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Raccolta di recensioni scritte da Francesco Sassetto
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Paolo Polvani - Poesia - Pietre Vive Editore

Il mondo come un clamoroso errore

 

     Non capita frequentemente di leggere un libro di poesie e sentirsi con l’autore in piena sintonia, in una totale vicinanza umana, emotiva ed artistica da cui nasce il desiderio di scrivere su quell’opera, di spiegare perché proprio quelle poesie – fra le molte che un poeta legge o dovrebbe leggere – hanno così tanto colpito, toccato corde profonde del sentimento e della sensibilità, di dirgli “grazie” per i suoi versi, bellissimi e necessari. Perché Il mondo come un clamoroso errore (Pietre Vive Editore, 2017) è un libro importante, e per più ragioni. Un “libretto” elegante e raffinato e insieme umile e dimesso già nelle dimensioni e nell’impostazione grafica, strutturato in 34 componimenti, generalmente  brevi, spesso articolati in una o due strofe.     

     Ma di poesia altissima si tratta. Siamo di fronte ad un discorso poetico robusto ed originale, rigoroso e compatto, animato da una decisa volontà di “mettere il dito” sulle molte piaghe, le ingiustizie, le violenze che fanno del mondo contemporaneo, appunto, un “…clamoroso errore,/un enorme abbaglio, un solo,/unico sbaglio.”. Una poesia cosiddetta “civile” o “sociale”, per me poesia e basta, senza ingabbiare una materia così profondamente umana in etichette spesso ambigue e fuorvianti. Polvani descrive infatti una moltitudine di reietti, di “marginali, di “vinti” di verghiana memoria: migranti, operai, pensionati, badanti, anziani, prostitute, omosessuali, che popolano la nostra quotidianità e fingiamo di non vedere, delle cui vite, sofferenze, nulla sappiamo (né vogliamo sapere), se non attraverso qualche raro trafiletto in cronaca, quando un operaio cade dall’impalcatura, un vecchio si uccide, un omosessuale viene massacrato di botte. Trafiletto che leggiamo distrattamente, tra un facile pietismo ed un malcelato disinteresse nei confronti di questi “ultimi”, inutili e dannosi ad un sistema sociale ed economico dove imperano ancora – forse ancora più forti – i miti deliranti dell’efficienza, della produttività e del profitto. Ed è proprio qui che la poesia, la vera poesia, può e deve svolgere la sua funzione più alta e degna: mostrare, raccontare, affondare i versi in queste vite ferite, in questi dolori ignorati, metterli finalmente in primo piano, in piena luce, protagonisti di un’epica all’incontrario da esibire in tutta la sua crudezza.

    E Paolo Polvani lo fa in modo magistrale, coniugando una compostissima ma appassionata partecipazione e com-passione (nel senso etimologico del vocabolo) ad uno stile asciutto ed incisivo, efficacissimo, che nulla concede ad orpelli retorici. Nulla di “esornativo” o ridondante, che induca alla lacrima facile nei suoi versi stilisticamente tesi, a volte violenti e taglienti, altre volte lirici e teneri, con cui sembra abbracciare un’umanità dolente a cui dà voce e rilievo, in un lavoro di scultore che, con pochi, precisi colpi di scalpello, fa emergere da un blocco informe e magmatico volti e gesti. Non tanto una galleria di “ritratti”, piuttosto una serie di “squarci” e sguardi, sostenuti da una decisa tensione etica, da uno segno e un rifiuto, una re-azione all’abisso di indifferenza, di abulìa e menefreghismo in cui, giorno dopo giorno, stiamo tutti affondando. Qualche esempio, tratto qua e là, potrà  far capire, più di tante parole, la notevole capacità dell’autore di tradurre in versi la propria coscienza offesa, il proprio disgusto: “Sembrava una cosa abbandonata…/…ma non era una cosa era/un uomo ucciso. Il telegiornale ha acceso/una terribile domanda. Campo lungo/su folla e idranti, blindati e assetto/da guerra. Siria. Una strada del mondo.”. E ancora ne Il crollo: “Il tema della recita è il cordoglio…./….L’ora del crollo:/dodici e ventidue…[…] Il sangue raggrumato. Le foto sui giornali. Tutti/dicono amen.”. E ne L’uomo che brucia: “Forse importa alle banche un uomo che brucia? […] L’uomo in fiamme percuote stupidamente l’aria,/annaspa, affoga nella piazza, è tragico/ed è buffo. C’è una lettera. La vampata/iniziale è la firma. La solitudine/è ogni ricordo.”

