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Raccolta di poesie di Stelvio Di Spigno
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Verso nord

Da La nudità, Pequod, Ancona 2010

Proprio qui da Vicenza dove è la clinica dei matti

nella quale mi riposo come un vecchio già da giovane

e la parola mare non suona più come parola familiare

ma solo come distanza dai nomi portati tutti falsamente

si vede meglio come la retrovia della vita

abbia ancora bisogno di un colpo di sole

che la consegni alla pace senza tanta ripugnanza

come nel silenzio delle Prealpi in lontananza

si riascoltano i morti, ora nudi ora vestiti,

a seconda del bel tempo e del vento stizzito

o del ricordo cui manca sempre o spesso

il respiro, una devianza, un freno della mente

che lo renda preciso e incostante.


*

Le due di mattina

Le due di mattina
da "La nudità", Pequod, Ancona 2010

 

Schiarisciti la mente perché se guardi la mia casa

ci trovi solo uccelli che schivano l’aria dall’interno

e senza più ragnatele e radio d’anteguerra

sembra proprio una casa qualunque e indolore,

 

e in ogni ora del giorno e della notte

non si sogna e non si dorme per un frastuono

di finestre sbattute che martellano il solaio e

i calcinacci che piovono dal cielo

ci impediscono di entrare e di restarci:

 

siamo rimasti in pochi a mendicare una legge

divina dentro libri che rifiutano d’aprirsi:

sono le tarme i veri esperti di civiltà e ragione

per orientarsi in una casa che ha cancellato,

senza permesso, ogni spazio tra le stanze e le strade

che alle volte ci portavano qui.

 

Guardiamo ormai alla terra come a una giovinezza,

una salvezza, una coscienza di non pensare

che crollata una casa anche le altre

non tarderanno troppo a imitarla.  


*

Fine settembre

Fine settembre
Da "La nudità", Pequod, Ancona 2010


Si presentano a orari in cui ognuno prende il volo,
verso le sette di sera quando ancora c’è il sole,
e con i loro gridi prendono forme umane,
un gigante, per esempio, o un volto conosciuto,
tanto che l’occhio non distingue il perché del movimento
e vorrebbe saperne di più, ma questi stormi
fanno a gara con corriere e treni di fortuna
a sparire per primi, risucchiando
il brusio dei pendolari, la stanchezza dei passi,
la finzione di tutto.

Vanno dove si disperdono altre voci,
questa volta scaturite dalle case in lontananza,
e c’è chi come noi ricorda vagamente
dove abbiamo ascoltato per primi
le parole che non hanno ritorno.

*

Il gatto rosso

Da "Formazione del bianco", Manni, Lecce 2007.

(Ospedaletto d’Alpinolo, estate 1991)


Ho una foto dove il nostro vecchio gatto è chiarissimo,
forse per effetto della notte e del flash,
e i mogani della porta d’ingresso mi riportano
alla mente i boschi dell’Irpinia, dove siamo stati
insieme al soriano dei nostri desideri.

Così è la memoria,
più visione che ricordo;
le palpebre si chiudono e le sfiora
un sonno chissà quanto lontano, forse
venuto a noi da un altro mondo a chiarirci un senso
pieno d’immagini, di me, di noi, quando eravamo
ancora uniti.

*

Congedo vitale

Da "Mattinale", Caramanica, Marina di Minturno (Lt) 2006


Aspettavo che il sole mi ghermisse
coi suoi raggi nell’umano splendore,
e che il dono del cuore disfacesse
le catene che legano al tormento
di non sapere amare.
Tra le creature al mondo,
una legge d’amore,
che sciogliesse come l’arnia il suo miele,
la roccia d’uomo che credette eterno
e santo ogni suo gesto.

E discendere un giorno alle segrete
del cuore moribondo,
e trovarvi la mano che innamora,
la silice che ridiventa sangue,
la mite virtù d’ore custodite
nell’ebbrezza dei fiati,
nelle mani che scambiano il morire
reciproco, con l’identica gioia.

Ma la festa ora sperde nei canali
i flussi d’allegria del giorno andato:
è svanito l’amore e me con esso.
Ed ora luminarie, cavi, scorie,
ricoprono il sentiero che portava
all’erta navicella del tuo cuore,
che sempre traghettando
verso me ogni tuo cenno,
ritrovava me stesso ad ogni approdo.

