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Raccolta di poesie di Mattia Tarantino
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Poesie da ’Fiori estinti’

Autunno

 

È da un po’ che le foglie sono incerte,
che il cielo non sprofonda
nelle loro vene scure, dove il sangue
aggrovigliato gira e cade.

Stamattina un passero di ronda
annunciava la catastrofe cantando.

 

*

La stanza

 

Si ammala la parola, le mie
vertebre si curvano in silenzio.
Non piove che acqua sporca,
e questa stanza è troppo bianca:


morirò nel singhiozzo delle allodole.

 

*

 

Vigilia d’inverno

 

Ho offerto i miei voti all’inverno,
alla rosa sbaragliata da una neve
che non cade, non vacilla, ma soltanto
che attendiamo e ci rinnega.

 

Da domani i bambini torneranno
a inventare nuove storie e nuovi fiori.

 

*

 

Un salmo usurato

 

Comando che il tuo cuore tossisca
timido, tra le mani degli angeli.
Poiché non fui che un salmo usurato;
il profeta dei morti e il fanciullo
che invoca perdono dai fiori,

 

chiedo in questa veglia la parola
che ci salvi dall’inverno e faccia casa.


*

 

Vorrei guardare il cielo


Vorrei guardare il cielo, ma le stelle
mi aprono il sangue e disturbano
i versi in bocca ai morti:

stanotte mia madre non partecipa
al pane che si spezza, non consente
né risate né preghiere, capovolge
tutti i nomi e li scavalca;

stanotte mio padre non ricorda
quante volte ha indovinato, quante volte
la parola gli ha mozzato la parola.

Stanotte prendo l’ago e cucio
i miei occhi agli occhi di mia madre, prendo
un piccolo coltello e svuoto
le mie ossa nelle ossa di mio padre.

Vorrei guardare il cielo, ma le stelle
le ho tra i denti e fanno male.

 

*

da Fiori estinti (Terra d'ulivi, 2019)

 

*

Luce

C’è l’acqua, c’è la pietra, e tu potresti

sprofondare nei miei versi non salvando

che una rondine corrotta:

troppa luce squarcia l’ala, troppa luce

squarcia il nero e lo redime.

 

Prenderemo Roma con i nostri

nervi curvi in cui collassa

il cielo; non avremo

che una voce malaticcia a rivelare

ciò che tramano le sillabe:

 

questa luce è lo starnuto

di ogni angelo perverso.

 

 

*

Il dolore della pietra

I morti non conoscono la lingua

del mio urlo, non hanno

che angeli malati.

              

Orfanello e scalzo, stringo

il dolore della pietra:

 

marcissero le croci avrei salvezza.

*

Dell’acqua e della bocca

Crepaccio del mio verbo la distanza

tra parola e precipizio:

all'assalto delle rose crolla il dente

che azzannò la prima pietra.


Alla notte che fu crepa di radici la mia

carne si fa carne di adunanza.

Siano danze a benedire questa pioggia

negra a capofitto nel gerundio.


Eppure la parola mi rimette

a un'acqua che marcisce nelle vene; a

un'acqua di salvezza senza mano

che la strappi o la passisca:


farfalle orrende del crepaccio, qui tentate

il principio delle cose e fu la zuffa. Zuffa

d'uovo a minacciare nel colore

ogni icona che sta al templio e sputa rose.


E fu guinzaglio dal melo alla serpe,

la parola su ogni erba e terra

di padrone, demone giallo caduto al sole

col sorriso grande e disgraziato. Sapeva dei seni

e dell’acqua piaciuta, diede al fulmine

le mani, agli occhi il sale, e fu da sempre

notte, rumore di pietre

morte.


Fu il vento a stordire le facce

di chi arrossiva nudo a luci rotte.

Dal silenzio che venero, lambisco

il disagio dell'errante, un muro aperto

in fronte. Separatemi le acque della bocca

gli orgogli e la saliva, come se avessi

terre a seppellire, un nome

che biascica.


Dal sangue del mio sangue

lamento di scoglio, si indossano

flagelli, tutti gli ori del Santo

lenzuola ancora umide.

Eppure dall'acqua della mia acqua

il fiore beato, muto, poggiato

a un morso d'aria.


Accadesse nel dominio della croce

questo canto che non strazia, e più domanda

più disperde l'avvenire della quercia:


corteccia che fu nervo, nervo

grezzo a sconquassare la ragione.

Nell'ultima parola venne a Giobbe

il cielo sulla lingua, e cose basse


che tramano l'insidia della serpe.

