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Raccolta di poesie di Antonio Vittorio Guarino
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Qualcosa che tu non dici

No, la scrittura impersonale non fa per me!

Preferisco i nomi propri di persone e di cose

e l’indecenza delle confessioni.

 

Io, la castità di una bomba inesplosa,

il pube canuto di una suora,

il passo sospeso di un idiota…

 

(Certo vorranno acconciarmi la barba,

rapinarmi della mia prudenza

frugando nei capelli croste di bianca

non curanza…

Assisterò impotente, con orbite

                                                    da niente

alla spogliazione-vestizione del corpo.

Sembrerà uno di quei film

che salvano le serate dalla noia e dalla gioia,

interrotti da promo rassicuranti 

per non cacciarci nella paura della fine del mondo.

Questa breve parentesi di futuro

non può chiudersi: è una porta difettosa,

c’è da rifare la serratura.

Fino ad allora i ladri potranno entrare,

il fratellino potrà sbirciare sua sorella

che si denuda, il  padre che invecchia

e disegna sulla lavagna progetti per i figli,

la madre che dondola e si spoglia

di ogni tenerezza o ricordo sulla soglia

di una luce azzurra che è verità e menzogna,

e se stesso, che ripete nell’occhio infinito

ogni gesto o paura,

ogni tortura deliziosa nella gabbia d’oro

ove l’uccellino stecchito riposa.

Fino ad allora continueranno

a chiudersi e a spalancarsi finestre,

si appanneranno i vetri,

si disegnerà col dito sulle tempeste).

 

Questa notte ho boccheggiato

in un acquario di lacrime.

Se Notte cade così presto…

Questa notte ho perso

la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto... solo il tatto

m’è rimasto per stringermi nel disastro

della carne.

 

Sono solo, sono solo, sono solo.

È inutile cercarti nei luoghi deserti di te.

Parlo con nessuno (la logorrea del battista).

 

Ricordi il tempo delle maschere e delle

metamorfosi?

 

Ho corroso i palmi con la luce.

 

Passati i pomeriggi delle muse,

le lunghe camminate perdute,

nell’aria d’oro polverizzate.

 

Ho educato il mio orecchio alle incipienti

congiunzioni del mondo.

 

La più ottusa delle bambole

fa il verso della tua Assenza.

Cadute le note dallo spartito,

non restano che righi neri

e in mezzo stupidi cieli!

 

Ho osservato  più volte

l’occhio avverso dei gatti

ed  ho perso il senno dell’uomo.

 

Sui vetri disegno l’ovale smorfia

degli idioti e dentro, poi dentro…

 

Era inverno, e l’inverno ha leggi di Odino...

Era inverno, e d’inverno si contano i passi

dei morti sulla neve, si disegnano

angeli dalle ali aperte…

 

Ma se notte cade così presto

chi vedrà l’angelo andare,

i morti inventare sentieri

per i vivi?

 

Non ho che diari d’assenze da scrivere

e versi che nessuno vuol cantare.

La mia camera, sempre un covo

maleodorante di fogli, verrà presto smantellata

e il sole potrà entrarvi senza pagare i doganieri dell’ombra.

 

I burattini sulla mensola

mimano la guerra dei soldatini.

 

E dunque mi hai lasciato

la profezia della mancanza,

la mediocrità della separazione.

 

Ogni orma dice - della tua assenza -

qualcosa che tu non dici.

*

Le candele

Mentre cerco di mettere a fuoco l’immagine
(due candele che parlano in una stanza –
così vorrei ci parlassimo noi due–
nella posa solenne della fiamma
che contempla l’altra fiamma – vuota,
in silenzio), le parole arrivano
sulla punta delle dita e si fermano,
la musica invece va avanti.
C’è una parola che cerca grazia,
una parola felice e una parola che irride
tutto questo... Quale ascoltare?

La musica che ho in mente prosegue
e appare il corpo a corpo col tempo, un altro
tema spropositato, illimite*, e quindi subito
confinato sullo sfondo dove le cose, i nomi,
i fiori e le città accadono e si modificano,
e dove tutto è compiuto, anche noi stessi –
già stati: espulsi, assolti, dissolti e consumati
fino allo stoppino annerito di quel che resta
e che nessuno testimonia.

Ma quell’immagine torna e mi risucchia
nel buio che la stringe, mentre le candele
parlano e continuano a raccontarsi
senza che alcuno possa intenderne la lingua–
al massimo, le si può vedere –
ammesso vi sia uno spettatore –
imperterrite e pazienti guardarsi,
farsi per poco luce l’una all’altra.

