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Raccolta di poesie di Robert Wasp Pirsig
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Essere combattuto

Si sa che nell’erba ‒ pure incolta o ignorante ‒,

le greggi muovono le mandibole più che l'occhio 

del ciclope. E siamo consapevoli che il ciclone

è nell’aria una guerra tra elementi cosiddetti

avventori del locale. Ma davvero davvero ciò

che entra nella carne prende sapore a memoria?

Questo mi chiedevi, Antifo dal bianco chitone,

e risposi con una gemma da orto retore: e se Paride 

avesse informato il re padre delle sue intenzioni, 

più che informarsi della regina da ratto, quali dei

tanti sarebbero ancora con noi?

Il sangue non è aereo ma schizza nello spazio

spinto dal cuore oltre il necessario, se tanto tanto

se ne fa mansione. Uno shuttle lanciato nell’orbita 

di pachamama, che mi piacerebbe conoscere, Antifo. 

La tua linfa cola dai denti del monocolo gigante 

lì impalato per avere tregua. E fu la fuga a renderci

soli con tutta la luce che venne dopo.

Come ti dissi sul pontile, quel che atterrisce 

nella partenza per la guerra è di farla 

in tempo. 

 

*

Paradono

La sensazione è che nel giardino di mio padre

un pezzo di terra somigli alla luna, e adesso

manca (non la terra nè la luna). 

Tanto sporadica vi appare la vita che la motozappa 

è un lusso. Eppure lo spazio è fecondo 

ancorché pieno di polveri che si aggregano

nei telescopi.

“Quindi ti dico, Polite, amico mio, cerca la terra 

che ti portò a bordo con il bagaglio di guerra

e rendila fertile per la lingua naturale dei volatili

e per ogni genere di vermi, uomini compresi,

ma non credere alla salvezza che lo scudo 

offre: quello sbarca ai porti solo le ripartenze.”

Polite, demone di scoglio, accorto nello sguardo

amava la donna che mi amava e io non amai

più del viaggio tra millemila ignoti, così lo interrammo

in quell’orto mentre annodava all’albero di maestra cime

venute dall’altro mondo. Intrecci di battaglie

tra colpisci e schiva, affonda e strappa, fino

alla Mustang verde lasciata in dono sotto le mura

e che nel motore aveva uomini affamati di marmi

e bronzi.

Un bagaglio di corpi straziati e colpi strazianti

che quei doganieri non colsero nel mental detector.

Paradosso del dono: la sorpresa

non è sempre una gioia. 

Come la sorte.

 

*

Fregata

“Non mi fido della resistenza della costola, 

Euriloco, perché la fiancata vibra per cedere

al torneo dei remi.” 

La mano erpice sull’impugnatura usa il fulcro 

dello scalmo per tirare a sè il mare restio 

a qualsiasi solco (la marea, per definizione, 

si muove se viene attratta dalla parola lunatica, 

o anche se riceve una spinta pari al volume 

che la segna.) 

Lui, Euriloco, preso da una mosca inseguita 

a scarti del capo, improvvisi quanto netti, 

- quell’attenzione degna di miglior preda -,

non aveva altro che reagire ai fastidi.

Un poco a memoria e tanto per l’umore: 

come l’amore… quando l’hai assaggiato. 

Gustava la prua da polena, Euriloco, e apriva 

il libeccio come le fregate sanno fare, gonfiate

e rosse con la magia dei corteggiatori: in ogni 

vagabondo si trova una direzione che fa gola.

Fanno leva sulle isole come la gialla stagione

dei mosconi. Oppure le gocce di sudore. Pieghi

la schiena e la rialzi per attrarre a te il vogatore;

e questo sembra il bel presente: lo sforzo prende

lo spazio tra il ventre e un mondo di carnieri. 

Chi si apre non vede meglio, perciò anche in terra

seguiamo chi è in voga. Tra tanti elementi, 

Euriloco, arma l’anima un soffio 

dal mare abbandonato. 

 

*

Alla prima uscita

Attua la risalita dal tronco la banda 

delle gemme a scoppio come venne 

viene marzo a giorni nel solito giro 

di attrazione tra i corpi celesti e non

previsti dai massaggiatori dell’orto.

Quanti ne saranno? Anche tra gli astri 

sono innumeri i rovesci di atmosfera. 

Proprio quella giusta non si vede.

La razza umana è davvero una replica 

di ciò che la sovrasta, perché cadendo

i frutti restano nel perimetro della chioma

cannibalizzati dalla radice. Così va il grosso 

e il piccolo a perdere gli anni nel fiore 

degli anni da finire. Oh che meravigliose suzioni

ci aspettano per tornare in circolo! Dai capillari

alle barbe è come passare in salotto dove solo il sofà 

ha fede nella distensione quanto nei congedi.

È battaglia per l’idraulica in quelle trincee: 

se ti appoggi a pena, le palpebre serrate 

fanno incubi su due piedi. 

 

*

Silenzio a parole

Poggiato alle pasque con l’agnello 

di glassa e mandorlato per tenere 

a freno la lingua al servizio degli occhi,

troppo vivace e già fonte di strepiti 

di lungo corso, stava l’uomo 

con la gamba incrociata alla caviglia, 

come se gli arti fossero inferiori quando 

si incontrano e superiori se si tengono 

mano nella mano.

Sia detto, perciò, che la coscienza del sè

non ha niente a che fare con i trascorsi 

della bocca ma da quelli toccati di persona. 

Diventa essere lo strepito e si cuce 

ai bronchi con il filo di fumo a piombo, 

proprio lì dove vorresti avere un bruco, 

segno che per introdurre echi nel silenzio 

occorre fragore di consunzione. 

Ossia ruggini dall’umido dei desideri 

che hanno fatto le balaustre in cuore.

Ma se si scioglie la caviglia, se la gamba 

funziona, al diavolo la posa, urlerà 

la pasqua in gola!

