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Raccolta di poesie di Rita Stanzione
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Dall’essere al mancare

 

Non lasciarmi tornare indietro

alla mia indolente mestizia

di giardino blu

- davo l’acqua a chilometri di sabbia -

- le mani graffiate dal vuoto e perdute -

- ma erano grandi cose se seminammo

di gioia anche il dubbio di esistere -

A occhi chiusi so tutto di te

e sai tutto di me, perciò

non lasciarmi spazio al pensare

a quel buco nero lancinante

messo all’ombra del cuore

In un bozzolo non sento più

cosa ci sverni ma

va bene così, basta la sera di nebbia

a sedare l’angoscia

- vedi? sta passando -

ma presto il tentacolo riappare

ben nutrito - colpa mia - come un figlio

come un sommo dio

- che sia l’addio dall’essere al mancare,

l’ultimo desiderio?

*

Ferie


Pensavo il gran fuoco d'estate

fachiro mangiare le paure l’amaro nelle ossa
la sabbia molle estirpare dai passi

il tempo il vuoto l’inutilità degli echi

e la brezza credevo riparatrice di mancanze

quelle ferite di meduse troppo addosso.

Troppo addosso ogni cosa che vorrei lontana

troppo lontana l’aurora bella

ora che solo sento strascicar le onde

battere buio nel respiro,

così lontana quell’aurora

senza misura senza senso

tutta spalancata –

– una fuga infinita

con la sua gemma.

*

Il blu di finirsi

 

Guarda quelle nostre culle
scavate sulle terrazze
d'incantesimi procaci
Trama di cristalli roventi, 
metamorfosi del silenzio
a sillabe strappate 
Quanto manca al blu di finirsi?
un fondo appena
profondamente dolce
un graffio stellare, di gola, 
e quante schegge.

 

 

*

Perdono (agli occhi fuggiti)

 

tristezza - le teste basse

vincolate alla terra, alla ruggine

accalcata dentro le clessidre.

se avessimo osato una parola

intonata, un gesto nudo

le macerie vacillerebbero

su semenze caparbie del perdono.

- ma cosa farà di noi la luce -

forgia di perdenti

come nugoli acquattati

roridi i pensieri.

storie incrociate scalerebbero la luna

uno sciame senza riserve

che anche la morte tremerà

per la caduta della maschera

del tarlo dai tagli, agli occhi fuggiti

dall’addiaccio.

quintessenza di osmosi

se si sapesse

- che amore è un’altra cosa -

piegare il rovo puntuto,

se si volesse.

 

 

“Ah, se tutti si perdonassero a viceversa! Il mondo avrebbe pace: tutto sarebbe chiaro e tranquillo come in quella notte di luna.” 

                                                                                                       Canne al vento, Grazia Deledda

 

 

*

I loro bambini chiedono


I loro bambini chiedono

se la bomba non sia un giocattolo arrabbiato

come quei robottini che

non rispondono ai comandi.

Poi si ravvedono - dev’esserci

un motore umano artefice

di tanto caos malvagio.
Si nascondono tra i seni

piccole bandiere

incendiate di solo amore.

I passi fuggono, le bandiere tremano.

- Piccolo mio non piangere

è un gioco

facciamo solo finta che sia vero.

Quando finirà canteremo pace

i nostri fiori d’altr’anni

innalzeremo

nel cielo senza polvere.

*

Tra fiori di pietra


I corpi sparsi tra i fiori di pietra hanno

le stesse sembianze dell’uomo preda di belve

prima che la bandiera dell’antropocene

avvolgesse cielo e terra.

I lineamenti cancellati nell’ultima carezza di sangue

sono uguali a quelli del fratello portato

a morire in una campagna della genesi.

Oggi, l’uomo non ha niente di cui dirsi uomo

se non sa spegnere questi fuochi malati 

e imbottirsi di armi pacifiche

tipo il pensiero la parola

l’impuntarsi sulla pace.

*

Le prime ore dell’anno sotto i lucernari

 

le prime ore dell'anno sotto i lucernari

mentre un vulcano tace tanta polvere

di noi non più bambini di promesse

un forse ci cammina a fianco

ammiccante e lento

non l'avevamo fatto nostro

pieni di sempre

e non ancora nuovi noi

 

 

*

In aria d’oltre

 

A dire quanto questo nodo è affine 

luogo degli occhi liquidi di cera
dal solco dell’anello si fa sera
col fiato lungo d’anima alla fine.

E si drappeggia verbo alle terzine

asole al sole della gioia vera

nel lume della mente è primavera

d’unico viaggio sfibro ballerine.

 

Dove saresti dimmi aperta coltre?  

Fino a domani riparando dentro   

lingua, lima indelebile di voce             

                                                            

dei sogni dove sei sorge la foce

intima del mediastino e più al centro 

materia senza tocco in aria d’oltre.    

*

Di cosa siamo fatti

 

Di cosa siamo fatti? dimmi
di questo piacere senza corpo
e strade di comete
ora che mi tocchi e
della mia evanescenza 
sei già alla luna

eppure eri esaltato
dalla pienezza dei granai
con i miei cinque sensi legati al petto

eppure eri un bambino, quando volevi
che ti gridassi amore mio
tutte le volte che il buio
scendeva ad occultarci

*

Afghana e donna



Quel che resta di me
è un moncherino di gioia madido
in bende di negazione
ampie come lenzuoli – di cancellazione
aspre come fortezze di convivenza.
Quel che resta di me
è il feto-donna che viveva e poi
è tornato all’utero, murato.
Quel che resta di me è un frammento d’esistere
lo spettro nero che non vedete (più).
Che non vedete, la sovversiva
l’audace la portatrice d’eros
la libertà che fa spavento.
Quel che resta di me si ribellerà
all’ascia che ha tagliato i ponti
del camminare di là del male antropomorfo
inciderà le coltri su primavere calpestate.
Quel che resta di me è la voce bellissima
che continua a cantare, cieca luce
al cielo capovolto senza una musica.
Ma io non ho che questo canto
un canto-vento di apertura
di tutti i segreti che porto
mentre la vita soffoca – mentre
vorrei a svegliarmi un’onda rosa,
entrare in me tutte
quelle che hanno avuto coraggio per me
con i loro landai di lingua e cuore
restituirmi al mondo.


Poesia pubblicata in "Tutte noi la Terra non ha confini questo luogo" (Iniziativa di Cartesensibili a favore delle donne afghane) e in "Un cielo di poesia" edizione decennale 2012- 2021 (voci di poesia)

*

E tu sai

 

mi arrendo alla poesia
e tu sai di passare
dai luoghi della bocca

*

Più in là un radioso apice

 

Niente di definito si staglia

sotto il cielo e lacrima il sensibile

in allergie urbanizzate, aria

che sposti e ti ritorna

da miele di natura offesa.

Più in là un radioso apice si apre

meraviglioso e ignora il camminare

sconvolto nell’imboccare un giorno

e l’indomani uguale uguale

ubbidiente ai semafori e tali avvertimenti

che ci vorrebbe un mare libero

e falcate da migratori.

Ci vorrebbe il fermarsi tra le erme

sagge e mute, fissare l’apice

riempirlo di frammenti e tutte cose

immateriali, azioni immaginate

parole non ancora dette

segni, bisogni, ma sì - anche

la polvere di qualche sogno.

*

La bambola

 

fuori la casa di Livia
c’è una bambola
chi passa le getta lo sguardo
pensa a De André
a una finestra malinconica
e a degli occhi color di foglia.
lei ora è scesa, di fronte
chilometri di vita inevasa
uno di questi giorni vorrebbe partire
stacca l’ultima rosa dal ramo
scrive au revoir con una spina di sangue
– addio felicità di quattro muri
negli echi – e chissà perché piange.

*

Da una nube la sera

Scende da una nube la sera

la porpora si sparge

volo dipinto di addio al sole

 

un soprassalto

ha riavvolto il tempo

dove il cielo comincia

silenzio di musica

 

(e tu Sei)

 

più del mesto rossore

dove rimbocchiamo la terra

 

brivido

che assorbe stupori

 

una ruga azzurra di sguardo

da altezze incomprensibili

eppur vicine

 

a placare spiragli.

*

La bambola


fuori la casa di Livia

c’è una bambola

chi passa le getta lo sguardo

pensa a De André

a una finestra malinconica

e a degli occhi color di foglia.

lei ora è scesa, di fronte

chilometri di vita inevasa

uno di questi giorni vorrebbe partire

stacca l’ultima rosa dal ramo

scrive au revoir con una spina di sangue

– addio felicità di quattro muri

negli echi – e chissà perché piange.

*

A un metro da noi


saltano attraverso refoli

di occhiate - non saltano in realtà
tra i banchi ma sono archi in attesa dell’aria -
le cince forse non si accorgono
delle finestre semiaperte
dei riccioli spaiati
né del rumore di quelle iridi
ma con la stessa ebbrezza spostano le ore.
osservo dalla mia luce aliena
la linfa che si allunga
come uno stame innamorato
mentre gocce di polvere cadono a strapiombo
da fiato corto sulle mattonelle
e il ragnetto in un angolo
crea una breccia sul confine dell’esilio.

*

Detto, scritto, danzato #poesiapoeti



Come se il poeta fosse le sue liriche


la voce nella stanza, sola
si contrae, contorce panneggi
e le finestre slittano da altre finestre

si separa ciò che era unito
e si vive daccapo, si ri- respira il ritmo
-sono io che muovo i fili al pathos
e giro in tondo ai muri
non più perimetri

a un certo punto ci leviamo
vibrato ed arco
quanto più deciso è il vento
che strane cose porta
nell’altalena della persistenza

 

 

*

L’altra metà del viaggio

 

indovina quel minuscolo vagare
tra ombre e fuochi, immagina
dal sorriso al lievissimo alone di mestizia
la forma di noi la faglia dello sguardo
mai uscita dalle storie. forse un prodigio
vuole essere l'altra metà del viaggio
con vele chiare, code di domani.

 

 

*

Trama insoluta

Quattro - dico quattro

e ora lo nego

Saranno stati (almeno) fasci multipli

i visi implumi, i cuscini

affossati al posto solito

dove non fa male il rimbombo

non scricchiola l’osso

 

[posso cambiare il corso

di quello ch’è stato?]

 

Mi dava una razza di bacio

una razza bastarda di commiato

di notte a barba rasata (di freddo)

e un sorso d’uva bugiardo

versava alla bocca -la lingua legata 

al fruttato, gli antociani più blu

nel furto del sonno -dentro al fumo

 

L’ho visto? era un passaggio di stato

dove non vedo

oltre gli stucchi delle gambe

o forse il solco insoluto

tra la destra e sinistra del corpo

 

Non l’ho visto

era intero e diceva cose spezzate

Spergiuro, giurava d’esser leggero

sorvolandomi

*

La tua notte e la mia

 

la tua notte e la mia
si guardano ogni notte
le tiene un filo
più è corto più si dicono
pensieri inconfessabili

*

A nudo tempo


domani

un alito di nebbie

ancora saturo

non celerà

calchi di fronde

e le tue mani, nervi

di sempreverdi

piantati sul pendio del corpo

senza bisogno

di prati e primavere

*

So

 

           semestri spezzati

seni stalattiti stanche

significanti 
scolpiti sulle soglie 

stormi, se stormi

stupori sincopati

sussurri, so sottovento
- solchi, suture, sponde.

saperti sciolta spira

saperti saliva - sale,

sapere speme-mia

snudarti sempre.

 

 

 

 

*

La mia terra che chiama


Un diario in cui mi specchio

il richiamo dei cedri

su questa piazza

imbambolata di essenze non vere,

robusti e impazienti i miei alberi

stanno in attesa, e solo ombre

che l’aria respinge.

Quand’è sera sono una giostra

a luci spente,

se tendo le braccia

un mondo vuoto batte il polso

e io ghiaccio di abbandono

viaggio distante

che fa male allo sguardo,

dilania perfino la pagina.

Porta via montagne sognate

mentre ginestre e occasi 

scolorano dentro le nubi

- non c’è misura di tanto sparire

a un passo dal cuore.

 

Alla poetessa Ofelia Giudicissi Curci (Pallagorio 1934 – Roma 1981). Poesia pubblicata nella rivista Euterpe n. 32, dicembre 2020, di Associazione culturale Euterpe.

*

Dal seno acerbo e storie mute

 

Quando bambina senza voce

       I .

Sono bambina

che gran fatica appena metto

a fuoco l’ingenua schiena

in sette lune di rivolta

l’arancio chiuso a feto

la benda-velo, stele

a gocce. Il dentro sperso.

Forse è segreto di lenzuola

madide e presto fredde

da scostarsi. Sembrano altre

quando da conche al sole

fanno un biancore di peonia

corolla al seno acerbo.

 

       II.

Stasera l’antro è bosco di serrande

chiuse. Il nascondino delle facce

per ludo vero. La proiezione fisica

lontanamente un’affezione:

non c’è parola a dirlo.

Il lutto si spalanca gli occhi.

E cosa avverti?

 

      Assalto dalle ombre

      I.

Notte cattiva

tutti i sogni affollati

perché non sa dormire (sola)

dove il tempo è terribile

di segni e tagli di lumi inferociti.

Lei bisbiglia ma solo a sé,

sfuma in punta di piedi.

 

       II.

La bambina diviene senza stomaco

per quattro lunghi giorni

corpo di pietra

porta il peso del fiore

di terra nera

cade nel muschio delle ciglia.

Non cerca cibo e profusioni

schiva, riparo nella pelle

ghiaccio di luna, duro

che non si lascia respirare.

La bambina da qui in avanti

non c’è più.

 

       III.

Ora, s’appiglia sul volto. Stranezza

non averlo visto nel fondo.

Ora che non è lì, eccolo appieno

e povero, in una cifra molle.

Un cristo peculiare in niente

un Pallino qualunque -lei dice, e

vi sputa un secchio di noncuranza

dopo che l’ha smembrato vivo.

 

      Rielaborare

      I.

L’angelo bello infine viene a cancellare porte

si volterà a ruggire agli scorpioni

coperto di cespugli biondi - il Giorno.

<< Portami le mani una notte e tutte

ridammi un tatto limpido che scivoli sui tendini

incenso agli orli in pece dolce sui perimetri >>

-larga la paura

lasciata qui a mordersi la bocca.

 

II.

Per errore le si accostò

al sesso rosa e nudo

un ansimare scoordinato

saliva mosto e tabacco.

Per orrore non seppe, non gridò

dalle palpebre rosse

di oscurità contusa.

Piene di dita le sue mani

spingevano

schiacciavano le estranee

toccavano terra i piedi

irrigiditi senza sangue e

non seppe, non fuggì.

Anni di seno in nòcciolo

che si matura nelle T-shirt.

Anni che ancora conta dita

un perché cianotico freddo:

solo un gesto di forbici

e poi gettati al fuoco i moncherini,

guarda spegnersi il tutto

senza dimenticare.

 

 

*

Indefinito fiore del freddo


Con la guancia

al fiato dei rossori

occhio nell’occhio

la sensazione

di essere tutt’uno col tutto,

motivo alla memoria

di tessere enigmi

 

Chissà come, ora: il tramonto

sembra meno caldo

dal mio lato

-e sì che questo tempo

è Svizzera in artiglio -

 

Più sensi mancano per essere stati;

strano è guardare minime consistenze

e di come si spogliano gli alberi

liberi da paure

 

Poi sotto la coperta

del tuo palmo capace, sparire

Sentire un graffio qualsiasi

risalire il ghiaccio

scoprire l’acqua

che gira il profondo

 

poesia edita in "Canti di carta", Fara editore 2017

*

Perché pregare

 

Perché? perché

eravamo a pregare

con il frastuono oltre le porte

sereni inamovibili

con il pattume

sotto limpide trame?