Dolore degli angeli la sorte

segreta del mio primo osso:


battesimi e olocausti crolleranno

all'inverno d'ogni nome.

 

---

Mattia Tarantino e Salvatore Leone

 

*

La pietra sul sangue

Primavera intatta che non cede

al bambino squarciato, allo squarcio

tracciato dall'angelo su ogni

radice. C’è mio padre


e nei suoi occhi una luce bianchissima:

pietà del fanciullo scagliare

la pietra sul sangue.

 

 

*

Ginnasio (I-II-III-IV-V)

I

Ginnasio che fu crepa le altissime
gole della veglia, dimorando
ogni sorte di ogni lume. Lume,

bianco, fuoco e sfera custodiscono
la soglia della sillaba remota,
traccia della genesi, distanza
dal martirio irreversibile.

Se prendessi tra le mani queste
stelle palliducce e ne varcassi
la soglia che annuncia la sfera, vedreste
quanto l’angelo mi penda nel nome:

non c’è verbo che trattenga il dio
che ho perduto quando ho perso la lira;
non c’è bosco in cui non gridi
di una fredda e disgraziata libertà.

E indovinando, indovinando
quale sorte mi precipita, ritorno
a ordinare tutti i fiori, finalmente.

II

La sfera che gettai bambino
ancora non crolla, crolla
invece il ventre di mia madre.

Il cappio stringe il dente mentre il dente
ancora strazia: ginnasio,
da quale stirpe d’alfabeti

uscisti a mescolare fronde e vecchie
polveri? quale grido
ti cucirà nel verbo che separa?

Rondinella dei sepolcri, cantami
questa luce che accede dal grano
e tutto coglie.

III

Vengo al canto quale bimbo d’alluccata:
ho memoria dell’ustione che il mio grembo
ebbe a prima acqua; ho memoria

del ginnasio che sventrò radice
e sfera: non v’è cielo
che dimori nell’angelo impiccato.

IV

Ginnasio che è sventura
e fa distico del sangue.

V

Cantai, cantai, cantai
e mai che venne la parola:

quando indicai, esiliando,
l’angelo che giace nella foglia, accadde
un ginnasio che fu crepa, e nella crepa
quest’azzurro irreversibile.

Troncatemi nell’ultima sillaba
che qui mi sventra e mi violenta.

*

Tra la polvere e la genesi

Nel bianco è la distanza

dell’uomo dalla polvere, della

polvere dal cielo, che si offre

capovolto e gigantesco:

 

se l’ombra la preghiera, allora il sole

è la tana del verme che dispone

e ordina: trama

il cammino della sabbia e delle terre.

 

Probabilmente la mia genesi disperse

le membra masticate dal cilicio; la

comunione delle allodole nefaste e

le tracce della sillaba, la colpa.

 

Certi cani sorseggiano alle pozze

di sangue di massaia; altri

azzannano la doppia identità

di cui è composto l’angelo:

 

l’esattezza del mio verso è necessaria

a che un giorno si disvelino, a che

tutto torni luce e si catturi

il colpevole dei verbi.

 

Vi prego, orinate

sul tempo in avvenire; sulla sorte

degli uomini giunti al fianco

di mille fiori orrendi;

 

vi prego, tossite

sul mio sangue malaticcio; sulle orme

appartenute allo strano arrembaggio

che ha il nome di nascere.

 

Perfino la tua ombra lontanissima

ha solcato i mondi e le miserie,

e non ha piede: la parola dell’aedo

è preghiera inespugnabile.

 

Il dubbio è sempre muto, la domanda

è nell’animo dismesso: ammirate

un profeta decaduto. (Il decaduto

è l’anarchia del seme condannato).

 

Verranno sette lingue per bruciarmi,

sette teste cave inghiottiranno

il membro arcano dell’agnello. Quale

sciagura in questo frenulo posticcio!

 

Dal baratro accade che lo scettro

sia impugnato da un bambino: il circo del custode

è tra il globo e la parola.

 

Un veggente quale fui è lo scherzo

del martirio della genesi; rendetemi

la distanza che separa con lo strazio

il verme, il cuore e quest’azzurro…

 

Vi prego, orinate

sulle scorie dell’Impero; masticate

la scorza che accrebbe

certe disfatte nerissime;

 

vi prego, tossite

per passire i rami all’inverno; chiedete

che la grazia del bosco adeschi

la libertà delle cose e che corrompa.

