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Raccolta di poesie di Teresa Anna Biccai
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Il perdono di Giuda

 

 

Com’è che Cristo ha amato l’Ingiustizia.
La lenta mareggiata dei serpenti
Per rendersi nel pane manto estremo
E voce all’immortale valle in festa


Com’è che Il Cristo, là sponda dei bugiardi
Compone le medaglie da affidare
Limandole d’attesa
Al gergo del silenzio e poi al chissà


Le bocche dei perdenti tramontano giù a diga
Cercandosi un lamento sottomesso
Che possa dirsi timbro celestiale
Domani ripagato all’eden
E all’oggi così sia


Non c’è risposta fra luci ad alternanza.
Le piaghe all’ombra non sanno la certezza
Del polso nominato alla creazione.
Non c’è riposo a perdonare
Né veglia giusta a sterminare;
Ché il tempo degli ulivi ha colli incerti
Dondolandosi a stagione il vero e il falso
Sul ramo germogliato sant’inganno


Là nel fondo, posato cima e volto
Lui vide il Cristo sanguinargli addosso
Con tutte le ferite inflitte e amate
Spogliandosi alla morte
Menzogna generosa


Lui Giuda il vero.
Dal marmo riscaldato senza fiato
Compose il suo segreto verme e marchio
Pentito al chiodo ancora da piantare
Con l’indice al sé stante
D’amore primordiale rimpatriato


Lui colpa e poi ponente.
Vangelo chiuso al nome.
La somma vana e il gesto da attardare.
Lo scrupolo crudele e poi ferito
Fra le labbra dissetate con la trebbia
Di un giorno senza sera


Lui orfano al respiro
E figlio poi impiccato
Con l’utile sepolto
E il vuoto diramato nel calcagno
Come una preghiera da capire


Com’è che il Cristo ha amato l’Ingiustizia


Il sangue in posatura e comunione
Prima d’inondarci di salvezza
Che martire fu prima a corda stretta

 

3 dicembre 2008

 

*

Le attese dei rosari

 

Voi che avete dentro le attese dei rosari

v'inorgoglite ancora a giudicare il cuore

pregandolo bordello di strada in strada, ovunque

 

Avide serpi, insetti d'inclemenza,

murate la fatica per capire

l'unico libro che vi deborda in testa

l'inabile coscienza

 

E siete tutti in veglia

a piangere i morti come le carogne

non vi chiedete mai se il sole onora i fiori

prima del germoglio?

 

Muta è la parola che porta alla pazienza

domani è un altro giorno e un altro inferno

da deglutire piano

così per non scarnire l'inganno che ospitate

 

Era del fiume la corsa valorosa

la ghiaia lì a servire la pendenza

incolta conficcava il fiume e il vento

dinanzi al freddo mare, ingenuo sotto l'onda

 

Il mio nome è rinuncia, dovuta noncuranza

e il pegno che ora spero è solo un dubbio

perché se fossi folle a dire di voi altri, l'omertà,

e questo puzzo antico che bendate

io loderei col grembo le vostre vene salve

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*

Paesaggi

 

 

 

lo sguardo uccide, di tanto in tanto

guarda e incolpa

il paesaggio menzognero che s'inoltra fra le ossa

come un gatto dietro  a due budella

 

sviscera a frammenti anche l'asfalto

questa luce sofferente.    

dovresti morire per offrire sorrisi,

assentare le idee,

cancellare la memoria del principio

d'ogni piccola allegria

e piantarla dentro a un vaso

traboccante di veleno

 

ché di nascosto limano fra i denti la bellezza

per scalfirla sopra e sotto,

nell'immobile pigrizia della resa

allestita per dovere

 

cosa dire delle strade e dell'orgoglio

siamo inciampi ripetuti e volontà

quasi a farci carne e sangue

mentre il fiato addenta gli anni, nonostante

 

la parola perde il vizio, stagionando insieme ai rami

 e di supplica si forma accanto al fiume

giorno e notte

annegando il cielo e la sua fede

 

 

 

 

 

 

*

Prima che i tuoi occhi

prima che i tuoi occhi guardassero il sole,

le corolle inanimate,

l'orizzonte che minaccia le passioni

 

prima che i tuoi occhi spogliassero le rose

i rovi, le sembianze dell'inverno

e il fuoco inerme  

 

prima che i tuoi occhi pesassero le lacrime

l'impensato della notte

e prima che ti fossero di parte

confortandoti di sera

 

prima che i tuoi occhi affilassero un'idea,

la premura e la bellezza,

e il pudore dell'angoscia

 

prima che i tuoi occhi si voltassero feriti

consumandoti sentenza e precisione

oltre il dubbio dell'aurora

 

è così che li vorrei, mio stupore

con le palpebre socchiuse dell'infanzia

innocenti e senza credo, con il senso per l'ignoto

 

erano doveri le nubi di quei giorni

scure meraviglie e fauci in volo

pronte a dire l'irreale

 

le stagioni t'imbrogliavano a intervalli

insegnandoti l'attesa delle foglie

e l'atroce del domani                   

 

forse ero la terra che pestavi

senza quiete né tristezza

forse ero l'assenza o la rovina

la tua ruga già affidata

 

 

 

*

Di tutte le difese

 

 

di tutte le difese non so il bene.

quando osservo l'autunno senza lodi

 avvizzisce ogni rimorso.

tutto al tutto e niente al niente

 

arrivai alla resa dei vinti, e ciò che appresi

fu l'inutilità del sole.

le ragioni dei martiri codardi

condannati dal giudizio mi divennero torpore

 

di giorno in giorno la resa offende, il nome, la voce, l'attesa,

quando il viaggio non ha strade da voltare

assidua offende, scarnendo anche il gesto più caro

per delegarlo degno dietro l'eco d'altri corpi

 

chiara è l'essenza fra le miserie

chiara e frantumata come il grano tramortito dal mulino

pronto a sfarsi in disunione

spogliandosi di sé come di Dio

 

un'allucinazione vana, sepolta,

la ragione quasi danno.

fra le ultime ubbidienze è questa terra

con i giorni da servire in lamentela

quasi fossero macerie da ammucchiare

o profeti della sorte

 

per la gloria dei vinti, sconto le opinioni e canto all'ombra

il rigetto del pensiero è la forca della lotta

e ora a tratti graffia il senno

blaterando la giustizia della colpa

 

non guarite le paure, non le unghie, né le tarme dell'orgoglio

siamo foglie da sterminio oscillando la pazienza,

siamo volti disattenti per stazioni

e miracoli mancati.

non salvate il passo per la sera

non smentite la lingua nel silenzio

e sudatevi il respiro fino a odiarlo

 

