chiudi | stampa

Raccolta di recensioni scritte da Marco Ciaurro
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Francesco Belluomini - Poesia - Samuele Editore

Ultima vela

 

Il primo passo poetico è tornare alle origini. Vale a dire: alla sofferenza.

Michel Houellebecq

 

Apologia della poesia

 

Il libro come lascito spirituale

 

L’opera poetica di Francesco Belluomini, per quanto conosciuta e apprezzata, è da scoprire e da studiare avendo cura di capire questa ostinazione a sviscerare il verso nella vita. Lo sguardo del poeta appaga e risponde al bisogno interiore dell’io di dire, la necessità di Dire, per dirla nel vocabolario di Levinas.

Questa necessità di dire è ciò che caratterizza il senso dell’uomo, il soggetto scrivente nella propria ipseità, nell’identità di scrittore-scrivente. Vale dire che l’uomo arriva alla coscienza e la coscienza dell’uomo si fa poesia nel gesto scrittorio. Il libro uscito postumo, “Ultima vela” - è sorprendente proprio per questa tensione interna che lega l’uomo al linguaggio.

 

“Ho sempre mal compreso qual sentiero/ Percorrere per rompere l’assedio delle parole”. (pag. 15)

 

Bisogna subito dire che molti aspetti essenziali sono stati sottolineati nelle innumerevoli recensioni uscite fino ad oggi. Tuttavia, a mio giudizio, c’è un aspetto rimasto in ombra, o non emerso a sufficienza, che corrisponde all’importanza, nell’aspetto più intimo ed essenziale - di questo libro. In esso, infatti, Belluomini tenta di precisare, in più di una occasione, la vocazione del poeta. Così il poema inizia dicendo che esso stesso è “Un percorso da stato di emergenza”. Come molti hanno sottolineato, questa emergenza non può risultare chiara, però, se non è messa in relazione alle pagine finali in cui dice: “ci tenevo a tale smarrimento di mia storia/ ripagato con quello che potevo./ L’ignoto che sconvolse la mia vita [...]”. (pag. 207) 

Che cos’è questo ’ignoto’ che sconvolge la vita? Nel “Poème pulvérisé” René Char, sebbene nel modo a lui peculiare, si pone la stessa domanda “Come vivere senza ignoto davanti a sé?”

Il punto nodale del libro, della vocazione, è il cominciamento. Si scrive perché si è scritto, tautologia che non ha rimedio. Come dicevo non si è insistito abbastanza su questo aspetto centrale del libro e, per certi versi, lo si è, forse non a torto, trascurato. Ma questo è normale perché ogni libro è stratificato e innesca più letture, cosi come ogni scrittura ha più sedimentazioni. Si è, invece, sottolineato la circostanza che si tratta di un romanzo in versi (Renato Minore, Michele Brancale), che è un’autobiografia in forma di poema (Nicola Vacca, Vincenzo Guarracino), il canzoniere di tutta una vita (Elisabetta Beneforti).

Ma perché scrivere coincide, sempre, con la questione del cominciamento, dell’inizio? 

Quando l’opera ha avuto inizio lo scrittore non può più tornare indietro, rimane legato, inesorabilmente, al cominciamento. E l’uomo, lo scrittore, si trova innanzi ad un problema inaspettato: l’incompiutezza dell’opera, quello che ha iniziato in un libro prova a finirlo in un altro. Lavoro senza fine. Si può scegliere il silenzio suicida. Si può anche arrivare a rinnegare l’opera come a taluni è accaduto. Altri ancora hanno lasciato l’opera ad un amico affinché la bruciasse. Ma durante la vita non si può che scrivere, non si può smettere di scrivere poiché è “allineando quest’ultimo poema” - col tempo della morte che incalza, che si può soltanto “scrivere in forma compulsiva” per portare a termine l’interminabile. Ritorniamo alle pagine iniziali. Questo problema è stato ben identificato, come ho detto sopra, col verso: “Ho sempre mal compreso qual sentiero/ Percorrere per rompere l’assedio delle parole” (pag. 15). Ma è un interrogativo sul linguaggio che ritorna in molte pagine e ancora verso la fine incalza più di una volta nella tensione con la lingua: “Parola per parola incastonata/ con tanto di variabili linguaggi” (pag. 208) “Eppure mai dismesso di pensare/ che quest’impegno fosse provvisorio” (pag. 209)