*

In giro

Da "Mattinale", Caramanica, Marina di Minturno (Lt), 2006


I

Che cosa è il tempo te lo può quasi gridare
questo scorcio di mare che si inforca
tra le sponde del Tevere:
l’aria che diventa salina,
lo scioglimento dei rumori in calce e fumo,
il ritorno dell’infanzia sotto l’alta
specie dell’allucinazione...
Le mura serviane hanno l’odore
e il calore
– e Roma la veggente, la millenaria,
lo capisce bene –
della casa delle mie vecchie zie,
o delle stanze dove sono nato,
e dove ora mi posso rifugiare
soltanto nel ricordo... Il ricordo,
unico luogo connesso e sicuro,
unico spazio dal quale
non si fugge. E sopravvive al mondo.

II

Alla fine del tempo,
su una spiaggia che dire lontana è poco,
verranno ad appoggiarsi
i delfini giocosi dei ricordi:
un’ombra, alcune macchie, qualche benda,
e tutte le parole che dicemmo
credendo di amare e di salvarci.
E solo questo verrà giudicato
dall’occhio inutilmente sovrano
di Colui che, lo sappiamo, muove tutto,
poco prima di un giorno senza fine.

*

Estate

Da "Mattinale", Caramanica, Marina di Minturno (Lt), 2006


I

La città d’astri è un fiore di palude -
Quando al caldo si specchiava un puntale
di luna alle vetrate attorno al porto,
l’anima riprendeva i propri tratti
nel metronomo diaccio delle ore,
- e a strappi - nella strige del metrò
si riaddensava un fumo tropicale:
l’immagine dell’orto e la galassia
fuori dal tempo e calda di tormento.
Coi calanchi che spinano la vita,
pesava anche la ruggine e lo smalto
dei fari che muggivano tra i moli,
e al centro del sentiero un solo passo
riusciva a smuovere l’afa gelata...

II

...il tuo - vedevo in fondo al rumorio
la lingua, il masso, il breve ammonimento
che la strada mutuata dai passanti
portava all’occhio curvo nel suo orrore:
una bruma d’infanzia - o il suo fumento -
disperdere la furia del minuto
nel ciottolo più basso ormai del piede
che al bambino mancava per restare;
la porta spalancata poi la discesa
a un dedalo di camere remote,
le forze ormai sepolte dentro il cavo
errante del lucchetto. E tu porgevi
la guancia a quel divino mutamento...

III

Ed ora il desiderio è più minuto,
più in bilico il balcone sui bastioni
suburbani, dove s’annienta il sole:
aspetto fuga dritto verso i campi
della carraia prima del motore.
Mentre rigiri ogni assalto, ogni moto,
città che il vespro cala in una voce
che non è d’astri, ma rullo di contrada
che sa di farsi errore quando è sola.
E mai danno riposo agli autocarri,
che forano il fumo inabitato,
il basalto e il guaiolare dei cani.
Mentre il cuore non sa se contraddire
la curva che lo muta ad ogni istante,
non so se e come arrendermi o sparire.

*

Scirocco

Da "Formazione del bianco", Lecce, 2007


Dolcezza mia di essere interrotto
nei pensieri ossessivi dalla polvere bianca
che si posa dappertutto quando a mare è scirocco.
È come se il Sahara mi aspettasse sotto casa,
e le navi che invertono la rotta
non sanno che solo una coppia
appoggiata sul muro di cinta
può lasciare una pausa in quel velame.
Niente lotte intestine nell’amore.
Oltre il muro mai cambiato il belvedere,
e mi accorgo che la campagna è rosa.

Così la vedevo da bambino,
la campagna di sempre,
rosa come le bambole di mia madre,
e rosa ancora la vedo
ma nessuno oggi mi può più contraddire.
Non la vita di tutti che mi chiama
per l’idea di uno squallido lavoro,
non un corpo di donna o novas coisas.
Su quel rosa mi sono ricentrato.
E nessuno mi deve contraddire.
La mente sceglie la sua immagine vitale
dove sente che il tempo passa meno.

*

Restituzione

Da "Formazione del bianco", Manni, Lecce 2007

È profondo il costernarsi del cielo
quando a spargerlo è un moto sotterraneo
di mani limpide e ossa devote,
piene di ciò che non hanno da dare.

Così passa una famiglia di cirri,
inglobando la propria lontananza,
e nessuno sa capire perché tanto si innamori
la pelle alla mano che la lacera,
il sangue all’ago che lo fa suppurare.

Solo la piccola Noemi impara a dire
perché la sera sia tanto celestiale
anche il dolore che addenta la carne.

