmio.

Lo accompagno con sorsi di primitivo

e la lingua fa un leggero schiocco.

Non mi curo che le sillabe sparse

siano o meno raccolte, il silenzio

è così diffuso 

che ne posso seguire le molliche 

per dare pane al vento.

Anche breve, sottile

come un fazzolettino usa e getta. 

Il silenzio è una farcitura amara

al gusto di zenzero e assenzio,

ma l’artefice soffia in testa.

 

 

*

Ermete Trismegisto nel cortile fermo

 

Che razza d’acqua è questa? Piatta, in posa da granito. 

Stentorea per un lungo tratto - passo su quanto affiora.

La conoscenza si innalza ben oltre qualsiasi

punto di arrivo - e in più avanza.

Ormai anche l’acqua è diversa tra una razza e l’altra;

e traversarla implica un corrimano tra un dio 

e il prossimo - pure uno solo con se stesso

dov’è riposto - come un libro illegibile 

aspetta una mano che lo scelga.

“Quale pensiero mi fa nascere adesso che sia di me 

almeno un terzo?”

Ho preso visione dei cinque decenni e migliaia

di secoli. Ho ascoltato invocazioni da marmo,

ho risposto da muto dipinto come curvo, 

ho saldato le voci con velocità.

Un orecchio profondo mi fa sbarcare che tipo

le fascine autunnino prima al verde

prese dalla miseria quando si legna; 

sapere significa aver visto tanto - io, 

messaggero distratto dalle trombe dell’universo

che per me è questo vociare indistinto

venuto alla luce da occhi neri - e tocca ancora i sensi. 

Mi dà una mano l’idea che tira un dio - preambolo

del verbo dentro le forme.

 

*

Edward Leedskalnin

 

Ho potuto spostare le pietre, grazie a un congegno mentale.

Con gli artifici di secoli tenuti in disparte e conservati

a ruota delle opere magistrali.

Li ho svelati; e le rocce si sono sentite sollevate.

Le ho lavorate - ogni colpo un’attesa,

perché ti attendevo, Sweet Sixteen, e ti aspetto

mentre osservo le ninfee

e parlo alle pozze di sedici anni d'acqua.

Ciò che somiglia al fardello della tua assenza

è quel che passa tra due poli magnetici:

l’amore che ti ricordo e il tuo ricordo senza amore.

Tra questi due solenoidi il mio corpo minuto è ora.

C’è magnetismo nel rifiuto - l’addio calamita

il moto perpetuo dell’amante da un abbandono all’altro.

Mi è stata d’aiuto la Terra, con la sua energia incondizionata.

L’energia che la mia leggerezza ha valutato a forza 

di baci non dati,

adesso libera nel suo bacio

come avrei voluto venire dal tuo.

 

*

Makoko (o di una lacuna africana)

 

Perché scrivo di te, chiuso nel mio guscio

in similpelle? In un perimetro murato, detto

per casa, l’anima è stabile, seduta stante. 

Una finestra fa risiedere il mondo qui dentro.

Sullo schermo una piroga àncora tra palafitte 

curve: ma come cazzo si ergono dall’acqua?

È Makoko. MA-KO-KO, nemmeno so dove

va l’accento, se su pene o su malarie.

Incerta e ignorata, come il numero angelico

dei canali televisivi documentati a più riprese.

Ne so poco, anzi: meno di te. Soprattutto qui, 

i pali in sesto sono retti, dai ritti marci,

e forniscono l’habitat ai molluschi

- questi che vivono a frotte, presi alla gola, 

come morti alle volte. Come sgombri

richiesti all’acqua perchè la terra non basta. 

Le conchiglie non risiedono per scherno

tra le suppellettili del deserto che fuggono, 

impietrite sul tronco cavilloso delle dune. 

Finanche la carne si scaglia ai pesci 

e affonda nella lacuna la corrente e la spina. 

Lacuna, o laguna. Umana, o naturale. 

Affare, o sciagura. «Qui si trova di tutto. 

Tranne una sepoltura.» L’acqua è una tomba

paradossale che tiene in vita i galleggianti.

Una pesca miracolosa della malora.

Ho letto di sardine spinate di fresco e andate 

in fumo, dal loro punto di vista salubre. 

All’ora dei coloni il gin tonic nasceva qui 

ma qui non si porta l’aperitivo. Quindi

è necessario che scriva, perché si veda 

nel lacero-contuso blu la miriade di rifiuti 

buttati ai pesci.