Nella stanza la musica suona ancora,
la mia mente arranca dietro le note.Tutta
la musica si regge sul tempo, e il tempo, avanzando,
sopravanza ogni nota, ma quando le note
finiscono, o nell’intervallo, chi può dire se
vi è più tempo? Dove è finito l’avanzo?

E mi chiedo, mentre cerco di mettere
a fuoco l’immagine, se le candele discorrano
di tutto questo, se conoscano il segreto
dell’attesa, o se piuttosto non siano,
nel reciproco ammirarsi, sorde mute e cieche
al buio, al tempo e alla musica, che pure
le assediano; la forma perfetta
d’amore.



* sta per “illimitato”

*

Escatologia di provincia

Escatologia di provincia


Lento, resti all’ombra dei tuoi passi;
seguirti è come attraversare il deserto:
ci si strema nel pellegrinaggio e si finisce
per avere sete.
Dunque ordini del vino al bar dei rumeni,
e sai che non dovresti bere, e so che dovrei
ricordartelo in un qualche modo, ma il cielo
si nasconde e le macchine si accavallano e
i palazzi hanno uno sguardo così triste che
sembrano delle navi...
“Domani te ne andrai?” chiedo.
Impercettibile annuisci, poi alzi gli occhi
e mi parli della notte trascorsa a cercare
di non perdere la testa, a trattenerti, a resistere
alla grottesca messa in scena dei pensieri;
della Bibbia aperta a caso sulla lettera di Paolo
ai Romani, su quel versetto in cui si dice
che tutto concorre al bene per coloro che
Lo amano, e del sollievo che ti ha dato.
E mentre indichi una ragazza bionda che passa,
la bottiglia stessa non versa più alcuna lacrima
per le nostre parole. Vorremmo prenderne un’altra
e vederla piangere ancora, ma i soldi non bastano.
Così, quando stiamo per andare, arriva Paolo
(non l’apostolo) e, miracolo!, ci offre da bere.
Per un attimo siede con noi e chiede se crediamo in Dio,
sottovoce dice che un angelo gli è apparso nella villa
per avvertirlo del cambiamento che avverrà nel mondo.
Poi si alza di scatto, portandosi il segreto dell’apocalisse
a spasso, sottobraccio o nelle mascelle che slittano
stridendo a ritmo costante.
Restiamo in silenzio,e lo vediamo allontanarsi tra gli alberi.
Beviamo ancora alla sua salute.
Se ci fosse del pane, penso, saremmo in tre a questo tavolo...
Le auto illuminano di rosso e di giallo i nostri visi,
le sigarette rilasciano il loro fumo nocivo nell’aria.
Tra il serio e il faceto, con un mezzo sorriso
mi solleciti:
“Credi al diavolo?”
“Certo!” rispondo.
“Io, invece, mi sono sempre chiesto
se a tentarli, quel giorno,
non sia stato Dio stesso”.

*

L’invito

L'Invito

Tu lasciavi socchiusa la porta,
sapevi che io mi sarei fermato lì,
con la mano leggera sullo stipite.
Ogni volta facevi in modo d'essere vista,
ma non del tutto, seduta, spalle alla
finestra, con un libro aperto in grembo,
dove si chiudono le gambe, ed il collo
offerto ai miei occhi come ponte
su cui incamminarmi immaginando
il tuo volto assopito dall'altra parte.

*

Ad Anita

I pomi amari del sorbo arrossiscono tra i rami,
ed è il segno che presto indosseremo maglioni,
al mattino, e, a sera, guarderemo dalla finestra
la nera forma delle case e le luci accese di
stanze dove la vita prosegue nel segreto
di gesti goffi e familiari, di labiali non letti

per discrezione, e di atroci tenerezze e pensieri

che il bambino sopporterà con la fronte alla mano e l'inquieto
desiderio di venirne a capo, venire a capo di ogni cosa.
E mentre considero tutto questo, tu ti avvicini
con un astro settembrino tra i capelli, e mi dici
che il viola è un colore paziente, che in esso

il rosso si acquieta ed il blu si accende,
e che non sai se il tempo passi o se il tempo ritorni;
che presto ogni mattino indosseremo maglioni

e che a sera dalla finestra vedremo le luci accese

nelle case nere e le coppie mute gesticolare

e il bambino, fronte nel palmo, pensare chissà cosa...

Il fiore cade e tu ti allontani, e mentre mi lasci le mani
con un sorriso chiedi: "Ma domani...? Come sarà domani?".