Quando una mano

chiedeva un frutto al nostro albero

e col silenzio s'è marcito.

E detta fede

com’è così imprecisa,

arida, trattenuta?

 

 

*

Un acro di cortili ciechi


Visi che strisciano come teatri

misteriosi oltre il sonoro
ignavi da bocche sfatte,
dinieghi di sorrisi
sotto il cappello di cilestro
spento - e sono vedove
quelle assuefatte al logorio
dell’ora, perduto l’utero di gioia.
Diritte, e tali i cecchini
che sembrano aspettare i Tartari
nel camuffare mote
di solitudine.
E l’alba è un acro di cortili ciechi
l’alba non abita
non irradia, piange sui muri.
Avesse nelle mani uno scalpello
e un’epoca di rosa
dietro la tela
avesse un altro quadro
di alberi, e non fortezze.

 


Ispirata al dipinto di George Grosz, “Alba”(1922)




*

Lyrica

 

Nell'attesa
mi tingo di bianco
trucco finestre di sale
Fermo tu, corda di cerchio
Ti confesso molteplici abbracci
dal valore assoluto di te

E la voce manca di adesione
morde interni indeterminati

La parola mancante
è sempre uguale
si stacca dalla lingua
cade nel piatto
dove mai e sempre ancora
abbiamo goduto
sporcandoci il palato

*

Lontano brucia


lontano brucia

l’esultante fiorire di maree

un giorno l’orizzonte

ci riaprirà i segreti delle porte

un giorno la riva scura

avrà in memoria orme

che pure si amavano

nella risacca

perdendosi.

 

*

L’essere in loro


a volte torno
vera madre anch’io
seno di odori
e ninnenanne
sulle labbra,
a volte colgo vele
strappate e fradice

e tu sei stata àncora o vento? 
dove hai cucito
le sue ali?

*

Viste supreme


non un impedimento

cancello
catene o sterpi
non c’è vento a ringhiare
solo le palpebre
àuspici smorti
nel bacio di umido
vernice ferma
la linea fida che non sai
se va o se torna
granelli che si slabbrano
al nulla sgombro
boato inesistente
il mare si rintana
per finire.

*

Il caldo tra le stipe

 

il caldo tra le stipe ha nervi d'acqua

li canta sulla pietra - e tu hai voglia

di una nuvola, di una goccia d'ombra

 

*

Iridi

 

il tutto va

portato come fiore

in un deserto

ma le iridi

restano in bolle

ammutolite

per i soffusi lineamenti tuoi

in un nitore proprio.   

*

Dei nudi a far mazzetti


si faranno mazzetti

da gemmature

di anemoni sul pube,

il panorama già raffigurato

con l’occhio del pittore

raccordo di meduse

lucide dolci di esplosioni.

le cosce per ombrelli

su di uno sguardo gambero

propaggine del guizzo

al gineceo dell’acqua,

pasionaria.


Sull'opera "Up" dell'artista Costa Dvorezky

*

Un posto di pietra fedele

 

Se tento

di fissare gli specchi

mi vedo già nel passato.

Se fotografo il cielo

non posso entrarci

che da un’illusione prospettica.

Mai stata pioggia

mai selciato

mai una statua di ghiaccio.

Cerco ancora

un posto di pietra fedele

e addomesticamenti.

 

ispirata all'opera pittorica Hostoire infinie, di Zaid Tourie, in Quaderni di UniDiversità n.2/2020

*

Poeta onda


Equilibrio e abbandono

del mare che controllo

il mezzo del mio fine -oh sì,

vertigine di nervi da quietare.

Io Palomar, se un flutto sale io sono

crociera d’occhi e disseziono

strascichi: in un puntiglio vigile,

e morto al mondo.

Vado perdendomi

per questo mal andare

e torno giù lungo le sponde

cerco armonie e rimedi

non conformi, in presagio

di un’onda porpora che unisca

i due emisferi cerebrali.

“Si metterà a descrivere ogni istante della sua vita,

         e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto”
        Italo Calvino, Palomar
        Poesia in Euterpe n. 31

*

Al dottor P.

 

Un cappello, quel lasso d’ombra

mia compagna rimpannucciata non so

dove guardi eppure sento l’alone di un affetto.

Un romanzo con le falde, tutte pagine bianche

ma mosse da onde straordinarie.

Esito a sfogliarlo ho soggezione del bisbiglio

del silenzio che si affaccia, un fruscio di lenzuola

il fumo di caffè, l’odore di Marsiglia che emana grazioso l’accessorio.

Sarò per metà morto e l’incoscienza fatica a trapassare

o è stato lui - il dottore - ad innestarmi un certo occhio

da alienarmi da slanci e intemperanze.

Privo di specchi in quiete d’estasi

anche la mia consorte ha un’innocenza nuova.

Né sobbalza la mente, la scienza incerta mi fa libero.

La sfioro la nomino. L’abbraccio, mia devota. 

 

ispirata a L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Oliver Sacks

*

Se verrai a prendermi


Quando verrai a prendermi

non scambiarmi con la notte
né con il giorno
non credermi un paesaggio in fuga
traccia affogata, nostalgia ferita.
Se verrai a prendermi
non cercare la strada
non dare il viso a segnaletiche
dimentica i ponti gli aerei
le ore di fiori non colti
i passi non portati ai parchi.
Porta tu il tempo, gli universi reclusi
la sponda e il precipizio.
Porta la musica
quella che ci ha trafitti
senza veli, senza altro che noi.
Avrò il tulle dell’ultima volta 
scintilla al buio
e il buio assorto nitido a te solo.
Non cercarmi più in là,
sto danzando da sempre
sulla tua vena
che fa rintocchi e brucia.
Sto nell’angolo della tua palpebra
nel piccolo neo sull’orecchio
sulla lingua dove chiami.
Ho mosso le note
sapendo che tu le toccavi.  

(per l’opera pittorica di G.H. "Ballerina", rivista Quaderni di UniDiversità n. 2/2020)

*

Da poco è estate

 

da poco è estate
le stanze affacciate ai fiori selvaggi
smeraldi premiano la stasi
l'indaco prende parte al cambiamento
ci consegna il suo cielo
sempre mirabile
incantevole, giovane

*

Affacci

 

Un giardino vive
almeno in cento affacci
di luce e di assenze
in fiori appassiti
rimpolpati da altri
dove l’humus mangia l’humus
e anche i ritorni
sono getti di polline
inebriati di piani lontani
frugando le notti alle spalle
di ombre scolorite. L’arte
è dire tutti i misteri
taciuti dal dubbio
mentre sboccia reale
seno di trasparenza.

(per l’opera pittorica di M.D.V. "Sogno", per la rivista Quaderni di UniDiversità n.2/2020)

*

Ricominciare dalla coda

 

Il piccolo ascolta il campanello

e fa saltelli da suricato

si direbbe bestiola articolata dalla luce

un tempo di mezzo tra errori e cura

tutto ginocchi e graffi d’humus.

La lingua manca ma cattura gesti

col dono dell’osmosi, dispiegato

lo sguardo in disarmate purità

apre falcate d’indole 

e sorride da sue divinazioni.

Mitico dondola

con il riflesso della coda

la storia naturale da riscrivere

il suo mondo libero dall’essere febbrile. 

 

*

E prego con l’ombra


Seguendo l’ombra

ogni suo passo vedo
con le ruggini e l’ocra,
un pieghettarsi di riflessi
sul muro delle zagare.
Traspare il domani, l’incerto
rivolo di sole con l’ansia
di una scatola magica
svegliarci
nel grasso profumo di maggio
con lo strano sapore
di libertà rappresa.
A casa lascerò
il vuoto sulla porta
al buio dei suoi isolati
la crisalide
in bocca a una cruna
che respira per tutti.

(per l’opera fotografica di P.T. "Verso casa la sera", nell’ambito della rivista Quaderni di UniDiversità n.2/2020)

*

Scansie di voce

 

Certe mattine la tua voce

entra nella lezione,

dico molecola - e l’entropia

la tocco sommerge gli occhi

 

il foglio sembra agire

un nesso corallo una formula,

impercettibilmente

cammina

binari

che liscio con la mano.

*

Legenda

 

Un giorno il caso manderà 

muschio celeste entro le mura,

catene su ossa stanche - gli agi

perderanno possanza.      

Bisbiglio di carte, si svelerà dal basso:

non sparuti richiami

-ci si potrà volare, al fianco. 

 

 

da La visione contro le catastrofi per Maggio dei monumenti 2020, Napoli,

quest'anno dedicato a Giordano Bruno

*

Corpo avventizio

 
L’affanno del lampadario
lo riconosco dal sirfide che più non finge
di essere altro ma arriverà al suo grido, estate.
 
Lui scompone la mia ala di naftalina
in notturno di nuvola, il librare affaccia
a scostarsi dai sofà in memory
lontano lontano, divellere
quest’uggioso armadietto del mondo.
 

*

Tesori magri

          

        

Le grucce vuote e lisa la carezza    

in realtà dita colme di tesori  

magri che ballano sulla mia testa.

Il polso steso, un sogno immobile

di vetro e dai vialetti

l’erba cresciuta, e se guardare basta

il tutto è qui ma non si va   

più in là di un cerchio scomodo

e macchie di bellezza crepitanti.

In questo abbaglio del mancare 

il buio ti mangerà mia ombrosa

e non avrai più gambe,

nei quadri di Chagall la luna è sola

i fili non raffigurati

e il derma che si libera di te.

Se un crescendo non fosse,  

cos’altro?

 

 

*

I baffi di Dalì

 

Le dieci e dieci, il tempo

dice di antenne volte a voler suo

portatore di maniacali scienze

l’allele dominante detta

segniche lingue.

La linea della vita guarda al cielo

ritta da entrambi i baffi -becchi

di cera stanno all’azzurrità come

dei canapini nei fuscelli

in cerca di una bacca che li appaghi,

sul lago pittano

la (in)finitezza di orologi

dalla memoria qui squagliata.

La replica da istanti rotti.

Uccise convenzioni, arridono

all’aldilà o all’apice

del qui et nunc, schianto divino,

macchiato d’erba e limo.

*

’a’ di accostare aprile


che oggi l’argine sia

lunga finestra che si sposta

questo continuo perno

tradisce giochi d’angoli

dentro l’aprile dalla durata stanca

come certe domeniche di scarto,

fredde di viali.

più dentro, cime aguzze si sdoppiano

e senza un valico

la pietra viva che ci unisce

vene sul fondo di scarpate

attraverso loro.

*

Alle ore senza giorni


una comparsa

che non svela chi siamo

occhi simili a giunchi

sul greto nero

dov’è inchiodata la luna

e l’incantesimo strano,
nicchie di fuochi alle finestre.

come in qualche leggenda

la cosa dispersa

l’hanno messa in un periscopio 
e impazza con fame d’aria.

 

*

Frame


Poi da una riva

aspettare - sulle dita

disfacimento d’insoluti. 

La voce dell'acqua

risale per quanto lontana

parole nostre  - una sabbia scolpita

e il più niente di quelli innocui

così come una stasi indovina.

 

 

 

*

A zio G.


Ti vedo nell’istante

che non parla,

ieri davi la mano

a una sorella più vecchia,

non pensavi di camminare

avanti in coltri di distanze

 

non capivi che insieme

non si può respirare?

solo la cenere

è immune a tutto.

*

Sotto i platani


Sono passata sotto i platani

coi rami torti

e le tue mani d’ombra.

Una capriola l’aria

inquieta

scordandosi di tutto,

il viso l’ho lasciato lì

come finestra

di sete attesa  

e spire di profumi

nudi.

*

Sorriso da una mascherina


Ci siamo scambiate un sorriso

lei portava la mascherina

ma io l’ho visto

si diffondeva  

in silenziose libellule.

Poi un rintrono

attenti non è che l’inizio

vi scansino lembi di sensi,

un salmo

da sapere a memoria

in camere chiuse fino al midollo.

Corpi irreali, camminiamo 

per allontanare la strada

sigillare l’orecchio

a un aereo che taglia il cielo  

e sembra venire da dentro.

 

*

Dire di perle oniriche


E i gesti

pesano il tempo
uscendo da se stessi,
gli specchi mandano
miti balletti tra le stanze
una nell’altra - l’ultima
è uno sfuocato plesso.

Esausta
l’ombra di ieri
intorno alla routine
fa staccionate
e chiodi di silenzio,
ma il desiderio
di volteggianti magici
ha il suo museo - e dire
di perle oniriche
è poco.

*

L’albero delle rose

 

l'albero delle rose si spinge

      a cercare il cane oltre il recinto.

      il cane in fissità ducale

      gli fa festa, piano agita la coda.

      ha sempre pensato che

      con tante chiacchiere

      fossimo un di più.

*

Alla finestra di Bonnard


tutte le orme

in mise en abyme

prose di giardini.

traslate gocce,

fiumi, oceani.

*

Tropismi a mezza luce


angoli di veglia

nei monologhi
tratti gli specchi
e il loro andare
tra orti di profumi

*

Ventiduesimo giorno


      pianto nei vasi le potature del vento
inattese: il profumo non ha una sola casa.
insolito, è polvere d'ossa e
ciliegi e noccioli immaturi,
è il giardino zen dietro la rete,
un segnatempo di nuvole
nelle corde dei soprani.








*

2 haiku sull’attesa

         

si inoltra a sera
l’attesa - e porge il fianco
la solitudine

la stanza vuota-
anche in un piatto lucido
entra la luna

(ispirati a "L'attesa", Felice Casorati, 1919)

 

 

*

Giardino di marzo

 

Delle formiche

attratte dal calore

nere come la terra

di notti apolidi

monadi di certezze

vedo senza paure, 

mentre la febbre

dalla ferita gioia

esonda. La natura

non fugge privazioni

intanto crea

e ripara, obbedisce

alla linfa che sale

e prega il sole,  

è il ramo abbottonato

che gode del fiorire

se tutti gli altri sono vivi.

 

*

Continua ad accadere


Ma quanti cieli esistono

quanti colori

passare e non fermarsi

poesie fortificate tra le dita.

A quanti cieli le distanze

non paiono che gocce e l’aria

continua ad accadere

vivida e muta - a bordi di finestre

respira sul mio viso

da una mimosa

e l’ombra acerba e tenera

data all’amore, una perfetta anca

incide il vuoto. Il vuoto non esiste.

*

Ho baciato un’amica

 

Parabole sui tetti, cena, pochi

quelli che in giro si attardano

feriti a vuoto

coi baveri alla bocca,

i rododendri volti

verso divinità improbabili

con i bottoni pronti ai fiori

il marzo che vorremmo

primavera live.

Ho baciato un’amica

e non so se mi riconosce

la pelle, 

ora che le distanze gocciano

riverberi di nostalgia

dentro uno sciame estraneo

ci ritagliamo selve di profumi

da tenere negli argini

con il terrore di apnee

e sospiri a mezz’aria.

Con avvicinamenti

retti solo dagli occhi

e il desiderio di gravitare alti

guardare come un film la folla

all’ora del vento disperdersi

in qualche fessura, col poco possibile

e utopie, soprattutto magnifiche.

 

*

Piano le gocce e noi

 

Piove così sottile

molto in silenzio

piove di sole spento

piove perché

anche il grigio parla una lingua

e sporca le rose

 

Piovono sassi sul fogliame

una cenere nuova fa distanza

È marcia la terra

spariscono orme

di quando si aspetta un raggio
un bagliore un fuoco
un “quanto mi scaldi”

un come
vaporizzato

dalla meccanica dei fluidi
così che va

tutto ciò che abbiamo

che siamo

-e ora come stai?-
dalla terra in su

 

 

*

Hai voglia che sia pura

 

 

Hai salvato qualcosa

dall’altra parte del mattino?

fuggito via da un pozzo vuoto

di desideri

con una lama scintillante

-il tuo sole malato-

hai sgozzato l’amianto

e grandi scheletri di ruggine

disseppellito plastiche

ed epistemi ambigui

-e quanta melma

sotto uno scialle finto verde.