La mia generazione ebbe i fiori 

con millemila comunioni. Fine della concorrenza. 

Condivisione, perché la concorrenza esaspera 

la solitudine più della velatura nel fuori onda. 

Oggi decollano i pamphlet delle rivelazioni.

Per questo gli aereoplani creano il flusso d’aria 

necessario al volo mentre gli uccelli fanno meglio 

da stormi. Si dice sia capzioso ogni silenzio, 

ma dietro lo strepitio della memoria 

come nella dissoluzione dei sogni 

c’è un dialogo muto o un foglio 

che fanno le veci, messa in conto 

la potabilità della parola.

 

*

Con le squame nella rete

Liberaci dalle maglie della rete o tu 

che porti sul carapace l’endecaverso

cui non dobbiamo il verbo e il bacio, 

ma il flusso e la gabbia. Fai che non sia

la parola il tragico croupier e le promesse

spuntino nelle misure d’acqua come i bicchieri

e la lingua, che per questo si pone da terra. 

E la terra, questa terra, scruta le onde

per il miele dei pesci ma ha perso

la cittadinanza delle sardine

per conquistare la nazione dei motoscafi. 

Ai piedi della sabbia c’erano calzature 

che facevano incespicare la risacca. Figure

perse o lasciate con l’orizzonte contratto.

Per fortuna, e per liquidità disponibile,

l’onda porterà la soglia marina più avanti 

e la terra, questa, sarà scoperta dai tetti. 

E, lì, il giovane avanza.

 

*

Gigi

Stanno scomparendo i miei sorrisi

dai visi che li avevano portati al mondo 

come identità di spirito. 

Si stanno riducendo i nomi da cercare: 

sulle porte e nei portoni cambiano 

le voci ai citofoni.

Gigi è un dente della vecchia città 

che ricordo di nuovo, forse perché 

adesso lo avverto con la lingua 

caposaldo d’amore.

Ah, che mese gennaio che ha spento 

luci e amicizia in corso! Ingigantivano

le feste dei datari e le date guizzavano

senza contenersi al largo. 

Ma adesso il golfo fermo si accosta

al tuo scoglio con il suo marmo bianco.

Dall’ultima volta i cristalli del sale

pruriginosi attestati dell’acqua

si trasferiscono in lacrime

testimoni della fortuna 

di averti in corpo.

  

(a L.L. - RIP)

 

*

In cima al calendario

Siamo nel primo foglio

del calendario. Siamo lassù, 

tra i fori che testimoniano 

lo strappo o la giravolta

dei mesi accartocciati. Siamo

a cavalcioni dei flûte di rigore.

È la prova che in quel punto 

lo spirito dichiara il sangue 

un buon trasporto e mischia 

il capogiro con un rigurgito

del cambiamento mai avvenuto. 

 

Poiché è visibile il mondo 

dopo il diluvio tergiversato,

posso affermare che noi siamo 

lo scroscio peggiore venuto 

in terra - nessun’altra terribilità 

è stata così tanto invasata.

Nell’improbabile visione 

della colomba nella cerchia 

degli ulivi, la verità dei rami 

sta nella bocca dei cannoni

dove i falchi beccano pallottole

mentre l’anima rincula 

e i bossoli vuoti sono espulsi 

come fronzoli della ragione. 

 

L’uomo seduto accanto a me 

rifà il brindisi fino alle lacrime, 

senza pietà. Ha chinato il capo 

perché fare la festa a qualcuno 

impone che solo alzando il gomito 

si lascino i ruderi in pace.

 

*

Impiccata all’alba l’ex sposa bambina

In alto staziona il piombo dell’acqua

e sotto il timore dell’onda che dona l’invaso.

Di sicuro una furia lascia il segno

della stessa taglia. Comunque sia, 

poco cambia se non cambia l’abitudine 

di punire con malvagità il dolore 

che ti procura ciò che non comprendi. 

Pare scontato, ma è difficile spiegarlo 

anche in cielo che tutto comprende.

 

È inutile la violenza dell’uragano

per scardinare le imposte. Un battente

alla finestra si riconosce dalle nocche 

brutali piuttosto che dall’usura delle cerniere. 

E pare non si asciughino le lame sul gocciolatoio 

con la stessa aria dei polmoni, ma di taglio 

diverso: il mordente lascia a bocca asciutta. 

 

Quando castighi infliggendo privazioni

rinvigorisci la disperazione che porta

alle conquiste. Le conquiste sono colpi 

sotto la cintura, dove la lingua si riduce 

all’articolo maschile presupposto male. 

Voi vorreste che l’uragano e il suo piombo, 

ligio alla vigliaccheria del precipitato

dall’alto, violento fino all’atterraggio, 

dimorasse in cucina, al vostro fianco? No? 

Non lasciamo che ci faccia strada.

*

Quindi punto il dito

Dalla sua posizione il computer

risponde congiuntamente all’uso 

delle dita e alle corbellerie della

mente. Come questa che segue:

l’umanità, quando viene colpita

dalla sua stessa ferocia, si strappa 

la pelle ma non scopre gli occhi.

Naturalmente, non tutto è dato:

questo è a conoscenza anche

delle macchine. Le macchine prive

di dubbi ma zeppe di mobili virgole

che le biblioteche hanno ceduto

in conto capitale, a titolo perso:

in formazioni come per migrare

contenuti a più continenti. Dando

le spalle al cielo, il pianeta oceano 

accetta isole sintetiche e le solleva. 

Da terra, dove passano gli eserciti 

in calore degli imperatori correnti. 

Noto come le truppe in assetto di foglie 

non fanno gli stessi passi delle marce:

cadono verdi, mimetizzati a morte.

Li coglie la strada priva di segnaletica 

orizzontale che indichi la direzione 

del fronte e la corsia della pace. 