*

All’orfano

Mio figlio avrà nome

Enoja, recherà

nel ventre l’ultimo avverbio

di un dolore da seme:

 

soffrirà la stessa sciagura

bianca, della

atroce maestà dell’acqua

malata. Noi, umiltà

e arcano, invochiamo

 

l’eterno scolaro, l’eterna

gioia dell’esca: il cilicio

mortifica il verme e trapassa

la carne dell’astro.

 

Se il verso, la parola

è nell’ordine dell’angelo, è

lo strascicare della lingua sulla forma.

 

Prima che Enoja avvenga, sia

una pioggia nera sul cuore

della madre; sia

l’ingenuità del passero ferino:

 

meraviglia dell’orefice è l’ancora

vergine cerchio e la mano: v’è davvero

una frottola bianca al principio

del tutto? v’è davvero

la bizzarria d’una luce corrusca?

 

La legge è la parola, la parola

è la legge, la legge

annienta, mastica, ed è polvere

dell’uomo e della carne.

 

Fiore ostinato d’autunno, rendi

lo stupore allo stupore; avvieni

nel dominio della gioia capovolta:

 

vorrei una farfalla altrettanto

ostinata morirmi

sulla lingua, l’audacia

di mio figlio orfanello;

 

vorrei l’oro e l’argento

della prima creazione, della

menzogna il cui nome

è celato nel libro. Eppure

so che il verso è la memoria:

 

 prima che io bussassi ed entrasse la carne*

già fummo Enoja, già fummo

l’albero barbaro e il nulla

alla radice del punto.

 

Auspico, da una carne segreta,

un nuovo olocausto che sia

l’assalto dell’uomo al giardino. 

*D. Thomas

*

La terra del verme

Allora donatemi

il cerchio e la croce. Non temete

questa parola che nasce

in altri mondi, dove nerissimi

gigli affliggono e azzannano.

 

Amate anche il canto

finale del passero; le astuzie

che nutrono i morti. Altrove

è la terra del verme, ma solo

al di qua puo’ regnare col cuore.

 

Prima che carne nient’altro

che carne nutrì il fiore ossuto.

Prima che acqua nient’altro

che acqua devastò la mancanza

di forma: tutta loro è la colpa.

 

Ecco, amate

ostinati la grazia, le impervie

vie della sorte e mai, mai

la sciagura dello stare. 

*

Grande canto della Redenzione

Eppure la memoria non trattenne

che l’immagine e la torre

nera, come nera

fu la fiamma rivelata:

 

cosa disciplina il verso? la distanza

antica da un’antica corruzione?

Fu la notte onnipotente a domandare

oltre la soglia del senario.

 

Il mio aborto è il mio profeta, non è altro

che la sillaba mai stata. Altrove

mi appartenne la vocale, quella prima

del giardino in cui a tutto diede nome

 

Adamo, stabilendo la misura

del medesimo e dell’altro.

 

Ma la stirpe

scorre nei letti del tradimento

Impervio è il passo dell’amore

sconfessa i cerimoniali della devozione

  

Nessun torace scalfì un cesello

nell’industria litica del tempo

se non per l’amaro zoccolo di Giuda

se non scuotendo i calzari

acerbi

d’eresia gramigna

dalle sacra ceneri della dimora dello stipite

 

Così, questa vicenda si fa tra i bardi

tenuta insieme con spago di fortuna

e viticci di nenie

aromatiche e rampicanti.

 

Solo l’ipogeo del sogno

dipana i mangroviali

sciogliendo la porpora aborigena

su rotoli di pergamene intraducibili:

 

qualora la tosse appassisse

i boschi d’Arcadia, diremmo

che il padre del padre del poeta

ha perduto il talento del seme.

 

Ma il corvo, il bisonte e l’ariete

nel misfatto la carne dell’astro

divorano, e no, non è scempio:

 

la luce di Sirio è la morte

del grano, è la fiamma

e l’olocausto romano.

 

Necem oviumcanorum

et maestum vinum habemus.

Clipei nobis, alalà!

 

Scongiuriamo la dozzina smaltata

l’Apollo svenduto all’ingrosso delle rune

Le transumanze celate dal drappo

belano l’alterne fortune del bivacco

 

Siedi presso la vora che conduce

l’acqua ai sotterranei del tufo miliare

Concedi l’inguine

al morso del ragno

che conosce i rari nomi del primitivo veleno

 

E cedi intatto

al dedalo storto del patto omeopatico

Ca ci nu trùei lu filu

ci nu trùei lu filu

alla taranta

alla taranta

alla taranta nu ci balla

 

e rideremo della colpa, quando

ordineremo la sillaba segreta

tra l’amore e la miseria, l’altro segno

a manifesto del mio angelo:

 

donatemi la danza, il flauto antico,

intonate la parola nella lingua

che è dell’Ellade e rivela

quel che ignora questo verso.