Il tuo ludo terreno

di sanguinanti rovi

ti celebra da tuniche bruciate.

Terrore d’esser vivo all’argine

di salme e voli bassi,

hai voglia che sia pura questa fine

ancora un giorno per gettare il seme

l’ottavo giorno, di astragali

sui sassi neri del tuo passo.


*

Certe discese e risalite


Tanto nella vertigine

ci siamo caduti

e non nascondo ch’è stato pauroso
il sollevare ali nello zolfo,
immenso il blu nel paracadute
di baci al fruttosio puro

nel sottosopra da non dire
se ci siamo allacciati con giudizio
o s’è affidato a un fil di ragno
quest’oncia di sussulti
che l’aria non afferra e regredisce
in un buco maestoso

fino alla luce quando viene improvvisa
rivelazione ch’eravamo in cerca
dell’essenza

*

Una grazia d’inesistenza


Pioviggina senza ritorni

in cerchi di respiro calibrato

un timore di non riuscire più a scuotere le stelle

le sento in echi di ematite partorire carboni

- ricordo un giorno un matto

voleva ammazzare lo yin,

il nero che oggi mi arriva dal fianco giusto

un dolore mancino dello stagno

con l’acqua presa a prestito.

 

Pioviggina una grazia d’inesistenza

un gelicidio che non sa farsi neve

ombrose le tue orchidee

le vedo sorridere in lenta mutazione

un soffio a bocca chiusa, quante volte cielo

di sogni assolti dal crederci molto.


 

*

Estetica per il neurone


Come se a un tratto divenisse

patto d‘imitazione

il canto dello storno dà un Presto

e poi chiusura in un Rondò.

Uccelli noti? Note!

l’ordine dei passeri in fila sulle righe

coi becchi schiusi e il senso estetico.

Rubato, carpito da udito desto?

corpo imprendibile di sfinge

va in cifra al rebus per il neurone che sfavilla.

L’ombra persino

proietta mille briglie 

-sbriglianti- da un altro mondo. Si allunga

il piede, curioso senza staccare

l’altro. E vola su per una stele

senza più stele: lemmi, e quanti,

benedetti. Formule e pennellate,

campiture a colli di bottiglie, a colli

di cavalli leggeri pegasi           

libere nuvole

che il vento annette in traversate mistiche

spine di pioggia, tornano

radici in relativo caos.


Mozart per circa tre anni tenne uno storno domestico. Si dice che gli avesse insegnato una certa melodia. Inoltre, parti del Concerto per pianoforte n. 17, K. 453 in Sol, le ha scritte ascoltando l’uccello.

 

Poesia pubblicata nell'eBook n. 239 :: Arte e scienza: quale rapporto?, di Aa. Vv., LaRecherche.it

 

*

Agape


Presagio
era

o fuga contro il tempo
trovarsi in bocca a un patto
non pronunciato


quel darsi e aversi

dentro un'illusione
impercettibile

 

 

*

Nord del sole


Hai visto

quanto muschio è cresciuto nel nord...
e chi cercava il sole
ha girato l'ago del vento
Sulle spiagge
con le onde tuonanti
a sbattere la saggezza
come se il cuore non fosse più
sua proprietà

*

Dove hai portato i tulipani? (a Sylvia Plath)

 
Sei uscita dalla notte
su scarpe prossime alla neve. 
La polvere accucciata dice
che siamo inutili
mentre tu scivoli tra veste e buio
dove la pace atterra
senza nessuno
se non il fuoco del sorriso
morso da inganni, acuta lastra
del non perdono a te
a che non puoi cambiare.
 
Se il nugolo scrittura e vita
l’hai seppellito, se
gonfio di errori è il mondo
e amori altrui
contro il destino che s’incrina
estrema congiunzione 
di grido e pietra 
allora ai tulipani si pieghino le sbarre
per la tua voce audace da far sgomento
e l'arco così tenero                
mai dissipato,
di apparizione al vento.






 

*

2 febbraio 2016

 

Ecco: adesso

si muove dal silenzio

il lenzuolo bianco della carta

io e lui viso e viso

il raggio del fuoco riscuote emozioni

scoccata mezzanotte

di un altro anno che furoreggia

intimo nel sempre, sole lucido

Non desidero altro che aggiungerlo alla collana

tesserci un nuovo fiore del giardino di dio

scrivere, tra le cose che sono, la più rosea

non pensare in verticale

da quando la curva è irrilevante

e sono io ad aspettarmi con le braccia

aperte, a filo di leggerezza

 

*

2 febbraio 2011


Sono ancora qui

com'ero ieri e nel lontano 
millenovecento e tante lune

Un anno dopo - potrei pensare 
addirittura che stia crescendo 
o che mi avvii alla decadenza
ma nell'immaginario personale
a me sembro la stessa 
di tante me stesse già vissute
per le vie che mi hanno attraversata

Vista da dentro sono
l'alba da cui presi il volo
con l'ego proiettato in grandi imprese

Meglio così e domani mi farò una ragione
del monologo semisconclusionato
regalatomi dall'ennesimo compleanno

Però che bizzarra idea 
compiere gli anni
quando l'opera intera non è compiuta
potrebbe trattarsi dell'immortalità 
saremmo banali a festeggiarci ogni anno 

E il tempo inafferrabile che se ne va,
m'accorgo adesso che non scorre:
siamo noi acqua di flussi inquieti
su un greto immobile,
e in maree profonde sfoceremo?
Sarà bene saper nuotare 

*

Mezze notti


Sono qui a non vedere

perdersi mani sugli interruttori   

restiamo apici del verbo          

mentre la sabbia sale al collo

restiamo appesi a una tela spinata

ludi dal silenzio, tronchi del vuoto

deglutire labbra che il buio asciuga.  

Per mezze notti luce d’angoli caldi

poter essere noi, sorpresi

tra settimini di calze accatastate

e viscere che per sempre vorremmo

prede di un monosillabo,

corde intorno.

*

Una linea taglierà il cristallo


Non so dove

cammineremo senza gambe

e dietro la fronte

l’intenso pensiero

se avrà vuoto che basti

a sciogliersi prima del gelo.

Una linea taglierà il cristallo del chiarore,

sicuro ci saranno buchi immensi da perdersi.

Circuendo la notte

a farne casa, la memoria

avrà il suo cuscino di asole e polvere

e quanti sciami, spiccati liberi

dalle angosce.

 

 

*

Lo stagno è un altro pullulare

 

L’interno degli steli ha desiderio

di mollica, cura pori invisibili

origlia dallo stagno vitreo

dove slittate. C’è un podere, sotto

di amenti che si appostano

scalpelletti di istanti

vicini ai graffi ma più piano

come asterischi  

e punte di sbadigli.

 

 

*

Effet de lampe

 

Gomiti in attesa, composti
acuminati fino a smerli
di malva che già muore.
Zio Husby dall’umore lacero
come un seno appassito
assorbe il giallo della lampada
e la mia lingua impervia, che non dice.
Da un lato scocca una tosse di assenza
rumore di sangue.
E mamma non sorride, conto
quei denti uno a uno cadere
nella frugalità del piatto.
Mamma che non culla più
né buona né cattiva
- aria battuta, sale - col naso in su
trafigge una boccata, e se  
nascondo in gola rosei labbri
graffio scorze al presagio
con il coltello a me affidato,
infine. A lato quel tossire
sta congegnando una parola.
A filo di noia
ribalteranno l’ombra.

 


Ispirata a “Le Dîner, effet de lampe”, Félix Vallotton 1899
 

*

Gemella dal corpo sottile


Dopo il primo passaggio di stralunati

e un’altra scia di curiosi con l’espressione

del nibbio in un’isola gelida e spoglia

solo il mio corpo al centro

a terra sotto nuvole schiacciate

la fotografia come quelle del Faust

di Sokurov insensata e anamorfica.

La bocca che bacia il pavé

una carezza estrema e la palude che ottunde

la ragione. Ci pensavo dai tempi delle medie

a quanto può essere sinestetica e ampia

la stanza dell’annullamento,

da quando ci rincorrevano i cani

che nel contesto impersonavano il male.

E avrebbero perso.

Una metà del campo è nel buio,

l’altra mi sopravvive -come le mani di aceto

che mi lavano i fianchi

lasciando odore di armadi messi a nuovo.

Era amorevole il tempo delle madri

senza condizioni. E nessuno più.

Ora, è lecito che la finestra sia rimasta

a guardarmi senz’ali, mi chiedo.

Poteva concludersi vento e spettinare polveri

riempire il deserto di nuovi patti di linfa

intanto porre un limite di catenacci.

Ma è fatto. La soglia mi fa memoria d’altro

e sto bene nell’indeterminata bocca del silenzio

cadenza di novembre

dal corpo di una gemella sottile

dove rifugio la parte più bella di me

tirata per i polsi ma poco ostinata

a non venire.

 
In "Versante ripido" gennaio 2020

 

*

Ininterrotti stralci


e ti rivelo e sempre e tutto

invasa dallo spazio, e precipizi

di una poesia fino alla fine

*

Gennaio


Poi ci ha colti alle spalle

l’inverno
con l’odore di sabbia
(o il ricordo di averlo...)
sotto le suole

superstiti di altri noi
abbracciati da un tramonto
di rive rosse

*

Quindici e 03

 

Ti racconto, di quell’arrivo
che si annunciava sul binario
l’emozione che l’attimo non sa dove versare
la striscia gialla e achtung achtung
pensavo in tedesco, secco, inelastico.

 

Quanta memoria ancora conservare?
quella di una scarpetta e l’Alt
e la mia borsa costantemente aperta 
con un libro -per Lui il rammarico –
a metà storia.  


-È la deriva l’unica colpevole
la colpa non ricordo. 
Magnifico solo il bum bum del petto 
già via per una strada entusiasmante- 


Qualche uccello cantava: l’ascolto ancora
una sorta di strillo malinconico di fine estate. 


-Il treno sta per toccare il primo abbraccio delle case
la borsa a rilasciare cose frivole 
e al centro il libro. Il piede muto, la linea gialla- 


In "Versante ripido" gennaio 2020


*

In fondo a un anno

 

e mi ritrovo sveglia

con occhi spalancati

l’ultimo dell’anno parentesi

alle pareti non ancora chiuse

le finestre accigliate tra pepli e aria liberty

fisso le pose cerimoniali del Mackintosh*

la prima figura dare la schiena alla seguente

e così via, dove si fermeranno c’è una fontana

sembra l’altare della fede

non ho abitudine alla fede ma mi affascina

la tenacia degli insetti sulle lampade

pronti a finire in un brillio

ho tanti bei propositi malgrado

mani di eclissi sugli azzurri

spalmo noci di burro sul pane

mi dico lo spirito si nutre a partire dal corpo

su per la pelle sagome e bordure il rêve

di un simbolismo tormentato

il respiro mormora a se stesso -flocculi- 

mi assento un po’ per annullare statici

meravigliarmi, intero il cuore penetrare.



*Charles Rennie Mackintosh (architetto, designer, arredatore e pittore scozzese)

*

Quartina per il tatto

 

riconosco il tatto che sfrigola

dentro me, la strada fa vento

sulle facce ma per il freddo

c’è tempo, ora tu penetri mi sazi.

*

Alle ombre lunghe si dispiega (Judith)

 

Alle ombre lunghe si dispiega
redige affusolate dita e mani non umane
a spremere la nuca in un coniugio amaro.
Trascina a seni di vittoria il coccio
al varco, cavo d’inguine e spina
sì che rappreso a Dio si affaccia
cieco ghiaccio. Un amuleto bava di carogna
mora d’Oriente ostenta e il labbro altero
fa anestesia all’oblio di amore-morte
la perla aplomb luce assassina
per l’ostia delle palpebre. 

*

Circle


-Saremmo-

liberi e pensanti
fiamme e quiete indotta
ai sensi grati, ma l'apice
-dov'è?-
il plasma non trova fughe
impuramente
ci colora le gote
di ciliege

*

Basterebbe


leggere un capitolo di addii

tremare col pensiero
prima e dopo

chiedere alle statue
dov'è nascosta la bellezza
dopo che il muschio l'ha ossidata

*

Con passi sotterranei

 

In metrò le diottrie

sono sempre meno,

fondo il corridoio, scuro

ventre di boa riempito

di ogni sorta di bestiole

frullate in bolo

rapprese

fino a schiuse sperate.

Bocche, appendono il sorriso

a odori di metallo

opaco e incandescente

come una lama asciutta

sopra un fiore.

 

I mitici lettori bevono

capitoli, prendendo fiato

in afoni intervalli.

Sobbalzano a stridii

ancora presi in loro coesistenze.

Altro è

il flusso d’inerti viaggiatori

col nemico sul collo

e ponti immaginari, fughe-    

senza salvarsi mai.

*

Apri brocche

 

Di accenti d’uva

la fame e il calice.

Anelli e spire ti respiro

polpa, dell’ombra

ultimo smerlo.

*

Inverno


Neve

e beato silenzio di forme sconosciute
dai lievi calzari e nessuna macchia

attesa
fasciata in ceneri bianche
sui terrazzi si son raffreddate le stelle

oggi
che la voce è inquilina d’inverno
parlo dal grano di luce delle pupille

*

Nudo che trascolora

 

Morbidi cotiledoni

che l’umidore avvolge,

di lentezza sappiamo

solo le germinali bocche

e gocce di candelabri molli.

Nient’altro: minuzie

come il sale cambiare il suo stato 

e il nudo che trascolora fuso al tuo

metà di bruna nespola,

per rabboccare il nocciolo bruciante.



ispirata a Joan Miró Peinture-poème (Bonheur d'aimer ma brune), 1925

*

Dicembre acrostico haiku e tanka


Dune di neve-

Impellicciato anemone
Caldìo al seme

Eburnea notte-
Mocco il corniolo serba
Balauste in seno

Ricolma vena in terra
Estende alacre il palpito

*

Dove i fuochi dei pianeti

 

  Un giorno di settembre, il mese azzurro,

tranquillo sotto un giovane susino

io tenni l'amor mio pallido e quieto

tra le mie braccia come un dolce sogno.

(Bertolt Brecht)


Non si può dire, che avesse

conoscenze.

Forse erano passaggi

labirinti muti dove riflettere un buongiorno

una coincidenza di vedute.

Più volte sentirsi pronunciare il nome

dall’anonimato di ombre discorsive.

Scherzare pure, solo per scherzo

avendo malinconia da tagliare con una lama.

 

L’hanno visto su una bicicletta

andare incontro all’autunno

con la barba più chiara e lunga di sempre.

Forse il vecchio e il cielo erano in sintonia

esclusiva, nel clima inquieto delle chiese vuote.

 

E laggiù in fondo - in apparenza fondo

c’è da sempre un arenile di perle;

hanno detto

si è finalmente disteso

dove i fuochi dei pianeti, ricominciano.


poesia pubblicata in El Ghibli, rivista online di letteratura della migrazione

*

In direzione ovest

 

Qui si innalzò
il freddo delle distanze, precisa
mutilazione di pezzi di vita.
Chilometri e chilometri
di sguardi persi,
si sparava agli slanci, qui
si abbatteva la libertà
il pane buono, il viaggio.
-La donna ha confessato
ha mangiato zucchero del nemico,
avrà una nuova identità-
Viaggi, quanti finiti
in brevità, col volto raggelato
dal compagno fratello
e ogni radice tagliata.
Ne raccontava la rosa deposta
sul muro, un’asola rossa di sangue.
Quel profumo di morte
infine ha stremato le guardie
di novembre -mani traccianti,
ognuna afferra la sua chiave
di fuga, scheggia la pietra a presidio
di terrore e tristizie.
Si apre la prima breccia,
tutte le altre frantumano il silenzio.

