chiudi | stampa

Raccolta di recensioni scritte da Alessandro Franci
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Angelo Australi - Romanzo - Mauro Pagliai Editore

L’usignolo di provincia

Marguerite Duras in “Scrivere” dice: “Ci sono ancora generazioni morte che fanno libri pudibondi. Persino dei giovani: libri deliziosi, e basta, senza oscurità, senza silenzio, in altre parole senza un vero autore. Libri da giorno, da passatempo, da viaggio. Ma no libri che si fissano nella mente e dicono il lutto nero di ogni vita, il luogo comune di ogni pensiero.” Lo scrive nel ’93 quando uscì il volume in Francia per Gallimard, in Italia lo leggemmo nel 1994 nella collana “Idee” di Feltrinelli.
Se all’epoca ancora poteva sembrare appena un po’ sfocata, oggi invece è un’immagine nitida; come fosse stata allora una fotografia scattata al futuro.
Tanto detto per segnare una non appartenenza di genere. Per meglio dire questo non è proprio il caso del romanzo “L’usignolo di provincia” di Angelo Australi, Mauro Pagliai Editore Firenze giugno 2010.
Si può anzi dire chiaramente, almeno penso possa dirlo chi conosce già l’autore, che il caso descritto dalla Duras non appartiene ad Angelo Australi. Un narratore che va dritto per la sua strada da sempre.
Spartaco è ancora una volta il protagonista del romanzo. È già apparso in precedenza in altri due lavori dello scrittore toscano: “Dalla foce alla sorgente” e in “Zia Oria”. Si potrebbe anche azzardare l’ipotesi, viste le precise connotazioni stilistiche, e volendo anche tematiche, di una trilogia.
Dal momento che si è fatto riferimento al romanzo “Dalla foce alla sorgente” è anche bene notare quanto risulti emblematico il titolo, rispetto alla notazione della Duras. Tanto che ci viene fin troppo facile affermare quanto Angelo Australi nuoti controcorrente. Altrettanto facilmente (non solo per assonanza nel titolo) ci potrebbe venire in mente un altro noto usignolo della letteratura, e in questo caso della poesia italiana, quello della chiesa cattolica, di pasoliniana memoria (opera sulla quale si può leggere un bel saggio di Giovanni Avogadri, proprio su “La Recherche”).
Quindi Spartaco, come si capirà, non è un commissario alla ricerca di un assassino, ma un ragazzo che vive con la famiglia nella provincia toscana. Un ragazzo che insegue i propri sogni, pagina dopo pagina, con la determinazione e la forza tipiche dell’adolescenza; almeno quella di una volta. Quando cioè, in questo caso, basterà la promesso dal nonno di un televisore, se concluderà bene l’anno scolastico.
Il microcosmo della famiglia in cui vive Spartaco è come uno specchio che restituisce le immagini dell’intera società italiana, fino a rimandarne i riverberi ai giorni nostri, quasi ne scandisse, attraverso l’atmosfera degli anni del boom economico, metafore e contraddizioni.
Il protagonista riceve insegnamenti pratici e schietti, e sembra farne tesoro; li riceve nella quotidiana odissea delle sue scoperte: “Cerca di capire dove stai e dove puoi arrivare, così sarai grande anche se sbucci patate tutto il giorno.” Questo glielo dice il nonno, dopo avergli augurato di studiare fino alla laurea che non serve a nulla, gli dice anche, se nella vita non ci si dedica a qualcosa di concreto.
Le altre figure che animano la vicenda sono il padre Ernesto, il quale si vedrà costretto ad abbandonare il lavoro in vetreria, perché ormai le bottiglie di vetro sono state soppiantate dalla plastica. La nonna e la madre Giulia; il nonno Rutilio che nella sua bottega, visitata con estrema curiosità da Spartaco, esercita la professione di barbiere e di sarto, ma s’interessa di poesia, di filosofia, di teatro.
Aspirazioni e sogni s’intrecciano e devono schivare i colpi di una realtà, tipica del tempo, diversa dalla sua apparenza (e forse in questi passaggi l’attualità sembra più viva) e con il “destino” delle piccole e grandi manifestazioni della vita.
Angelo Australi ci conduce in un viaggio con la scrittura che gli è propria, essenziale, rapida, a tratti decisa e forte come quella campagna toscana che fa da sfondo alla narrazione.