Se per questa necessita l’intelligenza

meglio mantenersi al naturale.

 

*

Per aspera ad aster

Guardavo l’aster tra i quasi troppi

anni nel giardino che conta. L’anagrafe 

è arida: a ‘sto punto la stagione è desolante. 

Svetta il numero ecumenico dei decenni, 

una frana ha spogliato il fianco, la pietraia

di pochi giorni muta. Come si racconta 

è la roccia scalata per scavare una buca. 

E in quella buca ci getta la mancanza 

di fiato sopraggiunta.

 

Nel giardino l’aster si espone e viola

il suo traguardo. Lilla, per meglio indicare

la giovane pianta lì in persona. Quel fiore 

ha tutta l’aria per gonfiarmi il petto: 

luminoso, snello, profilo egizio, fa capolino

il mento, e la fragile raggiera finita

nella cruna di settembre per cucire

la bocca a ciò che sento.

 

Provo amore per una chioma di petali 

influente. Quando la distanza tra due esseri

supera l’orizzonte compresso dall’anagrafe,

la posa che osservi mette tumulto

nelle fibre del giusto orientamento:

una contrapposizione artificiosa

usata in natura solo dalla moka

in attesa del caffé.

 

Le lancio uno sguardo appena vivo

mentre infuria la nemesi di stagione.

Non voglio andarmene. Adesso no.

 

*

Lavoro consonante

Siamo trasformatori efficienti, 

figli del consumo corrente.

Siamo i contatori delle rivoluzioni,

abbiamo il calendario nell'orbita.

Facciamo solo letture di controllo,

noi che abbiamo contratto il male

del tempo: non coniugare il futuro. 

E non c’è un’oncia di vita nella biosfera 

che non trovi parcheggio al centro commerciale

- perché mettersi in vetrina non è male

se il bel vedere arricchisce il panorama.

Trasmutiamo l’immaginabile in commestibile,

poi in compostabile, quindi in salumeria. 

Il salumiere ha le mani legate e so

che mi leggono gli accoliti delle vendite

prima che il bisogno sia manifesto. 

Il foglio che accoglie quanto mi fa a fette  

ha un peso nell'economia della carne. 

Utilizza un albero di natura morta

che sulla carta paga il bosco.

Portiamo dentro la tara delle asce

per la circostanza delle pareti attrezzate. 

Siamo le borse o solo le cartelle, fate voi.

Gil, il mio giovane mental coach, 

figlio di altri figli, padre dei padri 

che parcheggiano in lui, sogna

ancora quei sogni che non rimboccano

le coperte, anzi, lo scoprono per freddarlo.

Per questo testo la trasformazione

in argomento.

 

 

*

Per certi versi sono già passato

Mi fa notare che la mia sintassi è a placche

e genera protusioni della spina verbale.

In pratica, la discopatia compare in parole povere

storpiando il tronco a capo,

cosa che addolora il lettore. Un obbrobrio,

per il suo gusto. Le voglio spiegare

che scrivo mela: che peccato!, ma intanto la zolla 

sulla quale insiste la regione frontale 

sposta l’espressione e genera vela: che pescato!, 

Lei obietta che è solo un gioco lessicale, non certo poesia.

Vorrei sottolineare che davvero io vedo il frutto

gonfiarsi nel vento e trasportare l'umanità

sulla riva sbagliata (nemmeno le dico che tutto nasce

dal fare rotta su Dio!). La pancia in piena forma 

gravida della polpa ora gravita

in un gioco che più di un gioco

non sarà mai.

Navigo tra le righe come un brigantino

con il sento in poppa. Serve spiegare

le parti di un componimento? Gli ingredienti

non sono quelli soliti, d'accordo, però

il cuoco impiatta a modo suo grani

carni e crocchie di angosture comuni.

Io lo faccio svuotando la polpa in vista

dell'ultimo torto che andrà in porto:

noi scemati da incomprensioni. 

 

*

Chiamo chi amo

Lascio Wyslan alla fonda sul letto

- il distributore dei sogni fuori servizio -

e sempre più mi pare Cohen, Leonard,

che da poco ha attraccato al molo di sottoterra.

Me lo sento.

I tratti del loro viso insinuano circostanze 

d'altro genere e hallelujaAtlantide: who by fire,

ma sono scrostature dall’idioma di turno, 

paradigmi di contorno. 

Il naso come il promontorio di capodorso,

sotto lo zenit increscioso degli occhi

fissati nel silenzio fotogenico, oltre il golfo

labiale, oltre le parole misurate a frotte.

Questione di stili da non prendere con le mode: 

ascolta la voce di questi - dicevo alla testa

del gruppo -, non il mormorio di fondo.

Dance me to the end of love o tell me 

the truth about love.

Preso da queste note, entro in una goccia

per scoprire se sul loro oceano versato a mano

ci sia un tifone tremendo. La poesia è doccia o scolo? 

La chiromante direbbe di seguire la linea letta 

mano a mano che il cuore viene spinto fuori

ad un palmo dal cervello. Sudo, sì: 

fatico a capire chi ha lasciato il letto e perché. 

E poi chiamo chi amo, per scrivere solo.

 

*

Non era proprio così

Ti guardo da edera, cielo a secco,

e tra le tue pietre acconciate a vapore 

qual cosa crepa.

Sarà l’altra quota o la glande miopia

che mette radici ad ogni occhiata; 

se guardo precisamente, trovo 

corrispondenze in ferie. 

Che ho scritto di te, ieri? 

Dillo per bene. Lo darò per buono.

E il chiaro dia letto, non lo scuro che tergiversa

sui connotanti. Dall’autobus passato, 

solo alcuni scendono con la mente fresca. 

Ma tutti, tutti, hanno ceduto il posto: è segno 

della ribellione degli occhi, la spina più fragile della rosa: 

e la formidabile pelle impone da petalo 

un profondo fremito. Profumo di qualcuno, qui,

che certo scriveva meglio.