 

 

*

Dove il padre


Per chi non abita oggi
il calore dei tetti
tuttavia frequenta segrete
di quando il cuore è rivoltato

Per te, che tanto presto
non hai più baciato
amate chiome, amate guance
Che dalla lontananza
dici -non hai scelto
questo mistero
dalla forma di specchio
tra il tuo e il nostro sguardo
in giù
ferito a morte
da pugni di torba
asciutti, quasi muti

 

 

 

*

Ottobre (acrostico)

 

Orli di colibrì che arrossano

Tutto il tempo d’estate

Tatuo in fronde si avvolge

Ombra-culla al crepuscolo

Bucato il nastro densità del lumen

Rimesta petali di effluvi

E cromie in balletti su e giù d’incanto  

*

Dove si trova il bosco


Dove si trova il bosco

che a me saprei, sospeso

incanto al fiore di una schiusa?

Dov’è che non esala respiro che mi oscura?

svanendo in altro in una nuvola

che non ritorni pioggia a battere

sul sonno della foglia
ancora lì posata nel suo sangue.

Dove si trova il bosco che cammini

solo? e non ombra o abbaglio

siano da scudo per una gioia che

a spire e spire libera

incavo al seme tra la notte e il muschio.

 

*

Gli anni in bilico

 

oggi sono da te, i tanti luoghi
dove crescevo -li giro attraverso le foto
attaccate in cucina per avere alla mano
tu l’appiglio, mentre la chiglia
prende una tenera curva e sommerge.
dal  balcone c’è il valico, oggi è tanto vicino
un palmo per un viaggio e le campanule lassù
gioielli di roccia in tono col lillà dei tuoi capelli.
ti arrampicavi
cerva che non teme dirupi
e ora vieni incontro su un perno artificiale
tra mura sicure. sfiori di un tatto leggero
la guancia, il sorriso che ti lascio
è anch’esso orma di sponda
ma solleva -poi dici- da tutta questa Terra
che scotta.

 



(poesia vincitrice di iPoet agosto 2019, Lietocolle casa editrice)

 

 

 

*

Settembre (acrostico)


Si stanano le nuvole

e in cigli rosei
tendono vie di vento, come
tavole antiche di effemeridi.
Entrano in terra i verdi,
morbidi appigli scavano
bordati di frescura
ruotando ancora dolci, luci
e altalene di oscurità.

*

Gli zigomi


se fosse vero vedrei darsi

zigomi a un bacio d'aria

se fosse, oh! un tatuaggio

che non si assorbe

perenne richiamando pori

e il tutto, e ogni cosa ch'è di me.

*

Spazio arreso l’amarsi

 

Funi mai sciolte

le redini dello spazio arreso,

distanze di vertigini

nell’abbraccio cerebrale

 

Girano nudi gli istinti, dettati

dal verbo involontario dell’amarsi

Quale riparo…

 

tempeste di silenzio

s’abbattono

su amanti senza tempo

che ad altri non saprebbero donare

la stessa disperazione

 

*

Vivrai

Per un tempo

che non conosciamo

respirerai in me

 

Vivranno questi versi

-continuo a dirmi -

 

e tu

sarai

la mia storia

 

 

*

Le ore in una stanza

 

una stanza tale fatta di ore
di gente rude e introversa, studiando
del profilo il vizio fragile e poi
dagli zigomi riderne
cercando lo spregio per gli anni
per una ruga che non riesce
a stirarsi in felicità.
nessuno che asciughi la brina
dei nostri occhi affondati
anche se un giovane oggi
forse un creativo
portava un pistillo di sole
sul fianco
odore di pioppi e wisteria.
 

Ispirata a "Les demoiselles d’Avignon, Pablo Picasso,1907

*

Ai volatili fiori

 

Ai volatili fiori

il viso alterato del transfert

cerato profumo a ogni fiuto.

Le mani, l'innesto.

Ma io, c'ero?

 

 

 

*

Aleph della tua penna


È facile per te scrivere romanzi

imprimermi nel tempo di piccoli rifugi

macchiare il silenzio di fiori

perché ti abbia negli occhi, fino

al profumo accartocciato

Aleph della tua penna,

nel primo rigo inizia l’illusione

delle porte sull’amore circolare

largo di cielo, d’alti e bassi

pieni e vuoti come le quattro stagioni

Mi disegni mistero

con pupille di mediterraneo

guardare te

scolmarti la sete di conoscenza

di quanto siamo centro, un punto

per arrivare all’universo

Dove si va l’uno dentro l’altro?

Negli spazi a perdersi, puntando in alto

Cos’è questa scia che abbranca il fiato?

Scrivilo

che siamo stati qui

sull’ultima pagina, con le immagini vive

a luci spente

 

*

Lungomare rem

 

Una lingua di silenzio
taglia le coltri 
Sui fianchi
il libeccio si mescola
con il ruvido del sale

*

Chiami seta


Come seta alla luna

hai tracciato strade

d’incarnato.

Con me. Tutta.

Zigomi

ciglia

labbra

a scalpitare

durante un sussurro maestoso.

Metastasi di profumo

vengono a riempirti

impastate alle tue polluzioni

di piume, e piano

vortici.

Hai centellinato quel che sono:

in luci e ombre

mentre evaporavo

nel tuo desiderio

policromo.

Chiamami ora così forte

tanto che infine

apparirò

migrazione di giunture

abbandonate a te.

Disfatti i giorni
succinti

nasco qui

per dono riflesso,

unità emozionale.

Nasco a pelle.

*

Sottocute un tempo celestiale

 

liberare vorrei, un’orma

d’ossa che odori ancora

dal peristilio

di terra rinverdita

e sottocute un tempo celestiale 

nettare d’ogni cellula.

che spreco non ci affligga

né ristagni sussurro

alla bocca del sonno

-la vena irragionevole

sorda, straborda

anche all’elice piatta

del lago.

 

 

*

Agosto (acrostico)

 

Amenti di stremata linfa

gettano sale, sbozzano

orditi in ambra a lucere.         

Slabbrata randa, aggruma il vento

tratto all’acuto rauco

ora dell’onda, ora delle sterne.

*

Sul tavolino c’è il chiaro di luna

 

Sto sveglia sulla lontananza
- è lampante: che poi ritorna 
al posto che occupava sempre

qualcosa di speciale 
qualcosa di normale
presenza volto odore

la chiara scrittura del quotidiano
malauguratamente 
come palla di carta
messa a tacere nel cestino

C’è il poster di cento anni 
ha la faccia del sole 
e un sasso da lanciare al mare
la grande sfida alla gravità
e subito l’abbraccio, dove
specchiare gioie di fragili cristalli

Sono vecchia – ho cento anni
germogli da poco nati sono legni 
le braccia hanno lasciato giri di collane

il collo è un orfano 
è la gruccia senza camicia

come sarebbe facile se fossi te
(darmi la mano quando esci dallo sguardo)


Poesia edita in "Canti di carta" © Fara Editore 2017

*

Agave

 

anni di mare, quanti?

ossa di giovinezza cariche

del verde che si arrende,

le smanie di orizzonti

cedute all’onda mille volte

e ancora.

se dalla pietra l’urlo tace

il fiore infine svetta,

mormorazione su vestigi

da un solitario impeto

di altezze. una cosa sola

incorruttibile, col blu.

 

 

 

*

Centro


Il mio corpo quasi d’aria

quasi lava,
le tue mani su quel punto 
e sull’altro 

Il gesto,
cosa è stato? 

che ha spostato il centro
dal presente
al tutt’uno...

Due astri ed un fuoco
in gravitazione
hanno appagato il cielo 
di bianco


*

Ho immaginato

 

spiraglio all’apnea un muro madido.

prendere gli angoli, negare

il palpito dell’aria. -cedevolezza, lasciami -

voglio l’inquietudine che bussi,

il buio rivolto, che graffi calci infette.

alla chiave il tempo fermo, è poco.

se lui porta un labbro di affacci, lì 

mi attacco.

 

 

In "Versante ripido" n.3   luglio 2019

*

Compluvium

 

da stanza a stanza
sono oceani trascorsi 
vaghi di neve.
al suo posto ogni linea 
-perfezione del gesto o 
primigenio spazio difeso,
complice lo sguardo 
che taglia lembi oscuri.

 

se potesse, la forbice, 
creare campi rossi di papaveri
in posizione zen un minimo 
cielo che basti, se potesse
anche il grano che arride al sereno
e tutto l’ordine tutto compreso
in un semplice foglio di luce.

 

 

 

per "Composizione II in rosso, blu, giallo", Piet Mondrian 1930

 

 

*

Atelier

 

 La piccola figura apparsa

-da quale spigolo?-

parla col mio pensiero

già prima che alla tempia sia rintrono.

Lui che amministra la follia

delle mie nocche vuote

mi fa un bilancio di ectoplasma

-tale divento, pane al suo sorriso.

Lo chiama il tempo

mi muore in faccia lento

tronchetto erboso che si affloscia.

Nelle orbite ho pianeti sconosciuti,

il pugno della mia esistenza

picchia sui muri per fuggire a ieri,

al non sapere se aggrapparmi e dove

se ho scelto il poco eterno

di poppe madide di una compagna

per l’illusione di non essere

un niente d’ossa

al cospetto di un niente

dalla statura enorme,

addio empatico che latra

rinchiuso nella nicchia.

Ora, chi mi resuscita?

 



Ispirata a “L’assassinio del commendatore”, Murakami Haruki.

 

 

*

L’anima è non riciclabile

 


quella incolta più di ogni altra

preme sull’asfalto, sparisce.

va in un orfanatrofio

priva dell’altra

che dentro le moriva

come saliva e pasto, viscere e buio.

In "Versante ripido" n.3 luglio 2019

*

Dopo la strada

 

dopo la strada non ha odore
non ha nome
ha solo il peso di un espianto
duro mi batte contro
e intanto viaggio
nelle acque amniotiche
già persa, a malapena
sporgo lo sguardo
alla spina nel buio ormai
e queste parole,
sole

*

L’assenza è strana

 

congeniale ai flutti.
il mio mare si ritrae -nel plancton,
e tu giuntura delle branchie
dicevi, lo vedo anch’io il tuo presagio:
ti scoprirò la nuca come un rovescio
-la illuminerò di ginestre.

In "Versante ripido" n.3  luglio 2019

*

Un regalo per due

 

l’avevo in mente

invitarlo a sgualcire la soglia.

era sutura imprecisa, intanto, un pianeta solitario

fuori dal raggio -era il fuoco del telescopio.

il mezzo vuoto che incide, chiama.

io l’ecolalia delle corde

un andante curioso di occasi

da non aver paura più

dell’oltre l’oltre.

 

 

In "Versante ripido" n.3  luglio 2019

*

Metto le ali

 

 

a questo dolore di essercci

al colore del se non fosse stato.

conscia di essere folla

del vociare dentro/ grisaille

la stessa e cambiata.

terra e chiodo, terrene vibrazioni.

 

In "Versante ripido" n.3  luglio 2019

 

*

Luglio (acrostico)

 

Lantane in balaustre     

Unanime lo sfarzo, casta

Glicolisi d’aranci dentro i gialli

Là dove smania un raggio, tale

Il fiato fisso, dei più caldi

Ostri sulle polene scolte a vita

 

*

Il bisturi che danza

 

Il bisturi che danza sulle tegole
fa la punta alle stelle,
un ritorno di musica
sui meridiani.
Passati ritorni, li vedi
minuti, grandiosi da un pozzo
un ossario di pesci che nascono volando
le mille piume
dall’inguine del nervo, la spirale
abbozzolata in una mano. Immensa.
Perfino i corvi dalle spighe
perfino Vincent
che si dà al vento e prega eternità.
Eternità precise cerimonie
di felci e scaglie, delle ali
del battito cardiaco della rosa
che aspetta sulla pietra
di profumare
nell’arco del miraggio.

___
A Maurits Cornelis Escher

Poesia pubblicata nell’antologia collettiva “Dinanimismo - 10 anni di avanguardia poetico-artistica”, giugno 2019.

*

Suprema in viola (la Superbia)

 

Suprema in viola, predatrice

l’aura che offusca

quando passa sola in cammino

da altezze funamboliche d’odio

silente nel manto, scostante

e cieca, d’un oppio di duramadre

-un’orgia di nicchia che arride dagli inferi.

Vorresti raggiungerla, carpirne il sottinteso,

le punte chiodate delle iridi.

Amarla e detestarla

scolpirne la statua d’altera

il suo graffio intangibile

come la morte quando spigola

dietro l’esasperante veletta.

 

 

*

Tutto il mare dice vieni

 

è così che le orme si danno correnti

alle protrusioni dei giorni

è il viaggiare senza partire

risacca di allitteranti congedi.

ci lascio gli occhi, al balenio di umidi fiotti

è così che ti fermo

dove il mare si assolve dal suo male.

invece no, richiama i polsi

li sottomette al nodo, sospeso sciabordio

da negare la linea dell’aria

gora ponte e pegno, senza finirmi

-è un atto di libido estrema

tra l’est e l’ovest,

con quanta cura mi sferza

su stasi di ossidiana. quanto, tu

gola gridata mi resti

amaranto di trabocchi, il rullare continuo.

*

Gabbie

 

Caos psichedelico

ombre luci e rimbombi

Giro di città

al giro di vite

 

Ho perso

al semaforo spento

il segnale di te

fra ingorghi celesti

di onde anomale

oramai consanguinee

 

La bocca della verità

determinata sfinge

ha smesso d'interloquire

a intermittenza rigurgita monete

desistendo

 

Come sopravvivere

senza la tua voce

antidoto isolante?

 

Me ne sto quasi arresa

in gradito stand by

al parcheggio del gran circo

Ikea italian style

Magari dalla corsia

del fai da te

vedo arrivare Godot

 

*

Giugno (acrostico)

 

Glucosi frutescenti

in imenei s’involano

Umide bacche assolvono

giochi penduli

Nel ginepraio di frasche

oltremisura l’ossatura è polpa

 

 

*

Il-lumina

 

Così divampa un’idea
Il fiammifero alla testa
fa liquidi i grumi
irrompe la portata
dalle provette

 

Così il siero è rubino
e di chiodi cesella
la notte della pelle

 

Ritrosie dalle stanze
sbottano
forzando scuri

 

gambe lunghe
gambe per volare,
com’è l’inseguire
la preda che sboccia
dal nero, della macchia

 

 

*

Al reparto perduti

 

Puntuale e fatidica
compare alla porta
la megera
in carne e aghi
Altra dose di morte dipinge
sugli spettri
degli irrecuperabili
Scolpisce il reparto
di balzi leggeri
sul marmo viscido
seminato
a chiazze
di pianti disperati
Ammaliante è
sempre più
dagli occhi di sparviero
tuttavia
nessuno ha coraggio
di curarsene
Solo lo specchio
ancora pensante
che domina il fondo
tintinna sprovveduto
come la terra
sotto l’accanimento d’un treno
ad alta velocità.
L’angelo candido
incede
senz’anima
scopre gli avambracci
sfatti di rassegnazione
e colpisce

 

 

*

Dentro Hope

 

Hope abita sotto il blu come tutti

solo che il suo è qualche tono più giù.

Lui parla una lingua sconosciuta - ma non è quello-.

Dice “siamo con noi” non è un'incertezza

“io sono te, tu potresti essere me”.

 

Ci crede: il dentro è uscito e intorno è così grande.

Perciò colpisce a ripetizione la tempia: pulsa la vita circolare dei gesti.

Il carillon della giostra meccanica dà vita a un balletto da burattino

senza un compagno, dietro al volo passato per lui e rimasto da sempre.

Un richiamo in un Fuoritempo dove ogni lingua è coro -è spiazzante-.

Lo spartito lo leggono tutti -anche Hope trova la chiave-.