*

Precari come i pianti dei viandanti

È un’evidenza in trance la voce vera
Provate a contestare signori varietà,
Ripetere in silenzio la domanda che non avrà risposte
Là dove non c’è terra per cogliere umiltà

Io so che le colombe danno pace
L’ulivo in mezzo al becco
Potrebbe replicare per chi negando il vero
Ha appeso l’esistenza
Piangendo in assonanza col suo boia

È credere il segreto, trovarsi nudità
L’appartenenza intera
Così maestosamente denigrata
Da chi non ha virtù dentro le ossa

Sudate, pescate la causale, signori varietà,
L’origine nascosta di tutti i nostri applausi
Per darli in pasto ai fiumi prosciugati
Precari come i pianti dei viandanti

*

Il timbro dei cipressi

 

Riposa tenerezza
Deponi la speranza dei bambini
Rinnegami obiezione fin quando pregherò
Chiudendo gli occhi sveglia.
La lama fra i pensieri chiede sangue
Le vene accompagnate senza me
Non trovano più il fiato

Impulsi controvento
Marciscono anche i prati piantando l’illusione
Di stringermi compresa oltre l’azzurro
E il gelo impersonato
Confronta l’altro inverno
Il tempo che a spogliare scorre assolto

Mai vorrei abitare la farsa delle danze.
La morte dei valori in lamentela
Guardando invano il sole
Altrove, in disimpegno
Per non scaldarmi ancora

E voi, burattinai, salvatemi nei fili
L’assolo di una voce, devota al carnevale
Per darmi la follia, la tregua garantita
Rimedio di pietà mai riflessione.
A voi burattinai, io mostro le mie spalle
Che all’alba sanno il peso
Vuotandomi l’impronta e l’urlo che ho venduto.
Violatemi nel gesto la resa dell’orgoglio
Le viscere di fianco piangeranno
Offrendovi di me, il miele scomparso.
Stimatori di chi.
Funamboli invasori nei polmoni
L’amore che vi offende dà cancrena
Ragioni per morire e tarme ai polsi

Esilia la certezza, scompone la memoria
E nasce canto
Allontanando il timbro dei cipressi
Di ieri e di domani
Perennemente immobili e scontenti


 


*

La quiete

 


Compone la grazia d’ogni istante
Vestendosi di sé
Là dove la realtà porosa inganna
Vezzeggiando i fiori al sole
Prima di bruciarli

Teme gli opposti
Contrarie brevità
Nevischi e fiamme insieme
Indomite incostanze
Oracoli e missioni - difficili credenze
Dilemmi e spiegazioni
   
Ci sono terre che hanno troppi sassi,
Balbetta, a volte.
E mentre inciampa, ha l’impressione di sciuparli
Conscia d’offrire carità
O di vantarsi eterna nominata
Premiandosi di rare tolleranze

Sogna ciò che ha – scenari e commozioni
Indifferenze e cure,
Lei stessa è il suo paesaggio, la lacrima soppressa
Il marmo sulla fossa e il fiato sull’altare.
Possibile variante
L’incanto della creta che tutto può ritrarre
Esclusa la ragione

Onora la discolpa nel perdono
E forse le dà corpo
Cordiale come il pane fra le labbra
Che mai si può negare né odiare in penitenza

La quiete ha vene agiate
Bandiere da applaudire e tralasciare
Lamenti e fratellanze
Da consacrare singola omertà
 
Depone gli occhi. Muore pazienza.
Sosta intermediaria di nessuno
Scusando anche la morte
Mentre il fumo dei camini imbastisce i tetti
Per le ossa della sera

 

 

   

 


*

Mia nausea la speranza

 

È il verso dell’essenza che frantuma
Questo andare fanciullo che scongiura le guerre
E tutte le risorse a strazio appena umane
Direzionate all’ombra, dove le maniere ignorano i lamenti.
Siamo prove assenti, manna regalata ai porci
in fila come lumini sopra ossari scordati
Aspiriamo a illuminare l’universo
Traboccando d’utile bontà

Morire di stenti, ecco il mio rosario.
Franare a picco lungo le pianure
Infangate dal nodo della tolleranza
Per cominciare a urlare sciogliendo la ragione.
Vorrei ricordare il sangue come una lama
Un rantolo che a sfare dà veleno
Per annunciarmi viva in una fossa
Derisa dalla fede che agonizza
Mia nausea la speranza

Svegliatemi defunta, sempre,
Stracolma di perdoni intorno al collo
E fiera, tangibile e invadente, devota a un sogno folle.
Non nascerò mai più.
Inchioderò le suole che ho graffiato
Vagando senza torti fra le forche
E negherò il mio passo incerto ai bivi
 
Questo dire fanciullo, viene meno al paesaggio
Scorre vene lontane 
Rovesciando la voce, e l’impero dei gesti.
Un crisantemo, almeno, labile accoglienza,
L’ordine cordiale delle cose.
Cimeli sotto gli occhi, impegni tramontati e mani vuote
Grondanti d’ideali

 

*

La fatica

 

C’è per ognuno un rovo da impugnare
Un'esile fortezza e un pianto in fasce
Da rendere ai domani.
Altro non è la gloria che ci avvolge
Per perdere la resa del destino
Dove gli uccelli tornano invecchiati

Cos’è un confine
Il limite che a volte rigettiamo
E già annidato in gola
Respira la realtà
Un sogno o un ideale
Un dire che a scandirsi sgorga vero
Sincero come il latte d’ogni madre

Cruda fatica, miniera confortante
Accerta le tue carni e pregale ferite
Sapore oscuro, il tuo, del trionfo
Scalata che temiamo
Perché di noi reggiamo solo il nome
E il credo calpestato.
 
C’è per ognuno un rovo da impugnare
Sguainando la pazienza fermo artiglio
E siamo a tratti la voce che osa il gesto
Sfamandoci i pensieri come figli
Da non svezzare mai


 


*

Ruscello e aridità

 


A voi, sopraffattori d’anime
Lei deve il giovamento di un attimo mai stato
Le mani confinate e le mancanze
Continue come nubi a piccole scadenze

Agnese occhi socchiusi, dai modi ereditari
Dov’è la tua coscienza, l’istinto che deborda
E sempre non conduce in fondo alla pietà
Per dirti che potresti liberare le braccia dietro al vento

Agnese gesto fermo, indefinita pace
Scandisci ogni tuo nome, le maschere non sanno
E a calco - dura argilla - non piangono per te
Che temi l’interezza, le viscere sul letto
E gli avi come forca  

Agnese che non mordi, azzanna la bontà
Ripudiala domani, smagrendo sotto il sole
La tua comparsa arresa, lontana dal respiro
Spontaneo quanto l’arte

A voi, soprafattori d’anime, lei deve la perfidia
La sete e l’ira in gabbia
Sopite fra le labbra, nei pomeriggi in cui tutto dipende
Persino l’imbrunire appeso al volto