 

Dite: “non conobbe mai la neve,

e sia questo l’epicedio.

 

---

Gli autori di questo testo sono Mattia Tarantino e Luca Crastolla

 

 

 

 

*

Il fiore stremato

Vi confido il manifesto dell'angelo,
l'appello alla rovina del cielo:
 
vennero tre gazze, offrendo
l'antico stupore del volo
e non fu che il precipizio
alla fine dell'erba, ad accoglierle.
 
A un tratto una stella segreta
cadde loro nel becco:
è primavera se dal sangue
spunta un fiore stremato.

*

Ciò che è prima

Nominare, ecco, non il nome

voglio; rivelare tutto ciò

che è prima: carne, e polvere

e miseria e cerchio conoscere.

 

Indovinare dall’oblio

della memoria quale

astro e quando, concepì

la nostra immagine;

 

disperdere la grazia

di quel che fu un angelo,

e il suo nerissimo talento:

 

tutto, tutto e tutto

affinché l’oro sia comune

come la malasorte.

*

Non perdonerò

Non perdonerò il diniego

del tempio, né la dama

che governa, nella sua

maestà spettrale la deriva.

 

Non perdonerò la voce

al precipizio della carne,

né mai la sorte

beffarda della luce.

 

Nasciamo nel canto assurdo

del dolore, non siamo

che polvere di pena;

 

ma l’amore non disperderlo

nella sua promessa eterna:

l’avvenire non ha tempo,

l’avvenire non assolve.

 

 

*

L’origine

I

 

Avresti pensato la carogna dell'angelo

rivoltare la luce devota alla resa

dei martiri, tra reclami di morte?

 

Mi avresti stupito all'enigma

del canto; a vocali d'avvento

con grida bambine, rimetti.

 

Avresti mai, in una lingua notturna, 

accolto la distanza dal cielo

nelle sillabe arrese, o in miscugli

di sangue fraterno e veleno?

 

Mi avresti reciso nel nudo

tentativo d'origine; quale corona

di ossa e di petali, laddove nel metro

si schianti la morte all'altare di Orfeo.

 

II

 

Collocassi il principio del demone

alla notte dei fiori, che avrei

tratto da una luce meschina?

 

Invadessi il dominio del nulla,

sospeso che arranca tra i sette

cieli di Babilonia e le cinque

concubine di un'Eva dannata?

 

E se prima perdessi la genesi

rimessa a mio padre, che nero

profeta di ossa mi assolve,

 

allora leverei il regno a febbraio

e il sigillo alla sorte:

accoglimi, strazio assoluto

dell'avvenire aborrito!

*

Eucaria

"Μαθοῦσα δὲ αἴνιγμα παρὰ Μουσῶν τοῦτο προύτεινε Θεβαίοιs."

 

Pretendo l'esilio da Eucaria,

l'accesso alla soglia del lutto:

maledetto è il terreno del pesco

 

dove la luce assolve la gioia

capovolta nell'angelo; dove

sono morte le cose che siamo.

 

Certi dell'eterno al confine

tra l'erba e la luna rechiamo

alla notte il dominio dell'iride.

 

Colei che ha risolto l'enigma

si è rivelata. Ha il tuo nome:

 

poiché fu la donna di Laio,

nello sterco del trìpede a dare

la misura alla vita quel giorno;

 

poiché fui antimercio del cuore,

perdonasti queste sillabe marce.

Separasti la mia carne dal tempo!

 

Mi dissero gamella

di malacqua e profeta;

mi rendesti nel nome

vacillante alla soglia.

 

Ecco, è nella carne che ti offro

quest'ultimo bacio d'avvento:

divenire, alla fonte del verbo,

marmorei di luce e di pianto. 

 

*

Le confessioni della cenere

Volevo battezzarti nella luce

inviolabile del monte, rimediare

un nome antico a queste onde.

 

Volevo avere acqua tra le dita

e una lingua per cantarla ballerina

e tua; ma non fui voce.

 

O non t’ebbi, e fui parola dell’umano,

o non fosti che una carne palliduccia

e persa, un dimorare della soglia.

 

Quella soglia invalicabile del labbro

maledetto e ciliegino, quel rifugio

di follia nell’abbandono.