 

 

 

(Hope è ogni bambino, ragazzo, adulto, affetto da autismo. Termine non ancora ben compreso da tutti. Più sarà compreso, più largo e accogliente sarà l’abbraccio ai “figli della luna”)

 

*

Incanti di sabbia

 

Il sole è un abbaglio
dall'eternità,
l'oro della sabbia 
ha i tuoi occhi
Poche cose 
sanno irradiare
l'ordine del caos 

 

 

*

Strada (acrostico)

 

sconfinamento a sfondi, infine     

triste lo spazio cresce

rorido d’interferenze, in noi

affioranti -le curve spoglie-

diafana luce che ha gettato

a cedui passi, istanti. 

 

 

*

Special


Sai

ho subito saputo
a chi dare in custodia le parole
I libri... ah il mio piccolo volume
messo in un posto lontano dalle insidie
-non voglio tanto penetrarti nel pensiero
non credere sia eterea
questa simbiosi apparente con il nulla
Ma dovrai passare da quella pagina
diversa -e temo e so-
con la mia bocca che ti osserva
ti recita tre distici
e chiude con l’enigma
“raggiungere i tuoi riccioli”
come faccio?

Ora
sto qui, vedo la mano muovere le corde
la mano uguale alle mie corde
Non ho fermato il gesto sulla lingua
dire -non voglio maschere e tu sei
a spogliare l’anima

e amica è anche amante,
segreta: nel silenzio fugge-

Sai, ho imparato
dalla tua voce a dondolo
che esiste una musica
dopo le note

*

Puff (le garçon qui fuit)

 

Un altro lancio alle spalle
_quanto ossigeno manca
al piede per essere orma? _
Gittata invisibile, scaltro proiettile
trasformato in cipiglio
Voltati e guarda
la corriera di streghe
perdere le mele in una curva
per il tuo gioco -infantile
di lanciare fischi con la fionda

 

 

*

La terra a primavera

 

la terra a primavera.

mia madre che riposa 
e piove, 
piove.

 

 

*

A fior di pietra


Fragili, di spazi a saperci belli

avvezzi a controluci e i rari viaggi

ma fissa noi la pietra, quando 

deserta si abbandona.

 

 

 

*

Alle correnti


Mi ci vedo a incamerare aquiloni

come attimi di uccelli tramortiti di grida

 

muovere segni radiosi da gelate,

da ceppi d’inverno.

 

Strappare la radice a una canzone

nata nel petto,

lanciarla più in là del vicinato.

 

Cos’è in fondo una porta?

non è legno pronto a fiorire?

 

Mi studio percorsi a matita, disegno

un viraggio proprio lì, sopra la cima.

Dall’altra parte, ricordo

costruivano nidi

gli amori mai finiti.

 

Quelli sospesi alle correnti

per leggerezza.

 

 

 

*

Equilibri di sabbia

 

La luce ha equilibri di sabbia

scolpisce dardi

dall’oro scuro del fogliame,

sbuffi di braci

sorreggono paradisi

di alieni a sentinella.

 

Ci attraversano, sono tremori
in assestamento col destino
-tracce e contaminazioni  

 

oppure un velo che fluttua piano

prosciugando memorie

di un guizzo-polvere

già anima di stella.

*

Distopia

Cercano 
dov’è il possibile 
con la speranza controvento
parole caricate a salve
che salvino dai cedimenti,
dal viso grave di Madame
donatrice di approdi 
e viaggi di pietà. 
Molto o poco il tempo
ai fiori di palude 
che petalo per petalo si danno
colmando limbi d’incompiuto.

 

Tu forse non lo vedi 
qualcuno è qui ti veglia 
un’orma lieve 
scisma di corridoi
dal cielo nero ti protegge
sofferto coagulo di gelo. 
Ci dissero
di aver cura di noi 
di chi andrà via per primo.
Di uscire 
quando eravamo pronti.

 

 

(ispirata a "Non lasciarmi", di Kazuo Ishiguro)



*

Vieni

 

Sicuro arrivi
hai preso la chiave sotto il vaso
la porta, il solito soffio
quando vai lontano e quando torni
un segno di congiunzione
la voce del rumore che soli sentiamo
in un modo liscio, come passare il vuoto

 

Di spalle, mi attorciglio un boccolo
sottilissimo -non sembra a te, siamo in un giro stretto-
come se l'aria non dovesse muoversi
per non diminuire il noi
Sorprese, agguati, grandi bagliori
Insistono

 

 

 

*

Endiadi


L'ho vista la tua casa:

tre pianeti uno dopo l'altro

come bambini tremendi

a cancellare vie di fuga.

 

 

*

So large

 

Immobile notte,

i respiri vanno e ritornano   

per le nostre vie liberate

 

quando i suoni sono sordina,

giochi lontani

di sassi lanciati sull’erba

 

quando la terra trama, di viole

che imbruniscono il cielo

 

 

*

Maggio (acrostico)

 

Mirti in gerle selvatiche, prolisse
All’albeggiar di fogge volte al mare
Già che s’innalzano da inerti stecchi
Gettando miele d’aria ai bottinanti
Impattano scoscesi fianchi, anfibie
Orografie di terre e sporte dune.

 

 

*

Un quasi maggio


Vorrei un quasi maggio

d'ombrosità dei tigli

puro ascolto e ideogramma

 

in quel poco di ora e qui

 

rastremare correnti

da greti di zavorre.

Restare, oh quanto

 

nel canto ludico

da smarrimento!

 

Chiedere scusa

delle dimenticanze.

Dimenticare

ch’è vita e troppa

e tu graziosa spora

 

cacciata da deliri d'acque

con il viso che affaccia

in quale forma?

 

 

*

Sulla parete, stesa


La donna nuda

stesa sulla parete

ti sembra me

o sono io che sembro lei

e tu sei Newton  

mi fotografi dalla retina

e tanto brilli, e insinui

Un tram a distanza

agita l'orlo alla finestra

parallelo il tuo umido soul

trema, nell'orecchio

Ci balliamo la notte

appena nata

niente musica, solo scena

La mano al cingolo del fianco

non domanda permesso

Siamo fatti di pelle e luce

di luce e di blues


(poesia edita in Canti di carta, Fara editore 2017)

 

 

*

Mi hai regalato un pesce



M’hai regalato un pesce - da compagnia

senza sapere che si tratta di un dramma


Vedi, ha l’occhio spento e dentro sarà anche peggio

il cuore, ancorato in una elegante bolla - senza uscite
il grugno alla parete nel muto picchiettare
la volontà di un grido,
in faccia alla predazione di questo mondo
Non gli rispondi, t’immagini che muto sia uguale a sordo


M’hai regalato un pesce,

è un caso di coscienza...
vedi come le branchie confondono la bava
con la schiuma viva del torrente


*

Da un sussurro degno di luce

 

Mi hai lasciato, fiore

alla deriva del sole.

Germoglieremo dalle labbra

al rinnovato sussurro

di una stagione antica.

*

Alla pacifica vendetta del brachiosauro


E tante lodi

alla pacifica vendetta del brachiosauro

il ponte d’ossa

sui turbamenti dell’evolvere.

Da quintessenza, muto

il citoplasma che s’espande:

 

non s’è negato l’atomo alla scienza,

così una macchia fragile

rivela che l’essenza

-d e s o s s i r i b o-

non è principio, ma un’accoglienza.

 

 

 

*

Al Dies Illa


Quattro i minuti, quattro vite

le volte fino a che 

 

il coro castiga oracoli

recide rami, tronca di netto

trascina gli arti, libera

danze di pietre

 

montagne di umori brillano

in fondo alle comete,

siepi di biancospini

spine di neve

vestono cimiteri a valle

 

nebbie emerse in eterno

da radici estinte,

notti di madri sveglie

quando i bambini dormono

con le paure cucite nei pupazzi

 

*

Frapponiamo bisbigli

 

La durata di un dettaglio,

acque

stendono un tappeto bianco

 

asimmetrie di onde, orizzonti multipli

sabbie si smuovono

piccole slavine d’incoerenza

 

la luce è bassa,

è tempo di sdraiarsi

su rotte che non s’incontreranno

almeno in questo mondo

 

si soffia la brezza-pensiero

come si può inventare dietro un vetro gentile:

ombre e corpi

uniti per sempre

l’inizio

che riflette la fine

 

frapponiamo bisbigli

tra il giorno prima e l’oggi disperso

 

i nostri cuori non conoscono il macero

ma vie di ritorno

 

vie

*

Ci siamo chiesti

 

Ci siamo chiesti la nitidezza 
di gabbiani diurni, la mitezza di porte 
arse alla sorte del sale

 

se l’impluvio siderale di rive 
raschia inchiostri in ogive, si spengono
mappe, rinvengono e mute al riflesso. E i gesti?

*

Indosabile



Il groppo teso delle nuvole

m’accompagna

poi recede nella bussola di baci.

A raccoglierli, si trascinano in insonnia.

Sono gocce: una e quante

e poche -polverizzati sorsi-

I mesi caldi i mesi freddi,

tutto addosso.

Le tre di notte nelle foglie appese

in sintassi di membrane

in casa cieca

alle tre di notte correre

perché sia presto giorno

perché s’impasti la memoria

al più vicino acronimo

gridato piano, riaffiorante.

Vorrei tastare nella luce questo amore

innaffiare il fiore.

*

A Notre-Dame (tanka)

 

 

sta muto il coro-
nere spire i gargoyles
echi di fiamma

spina di sotterranei
rifiorirà la flèche 

*

Narrato

      

Le note sono
tappeto di attimi invisibili
- dita forse

 

le dita rincorrono gli uccelli
il tubare di altezze riempie la stanza
si annida indefinito

 

quante corde... escono dall’aria
come la voce di un narrato
fiume delle luci
morbido, vacillante

*

Conservazione


I baci sulle soglie

necessità di conservazione

La materia
è fibra volatile

 

 

*

Da ceste di mistral



Punte di miele

spuntano dalla terra

ceste di mistral vanno a raccogliere

sospiri a vela salendo per i colli

Nuvolanti odori, cirri posatoi

per uccellini mossi e trilli;

bocche merlate

narrano la stessa fiaba

colorata

Storditi Sensi

-quanto piace alla dea Morfina

questo lemma!

 

Gemma la fantasia, apre sorgenti;

senza corolle sulla carta Escher

eppure l’ha copiata

una (sua) primavera

in bianco e nero

 

 

*

Di me, quel silenzio che non sento

 

 

Sto muta per contrasto
nessuno grida, ma
si strappa l’oscurità

 

tiepidamente urgenza
nel rovistare le abitudini:
crema da notte e piedi scalzi,
emozioni liofilizzate
nel cuore sottovuoto

 

Mi coltivo come un ritorno
sotto i pori serrati

 

spingono, argini
di odorose tempeste
nel taglio assoluto degli occhi
cresciuti dentro

*

Aliti in affido

 

 

aliti in affido
la tua terra la mia acqua
un albero poggiato

 

 

*

Neverland -dov’è?

 

 

Un altro luogo
un altro nulla
E così
sanguisughe di tramonti
si son riempite le viscere
Neverland è ora
sotto un manto di frutti idioti
e un assedio di manguste
rosicchia le storie che ci hanno raccontato
-pugni contro ganci, bulloni a terra-
Ingrassate, cloni ammaestrati!
Il coccodrillo era un buon demone
fra le bestie
in vena di estinzione

*

A ben vedere tu galleggi

 

 

Che forma avrà il tuo pensiero?
Un sasso adagiato, un varco ombelicale
una scatola nera, una vela? 
che importa quel che i manuali dicono
se penso ad ali con radici al cuore
e un fantasma buono spazzare via 
dall’aria ottundimenti. 
E tu galleggi, peso nobile 
sulle nostre teste precise 
per cui disperi,
dai tuoi disegni diurni
piegati al buio 
come fanciulli zitti, castigati. 
Eco dolce e terribile
la tua parola pura 
alla strada, ai telefoni 
a chi ha saltato il fosso 
se questo mai bastasse 
a pensarlo, l’ultimo gelo 
più simile a uno scioglimento.


(2 aprile, giornata per la consapevolezza dell'autismo)

*

Aprile (acrostico)

 

 

A bocche-cielo l’orizzonte esteso

Per anelito a lasso di colore

Rigoglio a vista giù da franti calici

Intreccio di vibrati e acque

Là dove, disaggrumito dalle nevi

Errante il rivolo, prende a vociare

 

 

*

La Danae

 

 

Un rantolo, io sono

di terra accarezzata dalla furia.

Godo del solo abisso

dove intero ho lanciato il mio corpo.

Ti chiamo le notti

mio cielo gonfio, trascorri

oltre il bianco del ventre.

Da tutti i papaveri schiusi

sussulto pena e piacere

di materia plasmata     

sbattuta, annullata.

Sei conforto di pioggia

all’anfora dell’inguine

come sulla divina

umana Danae, incorniciata

al fianco del mio letto.

 

 

*

Tutta una vita testarda



La vita continua, multiforme,

anche se ci hanno tagliato

le Vitamine

 

piove, e dentro anche più

dacché gli specchi sono rotti;

la fede, abbi fede nei desideri,

nonostante

 

Crepe, come percorsi alternativi

 

un’Era profonda

come il ritmo del mare

nel disegno audace di un bambino

 

 

*

L’aria si volge a inverno

 

 

L’aria si volge a inverno

basse le cupole

lui rimane lui va

si vede aprire il varco

-quale? quale lo spazio

di seta buia

dove lui scivola

trattenuto respiro

e silenzio. In un lago

di abisso, inviolabile arcano.

Una pace. Il flutto sai

l’ha voluto per mano, limpido

e solo, come discendesse a te

a tutto il bene, una tinta di neve

che all’universo implode  

e ritorna, dolcezza.


*

Che tempo è

 

 

Che tempo è

la tua esistenza?

Questo cemento,

aloni che circondano.

Storia in bagliori ed echi a notte. 

Qui tutto pare pulsazione

giorno su giorno, e

in realtà pulsa

sia che le mani ghiaccino

o compulse

rapiscano tue porte

e rampe da risalire il limes.

È divisa la terra

in guadi, circoscrizioni.

 

 

*

Un nido di vespe nell’orologio

 


Un nido di vespe nell’orologio

mi sembra la base su un pianetino

 

che ci osserva. Ramon ha sbadigliato

trenta volte in un’ora

 

e alla radio danno notizie

ripetitive, poi e poi

 

errori come ciliege mature

venute giù dall’albero.

 

Le città hanno piani di evacuazione

e finestre egocentriche

 

c’è chi ostenta il nulla e chi senza nome

sta la notte in un guscio di cartone.

 

Sul mare hanno piantato

bandiere contro l’illusione

 

e intanto il rosso dei papaveri

palpita strenuo, forse

 

non sono papaveri ovunque

forse è il mercato

 

per la libertà di domani.

È una sorda impressione

 

un pulviscolo e poi gli uccelli

con ali incolpevoli, i bei nidi

 

in aureole di piombo.

Per oggi, da un minaccioso caos.


 

 

*

Quest’opera cortissima #poesiapoeti

 

 

Non pensare, quest’opera

cortissima

è nata per sbaglio

La primavera stava nelle bocche chiuse

un punto solo era specchio

della luce fuggita dal sonno

orefice del sorriso

che cruda e confusa ritagliavo

dal paesaggio che Pegaso

aveva tenuto per sé

 

 

 

 

*

Il bianco che irradia il narciso

 

 

Tu dici

e un treno corre

disteso e tiepido

-è una città su un’ala,

rispondo. Non c’è il limite

il limite è solo il bianco tranquillo

in un giorno reale

il bianco che irradia il narciso

primavera del diciannove

sullo stesso muretto.

Ma le parole non s’asciugano

fosse anche il sole un rastrello di tufo

e lo sguardo di suo

fa il tempo

di maniere solo adorabili.