Agnese grano e biada, padrona in sudditanza
Dimentica gli eletti, le statue convenienti
La gola dei presunti e tutte le virtù
Ferite in pasto a chi non  cura l’orizzonte
E a priori perde il vizio d’esistere domani

A voi, soprafattori d’anime
Lei deve l’attenzione precisa e indelicata.
In quale ricorrenza sarete possessori del suo tesoro incolto
Se chiuderà la vena che calda lo contempla

Agnese conseguenza, ruscello e aridità
Concediti l’orgoglio scontento di pagare
Poi sfida la tempesta armandoti le spalle
La vita non è mai pena fedele
Né cenere per sempre


 


*

Del respiro

Offrimi la fiducia di spine per credere al dolore

Colpiscimi il passo perché con questo rivelerò la strada

E non confortarmi se cadrò dispersa

Sarà il pianto ad abbracciare la speranza

 

Mio è il peso del respiro

Di questa morte muta da fenice

Smaniosa solo d’essere

Null’altro che radice esente al fusto

 

E se all’ombra ti diranno che ho fallito

Non scordare l’intenzione

Trascinala spiraglio, gloria antica

Come un impegno, un paragone

O un’impronta di coraggio

 

Mio è il peso del respiro

Del fiume in ribellione secco a valle

Del rantolo che spento irradia il cielo

Spremendomi per me, solo per me,

A festa generosa croce

Mai destino

 

   


*

L’intenzione che ora è fiume

 


Immergiti al centro della noia
E lì sarò diamante
Scolpito per miracolo un momento
Prezioso a confrontare
La sabbia coraggiosa dell’estate
*
Ho fede per morire d’ennesime battaglie;
A volte le sento come alghe, quasi vive
Scontente più di me che a rese mi conduco
Viaggiando in avaria.
E allora aspetto il tifo, l’uragano, la malattia immortale,
Lo schiaffo del cemento che mi seppellirà
*
Respiro ma non spero di cancellare l’orrido del mondo
Che stringi forte al cuore sognando il firmamento.
Applausi e cari inchini per semi libertà
Già solcano le nubi in adesione
Di grazia al tuo messia prima d’amarti
*
Dov’è il mio triste applauso
La loggia dei ladroni posa in fila
Godendone per me. Che muoia almeno vana
Dimenticata sete in ogni fonte
Schivando labbra e graffi d’occasione

***

Hai svegliato l’incoscienza
Hai abbozzato l’incoerenza come dono
E adesso sono.
Sento il seme comprensivo che germoglia.
La pazienza. 
La gettata delle stelle è guanto al cielo
E tuo è il valore, l’aratura del pensiero.
L’acqua densa di parole
Gronda e leviga nel senso l’intenzione che ora è fiume
Generoso.
Verità contro la morte  
 


 


*

Per ceneri lodate ai gesti da amputare

Verrà la fine e il sole gelerà
Pagandoci le spalle in preda alla stanchezza
In questa valle d’instabile pietà
Dove la quiete decade fra le stelle
Fingendosi infinita

Ecco la morte
Il nulla e le sue assenze
Il riposo costretto a meditare
A distanziare il vanto dei capelli
Ragioni di tormento vanità

Poveri corpi, tramonti d’illusione
Quando marciremo sbiancandoci le labbra
Se i fiori torneranno
Legando a rotazione
Passato e riverenze

Ecco la morte, naufragio e balia oscura,
Culla stabilita in processione
Dal nascere dei tempi  
In gloria agli avvoltoi per legge di bontà

Causa agli impegni per non mancare mai
Spine all’attesa, la fede come guida
E i passi senza strade
Per ceneri lodate ai gesti da amputare

Ecco la morte, il petalo scortese,
Lo scialle addosso al nome e l’impazienza
Di chi pestando l’erba
Ne incarna le ferite al sangue infermo

 

 

 

 

 

 


 


*

Benda ai rovi

 

sento il peso del giullare quando inciampo
l’avarizia del sorriso mi sospende
e mi dono benda ai rovi
al respiro circostanza 
da scordare senza porte di rientro

riso e buio oltre l’azzurro
io giullare in seno all’ombra
lame e gesti sul banchetto della vita
per non fingere il volere delle pose  
carità dentro le ossa

i miei umori tumorali sanno il retro della gioia
mascherina giù nel pozzo, beffo l’anima temprata
e rimpiango l’incoscienza zoppicante
l’erba pesta e i fiori a pezzi sconsolati  
che a difesa sotto gli anni
sempre smentivano la primavera
   
  
 
 

 
   

 

 


*

Morire gente


rifiuto l’umiltà davanti alla mia tomba
rifiuto la rinuncia perché non so morire
e il tempo adesso è sete da scavare

urlate se volete,
ferite l’evidenza dei giorni andati a male
schiaritevi la voce dimenticando l’alba
e usate le preghiere per non spogliarvi mai
d’ingenua umanità

come acino ai tralci
come seme alla terra, come foglia d’inverno
io colgo quel perdono che non sapete dare
sentendomi frattura d’assente redenzione

morire sempre, morire perla, morire gente,
chi sono non concorda, perché non ero io
la trave sopra il tetto che dubbia mi fissava
mentre le pianure morivano per me
di fango e anche di pioggia, con frane temporali

altro non so, piantandomi le labbra
tremanti come l’ombra
ovunque uguali a me
in un terreno acerbo sudato dal destino

immensa carità lode al risveglio
amato mio giudizio lode al dissenso
dov’è il mio sangue folle
sbiancato in sacrificio

io incarno la mia grazia e non imploro cuori
per darmi l’importanza
né fuggo al mio massacro che in voi muore condanna
murandomi di latte e d’altre onnipresenze

eppure un solco resta, a odiare la speranza
un battito deriso nella nebbia
e qualche ostinazione arresa in gola
sfidando la pazienza

 


*

Mi volto di spalle


A tratti svanisco, mi volto di spalle
E scordo la terra
Lo scialle di lana di troppe preghiere
Dettate dal vento di chi sa soffrire.
Svanisco impietrita, guardando le stelle
E sogno che forse la gente è qualcosa
Un verbo sincero da farci una strada
Appena un paesaggio
Per correre ancora.
Svanisco opportuna di fronte ai malanni
Tradisco nel fango l’umana natura
Che a valle raccoglie
Speranze e interessi d’uguale missione.
Svanisco imperante, non alzo le voci
Ma canto il silenzio
E rido di tutto, persino dei cani.
Svanisco d’amore con mani tenaci
E a viverti credo che tutto dia bene
Il fiato dimesso
Di fiere battaglie protese al dolore
Per non somigliare alla gente che fugge
E che muore
Lasciando che il tempo sia solo un destino

Dedicata a M.P.