 

*

Collima all’altopiano

 

Dalle pietre ricevo un saluto che rotola

e almeno un mondo precipita nell’orrido.

La risalita del sasso è un desiderio che rantola

mentre ancora cade e cade e dal ripido

salto nel futuro senz’appoggi sgaiattola

 

l’arrampicatore al tramonto. Grida fanciulle 

su dalla goletta già giocano agli adulti

prima di scoprire che la goletta è una burla:

occorre una gola per rispondere all’insulto

di quegli onnivori che rubano fin dalla culla.

 

Gli adulti, cioè io e altri vecchi tafani 

che alla questione del tempo hanno tolto

il dovuto, già vendono il prossimo grano 

che mai da loro coltivato è invece raccolto.

Ne parleremo da sotto la terra con le mani

 

che cercano la colpa in quanto dissolto.

 

 

*

La città dei vincoli stretti

 

Fai un’opera caritatevole: legami 

al tuo nome. Prima, però, indicami 

la risposta che dà il vento ai vincoli 

incurante della fisionomia dei voli.

E che io sia una vela lo testimonia

l’amore per il mio albero di terronia. 

Sono della razza con la fronda alta,

una sfumatura di azzurro che esalta 

l’aria quando ammattisce torrida 

per indovinare la bocca più lucida 

- nonostante le labbra alla luce.

Poi la corda serra in gola e induce

a fuorviare la parola ascolto:

quel che entra dal padiglione è tolto

dal quotidiano e spinta solo 

dagli strilli, benché in volo

tutte le parole muoiano a frotte. 

Bei santi quelli delle edicole ridotte: 

somigliano ai passanti come si deve, 

taciturni al netto del rumore greve 

come chi ignori il lordo pro tetto.

 

 

*

Privilège du Roi

 

Il Re era in barca completamente

ma la Regina, più realista e solidale,

fregava le mani con eleganza formale.

Soltanto al giullare vennero in mente

 

i cavalieri in cortile fermi da giorni

aspettando di avere una cavalcatura

adatta alla natura della buona cura

dimodoché il Re in sè facesse ritorno.

 

 

*

È duro, ma morirà; e durerà a lungo

 

Non c’è notte per il sole

finché gira così. E non è vita

come la pensiamo, è un girotondo

senza fissa dimora: ci trascina 

un vagabondo che non ha occhi

se non percorrere. L’amore?

Una trappola per stormi, fatta di congiunzioni

tra energia e materia

che viene a corredo quando può.

Come quella ragazza, magari, che chiamavi stella

dalla lingua di fuoco appena lambivi

la sua gonna benevola. 

Come lei, magari, che nel suo parco di pianeti

fissa da lontano i più maestosi

e quelli devoti ai suoi piedi

li incenerisce con l’indifferenza di tutti i soli.

Lentamente ci lascerà riprendendosi anche i vuoti.

 

 

 

*

Mi sta addosso per un tratto

 

È un contenitore di serie a parente.

Non so dire se sia una cella: non ho lenti

capaci di trapassare vestiti

e carni; e scoprire come di battiti

nel torace. Quindi mi informo di uno

per altro e raduno 

memorie in cui tirare il fiato

e basta. Duro a dirlo, ma sono ignoto 

e dell’ignoto conosco il vuoto. 

Sapete, cerco un appiglio dov’è appeso il lume

la china che sappia fare volume

o che porti un piccolo segnale:

- ehi ehi, sono quiiiiiiiii… (la “i” è lunga per un vizio dialettale).

 

Date le circostanze attuali, rispondo agli echi,

ormai abbandonati in favore dei like.

Siamo voci singolari in uno spazio singolare,

su di un pianeta che pare di pari, ma non lo è, però pare

singolare, una serra più fragile dei petali che protegge.

La mia guardia del corpo è lo spirito che regge

la resa a parole. Parole maratonete

che come Bikila sentono la sete

quando corrono scalze all’orecchio lunato

senza mai lasciare il ventre provato

- un baco che non si libera del bozzolo 

e solo per brevi tratti si coglie a volo.

 

 

*

Chi mi ha chiesto una cura

 

La strada non muta la meta. È comodo

per riguardarsi. È sufficiente il modo 

di coinvolgere la lattaia che portava 

il nutrimento alle porte. Nemmeno si vedeva

in piena luce. È importante 

ci sia stata, ma non c’è. Come tante 

polveriere, come i coppi sugli spioventi 

e bartali al Col du Galibier che lo sostenta.