 

*

Cose leggere così fitte

 

 

Essere, volere

-non volare

contare, mirare diritto

Mira e scopo a tempo:

click: energia cinetica esaurita per crisi

-sorrisi a mala pena digrignati

 

Un tempo pari, un tempo dispari

il dissesto fuori programma

di un musicante a ore

col cappello riverso -vuoto di monetine

 

Mi gira in testa, aria di Bach, sublima

va a toccare corde non permesse

come una fuga, una favola scanzonata

un chiaro ruscello dove non ha bevuto

il lupo con la sua discordia -l’agnello è libero

 

Di bollicine la pelle -d’infanzia dolce

una, l’altra e l’altra e l’una

mi salgono perle di collana

al collo un godere veloce

da non entrare nei pensieri

 

perché il mondo avvolge

d’ovatta insonora

perdo il rumore del passo

senza trovare,

continuo a dire dove mi sento

cose leggere cose

così fitte

 

 

*

Dove i sogni non sanno

 

 

Deriva
dove i sogni non sanno
di non sapere
La felicità 
si è assopita
nelle secche di un girasole
Il nostro tempo si ritrae
in una larva 
con le ali

 

*

Treccia legata stretta

 

 

Chissà questi tuoi cari oggetti

se hanno piegato polsi di carezze,

strenui seni di sponda

dove puoi andare

attraversarla tutta, l’ossidiana,

dove restare - alle illusioni

di marzo, alla mimosa

che poi si spoglia dell’oro.

Chissà, se tra gli oggetti

un silenzio in meno non s’insinui

come sull’acqua un soffio se si posa

da ombra chiara in quelle nere.

Strappi, falci di nubi, chiodi murati

e la tua treccia legata stretta

chiusa a chiave

chi intrica e chi scioglie,   

appena qualcuno -la limpida mano

nell’atto radiale, di darsi.

 

 

*

Ancora le meduse

 


ancora le meduse poi d’istinto

chiudo viluppi e mi sottraggo al vento.

una molecola di sale

di te una stria di nylon

lasciata a decantare,  

sussurro della sabbia

al giglio

al mare ch'è nel calice.

 

 

*

Orchidee e musica

 

 

abito dove il bianco 
cristallo di polvere mi solleva
piuma sulla terra battuta
senz’altra memoria che il bianco
alchemico di orchidee e musica
sordo per mano tua che emana
il limbo fermo degli oggetti.
una grazia già di vibrisse
nello sfiorare eremi eterni.
fino a rapire il vuoto
quel prato di altezze e una lamina
muta attraversa il sempre
degli occhi. è la luna che
si abbraccia nella cruna 
lontana, di adorazione/affezione
– l’altro limite, altissimo.




 

 

*

Freddi sussulti

 


Svuotate,

vuote di luce

solo acri guizzi

parche le ampiezze

le tue pupille di mota

nelle mie notti

interrotte, sentieri disastrati

ai tuoi avvicinamenti.

Di freddi sussulti

si trema al fianco

del tuo spirito

appeso a una gruccia.

 

Rimetto alla memoria

i margini dell’essere,

nessun fiore odoroso

al di là della porta.

E dormo su ossa di alabastro,

è una buca il declino

ma basta il nero che prevale

a raschiare te dalla pelle.


Nero colmo di sale.

Tu non parli più,

t’ho mandato un ronzio

di farfalla nella testa.

È piccola la salvezza, volevo ringraziarti

per aver acuito la figura del sole,

domani.

 

*

La mia montagna

 

 

La forma che ha

la mia montagna

è un disegno mentale,

schizzo selvatico

quando la parola non era nata

La mia montagna è una gran dama

che riempie la carrozza

e s’adagia ai cavalli

 

Un giorno lei è scesa

ha detto, o pensato

-qui è il mio posto

s’è alzata la gonna

e piegato le gambe

 

La mia signora ha

una torre per cappello

il sorriso di roccia

un didietro oversize

 

la mia montagna

che profuma di mare

e regge il cielo

*

Ventricoli

 

 

Il mio centro imperfetto

mi fa tremare

al vizio terribile della sua musica

danza di gruppo di arterie

poco originale, trascinante sì

Vibro tutt’una col suo potere

mi piego per appagarlo

mai per piacere

La bacchetta del direttore si presta

in virtuosismi sperimentali

gaio divertimento il suo

burrascosa paura la mia

Il suo slancio innocente

mi lascia indietro

il ritmo diventa non pertinente

Pochi secondi allungati

dura l’estrosa vertigine

nel ritorno ancora una volta

mi guardo, sono com’ero

*

Marzo (acrostico)

 

 

Meandro di vento

Assolato in precoci brillii

Ridona canto a floemi, affanna

Zuccherosi nettari, affolla

Ologrammi in olfatto

 

 

 

*

Centro accerchiato da sussulti

 

 

Il momento si dilata all’infinito
in calore asperso, fino ad averne freddo.

Siamo la polvere adagiata sulla terra
io sono polvere donna e siamo altro, insieme.

Io sono altro e siamo oltre le parole vuote, tutti
siamo polvere da non calpestare, fragile
siamo da soffiare, sussurri in voci.

Non cerchiamo che voci simili
voci da vivere con- vivere

da far rinascere l’altro da noi
uomo, bambino, vecchio, cane abbandonato.

Ubiqua generosità, da voler dire donna
gonna, campana, chioma
protezione e cento dimensioni

centro accerchiato da sussulti
per una strenna di stupori.

Sentire, dare, amare,
noi.


*

Già quando ridi

 

 

Ora ti sono da carezza

e perline sugli occhi

a dire mattino, è piccolo

il dire spazio ma so dove tieni

le vocali che incendi:

una mitosi tenera di lingua,

del disegno uscito dalla mina.

Ora sui tuoi capelli

volantini biondi di nuvole

aspetto, il canto della semina

che sia onda del grano

il principiare lesto

insieme al passo al saltellare

al verso del vociare

un brio di rima

che dà l’accento

e chiama e ride.

 

 

 

*

Un bianco d’Africa e di polvere

La cattedrale è polvere nel firmamento

possiamo solo pensare che finisca

poi

 

una campana suona

specialmente per chi non l'ascolta,

siamo già via lungo una vita

lungo i visi che non abbiamo conosciuto

 

Agavi e corpi nodosi, piante africane:

hanno un'anima diversa

le tue dalle mie

hanno un sale che brucia, un sale forte per riserva

La calce, anche... da te è più bianca

lo è sempre stata:

toglie la vista; toglie la cognizione

di chi siamo

 

E spegne il tempo

quel bianco

intollerabile e morboso

 

diventa lento, uguale a sé

non si lascia prendere dai rintocchi

Non si ripete

e ci ha ingoiati

 

ci ha già fatti sparire


(poesia edita in "Canti di carta", Fara editore 2017)

*

Amore mai è inverno

È un rotolarsi cielo e terra

la stagione corrente e noi vivi 

l’affidarci alle chiome 

solo apici che tornano apici

accesi nel glicine, grappoli  

di attimi al mondo.

Dissolutezza di noti profumi

se fai che l’inverno sia maggio

piano o improvviso, sempre

mi  riempi del ritmo segreto.         

Brezza epidermica

mia prima

passi le dita, mi indaghi

in seno d’ambra -ti posi

a sbozzare altri fiori.

 

 

 

*

Febbraio (acrostico)

Fiotti immobili duri

estuari in ime gole.

Bora, bora in nastri sfibra

bandiere dei grigi alti, sui

rami ruvidi, rami del sonno

alleviati poco, ché piove gelo e poi

il cielo in riposo stende

ombra a giorno.

 

 

 

*

Bevendo rose asperse

È quell’abbandonarsi

umano alla natura

a far dei sensi intarsi

di sottigliezze fotografiche

 

Così il tocco alla rosa

derma e velluto

a trattenere il sale della notte

Così la spina è disarmata

del vezzoso raggiro

 

E petali le labbra, a respirare

il miele dei pistilli

acre dolcezza

da cambiar sesso e colore

alle mosche accanite

al filo di scirocco

*

È fuori il presente

È fuori il presente,

un legno bagnato dalla pioggia

si gonfia in movimenti millimetrici.

Il presente vorrebbe stendersi e assopirsi

come la termite nell'ambra,

così i miei arti crescono nel freddo

senza essere arti

-senza che il vuoto possa

sottrarli al vuoto dell’assenza-

batto, li libero dal ghiaccio

hanno anche il centro di cristallo

un male sfaccettato

quanto più è fermo

cose che appaiono non viste

il solco necessario del cuscino

la benda al fiato, e poi domani.

 

*

Di foreste

Mattino pomeriggio e sera

notte mattino e pomeriggio

sera notte e mattino

-cicli e geografie

posture, intrecci

piume e coltelli.

I vetri che lasciano passare.

Sottrai l’aria e cammini

(cammini qui)

salita lunare dal peso dolcissimo

qui è la costa messa a guardia

pietra di tripudi

qui è ossigeno e sabbia

il sudore della nuvola che arde.

Mattino pomeriggio e sera

-il dì e la notte

questo amore di foreste

che si agita con o senza foglie.  

 

 

 

*

Vengo a baciarti

Vergata fiamma d’arcano 
Espianto labbra da prassie 
Nei meandri lasciami
Giuntare 
Orditi di spezie 
Anca da mantice rosso è 
Bocca foce al tenerti 
Armonia di sale bruciante
Clavicordio il sospiro
Immobile a sponde poi
Ansante alla chiusa 
Ressa d’acqua 
Trema al viraggio
Iato in mercurio, fusione


(acrostico)

*

So dell’attraversarci

So dell’attraversarci

a fittone che spoglia la gola

la spoglia nuda e ripete sul labbro.       

S’arrampica all’acqua, la piega.

E cos’altro?

se ti bevo il pensiero

dopo tutto

mi fai valle e riscendi.

Perdo argini e tu sei   

dove spingo il fondo di me.

Apri ancora, spazio.

*

Stretta luce

Germoglia 
dal velo della notte
la nostra vita
Si infuoca l'alba
la bocca canta alle costellazioni
La Terra gira nel cuore
come un'arancia rossa
nella densa scatola del buio
Tutto intero ti ho visto 
feritoia della luce
spina perfetta
negli angoli della mia carne
rarefatta

 

 

*

Risuona un blues (a Cesare Pavese)

Corre la morte 
ferma la morte
usa la morte, ama la morte 
insonne blues che a morte avvolge.
Il male cominciò con me seduto/sul sofà *
il male più profondo
il male (l’innocente),
un Last Blues, to be read some day **
sotto costellazioni nostre
spezzato di passato, soffio
di fuoco nella ruota -che cambiano gli attori
gli inizi, le destinazioni 
e uguale la dolcezza vibra. 
È un sax dopo il finire del fragore
rauca mia solitudine 
che sale per le Langhe morbide
voce scoperta 
come follia nell’essere se stessa
implora carezze e sa 
del non ritorno, se il cielo infine pesa
e scioglie il grido. 
_____________________

* Da “Il blues dei blues” in Ciau Masino, Cesare Pavese (1932)
** Last Blues, to be read some day, titolo dell’ultima poesia di Pavese (1950)

*

Capolinea #GiornoMemoria

Al museo si mostrano resti

rubati a vite in corso,

la disumanità  

in collezioni spaventose.

 

Protesi non più attive,

capelli esanimi

un tempo carezze ai visi,

scarpe senza compagne

e più misure bambine.

Gli ingressi ai forni, voci annerite

non evase in tempo nel futuro.

 

Il capolinea

tutti obbligò a scendere, come

se si potesse perdere

una coincidenza.


rs, gennaio 2013
Testo pubblicato in Post Scripta n.1 (2013) - Magazine di narrativa, poesia e concorsi letterari di Scripta Volant -Edizioni Aliantide 

*

Se questi sono uomini #GiornoMemoria

volano ceneri-

anche i sogni si bruciano

per albe assenti

 

vite spinate-

nel rossore del vento

anime libere

 

da neve e fango-

dei fiori color porpora

rinati altrove

 

sguardi di ghiaccio-

da fiammelle di cielo

scie immortali

 

(quattro haiku )

*

Le due Frida

Le due Frida solcate 
da un solco solo,
la regina in tehuama
in unione carnale
con la creatura del dolore.
Lei che raccoglie
la vertebra strappata al cuore,
luna strappata al sole. 
È lei a scostare l’unghia 
d’acciaio che torna rossa
fessura e goccia 
dall’occhio in lacrime
da cicatrice altera
dall’arte 
di cacciar via lo scheletro
quell’ombra lunga 
di cielo, che pure ha sognato.

 


(Ispirata a Árbol de la esperanza, Frida Kahlo 1946)
* Le due Frida, titolo di un'antecedente opera della pittrice messicana (1939)

 

*

Riparo in greto d’ombra

Ci basteremo un altro giorno franti    

dal nugolo di affanni e l’io solcato  

s’incenserà in riflessi, e pur distanti 

l’una saprà dell’altra voce il fiato.   

 

Estranei all’oro cupo che snatura  

la levità del tempo, sospirato  

refrain di volo mosso da un’altura 

su mute crepe tese lato a lato. 

 

Mosaico agli occhi le ho fermate, chiare 

molecole in carezze, cartilagini   

sostrato a pose tra parole e cielo      

 

lievi alla pietra, e ancor sottile un velo   

di sete e acqua -una prassia d’immagini - 

scivola in greto d’ombra ed è già mare.   

 

 

 Sonetto in endecasillabi - rime ABAB, CDCD, EFG, GFE

*

Avrò

avrò un silente grido

cristallizzato attimo

al nugolo di sete che dissolvi 

al punto cieco e sempre

sempre a sfiancare, tu  

lo spillo in fiore

e stille che trapassano       

l’acuto rosa e il viola 

ceduto nel tremore

 

 

 

*

China di verde (l’Invidia)

Lento che va il veleno
v e l e n o  m a g m a  pronto a bollire
e partorendo buio
cieco ricresce
china di verde
certo, d’infimi toni
eppur si cela
sotto la smeraldina cera.
Ah, se avesse la faccia ardori!
da pori sortirebbe
un miele amaro
a sbrodolare dritto
al cuore dell’ambito Oggetto.

*

Gennaio (acrostico)

Gola d’inverno dove il brio s’ottunde     
estuario di tremori umidi e lenti

nel cinto in ferro dell’iconostasi.

Nippoli in consistenza della luce

appesi in maglie di cianuro argento

in cielo così gonfio, androne chiuso

o smorto nel prolasso in finto azzurro.

*

Sospinto il sole

sospinto il sole-anelito non ruga

quegli acini di voglia in braccio al vento

turgido il miele che profuma colli

di ardore e gerle traboccanti attese

 

 

*

Già lieve il sonno

Nel freddo immobile

una vena arrossata si conficca

come l’occhio selvatico del tempo

da stanze senza porte.

Lampo remoto

la mente fa un volo nel vuoto

dove no, non è stata

ancora concepita. Ma sfiorata

da mano che l’ha accesa  

notte di nube

macchia - buco - bagliore

dove è già lieve il sonno

al fuoco che vi allaga

miracolosamente

abbraccio.

 

 

*

Scuro dolce vuoto

Il mio guardare d’inverno

goccia nel silenzio,

nitido il vuoto che fa vita

senza trama di troppe meraviglie.

Ora è curvare le vetrate, 

è la piuma nera sopra il ghiaccio. 

Se s'impiglia in una buca, 

muoio.

*

Tutto il tempo

Tutto il tempo che incendia 

soffio nuovo e mai estinto

averti qui tatuo al mio seno

spalancato alle nuvole

fragile e nudo

pronto a che tracci

altri solchi indelebili.

Il tempo è

avere te vita che penetra

che mi sprofonda

e raccolgo dal rantolo

mentre anche il cielo è rosso

di travaglio e di grida

di ogni respiro

nato divorando le rose.