Non c'è altra acrobazia nel luogo 

oltre l'agilità che hanno le tue ciglia. 

Ricordo la scintilla innescata dalla carezza: 

provocò un tremore tenero 

sulle labbra prima che il viso combattesse

l'allusione del desiderio. 

E il fragile rossore si posò 

in asse col petalo e l’ansia del testo. Quanto

durano, come insinuano freni 

in questi corpi con tanto spazio? 

Sulla schiena, campo esposto a semi labbra, 

una formidabile sonnolenza istantaneamente ritrae le ali.

Dichiaro nulla senza un buon evocato.

 

*

Formi d’abilità

La diffusione dello spazio si insinua

in una porzione di vetro a seguito

di un raggio; e sette, otto bagliori 

compaiono nell’inchiostro che ora è

spiegata alla finestra come notte 

che addensa il fumo solare. 

Che viene dopo? L’uomo è chiaro 

e taglia corto dalla parte in corsa. 

Tentenna mentre forma il vissuto 

che combacia a mala pena: in poche 

parole annaspa il vero bisogno, 

un po' annebbia.

II

Nel buio amiamo i precedenti apparsi

a onor del vero corrispondenti

a incrostazioni di polvere nell’umido

io ricordo ancora. Sarebbe tardi, comunque

per carteggiare la mente; e il formidabile 

occhio del satellite se non staziona

va come un tremo. Torniamo alla luna

per sondare l’uniterso. Un modo 

per scoprire che il panorama nasconde 

l’insopprimibile.

III

Le mie due finestre si battono il petto 

e scambiano il vento con le carte

di getto. Agitano i loro segreti; 

compaiono assi nei riflessi

di vetro: la mano vincente è la vita

bara, bara è il suo paradosso, ma

mischia le carte come un gambler 

ad ogni piè sospiro. In questo senso 

punto sul cuore e perdo la testa. 

Il cuore è un totem. 

IV

Gli idoli mantengono il legno in solido

alle credenze, mentre il sangue gira 

per la terra contenuto dai presenti 

e in seguito a scapicollo esce di taglio.

Largo, a lungo, un lago nel pagliaccio

battente. Ora il seno poggia sul braccio:

il capezzolo incoronato è preso, il raggio 

cola a goccia di latte, fa una chiazzata. 

I tuoi occhi spariscono in un battito di ciglia:

cala come una briscola sul carico cuore

in un punto perso.

 

*

Macro mondi

C’è un trucco nella materia che la lega

al mistico starsene nel nulla 

ed alla compostezza dei luoghi 

naturalmente sventagliati in noi. 

Una magia che si potrebbe chiamare 

regolamento dei corpi, qualcosa simile 

alla consegna della posta. Alla lettera, 

la notizia è ad uso del mittente, mentre

il postino può immaginare, come da prassi 

esterna, osservando il destinatario appena 

divulga la nota pur non facendone parola.

Se anche l’aprisse, dico: se forzando 

leggesse, sarebbe comunque incomprensibile

la qualità del legante che la sua scienza

darebbe a quanto riunito sulla carta

- non mostrato, ripeto, nel messaggio

ma dandone segno alle volte 

per quella ragione oscura che è materia

da tenere d'occhio: mistero impenetrabile 

dal latore del presente.

 

*

Perché tarda a venire

L’altro giorno passavo per imminente 

primavera oggi rigurgito d’inverno. La posta

in gioco è fare uno strappo al solito. 

Una toppa a zonzo per coprire questo straccio 

di tempo; e molto altro provoca l’aria aperta 

agitando merli gazze tortore colombi gabbiani 

tre rondini che si riprendono a volo mentre 

le piccole taglie provano spavento: passeri 

storni pettirossi portano il battito altrove.

Questa congettura nasce dalla immobilità

cui mi costringe la vecchia rigida sfilacciata  

pezza dove viene utile un po’ di colore

e rammendata a fiori perché, sì, la mente 

è un buon sarto, ma si illude con un po' di stile. 

Voglio dire pensa a se stessa disegnata 

in modo divino, però approssima i passi

come un marinaio di stagione in stagione 

riduce le rotte quando avverte la spiaggia

in luogo dell’orizzonte, giacché falso è 

quel calore che ora sfugge alla rete e non

basta per sollevare maree con il satellite.

Nella polvere ci sono orme che contavano

per i pescatori di frodo, cioè: fuori stagione

anche la capitaneria ha il cuore a terra.

Amata mia, ma chi parla a te, si sente ora

di parola? 

 

*

Via di fuga

Riflettevo sull’Universo, tenendo bene a mente

che sono di parte, doverosamente polvere 

sotto il tappeto delle stelle, nascosto

agli occhi di chi entra o esce dal sistema.

Come granello vorrei evitare mi spazzi via

la saggina dell’orologio che fissa il tempo

con i miei occhi, ma come respiro gonfio 

il petto nell’abito azzurro e mi tengo al nome 

che sento spesso nel primo frammento.

Anche oggi sono specchio di una galassia

al centro della quale c'è un bruco nero

chiamato Addì14aprile e un orizzonte

di emozioni si trasforma in ciò che dentro 

si chiarirà qualche anno dopo. Perciò rifletto 

in questa parte di via Torrione, convessa

perché la curvano radici fuori sede, e temo 

che il tappeto si sollevi dal suo disegno 

finché non ci separi nel tratteggio - in fondo 

siamo già contratti sulla parola. Rifletto questo 

ad altezza d’uomo, quindi da terra.

 

*

Com’è che sei venuta a bordo

Sapevo che c’è un limite nel punto che ti mento 

tra le guance. Appena sotto il labbro sporto 

in un imbuto lungimirante data la caduta

di stille: depressione che mostra resistenze, 

si racconta deserto, d’una che cumula grami 

di colpa e spinte temerarie a commetterne

ancora. “Mi fai sabbia perché la rabbia

scompaia, Tempo?” E mi sposto dal venerdì

alla nuova settimana in un amen in pronunciato.