 

Ma dammi vita e vieni a offrirmi, misera,

le confessioni della cenere…

*

Innominata

Non si rivela, madre, il sacrificio:

patto muto è il sangue.

 

Hai confessato la menzogna

della carne, hai reso

ai miscugli dell'eterno questo nome

 

rovino della metrica. Parlasti

e convenisti che febbraio

mi ospitò e ne fui disgrazia.

 

Non posso che redimere

d'oscuro questi versi:

tributarli, madre, alla mia morte.

 

Predica! Predica la messa

ultima a Medea:

 

la inghiottisti nei precordi

dei suoi figli; la dicesti

benedetta in ventre, e supplicasti

la sua assenza a cerimonia

 

del mio nacqui. Maledici, madre,

questa lingua che ti assolve.

Maledici! Fai dolore a questo figlio

che non è se non inverno. 

*

Questa luce

E, allora, non lo so

quante vocali mi hai raccolto

e fisse; quando cerca, il ramo,

un nome al suo ripiego.

 

Non conosco, nei miei versi,

le possibilità di una parola:

la vedo, è qui che arranca,

ma l’accento non lo dice

 

mai dov’é che pende.

Venisti in un inverno sconosciuto,

come tanti forse ovvio

nel suo freddo irreversibile.

 

È caduta l’obbedienza. Non la vedi?

Potrai trovarla nelle dita

in fondo all’erba, ché a stupire

i fiori li ho passiti.

 

Potrai cantarla a qualche nudo

uccello tra la neve

che fa tardi a impressionarmi;

 

potrai semplicemente domandarmi

quanto è dura questa luce:

poi mi gridi.

*

Chiacchiericcio d’astri

Potessi dare nome all'avvenire
della luce tra gli aranci;
potessi dire che è un esilio
oscuro e fisso al nulla!
 
Potessi dire all'orbita
di cimare la pecca al passo;
potessi dare alle zagare
ciò che osta al varco:
 
di solerzia darei
nel chiarire l'istinto
e dirmi tuo!
 
(Ma chiacchiericcio d'astri è tutto quello
che mi sei. Oh misera...)

M. Tarantino e D. Žerovnik



*

Preghiera (I-II-III)

I

 

E poi dovresti procurarmi luce,

dare nome alle cose e praticare

il nonostante, farmi dove.

 

Che si recida il verso, la poesia

tutta e quasi ogni scrittura.

Cadano i simboli e i templi;

che anche la croce sanguini

sulla pelle sbiadita di Cristo!

 

E invece mi lasci bruciare le falene,

dismettere l'animo, possedere

muti forse e due identità circa.

 

Preghiera: così lo dicono

oggi il canto, il miserere

e perfino l'ombra tua lontana

 

oppure qui; ma sai mi taccio.

 

II

 

Questi versi che non sanno mi tramandi

e la parola in precipizio non risponde

a nome alcuno o vanità di suono.

 

Il misfatto della sillaba, la tragedia

dell'accento e il canticchiare

assorto della strofa;

 

lasciate che la voce vi disabiti

e la terzina sia sospesa tra il parlato

e l'antico profanare della lingua.

 

Mi rimetto al disaccordo sulla nostra

caducità che si dissemina, l'aspersione

dell'abisso e del delirio. Dove luce

 

lieve lieve e demoniaca ti assopisci,

mi è straniero l'edificio della norma

e più non sono: arranco altrove.

 

III

 

Andai infine disponendo luce
e tacqui al verso:
 
come potevo in questa lingua
mortale, quasi negra,
dare somma al colore, o conferire
lecito assentarsi alla pupilla?
 
E poi a queste mura venne l'alba,
l'abisso mi corrose, e dopo il forse.
Lasciai al solo canto il precipizio
e Bisanzio apparve in sogno sprofondando.

*

Tacere alla pronuncia

Custodire il verso ricercando

la soglia del parlare e poi tacere

la parola alla pronuncia e al suo principio.

 

Che silenzio il mio giardino quando è sera

e i suoi germogli inseguono la luce

nella notte persa, e tra le erbe

i semi a custodire gli astri e il suono.

 

 

 

*

Orvieto vista da pietra campana

A Federica

 

Trarre luce affine e circondante

al limite d’ulivi, e risalire

lo sguardo al colle, dove immobile

d’altre distanze viene e giace;

 

trattenere la memoria della pietra

nuda in precipizio d’alte fronde,

che rimette all’avvenire tra i miei versi

e alla sorte della luce cui si appiglia.