Lo sento sempre

il profumo che mi scolpisci.

È che non ho forma

se non il calco delle tue mani

intorno ai fianchi,

dentro, di taglio.

 

 

*

Sulla Distillerie

Sulla Distillerie Faucher
il ballerino a schiena nuda 
prova un croisé e niente si avvicina
al senso d’ombra che permane
in richiami inventati 
di tigli e nastri al vetro.
In rue d’Auffrey abbottonata 
poche ore e un anno 
si lascia andare giù
dalle lesene e muti
i mattoncini si colorano
di nebbia e vene esangui,
e abeti quelli spiantati 
restano a far luce 
come cuori in subbuglio
destinati l'uno all’altro a placarsi 
in un ennesimo momento
un piccolo ago, verde di eternità.

*

Per disarmate coltri

Mi aspetto

il suo vivere incolto essere colto

come un’intimità

propizia ad arretrate albe

di quando il cuore non era

un sovraccarico nocciolo

sibillino segreto

abbandonato a orme d’arsura.

Ancora sogno di un sogno

contrastare l’oscurità

sfiancare nubi di spine

per disarmate coltri

lottare - pregare - piegare

lame di laghi immobili

per il suo pianto - senza pianto

deserto da fiorire.

Con occhi sbarrati io sogno,

lo vedo tagliare aiuole. Uscire.

*

Sbocci nel grano

 

Dormi

sotto le falde della tua notte

dormi come il buio

come se i riflessi

fossero di altri specchi

 

Dormi come fossi un ricordo

una scia drappeggiata

un lungo sogno

sotto le piume

 

Dormi l'immobilità

finché qualcuno veglia su te

senza toccarti il pensiero

 

Dormi

fino ai bronzei calici

del mattino

fino alle pervinche

fino agli uccelli

 

Dopo chiudi le ombre

e vivi uno spazio dorato

 

Non sei

né prima né dopo

 

perché sbocci nel grano

e geli nella neve

 

 

poesia edita in "Canti di carta", Fara Editore 2017

*

Di varco o la notte che scivola

Di spazio è la tua voce

e del quanto non ho misura

è il taglio ripido di una stagione

di varco o la notte che scivola

dalle terrazze. Ci attraversa di luna

anche un arido strato 

da limare col fiato non detto

- ma tutto annuito nuovo in un verso

che dà le spalle al mondo

e toglie peso al mio peso. Io che leggo:

altro non so fare.

 

 

*

Id. 21231 -1

Una poesia è quando
da una cantina
sale una traccia, un viso amato
un verso mai creato.

Una poesia è quando la scala scricchiola
e mi ricorda Canterville
col suo fantasma triste,
pagine lette da bambina.

Una poesia è quando la pioggia
giù per i tetti è solo musica
e il gatto sonnecchiando
da spilli d’occhi culla i fulmini.

 

 

*

Arrivi dono

Arrivi dono al fiore un impellente

palpito in chiasmi che sorgente scioglie

dalla pietra carpita dal sospiro

venuta al fianco tuo da notte emersa.

*

Più giri, groviglio

Si parlano 
tra loro 
le parole mai dette 
accavallate rimescolate 
rimesse in fila

 

casuali

 

mai più le stesse 
non suono univoco 

tirate a singhiozzi nei meandri

 

rimosse, rinnegate 
annegate…

 

Tutto, intorno 
fa un estraneo rumore

 

sola, una sillaba 
superstite 
raschia il silenzio

 

 

*

Novembre (acrostico)

Nella luce fragile

Ore di incensi accesi si dileguano

Vibra l’eco della nebbia

E le nostre forme intorno all’anima

Mendicano il taglio di una voce

Bisbigliata da boschi d’abbandono

Ridestano orizzonti secondari

E profumi immortali, le foglie assenti

*

Al diradarsi delle foglie

 

                Sospiri

al diradarsi delle foglie                                      

dov’erano corolle e ora

fattezze d’ombra

da un cielo ripido dilagano.

 

È un arruffo di sera

in mormorio contuso

ammassa spini in boschi

di carpino, schiomando il blu

a rotoli di crepe.

*

Non ti scordar di me

Fiori su fiori

coprono il freddo di primavere recise

 

qualche stagione ci lascia il respiro

 

cadono lettere senza radici

-ma il nome non serve a chi sta dormendo

un’eco torna indietro

dal puzzle di numeri e foto  

- il mondo immobile

 

Lo sciame dei vivi si affolla

a riesumare giorni finiti;

qualcuno manca, si dice

non sia capace di piangere

 

qualcuno crede che la morte

renda liberi

e ha un fiore sul davanzale

-un fragile “non ti scordar di me”

 

*

Il circo

 

una bonaccia di periferia
suona dai mantici d’autunno
verdemarcio estuario tutte le foglie
a frotte sul tendone
fradicio sgonfio lamentoso
sulla mollezza degli acrobati
reclusi
dai visi di cristalli opachi
e ancora addosso
cere di luce gialla
strette le spalle al freddo
come il salto nel buio
nell’occhio della tigre
che di scarne speranze vive
e spolpa ossa - mai stata fiera
di ogni merito (di chi?)

 

 

 

*

Bosco d’autunno (tre haiku)

*
un canto d’upupa-

il sonno della linfa
sul faggio nero

*
le fronde a mucchi- 
un sibilo randagio
districa il vento
*
la scia di foglie-
ma quanti telegrammi
bruciano il tempo

*

Filari

 

 

tu germinale

pergola di braccia

tu dell’ombra a grappoli

di vomere e zolle tu

fino ai viticci

ai cieli dell’estate  

 

 

*

In separazione

La casa è passata ad altre mani, le chiavi nostre sono sotto il tappeto dell’universo per aprire una teca e dentro tu riposi scolpito di gesti antichi e sono sempre e solo le otto di sera quelle dell’imbrunire tra i coltelli del silenzio che recidevano le cordicelle del respiro allentate finalmente da sembrare Calma.

Tuttora agosto è di un malessere definito soprattutto dopo la seconda decina con il gusto delle foglie ricucite sugli alberi dopo aver tremato di lampi di amarezza e ogni male sembrava cacciato nell’insidia da cui era sorto, quel tremore madido addomesticato da aghi e insediamenti di Morfeo in pochi millilitri lungo la schiena.

Questo luogo non è agosto, è una traccia precedente, risuona d’istante sfumando e amplificando, di affacci e partenze… e se è possibile che un caro viaggi per sempre e del quotidiano noi cerchiamo la stasi dei suoi abiti rimarginando dolori interstellari, se è possibile questo anniversario di nascita, Sereno Splendore a te, testimone di Echi d’Ombre, l a s s ù nel tuo stare in sospeso in separazione.

*

Due ore la linea dell’acqua

E ora, due ore e piove

è soglia

scompone e quanto premono

le cose che si fermano,

fogli e appunti di giardini

diari di crochi rinsecchiti.

Indulgenza al bisogno                  

le smagliature all’àncora del giorno

-non si hanno dita a volte

che per le quantità

e in trasparenze fugge l’aria dai rastrelli.

Al fianco l’oblio in forma corporea

migrazione scomparsa dentro

a rigirarsi e non trovare

-sdoppiato consenso dell’essere

tra calcine d’autunno 

e tutti i velluti tagliati addosso.

 

*

T’aspetta il sole come un cucciolo

 

           Sta in aria di miceli

settica lontananza

di entelechia sgranata

-e non sgomento-

per occhi penzolanti

dov’è la noia che serra il cubito

a bava di lumaca

e non misura, non contempla

nemmeno tende a luce                     

ma fermo intorno all’anima

evade in mille cose che non è.

 

Distale al sangue in stato                   

prono, cianosi blu alle nebbie          

ritrae la presa all’alito

di primavera. Assente ai fiori,

che mai si è vista linfa costipata

così da far radice

priva dell’urlo a gemma, di un odore

per il ritorno a spezia.

 

Quand’è che esci da te stesso,

caveau di vene?                          

T’aspetta il sole come un cucciolo

che apre le fauci

d’acredine a rugiada.

*

Ora lo spazio chiede

 

Ora lo spazio chiede incantagione

 

per un tuo bacio come foglia d’acero

 

che d’autunno divampa e il seno penetra

 

ch’è plasma e sete, grido a frantumarsi.

*

Fotografia dal tempo fermo

Hanno spostato la nebbia dalle case.
A guardarsi. Benedetta la grafia di soglie.

 

Prima il sorriso è nato, o la luce dall’est scava fossette?

 

Amabilmente si incendiano semi sugli zigomi
farine sospese a imbiondire il tempo.
Anche i denti fedeli e pertinenti
brocche in miniatura.

 

 

(ispirata da un famoso scatto di Robert Capa a Barcellona, 1936)

*

Quartina del fondo del silenzio

è bello che stiamo in silenzio

 

senza che il cuore si asciughi

 

scandire il frantume dell’acqua

 

investito da un tremito

*

Irrora calda l’ombra

La voce tua irrora calda l’ombra

nel plesso che una sola luce svela


scende e s’inarca d’attimi un sussurro


chiodo di umori, ilo a fior di bocca.

*

A volte la nebbia è gialla

A volte la nebbia è gialla, piuttosto una sabbia 
e come un cieco il sole 
scambia i nostri riflessi con la realtà.
E arriveranno a dirti 
che non esisti al di là di un fiore di pane
e tu ancora vivo, mangiato
dal senso di nullità lanci un ponte
-con l’autunno che ti strapiomba da dietro-
un ponte di pietra fedele
una pietra come un rintocco 
dove da piccolo sbattevi le porte,
facevi meglio del vento.

 

 

*

E solchi nella morsa

E solchi nella morsa l’aderenza

spilli di flosculi dove l'artiglio

apre alla tenebra del fuoco e il guado 

perla d’arsura - e tu cesura d'acqua.

*

Viso al viso

Si sveglia diversa a se stessa,

un forse, il forse esteso le trema.

La luce ha un angolo inaspettato,

la brace che cerca freschezza

per l’altra sé che oscilla

nel guscio amniotico del nonritorno.

Ora è una voce, una voce all’orecchio.

Crede sia dell’altra. È dell’altra.

Va a vibrare sul labbro

poi la percorre di taglio, di unione

-viso al viso, il cuneo

va a nutrire durezza di pietra

e anch’essa da un ultimo ritocco

getta radice e scava gocce  

e vene, in dono.

*

Sto con i mandorli e betulle


Sto con i mandorli e betulle

e liane di distanze,

per pochi giardinieri

si apre il seno del lupo

 

non c’è raggiro, sono io

perso e trovato,

meraviglia di accordi, le foglie

che voi non afferrate

 

se vogliono, mi affaccio

di lato al vento

e tanto giuro di aver visto:

l’ho vista, più aspra

e dolce di un’erba rampicante

aggirarsi, da gazza spettinata

intorno al mio pensiero colibrì

-dio, quanta tenerezza.


Un gentiluomo […] è tale stando in terra come stando in cima agli alberi […]
(Italo Calvino)


Testo pubblicato nella rubrica Poemata della rivista Illustrati n. 51, Il barone rampante – Logos edizioni, settembre 2018.

*

Più di tutto l’erba alta

La circostanza degli occhi alla luce

che preme da una curva,

un’aria di domanda

che non dice niente. Prende la matita

pensa e spaventa, non dice ma

disegna un altro volto nel volto

apre le valve alla parte del buio

che non sappiamo.

 

..."tra le folate d'un fumo di resina, strane figure, che sembravano fatte della sostanza stessa dei sogni..."

M. Yourcenar

*

Mia faglia dal basso

Non è che questo mia

faglia dal basso

stelo nascente lamina

di spada

erba molle erba rude

erba stacciata

culmine di grano nervo del sole 

vena dove vengono i venti

vento brado scheggia rovente

innumere schegge: vaso

forte e fine, anfora

a bocca a reggere

il fiore a lungo getto

a vita

deriva~sfuocatura.

 

*

Non ha muri la mia casa

Lascia che vada

paesaggio dai fronti deformato,

sia il letto cespuglio

per uccelli dal canto straniero

a me prossimo. Lascia

che a Tarusa sigilli ogni squarcio

e affidi al sambuco le soglie

dove ha pace la voce.

Che al custode consegni

le case vuote, il freddo

di ponti arcani,

la mano mancata dal bene.

Le non confessioni di libertà

sotto vesti logore, lasciale

armarsi di primavera

quando anche il corpo avrà gioia

in una piana

di blu, per confine.


A Marina Cvetaeva

*

Spillo di luna

Uno spillo di luna

viene puntuale

dove torna a raccogliersi

la docile sponda di lago

rappresa. Natura che ricrea

natura nostra, scissa

di orifizi e contrasti:

quell’arso incanto

che in acume denuda

e notte, tende.

 

 

*

Come alberi abbattuti


Sono come alberi abbattuti

prima che possano alzare i rami al cielo
coperti di fogliame, frutti 
germogli
ancora pieni, d’improvviso stesi
senza il tempo per una resa scaltra
senza poter tendere le radici altrove

 

sono come alberi scorticati vivi
messi in gore di pietra
presi dalla terra, dalle formiche
da un fiume fermo di sterpaglie 
e ruggine.

 

(una piccola voce per le vittime di Genova)

 

*

Di tanta sabbia

 

un solco, un sasso lanciato

un cerchio di tanta sabbia

qui grata al silenzio

che frammenta la musica

inganno l’attesa

*

Roveto

 

 

Bosco di gridi

eco meravigliosa

Dei rami giunti

nodo che mi respiri

Che siano labbra

o bragi di parole

Tu mio supremo rosso 

nel cuore del roveto

*

Trina bordeaux

 

si riversa il sereno

 

ci sfiora il fragore dell'ombra

 

strema il dì fiori dal labbro

 

ma poso la mano sul vetro

 

la piccola trina bordeaux

 

 

 

*

Extrañe

Così succinta una parvenza d’ali

brilla insolente un mormorio d’estate

 

l’ultimo piano

porta a un vuoto di rondini

 

si rannicchia anche l’ombra

in magrezza di sogni    

*

Dove io perfino manco

Avrei dovuto essere stringa al tempo

in schiere di richiami portarti a me

da un’antica selva d’oriente

 

e dal sognato, dalle chine aspre

dove ho lasciato un po’ della mia ombra

memoria prossima alla pelle.

 

Ma sempre qualcosa fugge l’impermanenza:

cosa sei per me? cosa hai fatto agli alberi

le cui gemme dispensano vaghezze di occhi interni?

Autrice delle spine, è questa l’arte

che scioglie balsami di aranci amari

 

tutto di me si fa apertura,

a piccoli morsi essenza e cura

sommuove il fondo, posa

dove io perfino dal corpo manco.

 

Poesia presente nell'antologia Proust n.7 - Il profumo del tempo 

e-book n. 217 pubblicato da LaRecherche.it.

*

Come uno strappo dorato

uno di quei giorni
che s’interrompe il respiro
indecifrato nitore riaffiora
della parola taciuta- rimani
agogico pulsare, ancora
ti ho visto in un salto di luce
e non c’ero, non io
la chioma al tuo vento
come se si andasse
come se non si tornasse

*

La baia delle balene

Avanza nella baia ad origliare il nulla

il suo cuore d’alga, s’incupisce

di quanto inverno copre le acque vuote.

Era uno di loro, la mano di lama

violenta tra code arenate

pietre dopo che il guizzo,

ultimo, donava il suo rosso

al sonno imbelle e sinistro.

Lo annienta il mare

la squama enorme impacciata

che rimescola, silenzia, torna sul fondo.

Un’onda d’oceano

accorre e non dà sollievo

ricacciata in bocche di sabbia.

Lui la segue, con il lamento di tutti i lamenti

di madri, figli e vecchie balene

pronte a morire dove si piega, in pace   

la musica del mare.    