Lei di molti anni ma di molti più giovane, 

eppure così prossima da venire a bordo. 

A momenti la moltiplico per ufficio, siamo ora 

e sono per pochi momenti. Sfuggo al cielo 

che mi bracca. Ho l’aspetto di un ladro; 

e quella del derubato. C’è, tra noi, più aria 

che prigione, però i polmoni sgomitano 

per contrarsi e lo sterno fa da perno. 

Niente di troppo, beninteso; tirano come idrovore 

il tuo fluido che mi è necessario. Non bevo più

da me, per l’inguaribile siccità della vecchiezza:

la precipitazione dei giorni evapora nel buio 

così dentro di me io levo te.

 

*

Vorrei prendermi un po’ di tempo

Vorrei prendermi un po’ di tempo - dagli anni

in disuso. Non tanti, ma tanto a lungo.

Vorrei contare meno sul calendario, magari

con le dita anchilosate fare altri numeri

con l’aspirazione di affascinarti. Sì sì, so 

che aspiro un’aria viziata che appesantisce 

l’anagrafe e so che le date hanno porte 

aperte fino all’ora della chiusura, come nei pub

che fanno ai sobri torture con le spine,

quindi fuga dalla notte angusta, amore 

in fiamma e sparge la cenere in un soffio: 

follia, follia! Chi ama gioca al buio

e per niente perde la mano perché alla luce

non si perdona la percezione del vero. 

E se accadesse, tu saresti spenta dalla verità 

delle rughe.

 

*

Questa nuvola curva

È stata servita su un piatto di vetro, dal secolo

ventesimo e precedenti, a mezzo risucchio 

del sole o dal respiro accalorato dei fossili, sfugge 

ai nostri occhi perché teme di essere riconosciuta

e si tiene bene in forma come se le stagioni

non si chiudessero apertamente - espressioni 

in uso nel teleschermo, paradosso del vuoto 

arrendere. Così ci mostra la resa formale: la forma 

seduta stante ridotta a copritetto. Trattiene

il grigio tortora per confondere i falchi

con l’ombrello ma è familiare alla cipria

del tramonto, ed io so che non di là

verrà tempesta.

 

*

Come funziona la grazia negli occhi

 

Lui aveva perso qualche diottria 

valutando gli occhi sui quali metteva

mano a turno. “Ma questo non serve,” 

dicevano,“tanto crolliamo alla distanza 

come convenuto.” Lei, invece, si era alzata:

 “Idiota… Secondo te perché le statue

non hanno i denti?” Mormorò col busto

intrappolato in un niente si mostra per niente

quindi il tronco non è necessariamente di legno. 

Poi, versa le labbra nel caffé, sicché si sente solo 

quel che tira su dalle pieghe il contorno del corpo. 

Aveva aggiustato il letto piegando a fisarmonica

coperta e lenzuolo, in modo che ai lati

si formassero due genziane per quella finta

freschezza che corrobora la vista; e riteneva

che lo scuotimento dato dovesse essere multiplo

per rendere più complessa la ritenzione

degli acari in odore di sè. Questo pensa lui 

è il riflesso della grazia: l’amore scoperto

non sa scrollarsi gli occhi di dosso e crede

chissà che. Pensò che spesso per l’amo c’è

desiderio quanto esca, valga per il bacio 

come per chi ha bocca. 

 

*

Pensare aumenta il peso

 

Penso e mangio, addento e sono.

Oh-o!, faccio anche peggio

da buon umano che va scomparendo, 

ma quando penso e dico mordo il letto 

come se bocconi cercassi il piacere

alla lingua partecipe, precipitando

dalla balaustra dei denti - incisivi, 

credo, quanto buona parte degli accenti. 

Tonici, finché non terrorizzano il ventre

- molle per la brutta piega che prende

il fremito, fior fiore del famelico. 

Sono morsi e rimordenti da una sorta

di rumine del cervello: rimestano l’idea

che per taluni paralleli in continenti 

anche le briciole farebbero festa. 

Se smettessi di pensare perderei peso

come già feci, a difesa del reso.

*

Per tanto questa

 

Non condanno la rosa o la mora

che scelgono le spine per la difesa

e per finire vengono alle mani.

Assolvo il dovere raccapricciante 

del dolore procurato per sopravvivere 

allo strappo tra noi e la terra, se non che

le radici vive macchinano il riavvio 

delle fioriture. Sembra che si rivolgano 

al cielo da commilitoni. Come interrata 

la prima vera mente sul miracolo in erba: 

si ripete, quindi genera greggi e per tempo

adopera la santa veste verde per cogliere 

spunti di nuove generazioni al passo corrente. 

Tatto e udito dal punto di vista dell’odore 

aspirano all’universo nei limiti della radura. 

In questo piccolo spazio, dove annaspa 

l’ex uomo del grano col suo numero per intero, 

l’infinito prende parte perché tanto gli torna, 

a noi rimane la spina del nome. E nel nome

più vuoto conquista una cosa per volta 

all’oscuro che da tempo ci provoca.

 

 

 

*

Reduci dall’umanità

 

Dove c’era quel palazzone paglierino

con modanature caserecce e inserti 

indaco più volte che finestre, a stento 

si mantengono le rovine costruite 

dalle bombe. Un bersaglio a mira 

dei droni. L’aria unge l’acciaio 

per reggere il colpo. L’aria si sporca 

senza volerlo: i corpi volanti adesso 

sono artifici macchinosi e letali,

scopiazzano gli ingegneri demolitori, 

ma con assoluta perizia strumentale

eseguono l’ordine di devastazione.