Le mucche sono munte dal metallo

eppure è difficile tirare in ballo 

che abbiano una salute di ferro. 

Chi ricorda l'ape Elvira dalle borse trarre 

il tintinnare del pascolo dal sacco elastico? 

Voi non l’avete vista bussare, ma io la sento e fantastico.

Viene in mente che il vetro fa compagnia 

e la plastica solitaria è una pessima spia. 

Il mezzolitro ciarliero rivoglio

che imbianchi la lingua al risveglio.

Cos’é la primavera per questo motivo?

L’aria trasparente dal candore primitivo

che traduce in sanità una parte di me.

Quella parte invariabile che

non prosegue nel seme. Bisogna racconti

della mia arnia. Bisogna che la rifondi e confronti.

Penso a quando il verbo automatizzare era inutile 

per quanto ciò che è resto umano sembri infantile.

La creatività era una maraviglia a tutto spiano.

Oggi si spiana tutto e la maraviglia è una rana.

 

*

Gira la carta del sogno

 

Fosse vero!, dite. Che ne sapete?

Io ero lì, ero presente: con mio figlio

l’ultimo ed il primo, insieme, 

e di fronte tutta un’altra storia.

Marzo era fatto di giorni che pesavano

quanto una barca tirata in secco.

E nei mesi a venire non avremmo pescato

meglio. Sulla tolda dell’anno 

tenuto insieme dalle assi dell'ora

la sua bella criniera riccia e bruna 

- di notte sofisticata e leggera - , si staccava

dalla mia mano tutto compreso

dal mare a riva senza fare una piega.

Aveva in mente passeggeri 

pensieri che salutavo come marina di sbarco

per i miei grevi in terra.

Isole, per lo più, perché i continenti

vecchi o nuovi che siano sono in guerra.

Lui voleva vedere i nidi, peró: palazzi

a iosa: in città ci sono solo ritrovi per uccelli

che fanno le ore più piccole a piedi.

 

 

*

Au Sénégal

 

Molti di noi lasciano la rabbia in luogo. Della tomba 

citiamo a caso un sottoposto. La culla

ci porta là. Dondoliamo in tempo. In senso stretto

vediamo dal tremo lo stesso viaggio. Siamo chiose 

non c’è altro, Dame. Là 

cade il frutto del respiro - anche distante, Dame

Dalla sua culla cade là.

Marcisce la polpa dei baci in una bocca del terreno.

Mettiamoci una pietra sopra, così nessuno 

ci pensa più.

Per come Miriam lo seppe, non lo avrei detto.

Il quotidiano locale aveva trattato la notizia

usando la parola “decesso” con l’assioma “solitario”.

Eppure, Dame detto Peppe, di seguito citato con “il nero”

- per via della sua “nigrizia” che è come “mestizia”

riferita alla notte dei morti -, lui, il nero scoperto,

dall’alluce glabro alla calvizie lungo 6 ft.

sulla panchina per pazienti, lui, di seguito citato come 

tunonavereottantassscinquecentesimiperme?

- così sopravvive a stento, lo so - 

non avrebbe voluto il corredo del deserto

sulla pelle. 

Ma la vita è peggio che adesso, Dame

 

*

Piccola pro testa

 

Ovunque sia diretto il nord,

il sud gli andrà dietro. 

Dico alla ricchezza che le faremo il culo. 

Detto netto, senza volgarità. 

Detto con amore del meridione.

Dal tetto il mio meridione è 

una corolla per far presa sul sole.

Detto perchè il sole è il solo contingente che ci accoglie.

Detto al contingente che conta.

Il contingente è più di un continente 

e timorato si direbbe perfetto. 

Inutile bloccare gli scafi sul mare scalato. 

Chi gli ha dato la forma di una catena?

Neanche il dio più cristallino vi sale. 

Intollerabile finire in malo mondo. 

Siamo la terra del primo solco, siamo 

zolle distratte dalla vaghezza delle dune. 

E’ la loro cronica dunamicità che ci fa a pezzi.

Ma anche la vostra opulenza non è male. 

Così veniamo morti incalcolabili

mentre vivi di poco conto ci contiamo 

in scala uno a tanto. Nel nostro disegno è buona fortuna 

parlare alla pietra di quanto è dura. Detto di voi

che durerete a lungo, ma dove?

La nostra orma unchained sente già la terra:

Não sei se é você para elevar você

ou eu a afundar como de costume.