*

Rosaio e tentazione

 


Tu contraddici il fiato
Lo schivi come l’ombra schiva il sole
E al graffio tuo io sento confermare
La sete che provai
Nascendo carità per queste ossa

La vita avrà destino finché saprò morire
Curandomi le costole mai stanche
Di favole in delirio
Perché non smetterò di crederti parola
Cogliendoti rosaio e tentazione
 
Diluvia la coscienza
Annega la memoria di colpe denudate
E allora innaffio il tempo stordendomi di me
Vangando le rovine di ieri e di domani

Che dire dell’istante se eterna è la certezza
Stravolta e mai perduta
Origine di noi spoglie intrecciate
Per ammansire altrove
La sabbia intorno ai fianchi

A te che doni e inventi la mia consolazione
Io vanto verità e niente comparse
Perché non so cantare voltandomi le spalle
E con gli specchi ho infranto le mie lodi


*

La sera arriva silenziosa

 

E dico che la sera arriva silenziosa
I sassi nelle vene cominciano a scolpire
Il verbo del passato
Posandolo fra resti e volontà

E dico che i miraggi sono nei deserti.
Potrei seccare a venerarli fieno.
Assetarmi all’infinito
Per un patto simile alla gioia
Che possa definire
Qualcosa d’opportuno,
Affabile pietà, per noi
Che a volte inceneriamo
Sfidando la speranza ogni mattina

E dico che basta la nebbia a fare la follia,
Ragioni uguali al pane,
Campi di preghiere inesaudite
Dove sbocciano le spine
Ingentilite al vento là dove piega un po’
Soffiando gettate d’evenienza

Credo al destino, fatica e delizia;
Al fuoco spento e al freddo della morte
Adesso, appena specchio, voltandomi compresa
Mia è l’ombra imprigionata
E tutto il resto è attesa,
Miniere di cadute e poi bastoni
Ché il passo a malapena si conquista
Trainando l’esperienza

Cos’è questo sole a comparsa che mi tormenta addosso
Fingendosi splendore esagerato;
È un ladro d’equilibri e di bontà
Mentre sveniamo il tempo
Nel fondo del bicchiere
Bevendo frattaglie in armonia

Avrò lividi e rughe, domani
Giudizi come grano da trebbiare
La posa innaturale del dolore
E forse amerò il cielo
Murandolo a metà  
 
  
 

Marina Minet


*

Bendando lo stupore

 

Nutriva d’evidenze l’infanzia che mai fu
Il cielo troppo in alto marciva lontananze
Bendando un po’ ogni giorno
Lo stupore

La sintesi del corpo
Scriveva la fatica per orgoglio
Svegliando a notte fonda
La strage del pensiero

Ristretto era il giudizio
Vendemmia dentro al cuore
Fra torti e fantasie
Sul quadro della morte
L’inganno incorniciava

Lodava la speranza
Il vuoto più sperduto
Povere le stelle
E i giorni da riempire

Missione l’esistenza
Divenne ponte al bivio
Cercando di curare
I limiti del bene

Mia terra che non sai
Offrendo lutti ai rami
Perdona questa foglia che non può più oscillare
Né sa seccare invano.
Cancella le sembianze che ruppero la luce,
Riportale al divino
Come se le costole non fossero mai state.
Denuda la parola
Il luccichio del tempo e il suo massacro
Di cenere e sudore


*

Primavera

 

Aspetto il mio falò.

Frontiera di parole, ho scelto falci a schiera

Nascendo tolleranza per scarse carità

 

Le ali del coraggio conquistano miserie

Oppure infermità da tesserci salvezze

Piovigginando fango e sale addosso

Quando l’esempio eletto frana spoglio

 

Corono verità. Il giglio mi sovrasta.

Le rughe del maltempo raffreddano compiute

E mentre ci ragiono le vedo naturali

Piangendo i fiori miei

A sfarmi già immortale

Ferita come culla

 

Lasciatemi le braccia per l’ultima fatica

Da stringere pietà.

I fianchi per voltare le doglie senza volto

Così che poi svanisca, figura da marcire.

Strappatemi il pensiero per non odiare il cielo

Saprò pregare al buio la fede dell’essenza

Coprendola dimora.

Spolpatemi l’udito, cucitelo d’onore

L’ipocrisia non sfami né asseti questa voce

Silenzio calpestato.

Svegliatemi lo sguardo per adorarmi adesso

Le ossa che ho sbiancato

 

E tu che sei fermento sollevi adorazioni

Curando la movenza delle stelle

Fin dove l’infinito.

Funambola accecata - seguo il volo

E so che morirò, e morirò fiorita

Cadendo foglia viva al tuo respiro

Mio ramo primordiale

 

 


*

Domani oppure sempre

 

L’attesa è un morbo in fasce.
Un gesto immobile ancora da iniziare
Girovagando il niente e le sue mura
Lontane dal tuo fiato

Sono un piedistallo in volo;
L’altezza sopra il cielo arriva solo a te
Scegliendo la prudenza
Là dove lasci impronte

Le doglie del passato non sanno più di me
E il vivere sopprime l’incedere del vento
Soffiando la realtà
Di secoli smarriti

La mia follia ti premia
Aiuta appena in tempo perché nel tuo via vai
È lei la fuga salda
L’instabile preghiera fuggita dai rosari

Curami le mani
La notte le ha graffiate
Stanziandole incisione d’amara penitenza

Mai più risvegli in festa
Domani oppure sempre
Saprò che puoi ferire
Ed io non sarò più né cenere né vita
Né linea d’ombratura spegnendomi trafitta

Se fossi una pianura insulterei la pioggia
Il fango a soffocarmi potrebbe dirti meglio
La piaga che difendo.
E allora capirai
I fiumi d’impazienza che freno a denti stretti

Ho giorni da sudare
Al buio a raffreddarsi avanzano sconfitti
Salvando la speranza all’orizzonte

 

 

 


*

Con l’amore sulle spalle

 


Ho perduto la mia età.
Ho sepolto gli anni in cui
Non stringevo nebbia e sole
Tentennando la scadenza dei lumini

Non difendo le illusioni, scaccio il trono,
La viltà delle tribù che seccava le mie scarpe
E ho capito che la strada più lontana è dentro me

Io cammino celebrando l’operato dell’insieme,
Tiro avanti il passo fresco e non piango corvi addosso.
Ora e più.