Oggi è il quattromiliardesimo giorno 

che viene à la Terre comme à la Guerre

Nei parlamenti lo sparato è d’obbligo

ma la morte non è in discussione:

aumenta il prodotto interno lordo

di sangue: un rifiuto dei viventi, pare.

 

*

Le gerle colme di fake

 

Per volontà dell'odore che attrae

ci denaturiamo. All’artificio chimico

chiediamo il magnetismo, per entrare 

nel fuoco rilasciamo l’anima dai pori

come una calamita. Per questo

non reggo davanti ai fiori: non tutti, 

non sempre, mi colgono nelle rivendite 

mai altrove: ora non frequento più i prati; 

l’erba non mi attrae e temo per le api.

In realtà, temo si tratti per me. 

Annuso l’aria e credo che l’anima

sia bruco più che farfalla. Le ali 

si formano in rari casi. Per volontà 

di odorare, camminiamo coi giornali, 

ma le edicole vengono curate 

dai boss delle strade per i vincoli

che il buon dio ha presidiato a lungo

senza darne notizia ai loro affiliati.

Ora la guerra chiede i suoi certificati

e l’anagrafe li spedisce sui marmi.

Non è bastato il trasparente, il molle 

igienizzante ad affermare l’emergenza 

della luce sulle perdute somme 

racimolate dagli ortolani e dai fornai. 

Verrà la trincea? E cammineremo 

curvi in pieno diritto.

 

*

Cala la seta

Calano le azioni del gelo mentre recuperano 

le azioni del campo; in quella borsa la brina 

è un affare: investe la zolla, investe il fondo 

dei semi. Il terreno si avventa. Non c’è altro. 

Nelle buche si consegna la posta in tempo. 

La posta è il premio di sollevarsi in barba ai fossi.

Essere un prato, insomma, con una sola radice.

Ma a folate, tra mittenti e destinatari, si sciupa 

la busta nell’angolo del francobullo. In nome

della scienza, gira voce che il timbro sia falso. 

Annuncia il malessere - e già che ci siamo, speravo

che l’indirizzo non fosse il mio. Ma il male in persona

ti cerca per bene. Vaglia l’omissione del contatto

e ti trova a naso. Un segugio indiavolato.

Stamattina, all’uscita dal tunnel Quarantena, 

sul lungomare Marconi, il sole era basso

sui colli. Tanto basso che mi ha spinto

ad un colpo di testa: improvvisa caduta di stille.

Passa, ho pensato, tra inverno e pandemia

una relazione parassita che ammala, dichiara

freddo "i sintomi ti governano". Ho conosciuto

questo gelo nonostante fossi coperto. Ora so 

che se cala la seta mi comporto come pecora

alla tosatura: accettare la nudità purché liberi

dal peso e dai parassiti; e missione compiuta.

Con i suoi gradi, i miei eroi e la supponenza

degli scampati, ho tolto il bavaglio preservativo,

ho bevuto con un guscio di noce oceani

per le sete perse: amante di vita e nascosta 

nella lunga esitazione del frutto maturo

che da lontano ha raccolto i semi grezzi 

e li ha raffinati, temendo che fossero distolti

dal terreno, come si può avere una marcia in più

se mette a repentaglio anche il morso?

Siamo semi, io dico, e andiamo sparpagliati.

 

 

*

Abbiamo messo Natale alla porta

 

Non tutti. Buona parte degli usci

ramifica e regge le plastiche in tono

fruttiamo auguri, naturalmente. 

Niente neve. Me ne accorgo

perché in giro c’è gelo ma non candore.

Fioccano virus a distesa. Fioccano 

sui distesi per aria. Fioccheranno 

per correggerci? Nascono meno bambini, 

ma i Gesù sono sempre gli stessi. 

 

 

*

Sarei venuto anche per meno

 

Credo di aver consumato settantamila pasti

da un giorno all’altro. (Importa la distanza

tra questi due?) Tutto sommato, sarei venuto 

anche per meno. Ne ha tratto energia 

la bettolina rossa nel mar del torace. 

Ha avuto porti e scali a sazietà - con le loro femmine: 

porte e scale per isolarsi dal grezzo con una prece

densa, corporativa del pane e dei pesci. 

Ci furono naufraghi? No, nessuno. Nessuna

notizia fa più scalpore. In me, d’altronde 

l’oceano prende il sangue come concorrente

ma solo una piccola parte lo contiene. Quella 

delle scialuppe che usano i temi, o la ciglia

che ha tagliato le orde con la polena al vento.

Vedo il cielo più qui che lassù, e il leviatano 

come ci numera sotto i boccoli e le insegne. 

Sono un uomo a sbafo, sono stato a sbafo di persona. 

Ho messo la prua tra seni e baie, e balie 

mi hanno morso perchè le mordevo.

Ho consumato i denti ma non li cambierei

per questo. Incisivi fino ad un cento punto,

poi hanno perso giudizio con gusto, e uso

le labbra quando bacio il pane che addora ‘e muffa.

Così non temo la prossima cenere confuso 

nel legno spoglio perché amo il fumo 

e quell’ultima voluta che mi spira. 

 

*

Be one

 

Per tornare a me ho preso energia
da una buona forchetta. Quattro denti
infilati in un serto di avori cui mancano
quelli decidui per il riso. Decadenza
sul serio. In un uomo, qualsiasi umido
destabilizza l’orizzonte: diventa vacuo,
inaudito, come fiamma la gola! Più sotto,
il ventre lancia a pelli un mare gibboso
e privo di armamenti. Deserto in mezzo:
mi tocca la vela ammainata
sul bompresso. Lì è il punto,
lì è il punto sul quale cadono
gli ombelichi e criticano gli occhi.
Pontificatori! Se fosse un male comune
il mezzo gaudio mi avrebbe depresso.
Che invidia per il vecchio universo
più in forma di me.

 

*

Stramazzo

 

Gli ultimi a cedere sono gli occhi.