*

Nadia Agustoni - Poesia - Le voci della Luna

Taccuino nero

Il “Taccuino nero” di Nadia Agustoni edizioni Le Voci della Luna, 2009, prefazione di Francesco Marotta , è suddiviso (anche se il termine sembra improprio) in tre parti e un’appendice: Fabbrica, Paesaggio lombardo e voci, Frammenti; quest’ultima sezione è preceduta da: Appendice, costituita da una sola poesia. La tripartizione del Taccuino potrebbe in apparenza ingannare, anche se ha una precisa logica nell’economia del contesto. Il solido legame che si instaura tra la fabbrica e il paesaggio e le sue voci, nel panorama sia fisico come antropico suggerisce, innegabilmente, continuità nei rapporti tra il territorio e chi lo abita e lo scambio di valori e ricchezze. Ricchezze o anche miserie sia materiali, sia di relazioni e dinamiche umane. Vi è però giustamente l’esigenza, nell’autrice, di rendere visibile questo amalgama, separandone i componenti.
L’ultima parte del libro, Frammenti, è in prosa; e viene proposta “con una certa difficoltà”, si legge nelle note. La prosa del Taccuino, invece, sembra come il chiarimento ultimo e complementare, che non lascia scampo interpretativo ad un insieme né cosmico, né atomizzato; piuttosto riaffermato da uno stile pulito e alto, preciso e toccante ancorché depurato da nostalgie o rimpianti. Il tutto espresso da una lingua originaria, come si legge nella bella prefazione di Francesco Marotta.
Fabbrica, ci avvisa nelle note Nadia Agustoni: “racconta la realtà del lavoro sul piano esteriore ed interiore.” Volendo potremmo cercare un’analogia con l’ en plein air impressionista, dove il tocco evocativo del colore lascia il posto al linguaggio altrettanto evocativo. Sia il titolo della prima sezione, (Fabbrica) sia il senso reso dalle poesie che la compongono, sembra custodito nel titolo della poesia a pag. 33: “i fatti spogli”. Non è la fabbrica della classe operaia, quindi. La classe operaia, infatti, “… non va più in paradiso”, si legge a pag. 36. La fabbrica è quella dei fatti spogli, appunto. Il finale della poesia di pag. 33 chiarisce bene le intenzioni di Nadia Agustoni espresse nelle note, e sigilla in maniera emblematica il significato che ovunque nella prima sezione del Taccuino è presente: “L’archeologia industriale ricostruirà/ il gesto intero della vita,/ ma non la brama del gesto,/ non il morso della carne, il contemplare/ lo spazio.”
Nell’”archeologia industriale” dell’autrice c’è la “ferraglia” pag.19, una “danza meccanica” pag.22, “l’usura” pag.23, “chili di ferro” pag.34, “ruggine” pag. 40. Il richiamo è forte, elegante e asciutto. Un en plein air traslato dalla tela alla pagina, dove l’apparente distacco è un vissuto intellettuale (interno nelle intenzioni di Agustoni) e materiale (esterno sempre per l’autrice).
Anche nella parte centrale (Paesaggio lombardo e voci) si potrebbe ugualmente tornare con la mente a certe rappresentazioni impressionistiche, ma forse una più vasta visione d’insieme ci tradirebbe: qui è il paesaggio lombardo con tutta la sua ampiezza a caratterizzare un’immagine molto netta, nitida. Non solo nella sempre scabra e accurata poetica di Nadia Agustoni, ma anche nei flashback che spesso s’incuneano tra verso e verso, richiamando semmai proprio quella archeologia che, prima industriale, qui si fa rurale, del paesaggio, del ricordo di esso, o delle voci che ancora restano. Vi è infatti, a questo punto del Taccuino, una più viva attenzione, forse, a quelle “voci” che si odono nel paesaggio e che sono intime, interiori, che sono, come si legge a pag. 68 “… una feritoia con vista sul tempo”.
Lo stesso stile privo di enfasi, restituito alla sua essenzialità emerge, forse in modo evidente, nella prosa della terza sezione (Frammenti). È così sobrio ciò che Agustoni riesce a dire nelle ultime pagine del libro, che sembra se ne voglia deresponsabilizzare, lasciando al fatto, al significato, tutto il palcoscenico disponibile. Questo, tuttavia, s’intuisce è il frutto maturo di un atto letterario di raro valore.
Anche quando la memoria estrae dal tempo i “giornalini” i “mestieri” (quelli che non ci sono più) le “figurine” siamo noi lettori che prendiamo contatto con le cose, come ci accorgessimo un istante dopo che ciò è stato possibile solo tramite il testo. L’autrice scompare e riappare in quella “nebbia” di pag. 109.
Per certi aspetti legati allo stile, possono venire in mente i “sillabari” di Parise, ma l’apparente marginalità dei temi e il modo in cui sono trattati, rammentano “La vita materiale” della Duras. Questi accostamenti però non devono fuorviare il lettore sulla schiettezza di uno stile autonomo e sicuro nelle intenzioni descrittive come in quelle meramente letterarie.