 

 

*

In vista di una nuova generazione

 

 

L’onda trema in un calice della costa

perché l’acqua ha perso la calma

per la corrente. E nonostante

la roccia abbia il polso fermo

avanza un palmo dall’arenire.

In realtà retrocede fino a perdersi

la sabbia fuorionda, piena di relitti 

e di rotte come bottiglie a nuoto. 

La spuma sovraeccitata, orgoglio 

di una mossa, non è la regola 

ma uno strumento del vento in corsa. 

Un trucco capace di mettere voce 

tra i pesci - intesi come gemelli -,

e sollevare il calice per un brindisi.

Il brindisi agli spiriti fuoriusciti 

dal cielo - noi in forma di attesa. 

Il cuore sgroppa tra le costole 

come un granello sguscia di mano. 

Levati di torno, dice, e la mente 

va, viene, moltiplica i locali 

che ricordano loro. E tra loro appari

tu che non hai visto le alici venire 

alle squame dall’azzurro netto. Chiedi 

alla terra dove sono le orme dei sacri 

e calcale di fresco. Calcale con noncuranza

perché tanta leggerezza muta in futuro di peso 

così come nè il papiro, nè la quercia 

furono fatti precisamente per l’oceano, 

eppure lo hanno percorso a lungo 

con un disegno spiegato al vento.

 

 

*

Mali intesi

 

 

Tutto ciò che possiamo è davanti a noi

ma quello che dovevamo e non facemmo

ci urla dietro. La conquista di altro spazio

non serve al punto in cui siamo. Nessuno

qui ci aveva invitati, ma qualcosa fu fatta 

per favorirci. Trovammo il locale ben aerato,

ricco di argomenti da sviluppare, ma poiché 

a noi piace dedurre il peggio, fu facile riempirlo 

di atti sbagliati e congetture sulla natura 

dei segni. Così usammo la lingua dei fenomeni 

per le distanze officinali da portare in tavola.

Sulla porta c’era l’avviso di mangiare in modo 

adeguato fino alla frutta da evitare. Eravamo

predoni di terra e di mare, violenti e nerboruti,

entravamo in tutte le tane per razziare le credenze

e i forzieri dei santuari: necessità motrice

degli imperi per tutto il tempo. Così iniziammo 

a consumare la carne al sangue e poi il grano 

e radici e foglie verdi dopo il sacco delle mammelle. 

L’acqua era dove il conto faceva passare la fame,

e stimava il piacere, e ne prendemmo a sbafo. 

Il vino ci fu portato dopo aver schiacciato

acini nelle giare e più del calice si poteva andare. 

Giocammo ai dadi il passaggio del mare

con l’unico risultato che contano gli squali. 

Erano chiaramente momenti di un gioco 

di razze che non ci farà durare benché duri.

 

 

 

*

Misticanze

 

Tra gamba e gamba tanti luoghi

comuni e un pendolo strambo

che cerca fortuna.

Lo sguardo ai nembi ne ferma

uno. Un vecchio andante qui

suggerisce l’aiuola nuda

che già conosce la differenza cruda

tra attendo e piscio. L’urgenza, si intuisce,

esplode a zonzo come ne esce

il beccuccio del gonzo?

Potesse mettere bocca l’erba

incurante di mormorii e di verbi

col congiuntivo risicato e fiorito

che già saliva da palliativo.

Siamo fabbriche di scorie e resti

al verde in cui precipitiamo presto.

Al massimo un secolo, un breve ponte

da un bacio all’altro, all’altra

di fronte. Traversiamo il continuo

brusio, terragni come dei quasi dio:

Well, nobody's perfect

if the soul is a concept

of opportunities

beyond the eyes.

 

 

 

*

Ai tuoi occhi oserei chiedere

 

Hai nello sguardo un occhio di riguardo

per chi osserva

la lunga notte come una celia

della tua faccia ignota ma rappresentata

in millemila volte tronca

per similitudine con la tua sorte.

Credo che sia stato posto nel posto

più ovvio. E’ già ovunque, se lo cerchi

e ti cerchia chi lo ha raggiunto. Quanti

saranno? Grani infiniti e per nulla

sparsi, raccolti in crocicchi pedonabili.

Lì raggiungerò futilmente l’ombra

avuta in anticipo, o venuto dopo

poco convinto dell’armonia

che avrebbe dovuto generare

se non trovata già qui o comunque

presunta nel verbo che ti augurava.

Vieni adesso a parte da qualcuno

e portami la pace in mente a nessuno.  