Perdono prima il fuoco, poi travasano

nebbia sul posto: ricordo i complementi, 

così è la memoria a sistemare particolari 

orfani come adottati in somma; va bene

finché anche bene ti va. 

 

Le distanze con le loro impalcature mi fissano 

con la peggiore saldatura: i riconoscimenti 

sono per natura estesi e, con quelle venature 

in bella vista, diventano scia, pietra 

miliare, tombali - are per ali, o alias 

degli immobili. 

 

Dentro di me ci sono soste e passaggi 

che l’orografia della mente chiama valli 

a cercare i culmini delle costole. 

Vere iniezioni: pungenti e mediche; 

il loro siero cura ma, oltre le dosi consigliate, 

intossica. La visione dei tratti persi, 

più che il sangue come si pensa, tormenta 

nel reflusso per ritorsione; va bene

finché solo bene ci vedi.

 

*

Trancio di stagione

 

Una brezza ridicola mette di buon umore

le foglie. Foglie che si trattengono 

dal lasciarsi andare in punto di morte, 

mentre qualsiasi tono acceso dal rosso 

al giallo spento dice agonia: questo è 

quando i colori diventano lingua da soli. 

Rami che non le mollano perché tanto 

è scontata la nudità che non costa

l’impudicizia in successione. Un po'

come fidarsi della pelle per restringere

il campo dell'amore. Il vivente 

si nutre di luce in un certo senso,

eppure fino a ieri l’ombra 

ha retto per bene. 

Ora ci lascia a pezzi.

 

*

Ad esca

 

L’arroganza delle calzature svela l’ottusità

della ghiaia: gli stivaletti hanno un peso

ma la singola pietra non si sente offesa.

Ostenta sicurezza con il passo in cadenza, 

ma è carenza della stessa 

se la guardia prende fiducia dalla mano

sulla fondina - che più o meno significa

il coraggio non è nelle cose 

ma le cose ne rappresentano un mezzo. 

Tempestato dalle dita, l’alveare del caricatore

ospita api di piombo. La regina è un’arma 

a colpo sicuro quando i profumi vanno 

in fiuto e diventa chivalà l’odore di altra vita 

acquattata nei cassonetti. La parola d’ordine 

è l’amo prende la bocca per la gola. Nessuno 

se ne ricorda ma ricordiamo i pesci per la risposta.

Così le notti ad occhiate sono generative 

di altri fedeli lumi, numi, o a volte fumi. 

E mi accorgo solo adesso che questo passo 

mi lascia residui del percorso, polvere di stallo.

 

*

Ad uno

 

Anthonalexis ballava sulla rena di Stavros, 

Grecia che ha sfondato il Mediterraneo, entrando 

nel piano americano perché quel cinema prende 

i luoghi che non ha dalla carta che gli manca

e li intesta nei titoli a mo’ di esca fotografica

inquadrata in una trama già scritta. 

 

Mi prese Creta per 7dì7, una volta trentenne 

- l’unico 30 con lode. E dire “mi prese” 

è pleonastico perché tutto era già 

avvenuto in una sala da pubblico notturno, 

lì senza più tornarci, ma a lungo riandando

come un prurito sull’arto mancante.

 

Calzavo delle bruttissime birkenstock

che da ore stavano in piedi sperando 

che il syrtaki le mettesse in un angolo

della taverna. Due danzatori a cottimo

usavano le gambe per riconoscimento:

fai un salto da noi, provati (in italiano grezzo 

 

ad un greco grezzo). La mala pianta

regge meglio il vento dal lato dei fusti storici.

Birkenstock e syrtaki come limo e scoglio,

ostili anche per gli ortopedici, ma la musica 

coinvolge la tensione dei muscoli invisibili 

dopo che l’hai resa nota in calore, Mikis. 

 

Resterai all’opera nei millenni che seguono, 

ma tu ripassi. Io no.

 

*

Eroshood

 

La vita è la freccia che colpisce a morte i sensi. 

Chi è l’arciere? L’anagrafe ha le sue mire antiche.

Sottrae pagine dal tuo ricco annuario

per dare attrattiva agli stenti dell'età:

fastidiosa quanto i ronzii della menzogna

che relega gli occhi a fonte di gioia.

Cos’è la gioia? Una tavola

da surf sull'onda dell'inquietudine. 

L'equilibrio è mantenere l'ombellico

nel perimetro dei piedi, così se il colpo

di fulmine è la tua vetta, meglio evitare

che con passione si precipiti in discesa.   

Torni bersaglio della vita che avresti detto 

grazia d’amore, a scanso d’equivoci

adesso.

 

*

Quanto è ubiquo

 

Il fiato grosso fa la canicola a chiare lettere. 

Seguendo la lingua mi do un tono

tra i morsi e le arcate. Nel centro storico

manca l’acqua, ma la birra avanza.

Parlare ci scalda. Stufa persino 

una sillaba. 

La pelle liquida il peso come secreto.

Denti e vocali si rinfrescano con lo stesso

sapore di mente e per saggiare il fresco, 

oggi, ho tolto ai ponti un fiume di parole. 

La zona precisa è un vincolo chiuso,

un affetto che non farà strada,

tuttavia la lingua agitandosi nel porto

schiocca a sorso e promuove le corde a suoni. 

Chi dorme ha ora il sonno in umido. 

Dopo, saprà di sudore e vapore; e un alone 

imbratterà la canotta del dubbio: 

ho ragione a cercare nell’ombra 

la frescura? Non mi pare ora. 

Posso sentire una punta di amaro 

nella confusione o in fondo alla birra

o parlando di gossip delle stelle con Gil. 

Le parole che usiamo sono contemporanee 

ma in fiati distanti a volontà.

 

*

Come parcheggio

 

Ho messo le mani tra la roba della notte. 