Ciò è la considerazione necessaria di questa oscura “comprensione” dello scrivere che ci conduce alla ricerca di un sentiero da percorrere fino al Dire. Ma questo impegno nella parola poetica è anche sofferenza del e per il linguaggio, nella ricerca di un’autenticità non verbosa della parola, che ci rivela una verità ulteriore alla e nella parola oltre la chiacchiera-del-mondo. Ossia: scrivere ci cambia. Non scriviamo secondo ciò che siamo; ma siamo secondo ciò che scriviamo, dice un filosofo francese. In questo senso scrivere diventa un sentiero che non comprendiamo e possiamo soltanto percorrere per rompere l’assedio del linguaggio sull’io.

 

A questo punto c’è da sottolineare un aspetto molto importante del testo. Il sottotitolo del libro reca una scritta che potrebbe essere fuorviante “tutto me stesso in forma poetica”. Prima di tutto bisogna dire che ogni libro dà luogo a varie modalità di lettura, cosi come ogni lettura dispone di una propria ermeneutica. Tuttavia ci sono alcuni elementi da considerare. Da un lato Belluomini, in questo libro, parla di tutta la sua vita: l’autobiografia è un dato del testo. Ci parla come da ragazzo sia andato a lavorare per mare, dell’esperienza militare, della nascita della figlia, della Seconda Guerra Mondiale con i suoi fatti e misfatti storici, della Shoah, degli anni Sessanta e Settanta, di politica, letteratura, geografia, degli amici e delle affinità elettive, del Premio Letterario Camaiore da lui fondato con la moglie Rosanna e diretto fino all’ultimo nell’edizione 2016. C’è una storia, è vero, come leitmotiv che conduce l’atto del comporre versi. Come questi, ad esempio, bellissimi dedicati alla nascita della figlia:

 

“Ma costretto di nuovo di sbarcare /dopo le prime traversate/ per assistere al parto di Rosanna,/ sebbene non previsto quello strappo se tutto fosse regolare.” (pag. 104)

 

Posso dire, a questo punto, che un primo livello di lettura da canzoniere o del susseguirsi dei fatti è necessario ma non essenziale.

Tanto è vero che, a conferma di questa possibilità di lettura, è Belluomini stesso che nel libro mette, per cosi dire, a soqquadro quella che potrebbe essere definita un’«interpretazione storica» o «autobiografica». Egli ci viene in aiuto con due testi finali “Lupi di mare” e “I folli” che vanno sotto la voce di “Appendice. in deroga”. Testi meravigliosi, ma perché queste due poesie alla fine del libro? Perché questa appendice che rovina la linearità storica, cronologica e autobiografica del poema? Prima di avanzare nel commento, su questa inevitabile domanda, bisognare fare una considerazione basilare. Il senso profondo della poesia – dal Romanticismo in poi - non si lascia dire. E anche una volta pronunciata o scritta, la poesia non è nel Detto, nel dicibile ma è nel non-detto che fa emerge la sua verità oscura, profonda e potente. Cosi come in un brano musicale le pause svolgono un ruolo altrettanto importante come le note sul pentagramma.

 

Lupi di mare

 

Basta mollare le cime del tuo porto

per dare braccia e voce alle murate,

mentre la barca geme sull’imboccatura

in sbandata sull’agitarsi dei saluti.

 

Gente scolpita dai venti, lupi di mare

che danno poco peso alle burrasche: 

ma d’occhi in velo sulle facce d’argilla

ai dissolti contorni delle loro case.

 

 

L’altra poesia che conclude l’«Appendice» e il libro s’intitola I folli:

 

Su questo mare schiacciato da bonacce

galleggiano ingavonate sulla dritta

le snelle navi che sfidavano i venti

con braccia e mani salde sul timone.

 

Barche a tòrzo lasciate alla deriva

senza più vele, senz’alberi maestri,

vuoti scafi protetti dal fasciame

per scarrocciare a lungo in naufragio.