 

 

*

Il condominio del fuoco

 

Al Santo giova l’idea del paradiso fatto a piedi.

La sua fede proclama i sandali aerei. Le piante

gli urlano contro tinte a ripetizione. In me gira

voce che non propriamente il bianco sia simbolo

della purezza: non esiste, o è mera radiazione

evoluta a colore. Coltivo un sintomo di speranza

nel verde, rosso, giallo: dimmi tu quale altro

viene meglio di quegli altri che si alzano da terra

con indubbia frequenza. So che l’arcobaleno

è una prospettiva festosa dello spettro che appare

roso. Roso è dovuto alla goccia che degrada il sereno.

Il sereno fiorito nell’alba in quanto speranza? Rosa.

Rosa è delle piante che non conoscono il grigiore

e chiudono la notte il loro corsivo elegante. Insomma,

stretti fino al sole. Ma al Santo giova l’abito da sera

e sostiene da sole luna e l’altra opera della fede:

la credenza vuota. Prega che abbia un senno almeno

il satellite. Non l’estro luminescente, ma lo spirito

è un labirinto privo di segnaletica e lui,

sul precipizio dei feretri, crede nella parola

a stento quanto la campanula al verde: musica in censo.

Chiedo al ministero dei canonici, alle bugie ferrate

ed alla confraternita delle candele almeno un lumino

per il Santo Fumino di cui sopra il paradiso a venire

che non richiede altra fede oltre l’alare,

l’attizzatoio, la semplicità del cerino, il soffio

oltre il costato e la fiamma a perdifumo.

Inoltre, l’inverno è fuori di sè, geloso non più di tanto

perché dentro cova un fuoco insperato: cambiare

consonante con una effe di legno, presa

di sana pianta da una selva selvaggia e aspra

e forte, che nel pensier rinovi il vero contenuto.

 

*

Il cognome delle api

 

 

Quando apparve la candela c’era già la fiamma.

Il fior fiore dell’antagonismo non bruciava, era là,

in carne: piroclastica ingente, di bocca in bocca.

Venne l’ape, un geometra puntuto, forse l’angelo che parlava

col linguaggio delle cabrate.

Il vento aveva l’aria di buon seminatore e fuochista di talento,

ma era dubbio e nel dubbio l’Altissimo Condizionatore serviva

with a name of your choice,

whit a puff.

L’atomo, e il suo piano industriale, fece presa.

Non ci siamo ancora.

Comunque, oserei dire che l’uomo esplose.

L’olio prese il posto del legno e del fulmine per fare luce fino alla cera.

Il pungiglione puntava il nord, l’alveare si affacciava a sud

e altre contrapposizioni del genere.

Ora lo stoppino è un proiettile, ma ieri non è peggio di domani.

Il termine medio tra loro è: paura; la lungimiranza prende tempo.

Questo era tra i titoli sulla panchina.

In un catenaccio con due chiavi di lettura: qui ti ho amato (per adesso).

Femminile penso, ma alle volte capisco niente.

In quell’attimo coesistono l’amore e il tradimento,

in quel momento un bacio può più del sesso.

Vorrei che la storia avesse qualcosa di vero:

i ruderi sono certi mentre certi ruderi s’inventano.

Amor mio, est in canitie ridicula venus.

La supremazia del ventre ha ragione quando serve

un fremito.

Posso dirti che c’è la stessa calamità nel bacio e nel melo.

Tendono ad un passaggio di stato nel quale gli atomi

si rivestono con ciò che trovano sulla sedia.

Ci allontaniamo di colpo per finire meglio.

E sempre in un colpo può svettare una storia,

svenarsi un corpo, svelare la tresca di tutti i sacramenti

mentre l’anima sverna agli antipodi della vita,

in quel miele che per adesso è ama(ro).

 

 

*

Indotto a fiori

 

 

Da ovunque venga la viola, in luogo

della buona sorte, apre uno spiraglio

e si lascia cogliere alla sprovvista

da un turbinìo di gemme. Rivoluzione

si direbbe, dal nocciolo duro del susino

che in una notte temperata ha capito

che vento tira. Ma la viola? Sono convinto

finga disattenzione mentre indossa

il suo capo di stagione. Come quei battelli

lungo il fiume o nell’invaso dai barconi

che suggeriscono alla foce dov’è il mare

col battibecco futile tra schiuma e onde.

Fuggendo al largo, le anguille si allungano

e resta a molo una cima a mollo: da capo,

come l’altezza nel triangolo è dal Vertice 

una venuta in terra, per dio.