È il candore a farmi spola
Rischiarando l’importanza
La bellezza che ha dipinto proprio dove muore Dio

Com’è acerba questa notte
Quasi seta nel pensiero - lo ritrovo sangue e vene
Sussurrando a chi per me il domani del risveglio

Dammi l’antro. L’impressione del viandante.
La casuale delle stelle al tuo riflesso
Come porta volta all’eden

Io chi sono, verità,
 Pelle tesa al cielo cavo
Accogliente quando piove o corre vento
La tempesta mi riposa
E barcollo, derubata, con l’amore sulle spalle


*

Ovunque, quasi un dove

 

Regione del mio credo, amore più che posso, accento che a inventarti neppure in anteprima; la storia delle ossa è il buio che ho perduto, scoprendo la tua sete su di me. Avrei voluto dirlo che benedivo il cielo, in quell’istante appena fotogramma, intatto come ieri, ancora io lo vedo.

 


Sono di te la veglia sul guanciale,
l’attesa che stenta a dominare
la culla del bel tempo
paragonato a maggio.

Il mio vento è trafitto dal mare,
osservalo dall’alto,
le onde confrontano il sale con il pianto
e mai alla terra li vogliono lasciare.

Svegliami pazienza
come preludio d’abbraccio lontano;
la schiena è forte
e in braccio mi sei scoglio
sentiero e breccia
di nuda leggerezza.

Pace e scompiglio
le nubi a picco e il sole in ascensione
quasi a slegare la peste dei nodi
fortificati indietro nell’assenza.

Chiedo in pegno il tuo sorriso in me
per farne canto ché già lo sento dire
dove risposta la voce tua sarà.

Regno al tuo fiato, gergo al mio cuore,
fiumi nei sogni in tutte le stagioni
come divario di buona lentezza
mai fine o timore
fin quando le cause avranno vestizione

Noi rovi e fiori
luci e penombre
strette formali ai corpi da insabbiare
ovunque, quasi un dove

 


*

Del vivere mai nati

 

Del vivere mai nati


In posizione pura rivolta alle parole
Cerco la sete immane per capire
Ciò che germoglia la speranza
Delusa a spicchi infanti dal fastidio
D’ipotizzarci eterni

Sarà il giorno oscuro che mi dirà chi sono
L’ostacolo più duro causato dall’inferno.
Non brulla né feconda
M’incontrerò presenza salvandomi emissione
Nel misero del niente che a origine creò

Gli orchi e le fate affidano tormenti
Ritmandoli d’assenza perennemente in veglia.
Severa è l’intuizione, non finge per orgoglio
Tastandomi le ossa io sfioro la pazienza
E sempre la follia delle opinioni -
Nutrite in fame agli anni

Ero la corsa in piaga, l’immobile fortuna,
La coincidenza alterna del coraggio
Che a illudermi sguainò
Le querce necessarie come ragioni antiche.
Vivono così le bare per simbiosi
Radici e forze in busto
Durevoli anche mute

La luce mi fu boia, poi il fiato dei serpenti,
La lama del risveglio non mentiva mai
Scoprendomi spietata preghiera per viltà
Quando le spalle piegavano dimesse
Al triste temporale di un tempo illimitato

Siamo partite attese, missioni intestardite
Per non morire mai
O forse per morire amandoci imperfetti
Con un qualcosa ignoto
Da amare in torto a Dio
Fuggendo dal respiro del vivere
Mai nati

 


*

Come torture incolte

[Fiele e pane nel vostro ricettario
Come pioggia e fango
Siete la chiesa, le brame della sera
Arando la pietà per gli assassini ]

Mostra il cammino, padre
Dirupi intorno a me come sostegno
Siamo passanti ovunque
Siccità di tempra viscerale
Rovi mascherati da premure

*

[Padre dov’eri quando ti ha baciato
Ha mangiato il tuo dolore impastato dagli ingordi
Senza educarsi al dubbio dell’ignoto ]

Dimmi dov’è la forza iridescente
Le fatiche vacillano
Fermentano tristezze e l’incertezza
Lievita apatia
Adorando l’invisibile carezza

*

[Ricordale i malanni degli amici e l’odio
Dei nemici
Per sentirli a istante netto scusa di preghiera
Dilettando la pazienza a ore]

Dimmi perché, padre
Io ieri come oggi
Vagando a grembo nudo
Converto confusa questa preghiera in pianto

*

[Innestale la croce dentro il cuore
 Il ramo donato eternità
Non farla partire prima del ritorno
Gli ulivi oscillano dal basso l’illusione]

Seguo gli alfieri, a volte
La linea diagonale degli scaltri
Eppure non apprendo
Le ossa affamano la fossa
Fuggendo cento volte la realtà
Delle fratture antiche

*

[Soppesa chiodi ora,
Cerca gli artigli e i denti che non ha mai limato
Gridando al cielo che ha perso la costanza
Strappando feste sante al calendario]

Non Dirmi altro, padre
Respiro la paura del vento che mi scuote
Ormai mi vedo a schegge
Scaraventata impura
Dove le parole più mi guariranno

*

[Rotolerà la testa dentro il cesto della penitenza
Perdonando al capezzale
La vostra indennità.
La resa l’improvvisa
Riguarda la sua pena
E a tratti la ferita ha troppi nomi]

Dammi la fine, padre. L’altro destino
Sono digiuna e la distanza è tua
Prego il coraggio e il corpo 
Finiti in nostalgia per crudeltà

 

[Siamo fratelli e cani
Ruggiti e belati d’uguale carità
Come torture incolte]


 


*

Simbiosi di corpi e parole

Sul letto che abitiamo affido a te il respiro
finché sarò promessa d’infinito
vestendo la lealtà

Tu viaggio e sete in me
ignora la mia voce quand’è piaga
e innaffiami di sole
come se all’istante
potesse illuminare la lingua a raccontarti

Dov’è l’aurora che spaventava il cielo;
la cassa promessa al mio costato
per invecchiare invano una preghiera.
La nebbia mi è svanita
e culla la tua brina è veglia e quiete
sfoltendo l’invernata

Denudami bontà fino a sfiorirmi
strappandomi la terra sotto il passo
per inventare un volo senza patria

Cademmo all’istante, noi fuoco e pensiero
lo sguardo e poi il tatto
simbiosi di corpi e parole



*

Quasi a dire la stagione che non muore



C’è un privato cui badare
La pellicola dei modi non perdona stonature
Né trionfi
Da stanare senza guerre

Confinato, il paradiso,
Miete e cura la decenza
E noi invano ci crediamo
Sopportandoci l’istinto
Come fosse una condanna

Più non fingo
Le mie mani come prova
Stringeranno verità
Sotto il grano o sulla neve
Quasi a dire la stagione che non muore

Perché il vero avrà germogli
Gioie o chiodi
Anche il sogno
Dove appeso s’immedesima di tutti

Mi rivedo, qualche volta
Croce ingenua
Sanguinare sopra un filo di speranza
E ora so che non bastava

E non serve questa tempra
Quando i passi sanno il fango
Aspettando l’ideale di un momento
O di poche vite avanti