 

 

Non mi interessa esaminare questi due testi finali fino in fondo. Mi preme dire, tuttavia, che da un punto di vista semantico il significato non è univoco nello sguardo d’insieme, cioè nella sinossi poetica del verso. Altresì le considerazioni, su questo specifico aspetto, potrebbero essere molte. Una, ad esempio, potrebbe riguardare la presenza diffusa del periodo paratattico che ha lo scopo di creare l’effetto di attenzione diretta sulle azioni del soggetto, senza che disturbi il lettore - con la riflessione su altre descrizioni o situazioni, seppure accennate con qualche subordinata. La figura retorica particolarmente adatta alla narrativa, quando lo scrittore vuole essere ascoltato su un atto specifico. Diversamente da come accadrebbe con una ipotassi dove ci sono più livelli delle subordinate e dove si crea un altro tipo di espressività e di sintagma.

 

Da un altro punto di vista, invece, si potrebbe notare come queste due poesie esaltino il carattere idiomatico della scrittura poetica di Francesco Belluomini. Oppure si potrebbe indugiare sull’analisi nell’uso dell’endecasillabo, della rima baciata, della metafora, dell’anàclasi - figura retorica - e della metrica antica che serve a spezzare il ritmo della frase. Questi aspetti per ora possono essere tralasciati.

 

Invece mi interessa sottolineare come i termini da glossario marinesco siano sempre presenti in tutta la raccolta e in questi due testi abbiano una densità particolare e una concentrazione semantica e sinottica, cioè di significato e di sguardo complessivo sul poema. Mi limito alla parola “scarrocciare” che nel glossario marinaresco indica un movimento dell'imbarcazione rispetto alla superficie del mare causato dal vento. Ora la parola scarrocciare – etimologicamente, deriva da carro, carroccio ed è anche una parola toscana antica che, similmente al termine marinaresco, vuol dire “non mantenere la strada, la retta via”, ma significa anche “parlare a vanvera, inciampare, perdere il controllo emotivo.” Questa stratificazione della lingua è spesso presente. E tale ricchezza polisemica e significante del linguaggio è ciò che caratterizza la poesia e la ricerca poetica del Novecento da Montale a Caproni, da Paul Eluard a René Char, da Paul Celan a Ingeborg Bachmann.

 

Non intendo dimostrare nulla mi interessa solo far notare che accerchiare il non-detto - nell’incontro col dicibile, sia nella varietà dei vocabolari, dei dizionari, delle grammatiche, ma anche dei saperi, è ciò di cui la poesia si fa carico donandoci lo sguardo del poeta sul mondo che apre al possibile, all’altrove parallelo nella realtà - si schiude, cioè, a quello che Hugo  Hoffmansthal denominava l’«ignoto che appare». 

A questa interrogazione dell’ignoto non mancano risposte di vario ordine e grado anche nelle recensioni. Le risposte ci sono, molto spesso, e già bell’è e pronte. Esse sono preparate da una tradizione poetica, filologica, esegetica, critica e filosofica che le ha già cucinate per noi. Nondimeno i modelli principali sono frequentemente di due tipi. (Ovviamente penso ai molti articoli e commenti usciti in questi ultimi mesi). Il primo tipo di criterio sull’opera di Francesco Belluomini, ma molto in uso in generale verso la poesia - è la risposta sociale, storica, geografica o di identità nazionale a cui viene condotta - o meglio, ridotta la poesia stessa. Il secondo criterio, più sofisticato e teoretico, mette la poesia sullo stesso piano di tutte le altre arti precisando il suo valore nell’inutile che sarebbe il modo in cui la poesia – più in generale l’arte – si dà valore disprezzandosi. La poesia è inutile, non serve a niente: da qui la sua grandezza. Perché la poesia è superflua ma necessaria, cosi come il giorno e la notte. La notte e la sveglia del mattino sono il ritmo dell’uomo. Ed è da questo ritmo naturale dell’esistenza che lo sguardo dei poeti trae lo stupore per svisceralo nella meraviglia del verso.

Questo è l’insegnamento e il dono che Francesco Belluomini ci fa: mantenerci nell’ignoto, nella sconoscenza che salvaguarda la poesia da quei critici che hanno la pretesa di immobilizzala, di attribuirle dei limiti per ridurla alla loro tranquilla misura.