Il vento ha sfidato a sorte

il giorno sulle foglie del platano 

che pare di guardia ma è solo di legno, 

un’opinione che si consolida

appena diventa chiara l’ora.

Un rombo rado diventa sordo 

sulla tangeziale, direzione calma 

- che è un’altra vita diretta a boh!

come un reperto sotto le dita condite 

di pieghe. 

Si ferma ad un palmo dal polso, 

una data che ha già tutto, proprio tutto nelle more, 

i libri e il cortile, le navate e i sogni, 

roba da notte predetta e che forse 

mi raccoglie o è qualcos’altro

che uscirà in fiori.

 

*

‘Sto agosto sto

 

In un angolo in cui la luce contagia

la buona lettura, la serenità 

segue la memoria e mette tra le mani

un bicchiere che fa il vuoto a modo suo. 

Questo significa degno di nota

ma suona inutile se cerchi serenità.

Il testo descrive l’ansia non la calma.

Attendere è per breve tempo una diligenza ferma,

ma a lungo si trasforma in moto.

Cammini in vista dell’arrivo 

mentre scatta in posa da finisseur

l’orologio sul mobile a giorno corre 

per dirla tutta ma la frase inumana 

è in quanto avviene.

 

*

A fa

 

Sono qui da tempo per darmi ora 

ai ventilatori col fiato grosso. 

In tal modo la calura si avventa:

spaccia per refrigerio acqua 

di produzione propria.

Pochi convenevoli, appare scivolosa, imbratta 

di odori anche la cucina che ha già le sue cipolle. 

Da una vita 

faccio il possibile per riparare 

in un cuore freddo 

ma la mia rosa non ne vuol sapere

e imbavaglio e lenisco la zampogna dei fuchi

e cambio sacrifici propiziatori

per un paradiso fresco, di giornata.

Non so come la vigna prenda la vampa 

dal solco dei mesi e la trasformi 

in nutrimento. A me non riesce, 

sicché mi distendo nel letto.

Settembre è l’orco degli acini

ma è luglio che lucida i vini.

Tra loro a fa come viene detto.

 

*

La calma secca

 

La secca manifesta la prossimità dell’approdo, 

e mente; non viene qual ora,

come va accadendo che chiusi 

gli occhi al fresco lasci la voce 

inzuppata nel primitivo bevuto a notte fonda.

Il corpo cricchia sul cardine del torpore.

Orrendo come zuppo

ancora di sonno temo essere d’acqua, 

ma più salato, meno squamato, uguale 

lungomare preso di petto e ripreso 

dai maloamen che mi finiscono dentro.

Orrendo ad onta del letto

in condizioni agitate emergo dalla salamoia

tuttavia scrivo la calma secca.

 

*

Curiosità da non perdere

 

L’arcobaleno raccoglie i gradienti del genere 

luce scomposta a nastri in vera pelle; 

nastri da regalo privi di nodi 

che si tengono insieme da more. 

Sempre bianco come nient’altro 

il gelsomino colto dal sole. Vivaio

di fuoco, serra il celeste impero. 

La curiosità tratta l’attenzione 

con un occhio particolare. Insoddisfacente

nonostante l’organza in corteo 

il raso intubato con volant

e il fresco cotone del sorriso che gioca

sulla costa d’avorio.

Dai loro punti interminabili, le voglie

prendono le stelle con rotte instabili, 

non a vista. Si nascondono, in una parola.

Le sorprendiamo e ci sorprendono.

Abbiamo potenti visioni, ma svaniscono 

in fretta quando indichiamo l’autore.

Un dito sollevato al cielo crea un vuoto

d’aria per l’appunto. Chi altri legge

oltre la battuta curiosa delle penne?

Gli uccelli sono scrittori volatili?

Su di un muretto del parcheggio, 

una coppia si sottopone al giudizio 

dell’ombra per un po’ di ormoni:

in genere sembra un luogo comune

ma a bassa voce si crea il deserto 

intorno. C’è un miraggio in corso

e qualsiasi cosa sembri non si scompone.

 

*

Il velo bianco

 

Per adesso è quella stella turgida

dai lembi focosi a proporre lo spazio

come divisorio.

Qui intorno la rena è l’orizzonte degli eventi:

una generazione di cosiddette influenze

che illustrano pelli e perline 

come fuga dalla singolarità dei vivi e vegeti

Prendo sassi per quello che sono

e li calpesto perché scalciandoli

non mi tolgono la sabbia dai piedi. 

Rimbalzano sulla consistenza esterna

col desiderio che rappresentano: certo,

privo di freni è solo l’occhio 

- a volte aquila a volte remora;

a volte chissà cosa gli prende

per trattenersi nell’orbita del belvedere

con qualcosa dentro.

Ma davvero porta lenti il mare 

spaesato nel vederci ancora 

come ci aveva in mente?

 

*

E solo sono resti

 

 

Ho smesso con l’odio: la coda soprattutto

tende la cometa nell’orbita, io la lasciai

di ghiaccio perché si sciogliesse dove fioriva

l’acqua. E l’acqua mostrò come in un adulto

si muovono le remore. Corpi accostati  ma

di tutt’altro genere. La finisco con l’odio,

simulo in fretta il vento, sbuffo, accalco

sul muro altri rinvenimenti, figure temo.

L’estate morta cadeva dal costume sulla sedia,

scostumatamente poggiata alla spalliera.

Per questo sbandai, ma era un riccio lacrimale

con la piccola voce velata insistente controllata

da un lato, per dire prendi una legittima indifferenza

dall’odio, dalla coda dell’occhio, dall’orbita,

prendi il costoso timbro dell’abbandono

e prendi il distacco dalla mancanza di seguito

per menare passi sopra una lastra incandescente:

è la strada quando riparti carico del fervore

dell’universo - ammettendo che l’universo

si allarghi con la stessa dinamica nel vuoto

sempre - e solo sono resti.