L'immenso corpo ebbe un soprassalto, poi si immobilizzò in superficie, girato su un fianco, mostrando il dardo dell'arpione, mentre nella laguna la macchia scura si allargava, circondava la scialuppa. Stranamente, gli uomini erano ammutoliti. (J.M.G. Le Clézio, Il posto delle balene).

*

Stele di sole

Stele di sole volevo
coglierti da una sirena
puntata al petto. Dalla trottola
veloce dei miei passi, dentro
un forcipe sottile di finestra.
Vuoto campo d’inverno, spio
il tintinnare dell’albero
che non spiega la natura
di altre paure, come ci attraversa
un filo smarrito giù
nella voce.


Ma all’attico sali
tra minuzie incantate
e un nesso dove credi,
vieni anche d’ombra
-se la notte
cammina nel giorno
nel suo modo magnifico
di nascondere gli occhi
porta tutto qui
e uno stiletto acuto
da aprire il tutto
e far piovere nuvole
di lillà sui cuscini.

*

Miniature

Il sapore di ribes alle labbra

-sono le tue o le mie?-

e il groviglio del sole

m’imprigiona gli occhi  

 

salpo alla finestra sulle punte…

non si sveglia la stanza, se posso

 

Sembra una foresta la scia di rondini 

passa il grido e fa a strisce il cielo

 

sembrano convolare a nozze

quei due ciliegi, fatti l’un per l’altro

 

poi lo sbadiglio mi dice che è un errore:

sono solo voli e fiori magnifici

voli liberi al mattino

solo fiori magnifici

solo magnifici

solo fiori

solo

*

Raccogli

Raccogli quei capelli, l’acqua continua
a defluire, la voce generosa
che reclama: traspare.
Sfuocato taglio dove si genera
la felicità, il tempo è poco
e l’occhio va al disordine prima di partire
ti dici è presto col mare in cuore
e poi sistemi un libro, calze che gli piacciono
strappi alla rosa un petalo
il bacio di ricambio -credi?
non sarà un tombino che l’accoglie
sotto una suola
profumo di disperso per lontana cura
sospiro, dedizione?

 

 

*

Concettuale n.1

Sera di vita propria

isola silenziosa

 

sorprende il canto

di un merlo veloce

 

un fiore sta morendo

è la sorte dell’erba

 

va tutto liscio

l’ombra di pace assorbe

 

Ho idea di un libeccio

che arriverà dal nord

 

forse è tardi

per sentirsi normali

*

Con l’acqua alle caviglie


Rivoglio il mare

con l’acqua alle caviglie correre

dove si sfrangia il giorno

perossido d’arancio e blu

quel mareamore che mai si assesta

e già mi spazia

in un discorso di fondali

un “vieni” di apertura

il trascinar di foci

che pare dire

“rigurgito di bocche d’onda

l’incanto eroso al tempo

sarà ancora tuo,

restituito”.

*

Germinare

Solo perché germini il germinare

da pietre in fumo ingrasso un gelsomino

di quell’odore in ciocche 

di quelle stringhe in luce da disperdere

ogni mia ombra dappertutto

e forma esterna e paratie dei fuochi.

*

Cado


cado

violetta dallo stelo

a far radice

dove sei suolo

e durante: brucio rugiade

 

quante notti

il non tempo d’una

che si consuma la luna

in solchi e fili,

mi piove

 

 

*

È primavera anche a Milano

 

È primavera

anche a Milano, nessuno mi può

convincere di coltri artificiali.

Sogno quest’odore ch’è glicine

tra stelle elettriche, 

sogno le scarpe di Garlando

danzarmi in via dei Fiori Oscuri.

Sogno, e tocco

il prato sotto il tavolo

dell’ I L’ov brunch

e il tuo sorriso da pancake -dolcissimo

levita, pieno di charme

e delle tue anime, tutte. 

 

 

*

Sottinteso, si sogna ancora

Com'è strano sentire

la verità dei nomi

in una stanza asciutta

vagare

Sotto la lampada

il profilo con accenti rossi

dire "ti sopravvivo"

senza nessun abbellimento

Orde di parole

le mie compagne scritte

corollario d’altra poesia

da volare più in là

della paura dei davanzali

del passo feroce che non lascia varco

Sulle soglie

ti salvo -non ti salvo

t’amo -come non t’amo

Ti comprendo e sempre

dal cuore facile non in vendita

(sicuro...) se un limo scuro

placidamente prende le caviglie

Ma qui ho peso incorporeo

recido anche lo sguardo

taglio il ponte e il dazio

mi sollevo

dal tuo ipotetico dolore da esibire

in un taglio breve

di sorriso

 
__
(poesia prima classificata al Premio Veretum II edizione, successivamente edita nella raccolta "Canti di carta" Fara Editore - febbraio 2017)

*

Aggrappiamoci a tutto

Ci vorrebbe una musica

da morire insieme

un dopo il

-tra un minutoluce dove sei?

 

non so il nulla che non sia

davvero

 

ci vorrebbe uno spartito

da registrarci, fino

allo sbiadire del segno

 

ci sarebbe mai

un’orchestra

disposta a suonarci?

*

Mi prendo cura di te


Oggi tocca a me

difendere lo scrigno delle emozioni tue

dirti solo ‘Va tutto bene’

per cacciare le spine dalle tue primavere.

Tocca a me tornare a quel bivio

dove i fili ci staccano

rovesciare il vaso del tempo-

il tempo che mi hai partorita

e non espulsa del tutto-

senza lingua parlarti,

senza piedi scalciare da dentro

per dirti che è come un abbraccio -più caldo-

e che mi prendo cura di te.

*

Avrei scritto di nespole a maggio

 

Sembra uno scherzo allineare sguardi

su soglie di luce, se a un tratto

sfioccano dintorni

e la scena si fa verticale

 

farfalle, stazionate su scure cortecce

non hanno memoria di legami con marzo

quando anche noi si mimava

la gioia pazza del vento

 

 

 

*

Il corpo docile al mattino

Il corpo docile al mattino

vorrebbe, non sa avversare

la sua docilità

ombra intagliata dai coltelli

di una coperta rude, lampada

vuota d’anima. La bella nuvola, spezzata.

S’infila stretto nelle calze, soffoca

il nudo dentro, adagio

temendo il laccio della luce.

Infila e stringe, voci d’estranei a sé

da labirinti a bracci violamaro.

 

Immagino le vene concave

in una cesta a respirare

ossigeno nativo: scende

l’uccello dall’ala azzurra

a separare il greve

-quasi ne muoio di sollievo

di là dai frangiventi, incontro

di fuscelli e solchi d’aria.

 

 

 

*

Dentro fino al vero

 

Folle di pitosfori

questa notte

-come in van Gogh

il denso, il segno insepolto -  

corrono

fragranze postume di fole

al non sentire dove

collassa il vero -solo a guardarlo.

E infilo gocce di linea franta

la pioggia a salve mai

ma agemina di flutti-anelli

poi è lo scorrere sul lago

e a dire creste, colmarci. Ché oltre questo      

siamo acqua dispersa nei pozzi.

*

Rediviva rosa

 

Perché la notte

arriva come un ebano

la prima spia che t'allontani

ombra lunga

la mano che non piego a me

 

sfoglio pagine e strade

dov'è una porta 

che soffia vento e un poco l'oltre, 

al guscio

 

respiro per respiro

due cotiledoni

dell'acqua e aria

e la radice, carne

di rediviva rosa

 

*

Perfino le tue sillabe d’erba

Trasmuterà, la bianca ruggine
ancora anello intorno ai colli di piumette
a gradazioni al blu,
per intuizioni di giumelle
giadasmeraldo il fiume sbuca.
Perfino le tue sillabe d’erba
si allungano invisibili -non smetto di ascoltare
ebbra al meato sporto a primavera.
Ma noi: non siamo
avidi filamenti nel verde di fanghiglie?
Un ansito, il frinire d’acqua
sulle acacie, siamo?

 

 

*

Briciole incandescenti

Quanto sia vera

questa colonna alta

luce vuota di immagini.

 

Quanto non sia, vorremmo, mentre  

la gola stringe dove si strappa il sogno

e non fa più primavera   

vedere i fiori rossi nel bruciare

da civiltà in preghiera     

dove si affaccia un astro

 

poi va a svanire dietro fantasmi lievi

-volano in vesti di bambini-

e ninnoli che allietavano il sonno

lasciano a terra briciole

incandescenti. Quelle,

non spegnetele mai.

 

 

 

*

Tarsia di freddo impuro

 

 

Canto d’inverno

 

Così vediamo nascere un inverno

con i gemiti d'ascia sulla luce

il rumore e di colpo quella pioggia

d’ansia di assalto estratta da una tana.

 

Il nero omozigote di gemelle

ali contrite in lividi fruscii

senza groppo delle ossa si richiude

fedele all’occhio cieco su nel varco.

 

In sintesi di graffi dai recinti

l’aria di lutto a velo che mortifica

lo sguardo tra le polveri -un’iperbole

silente e fragile, autarchia del bello.

 

*

 

Cartolina dal mare d’inverno

 

L’onda non vive che un attimo

il senso di perdita soffia alle spalle

sabbia dura, cemento.

Basterebbe solo imparare

a solcare una mappa

spartire acque

fin dove ci confina

il muro d’alghe.

 

Basterebbe imparare

a non voltarsi

cedere all’onda

che muore a se stessa -quel grigio

pavesato di luce.

Al vento sobrio

che bacia la mente,

l’annulla.


*

Sdrucite righe


Sdrucite righe

palesano segreti

al raffio della mota.

In cave d’ossa annegano

gli inchiostri e la necropoli
del tatto torna 

ambra d’incantamento
poi che la nuca s’è voltata 
ma Euridice

sul piede stava molle,

da cerbiatto.

 



 

 

*

Profumo d’orme

Amo vederti arreso alla gioia    

tra le ciglia e le vette

nel vano aperto dell’estate

come a cogliere more, persi noi

lontani dai condomini.           

Lingue morbide, risa azzurrine

nelle braccia troppo larghe

di questa poesia

al presente fantastico

dalla voce trascesa a fil di pelle.  

Il prima e il poi

che esce dal silenzio

le stesse cose, intatte

da accaderci una nell’altra   

via dalla terra.

Nel dire vieni, attesa

molle di ossa

al profumo d’orme.

 

 

*

In calici del vento


In calici del vento

forme al confine con le nostre

aria e materia

tutt’uno imperturbabile

si librano

al tempo ritrovato

libere

dalle afasie del vuoto.

 

Scaliamo le montagne col pensiero

meraviglia d’essere in due qui

antipodi riuniti in foci azzurre

a un sole esteso

che asciuga le paure.

Che ci trattiene dal cadere.

*

Impastare grano


Sinergie positive nell'impastare grano

la palla è liscia da sembrare pelle riposata


le mani si perdono, assorbite dal flusso molle
del tempo. Sono morbidezze in umida grammatura,
arte meccanica con retrospettiva in appunti scritti


un piccolo quaderno di trent'anni 
dalla grafia inclinata in avanti 
e segni di vecchie lavorazioni, asciugati dal phon.

*

È appena tutto

È appena tutto

un cogliersi carene

tra due steli che incurvano

per mani scompigliate per arruffati solchi

le schiuse d’umido negli esodi

magnifici di cellule - ai calici

sfiora una luce d’acqua

da schegge spettinata, piove

ogni neve-sciolta-poesia, mi scopro

d’intorno a te come giardino

visto dall’alto color magenta

che non s’intende di botanica.





*

Santa Sabina

 

Liscia

di pietre, acqua e brezza

armonia rilucente

 

un osanna blu

privo di appartenenza.

 

Solo l’alba assorta, la torre

i lineamenti dei gabbiani,

solo linee di pace

nel canone dell’eternarsi.

 

(Il tempo)

il tempo posa qui
ma non dimora

è rituale di sponde

mappa reale, rarefatta

che spinge a noi i Balcani. 

 

E sembra siamo nati al largo

tutti

limitrofi d’immensità

uniti i tratti: quei monti

con le dune nostre

scolpiti in ruggia d’onda

al fianco stretto del Mediterraneo.

 

E siamo nati qui sicuro

in una lingua barbara

più larga.

*

Vista d’interni

Degli spigoli vivi

affilati alla vista

pure i cardini privi

della luce che dista

 

in mollezza di tonfi.

Dalle camere vuote

straziano in echi, gonfi

delle gracili immote

 

carezze incise ai lati

del buio. Spinge l’ora

a stremarsi, brancati

 

steli al graffio di bora

dilateremo i fiati
come essenze d’aurora.

 



Sonetto in settenari ABAB, CDCD, EFE, FEF

*

Trasporti

Cos’hanno gli occhi tuoi
collisi con l’acqua?
 
al parossismo di una mezza luce
falene da ardere
che nemmeno l’estate
freme di tante spezie.
 
Lume, trasporti nelle crepe
-dimentico i miei quadri
di nature morte-
 
da prima di anticamera
vedo ortensie lì
ad attendermi
le ossa germogliate
sotto i miei volti
alterni
da uno stupore di epiglottide
a nostalgie mesmeriche
 
e già divento ciglio alato
su transiti di assenze
le mie care ombre
di quando il sole è calmo
e un antro, seppia.

*

Primo acrostico dell’anno




Canone inverso il fumo


ad ogni senso resta 


poter soltanto amare,


oggi che un grido scava  


dove l’incerto palmo  


adorna il rosa, ovunque cada


nessun’ombra sia cieca.


Non ho braccato che una stella


o lo stupore che sembrava.

 

 

 

*

Un lusso

 

 

 

È un lusso

lasciar che penda

frugale e chiara

una stilla, una nuova

dal fondo.

Si sporge un viso

malgrado non volessi,

cos’è, domanda muto,

e sospetta che i treni

per quello esistano

-sempre qualcuno

in mezzo alla folla che torna

con un filo di freddo,

perché.

 

 

 

*

Dove?

Poi  
tu solcherai le strade
io a ridosso il cielo
il nord sospinge il nord
come ombre e rumori

torrenti d'occhi
dove "Sono qui" dici

e giù l'hangar di luce, quanta!
con l'illusione che lo spazio
allenti sopra sotto
avanti indietro
e forse neanche una parola

ma l'aria, quella transfuga

dal freddo nei rossori
già chiara, avvolge.
Il dove che mi sbanda
in vuoto a sterno. 

Dove? -mi sei da scia
un'aporia di vicinanza
mentre il paese 
là disteso, dorme.



*

Affacciare ali

Mi metterei fino all’epifania

ad ascoltare i legni

donandosi bruciare

dentro muri di pietra il cuore

nel non sentire i campanelli.

Hanno portato nastri d’oro

e vino, sarà comunque festa e chi

non si stupisce della luce spezzata

rompe noci e gioisce

al dubbio dei contrasti:

la notte quieta -sembra

sotto una stella insanguinata

d’oppio e sorrisi, ch’è fin troppo facile

“l’amore è dentro te” se un nodo

di dialoghi e silenzi implode

idealizzato in verbi all’infinito

-sentire, cogliere.

Ma bisogna affacciare

ali, liberare, correre.

*

Vassoi offerti al Natale

E se ora fossero più dolci

i nidi in pastafrolla 

in fila sui vassoi

dopo che mani sbocciano

profumi di finestre verso il cielo,

in orli di campane un rilucere

d’intonaci, un impasto di pietre

 

Nelle ore di Natale, prossime

d’abbondanza in mense

se mandarini e resine

sento bruciare

nel timore dell’aria

che ha assorbito colpe

sotto astri d’ogni provenienza

 

lo spirito brandisce la parola

porta Betlemme in voce

su terre aride

a estorcere un palpito di bene,

finanche il caldo

dai nostri maglioni spessi

esca allo scoperto

in trama d’abbraccio