Camminavo per la Tuscolana,
tra palazzi contorti di fatica,
e pini trasecolati di vergogna;
il colore dei miei occhi era il vuoto
delle automobili in sosta nel temporale.
Dovette aspettare che sparisse alla vista
anche l’ultimo braccio pietrificato
nei revolver puntati tra i lampioni
il migrante che ero,
per tornare a galleggiare nel mondo.

*

Leggenda (Lungomare Caboto - Gaeta)

Da "Formazione del bianco", Manni, Lecce 2007

Tra gli scogli e le piante
non c’è soltanto una direzione del vento,
ma anche un lampo percorso in lontananza,
un alito ferrigno,
una bocca di roccia che si sposta
e scandisce l’impronta che ogni passante
paga alla sua vita intera.

Così dovrebbe essere,
veloce, come uno scatto o un neon,
l’apertura del mondo
in quei pochi centimetri, in quell’attimo,
prima che il camminante se ne accorga
che non è solo un corpo e non ha voce
come me, mentre lo sto a guardare,
e fugga, come sempre, lì dove
può fingere
di non essere ancora transitato.

*

Memorie del Felaco

Da "Formazione del bianco", Manni, Lecce 2007

Ricordare, rammemorare, respingere
il fulcro di incoscienza del presente
con la via lastricata di praticelli informi,
una deriva solare dell’infanzia,
come un neonato abbandonato
e prostrato dal gelo e dalla brina solforosa
in una discarica di pensieri morti in fasce.

Perché sempre vengo adescato
da un’Appia millenaria o da un convento,
e la sua vita propria, con quel sangue vivente
che illumina le colline più lontane,
alla fine diventa solo mia.

Poi sempre la stessa voce,
da intruso che abita la mente
nei pochi istanti di felicità e di cielo:
«il fascino dell’antico
che niente e nessuno toccherà».
E con questo ferro battuto andare avanti.

Avevo pochi anni, nessuna morte in faccia,
mi attiravano i fiori più robusti
delle aiuole da poco recintate,
e speravo che il futuro somigliasse
a quel colore di pastrani impressionisti,
fino a quando ripiegò dallo sterno al polmone
Velia, un sintagma aperto e bianco,
su chi per lungo silenzio è imprigionato.

Fu la volta che la terra fece di me
un clandestino senza scampo o mareggiate:
mi dicevo quel giorno doveva arrivare,
ma non così presto, non in quel modo alieno,
non così vicino a casa e con la voglia
di mirare alle stelle supreme ormai per sempre.

*

La chiave

Da "Mattinale", Caramanica, Marina di Minturno (Lt), 2006

Vorrei riaprire le ante dei ricordi,
dipanare i lucchetti e ritrovare
le foto delle gite di mia madre,
il mulinello del nonno, il bulino
dei giocattoli e gli infiniti crucci
di quell’età; riaprire e assaporare
le zaffate di noce e melograno,
il tranviere di legno nel trumeau –
Ricordare di essere stato al mondo,
di avere, da bambino, conosciuto
qualcosa simile alla felicità.

Non cerco Paradisi
Perduti, oppure Origini Proibite,
ma quell’Eden dev’essere rimasto
per lunghi anni solitario, attiguo
a un anfratto di casa dove il sole
non è mai giunto; e in quella stanza morta
si trovano le corse giù al Fusaro,
le ginocchia sgranate, poi la vecchia
che filava dai giorni del Borbone,
e il fiato che di colpo mi mancava –

Poiché da allora sono fatto ottuso
che quel tempo ritorni in altra forma,
che rialzando il sudario si ritrovi
quel mondo senza macchia e senza orrore.
E ignoravo che sopra certe falle
di vita, le palpebre si chiudono
come al sole le verande di quel tempo
troppo lontano eppure già scontato.

















*

Sirio

Da "Mattinale", Caramanica, Marina di Minturno (Lt) 2006.

Vibra – sul sangue e la paura di passare –
Vibra – sul muro che trafigge in due l’andare –
Vibra – stella di ogni sera, brilla fino a siccità,
sulle spiagge deserte e le città stravolte,
sulla riva minuta dove il bimbo
gioca a fendere l’ombra del pallone.

E vibra ancora e forte nel mio sangue
che si specchi nell’alleanza umana
del bello e del possibile qui in terra,
come quando la notte della frana
da Sarno portò via con sé due vite,
Attilio e Viola, unite fuori schema –

E il tuo caldo brillare
mi diresse sulla groppa montuosa
di Nocera, e più su,
verso un cielo senza rumore,
e su cataste e morti ancora in lutto
la tua voce mi disse blandamente

c’è ancora da sperare –