Chi a soffrire, chi a ferire,
Dove sono le mie spalle e il mio respiro
Quando scopro di morire
O di nominarmi assente

Mi risorge l’emozione
Forse è questo che conforta
E perde orgoglio
Seminandomi il pensiero nel silenzio

Io matura
L’esenzione e la colonna
La rivolta da sfoltire
Con la maschera in rovina e poche date



*

Mezzo canto alla morte




Non sperarmi così, carne di spalle
Cancellami la fine e inchiodami un sollievo
Un alito di tempra che possa dominarmi
Finché saprò parole

Io ti ho sfamato ieri
Marcivi ogni cammino
Pregandolo d'inciampi per la tua gola a fossa
In vena di silenzi e di rosari

Non mostrarmi così, la colpa di restare
Contieniti pretesa e boia a istanti
La tua natura è ladra e sposa lamentele
Là dove più sarò

Acceca questa falce
Eclissala disfatta verso il cielo
Per non morirmi in grembo mezzo canto
Col sole tra le labbra

Vorrei pazienze ad arte, frontiere per partire
Il limite del timbro che gridai
Schiudendomi le mani fra le ragioni in fiore

Quando ho deluso il sangue?
La lotta è rotolata in mezzo al seno
Con le radici fredde per la verità
Dove ogni madre è niente senza padre

Non ombrarmi la conta degli abbracci
Il tempo ha più riposi oltre l’inferno
La pelle e il sogno in corpo che verranno
Sapranno indebitarmi cento vite










*

Della mia terra

Della mia terra scaldo il ventre
La valle corposa nell’insieme
Di conche in gloria ai fiumi -
Versati in parallelo

Divoro la mia terra e il sangue non compare
Quando a slittarci curo
Le pieghe dei tormenti
Vedendo in dispersione
Il suo dolore

La terra che sospiro adora in me
Le stanze in gestazione del pensiero
Sepolto sotto i denti
Per non sciuparmi il timbro all’ingiustizia








*

Sono di me stessa



Sono di me stessa l’anima esteriore
E mi amo intensa
Come se mi fossi sposa
Oppure ossa e amabile carcassa.
E l’indole mi è pane
Fame e ruvido languore

Sono di me stessa l’indice del tempo.
Il gesto attuato e quello che distanzio
Citandomi intervallo
E pausa alterna
Come se mi fossi vita
O sangue caldo in vena

Sono di me stessa la volontà precisa
E il polso che contempla.
Lo sguardo inflitto tomba agli avvoltoi
E il cuore mio lo adoro
Ferendolo scandendo al patimento
Come se mi fossi amante
E Babilonia sposa

Sono di me stessa il boia e la sentenza.
La presa stretta e quella che lasciai.
La voglia rivelata schiva e irriverente
E ancora del respiro la trazione
Mi cerco anche dormendo
Come se mi fossi madre senza amore

Sono di me stessa la difesa
E pronti ho i denti alfieri
Crudeli ai limiti dei cieli
E per frenare l’ira io mi prego
E chiedo agli incisivi la pazienza
Come se mi fossi miele
Cariandoli carezza


Sono di me stessa il nome.
La voce e il grido dirompente
E ascolto mi venero in silenzio
Come se mi fossi figlia
E bibbia alla genesi dei venti
Liberati a echeggiare

11/7/08

*

La morte e il rimpianto


Sono morta ieri mentre coglievo le mie rose, e ora,
al tuo cospetto - cara morte –
devo dire di me,
dell’ultimo pensiero che la tua falce amputò senza pietà.
Mi hai rubato il fiato ieri e già invoco il respiro,
distesa fra terra e cielo a dividermi da un amore che ricordo.
Plasmami una vita,
offrimi la fluidità del sangue dei guerrieri.
Dammi uno spazio leggero
senza termini in vista d’aridità temprate.
Non posso abbandonare il suo volto,
gli zigomi all’ombra delle ciglia - lodate fra le dita.
Non razziarmi le labbra né gli occhi
perché in questi ho tremato indifesa
quando il mio amore diceva chi ero affidandomi al fuoco dei venti.
Ricambiai il sorriso
con il coraggio e la paura di fianco
perché m’insegnò l’importanza dell’essere
e l’ipotesi orrenda dei vermi che ti completano.
Non fu mia madre a partorirmi
né la sete di mille fortune,
fu quel sorriso a concepirmi e a tramutarmi lacrima
per la paura d’averlo lontano, nell'animo di un mantello straniero.
Sono morta ieri e ancora i denti battono dal freddo
nella pianura estesa fino all’orizzonte consumato.
Vorrei ricompormi,
profumare la traccia dei suoi passi,
volare a ridosso del tempo per rimpatriare gioia e dolore,
con il cuore avvolto di seta e una rosa in mano.
È il mio pensiero,
l’ultimo di ieri, avvolto d’incertezza e nubi,
quando ancora non sapevo di odiarti
e la speranza sfiorava il tuo nome in capo alla tormenta
che ora vorrei.
E vorrei la luce che innalza l’aurora,
anche se la notte la uccide senza capirne il senso.
Morte infeconda,
fa che il mio nome
fiorisca pronunciato da tutte le stagioni
prima che il riposo disperda l’infinito della grazia che baciai.
Resterò intatta deridendo l’erba e il suo bruciare
e pregherò la pioggia senza tregue
per ararmi il cuore
annegando la viltà che mi condusse a te.

*

Senza rallentarmi un solo passo




Ho un coraggio dirompente
Che mi farà sanguinare fino alla fine dei giorni
Senza rallentarmi un solo passo.
La paura è transitoria
E il pianto di striscio la offende
Sciogliendola dolore

Cara modestia, sostieni la farsa
Diventa durezza ma non colpirmi
Dove vanno a morire i silenzi.
Perdona l’orgoglio, l’istinto come tregua,
L’assenza di un sorriso perpetuo
Mentre la morte m’inonda
Sorella in carità

Rinascere quercia, forse,
Smistare foglie come niente
Per darle in pasto al vento
Prima dell’autunno disumano

Eccomi giudizio.
Istante d’abbandono come pace
In un rotolare deriso
Dal cielo tutto croci

Da un cielo che di pioggia versa il fango
Delle promesse infrante

*

.Nel tempo da eternare

La notte ha il suo daffare sfamandosi di noi
con le sue stelle sveglie, sopra il letto
magnifica i tuoi fianchi
peccati da spronare

Tu pioggia incisa addosso
anneghi ogni ricordo
servendolo risolto senza dubbio.
Distruggimi per te,
socchiudimi le palpebre al tuo passo
e chiudi buio il sole.
Ché niente dopo te, saprà chi sono stata
e il pane che ho succhiato fra le labbra