    Appare evidente, già da questa manciata di versi, la lontananza della raccolta di Polvani da ogni facile ideologismo, dalla risibile pretesa di “salvare il mondo”. Non ha ricette né soluzioni il poeta, né spetta a lui sanare queste storture, questo è  compito della politica, di governi e legislatori, ai poeti spetta casomai, come ha giustamente detto l’autore stesso, “non perdere di vista un preciso indirizzo etico di partecipazione e di condivisione” e – aggiungo io –  di lucida rappresentazione di quel “clamoroso errore” che titola l’opera. Perché è evidente, sembra dire Polvani, che un mondo così non può essere che sbagliato, inaccettabile, non è certo quello che in molti – specie della sua e mia generazione – abbiamo sperato e creduto. E se la poesia non può proporre soluzioni alle ingiustizie, all’imbarbarimento progressivo e feroce del tempo in cui viviamo, può tuttavia indicare una responsabilità collettiva che affonda le radici in una generale anestesia della sensibilità, in un’assenza di empatia con i propri simili, sostituita da false mitologie, da fedi stolte cui la massa indirizza la propria passione, la propria preghiera, la massa omologata ad arte, che tutto accetta Purché vinca la Giuve, splendido testo che, non a caso, chiude la silloge, scandendo versi martellanti e spietati:

Che il mondo vada a scatafascio, le guerre inaspriscano il pianeta,

i barconi facciano naufragio, i migranti a picco, i padri accoltellino

nel sonno, s’impennino i femminicidi, l’acqua scarseggi e tutto

sia di pochi […]

Tutto questo per te non fa una piega, purché si vada avanti

con la liga, purché si faccia il coro, purché la curva ostenti

lo striscione, purché si salti sugli spalti, purché

il gregge veneri il pastore, purché viva la Giuve, purché risplenda

quella fede antica, la divinità più amica, purché viva la fica

[…] …purché

viva la Giuve, resti alto il vessillo del credo che anestetizza,

favorisce il sonno, confonde il senno, ottunde, vaneggia, mistifica,

    Un naufragio, dunque, dell’humanitas e della pietas, della nostra presunta civiltà, del gregge che adora il “pastore” e si accalora, adora le moderne (e antiche) divinità: calcio e fica. Per questi uomini, per tutti noi non c’è salvezza, speranza di una redenzione, di nascita di una nuova moralità e consapevolezza, come scrive, con accenti accorati e desolati in Non ci salveremo: “…no, non ci salveremo, gli angeli/già sbattono la porta, i santi si coprono gli orecchi…/e adesso ce lo possiamo dire, che no, non ci salveremo.” , eppure “avevamo le parole, una foresta, un universo di parole, ondeggianti,/fluttuanti, profumate, si trastullavano dentro la bocca…”. Una fiducia, dunque, una speranza nello strumento più umano e potente, la parola, un mezzo con cui opporsi e resistere. Ma la parola è stata usata male, in modo disonesto e furbesco, volta ad altri scopi ed interessi, al profitto, all’egoistico tornaconto personale, un’arma per primeggiare nella dantesca “aiuola che ci fa tanto feroci”, non uno strumento di verità. Se un’invocazione, una laicissima preghiera è presente in questa raccolta di Polvani, essa è rivolta proprio al recupero di una parola “…che accende/la scintilla, proclama/un mondo nuovo, lo veste./Ci trasforma in un fiume/allegro, in un cammino d’idee. […] …la parola che scuote,/fa da stampella alla speranza,” […] “La parola che tutti abbraccia,/s’incammina verso l’orizzonte.”. Una speranza e, insieme, una dichiarazione di poetica che, personalmente, non posso che sottoscrivere in pieno.

    Ed il poeta indica un altro strumento di resistenza, un’altra forza in grado di contrastare il dolore, la solitudine, l’ignoranza, una forza che nasce anch’essa, come la “parola”, da una sorgente tutta umana, e può divenire contagiosa. La forza del sorriso. Un sorriso che  s’insinua tra i versi di Paolo per esplodere, spesso improvviso ed inatteso, a rasserenare il cupo, soffocante orizzonte del nostro cieco individualismo. Polvani crede nel valore della gentilezza, della cortesia, della bellezza umile e spontanea, a giudicare dalla frequenza con cui ricorrono nella silloge tali vocaboli, quasi un controcanto, un modus vivendi: “Forse è il sorriso la maniera più saggia/di stare al mondo…”, il sorriso è una bandiera (come titola una lirica), un vessillo da seguire, un abito da indossare ogni giorno, come il canto delle operaie al lavoro in bicicletta “…che regala alla via/una folata di giovane allegria,…”, e svela “…la scontrosa grazia,/delle gentilezze, delle morbidezze, segrete sirene di ogni ragazza.”. E’ il “Buongiorno” negato ad Aziz perché straniero lavavetri agli incroci, è la “foga”, la “santa lena” del “signor spazzino re della ramazza”, capace di “trasmettere bontà”, dove l’autore restituisce ad una piena dignità, pur in toni lievi e quasi bonari, gesti e comportamenti oggi quasi perduti.