Noi siamo l’intenzione,
il desiderio sempre e il giorno dopo ancora.
Osservami le mani,
la fonte che ora immergo e s’incammina
bagnandoti speranza
nel tempo da eternare

*

Fiato in meno

A volte la fatica ha fiato in meno
Costringe alle rinunce e non rincuora;
Vi rimaniamo appesi, contrari alle sconfitte
E il sangue muore appena
Lasciandoci le vene come tombe.
Eppure il cuore batte
Continuo,
Testardo nel temere l’orizzonte


*

Omicidio di un lamento



Mi sono amata un istante.
Ho capito le ossa che sorreggo e approvato l’urgenza di redimerle.
Dovrei ucciderti lamento.
Tralasciare la logica castrante.
Debellarti da questo corpo incredulo alla gioia
e continuare la strada che m’indicherà il respiro.
Ora basterebbe il coraggio, un’altezza spezzata da un volo,
ma non so volare, e poi,
non mi piacerà girovagare incenerita
senza neppure la consapevolezza d’esserci stata
e di aver provato a ingrandire l’infinito.
Riuscirò a seccare il nervo che ti lega a me e sarà la cancrena a subirti,
dentro una croce smessa e un letargo assennato dal tempo.
Chi ti ha allevato? Chi ha limato gli artigli che impugni?
Abbracciavo tregue, ieri,
ne ascoltavo l’esordio e già ne zittivo l’inoltro:
pensavo alle colombe e alle troppe probabilità che le rendono mortali.
È che d’incertezza si muore, i passi tentennano sull’orlo dei burroni,
si precipita dentro il silenzio e le angosce non sono mai abbastanza.
Digiuno leggerezza, ecco,
come se dovessi incontrare Dio, ogni sera,
e ogni notte osservo la luna nostalgica e sembra quasi d’appartenerle
per tutte le stelle che assolve.
L’innocenza dell’acqua ravviva gli scogli e li consuma,
- con il sole a ponente -
ignara del suo danno.

*

Alberi

prosegue l’anima di sera a camminare
cercando la pazienza del maltempo
finché la rosa indosserà il suo rovo
e il fiato resterà terra straniera

ho storie spese ai fianchi, ragioni come semi
piantate dentro e voci
di trame e santi ruzzolati a turno

e poi, più il niente, lontane cecità,
ma il sole preso culla
resta altrove
beffando le mie ossa
e il timbro che ora splende ha nome in me

due alberi divisi a delirare
il canto dell’unione
confrontano per me ciò che non so
per impastarsi al vento

sovrano è il giglio sull’albero che scelgo
per vivere il lamento alle radici
strappandolo fra i denti

il rosso accanto, resiste senza rami
e il fusto che lo frena ha nodi incisi
legando volontà senza demenze

l’inverno da lodare si ciberà di me
sbocciando foglie e fiori
per riportarli intatti a rotazione
schivando le stagioni

attorno più non sono le fortezze
padrone è il cuore mio sopra la gola
carminio remissivo sull’altare
di un Dio senza colori

prego il tempo, le chiavi e il passo
di tutte le frontiere
che in grazia passerò
lasciandoti la mano, a istanti, quanti istanti
per amarla


*

L’altro timbro

È stato l’altro timbro
A darmi l’impressione di vivere esistente.
L’approdo del sentire dentro al cuore
Nel sempre di un respiro
Che mai avevo amato

La gioia è il resoconto,
La pena l’invenzione del meno che comprendo.
Miniere di parole
Scavate come gemme
Per vincere il silenzio
Ascolto da patire

È stato il primo bacio a darmi l’intuizione
Del sangue nelle vene,
Il battito scordato sul tramonto
Di un giorno tutto luce
Nascosto oltre gli ormeggi
Per ingannare il mare

Sollievo,le carni amalgamate
E le ossa da indossare
Sorreggono i domani
Sbandando come vele
madri al vento

Lame perse quiete fra le labbra
Confermano davvero
Che il corpo non è stasi
Né cura da ignorare



*

La voce come l’arte



Pesate questo cuore
L’imperfezione antica che combatte
Stringendo il sentimento;
Pesate la fiamma per guidarlo
Simmetrico e verbale
Al dire sottinteso dell’amore
*
Diramazioni, sentieri impolverati,
Silenzi in verità come conchiglie
Eterne morte al mare
E l’onda addosso
Il senso di vertigine sincera
Per confermare il tempo:
Le fragili obiezioni
*
La pace uccide a sera,
Perfetta, addormentata,
Stanchezza senza nome
E incline al niente mai rotolerà
Neppure batticuore
Fermato al sangue assente
*
Potessi riposare, la vivrei
Sognando le tenebre leggere
Dove la luce a lama scorda gli occhi
Prima di spezzarli sull’altare
*
Pesate questo cuore
Legato scorre a fiume e apprende istanti
Pensieri e poi respiri
La luna da scavare
Mentre la sete nuda veste vita
*
Sarò terra cordiale o semina dispersa
Violando primavere a farne frutti
Finché disseterò
Lodando soddisfatto
Il palmo della mano
*
Pesate questo cuore,
L’albore brillerà
Vagando le mie strade
E il vizio del ventre in alto mare
Arreso al suo profumo
S’incanterà sfinito
*
Con l’arco scheggerò
L’attesa e la sua fretta
Per dare un’irruzione
La spina eletta carne
Al fremito del vento
*
Pesate questo cuore
Il prato delle ceneri fiorite
Così, senza intenzioni
Né ruote stagionali da contare
*
Le notti vivranno lievitate
Alzando le promesse
E lasceranno impronte
Nel tempo che dirà
La voce come l’arte

(alias Marina Minet)