    Va sottolineato che l’universo di “vinti” che popola le pagine del libro, non è affatto una folla anonima, una nebulosa indistinta. I protagonisti delle liriche sono ritratti come persone, uomini e donne precisamente individualizzati e definiti, vigorosamente tratteggiati dall’autore che dà loro un nome ed una fisionomia. Non certo astorici exempla di stampo medievale, ma vite concrete, segnate da drammi, solitudini, offese e violenze che Polvani racconta con grande efficacia, condensando, in  pochi tratti e “squarci”, a volte assai crudi e taglienti, il “centro”, il fulcro di queste esistenze, in un discorso poetico che evoca fatti e persone attraverso sequenze vigorosamente ritmate di versi densi e intensi, spezzati da forti enjambements ed una sapiente punteggiatura, in un linguaggio  essenziale, lucido e appassionato, che emoziona e cattura il lettore,  lo pone di fronte a realtà amare quando non tragiche, lo porta a pensare, ad acquisire una consapevolezza che può essere davvero la premessa necessaria ad un cambiamento, ad un’inversione di rotta. E questo costituisce già di per sé  un merito notevole dell’opera di Paolo Polvani.

    Tutto ciò è possibile grazie, come dicevo, alla particolare tensione stilistica che attraversa e vibra in questi componimenti. E’ nell’incisività del linguaggio e del dettato poetico che i ritratti e i temi toccati dall’autore appaiono tanto convincenti (nel senso etimologico del termine) ed emotivamente coinvolgenti. Un habitus formale, una precisa cifra espressiva che si avvale di una tecnica quasi “cinematografica”. Il componimento è spesso costruito per sequenze di immagini, dal primo piano al campo lungo e viceversa, in un rapido spostamento della messa a fuoco,  un susseguirsi di piani-sequenza articolati in una serie di immagini di notevole impatto emotivo. Poesie scandite in pochi, decisivi “momenti”, in passaggi cruciali governati saldamente da un atteggiamento etico ed artistico che non proclama, non giudica, non condanna né assolve, ma vive nella stessa materia bruciante della sua creazione.

    Ne sono un esempio alcune liriche dove questa incisività icastica, questa sintesi fulminea di sequenze di “fotogrammi” – carattere stilistico fondamentale dell’intera silloge – raggiungono vette di rara intensità espressiva. Ad esempio, nella splendida e terrificante Il marchingegno degli orari, nella seconda strofa: “E’ morto sulla massicciata./Il capotreno fischia la ripartenza/ […]…il marchingegno degli orari/un marocchino forse ubriaco non s’immischi/negli ingranaggi. La notte, l’abbaiare dei cani, l’orizzonte./Tutto questo non basta.”. Una rapidissima carrellata di singoli “scatti”, immagini durissime nella loro secchezza da servizio di cronaca, a comunicare la cupa, disumana atmosfera di gelo e indifferenza, il quadro di una morte anonima e notturna sbozzato per lampi violenti, una scena che condensa silenzio e orrore. Così nella tragica Una ringhiera in cui Polvani riferisce il suicidio di un pensionato, tenendo sempre il “fuoco” della vicenda su quella ringhiera: “Guarda: perde una ciabatta mentre scala/una sedia…[…]/ …Una pensione […]/si maledice quella cifra esigua ma a che serve/mordere il cielo”.. Il dramma della solitudine e della povertà di un vecchio precipita poi rapidamente nella seconda ed ultima strofa: “Guarda: la sedia traballa, non bisogna/guardare di sotto, non bisogna. Non ci saranno/angeli a sorvegliare il volo…/…Guarda come si scavalca/una ringhiera.” . Un fatto purtroppo usuale, destinato a ripetersi, su cui il poeta costringe il lettore a fissare lo sguardo, quell’imperativo iterato: “Guarda”, che racchiude un sentire offeso e risentito e impone un dovere morale collettivo: sapere, capire per re-agire, perché non sia un evento senza peso, quasi “normale”.

    E se il dramma del suicidio commuove, la tragedia di un omicidio feroce quanto gratuito desta nel lettore un sentimento ancor più incontenibile di rivolta, di sdegno ed orrore. Eppure, anche in Strategie di un giovane rom si narra un evento che accade sempre più frequentemente, il pestaggio a morte di un “diverso”, e che si tratti di un rom, una prostituta o un omosessuale non fa differenza. Se il “ragazzo rasato” sente come “dovere sociale” l’eliminazione fisica del nomade ladro, trova motivazioni e consenso, allora forse dal precipizio del nostro presente non si tornerà più indietro. La scena centrale, il gesto decisivo viene detto con intensa, agghiacciante brevità: “…Il ragazzo rasato affondava/la punta degli anfibi, sentiva le costole cedere”, con criminale determinazione e accanimento: “…bastava insistere, solo/un poco ancora, e il giovane rom/avrebbe smesso di respirare…”, versi che fanno rabbrividire, che gelano il sangue. Poi, solo un lungo, enorme silenzio.

    Un silenzio colpevole e disumano da cui si alza, forte e sicura, la voce del poeta. Ed in questa volontà di spezzare il silenzio, di denudare, con i versi, il male, risiede, a mio avviso, il significato più profondo e l’importanza, la necessità di questo libro di Paolo Polvani.