10/04/2010

*

Ostro



Ho un dolore che sanguina vento
Su capi e frontiere flesse all'aurora del rimando.
Un volto istoriato a chiaroscuro,
Che fa le veci al sole
E un disordine che odora rotta,
Arando vele a Dio
*
E ancora il forse a scalfirmi
Che artiglia con unghie di falena
E ne divora sale all'ombra di panchine incustodite
*
Sono pioggia imprecisa
E mentre conto miglia infilo perle piane
Su fili immaginari tingendomi le mani di follia
*
Potete cogliere lacrime intarsiate su scogli
Come mitili arresi per farne maree
Dove il sempre posa sfamato
Un tratto che mai muore
Prima d'abbandonarsi sul mare
*
Luna
Parodia sbieca
Osservarti mentre inventi condanna.
Di questo cielo che ci slega
Potrei mangiarne curva
Se solo mi voltassi al tuo pallore muto.
Potrei plasmarne uscio
Scovando chiavi
Laddove barlume arretra al nome dell'amore
*
Morirai mai, luna?
Spegnerai la notte fra le tue labbra al neon
E sarò scroscio nuovo.
Sarà così.
Lo sento
*
Spirerai col fiato del silenzio
E diverrò tua sposa rendendoti mia culla.
Libererò corpo da aghi senza crune
E scivolando su screpolature indomite
Vestirò nome freddo
*
I turbamenti sono semi d'ortica
Ho terra incolta quanto basta a renderti sovrana.
Conobbi l'amore e ne inventai carni affamate
Per poi farne digiuno.
Vegliando torpori in balia di diluvi
Ho intinto pane su labbra di mimosa
Sentendo accordi nudi
*
E non so dirne pena
Se questa mi è di grazia
Né so scompormi fitta
Se in questa ho divorato miele
Creandomi respiro
*
E che d'amore se ne parli ancora
Che se ne dica sangue,e vizio, e torto, e offesa.
E se di morte si dirà,
Bussatemi le ossa
E puntate a bandi in mostra d'inchiostro vaneggiato
*
Che possa averne tralci
Di questo mio sfiorire su semi circolari.
Fiotto per ungerne esordio
E vampa per ravvivarne fuga.
Che sia sempre replica per poi farne principio.
E se mancarmi ne sarà balzello
Rinascerò selciato per svolgermi stagione
A partorirmi fiato
*
Dammi l'istante luna.
Dammi l'attimo che serve a non svanirgli.
Quanto basta a ritrarmi vera.
Il tempo di una luce fiocca scialba
Un avanzo ad infilarmi dentro
Per offrirgli mosaico di rimpianto
*
Dovrei sbocciare nel deserto come rondine
Prima d'andarmi oltre.
Dilagare l'alba del suo odore fino a farne sabbia.
Con canestri allestiti all'esodo
Trafiggerò il mio dire cavandone poesia
A farmi cosa viva
*
La luna spira.
Cullando a rilento cortometraggi illusi
Cola quiete su accenni insabbiati in verticale.
Dal basso, a fissarla un pierrot accecato
Sorride chino
Spegnendole confini

(alias Marina Minet)

2005

*

Chiodo e Crisma



Ho varcato le pianure del bisogno, Padre assente.
La città lontana era la fede
E pareva un rovo da sfidare
Con i tralci indifferenti in distrazione
E il silenzio di chi offeso ti ricorda
*
Chiodo e crisma,
Scaraventa ogni preghiera che sprofonda al disincanto.
L’apprensione dei prelati è un dito cieco
Con il tempo che risparmia la morale
Delle misere promesse a scambio certo
*
Così incerto è il proseguire,
Assestarsi sulle spalle la pazienza
E osservare viaggi vacui,
Pigramente introspettivi:
Pellegrini al comodato.
La volgare sazietà di chi protesi si mostra -
Folla iena. Dove l’agio ha le pretese
E gli ingordi non ricordano la sete
*
Padre muto,
Sfigurato dagli artigli delle colpe
Noi la terra e i trapiantati
Compassione e sangue armato
Che nel tempo colse guerre in paragone
Ma anche il pianto, di un rammarico gentile
*
Noi di chi, condanna e soluzione.
La movenza che impaurisce le maree.
La bellezza deformata con la gloria
Quando il cielo fra le nubi sputa fango
*
Noi per chi, la presa stanca
E la scatola scartata nel disprezzo
Vinta avanzo e macello di sorpresa
Simulando lo sgomento
*
Padre muto,
Riconferma la presenza voce e passo
Tollerando l’imperfetto, d’ogni credo disuguale
E cammina milite - giù a fondo - croce e illogico perdono
Dove l’odio rintanato, spera serva, la pietà


(alias Marina Minet)

24 gennaio 09


*

L’imperfezione



È l’imperfezione che governa il mondo.
Le paranoie fitte come arbusti
E noi di sotto con la pioggia che a inzupparci nasce fango;
E mai che veramente siamo
Increduli guardandoci le mani
*
Ripenso alla tristezza della guerra, ai corpi festosi mutilati,
Alle ossa senza terra ancora con i denti
E mi vergogno di questo mio chinare lamentoso
Di queste piaghe cerebrali senza petali in caduta
Né foglie da sciupare scelte al passo
*
Ogni ragione ha un nesso nel domani
Ogni movenza il tempo, la stasi,
Persino l’abrasione d’ogni lacrima svanita
Rimpianta per sentirsi in mezzo agli altri
Prigioni senza chiavi
*
E non ha senso il freddo
Il caldo
Né le stagioni al cuore che nascono bruciate
Già prima di scaldarci
Perché è nel termine l’unione
L’avvento
Ogni parola che vivo all’ossessione
Pensando solo a un nome
*
Questo irreale fiato
Questa passione guida promessa stancamente
E mai cambiare
Calcarsi gli occhi freddi nella nebbia
Sconfitti, delusi, diversi,
Come se gli istanti fossero infiniti
E la coscienza, un morbo


(alias Marina Minet)
2008

*

Il grembo prodigioso




Il grembo prodigioso è delle madri.
È vento stagionato
La buona sorte che seguono di sera
Nel traffico stordito
Pensando al busto fiero
Che le pesò immortali
*
Il grembo prodigioso
È delta e causa eterna;
Solo in coro al freddo
Cenacolo si mostra
Scaldando nei camini mille botti
Tradito l’oste in pena
*
Ed è tensione e miele
Il polso del comando.
Angoscia da strappare
Se antica, con l’indole s’intona
Tiranna incomprensione
*
Il grembo prodigioso è culla di rimpatri.
Di chi esiliato riconferma il tempo
Fra ceri e marmi in prosa
Riavuti come niente fianco e seme
Stampati di sembianza
*
Visione d’impazienza
È il ventre lievitato in cerchio all’ombra;
E colmo al sole aspira
Beandosi catena d’infinito
Assolo marginale
*
Leviga lento
Il grembo prodigioso;
Come scultore vigile e imperfetto
Scolpisce il labbro da confinare al seno
Con l’anima a tribordo
Sciupata al respiro nuovo


(alias Marina Minet )

5 marzo 09


*

Premessa istintiva

Respirerò l’inferno se Dio offrirà la luce.
Reciderò la gola degli agnelli
E mi disseterò di sangue
Finché l’ultima goccia saprà Cristo
E ne dirà sbiancando l’estrema coltellata

Accenderò il rancore e l’odio al suo daffare,
Soffiandoli sul fegato malato
Perché la guerra veda il proprio marchio
Contandosi i feriti sull’altare
E chi madre a pregare

Sradicherò gramigne e fiati morti
E senza braccia li reggerò a brandelli
Se il grembo della vergine e il suo seme
Germoglieranno intatti oltre quel tempo
Che ancora a ogni missione
Bastava solo il latte

alias Marina Minet

venerdì, 03 luglio 2009