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Raccolta di recensioni scritte da Claudia Ciardi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Rolando Alberti - Poesia - Miraggi edizioni

L’estremamente magico

 

Rolando Alberti, nativo di Forno, un paesino della Valle del Frigido sulle Alpi Apuane, è pastore e poeta delle sue montagne. Il padre Anselmo gli ha trasmesso la dura pratica, ormai quasi del tutto scomparsa, dell’alpeggio in quota, che impone un notevole sforzo fisico, con l’ascesa su ripidi crinali, e la capacità di affrontare lunghi periodi di solitudine, nell’isolamento degli stazzi. Ma l’anziano genitore, che sulle aspre selle di questi monti ha speso la propria vita, depositario della cultura arcaica che le intride e delle tante narrazioni che in questo paesaggio si sono avvicendate, ha donato al figlio anche un variegato patrimonio di storie, su cui la sensibilità del ragazzo si è esercitata fin dall’infanzia. Per chi non lo sapesse le Apuane, con le loro cime irte e affilate, formano una catena montuosa che si estende nella zona centro-settentrionale della Toscana, tra Versilia, Garfagnana e Lunigiana. Ben osservabili dalla costa, staccando lo sguardo sopra la linea del litorale, in direzione nord, danno vita a un contrasto particolarmente suggestivo tra macchia mediterranea e ambiente alpino. La loro singolare morfologia, che si differenzia nettamente dalle vicine conformazioni appenniniche, ha fatto sì che venissero catalogate come alpi. Guglie e torri d’imponente grazia scultorea, pareti strapiombanti, canaloni dove il bianco della pietra s’incontra col morbido lucore delle nevi, in lontananza il loro mutevole frastagliato profilo sembra cantare. Su queste cime, generazioni si sono alternate intrecciando una storia millenaria, fatta di gesta leggendarie e quotidiane fatiche. Popolo fiero, quello dei liguri apuani, gente ruvida e indocile, arroccata nei temibili castellieri, i villaggi fortificati che in alcun modo potevano esser presi dal nemico, pagani, adoratori di menhir innalzati alla madre terra. Di queste presenze, e di quelle più sfuggenti, legate a antiche dicerie, a visioni fantastiche e talora spaventose vive la parola di Rolando Alberti. Omaggio alla natura che ha presieduto la sua iniziazione, appello della memoria a serbare traccia di tutto quanto è destinato a svanire, inghiottito dal passaggio del tempo, commosso ritratto del padre «che come un antico, illuminato dall’alta luna,/ porta il gregge sul sentiero», così nella poesia dell’Alpe Rotaia, il poeta stabilisce una simbiosi totale tra uomo e monte, cadenza che scorre come falda sotterranea in tutte le liriche. C’è un confronto continuo fra lo spazio immutato dell’alpe, il suo inattingibile esserci e la limitatezza in cui si dibatte l’uomo, che tuttavia nella consuetudine con la montagna impara quasi a trascendere se stesso, crede a momenti di cogliere una dimensione ulteriore, più ampia e problematica di quella cui è destinata la sua corporeità. La scoperta del proprio limite fisico genera una profonda inquietudine che provoca scontentezza; la scrittura, nell’esprimere questa confusione dei sensi, prova a sanarla, almeno salvando dall’oblio quella zona franca e meravigliosa che è il pensiero, fonte inesausta di percezioni e sola risorsa capace di garantire all’essere umano una rappresentazione dei fenomeni ai quali assiste. L’estremamente magico, titolo della raccolta, è la «bisbigliata intesa» che s’insinua tra le cose, l’estrema consonanza tra reale e irreale, la sottile striscia di luce che resiste pochi attimi ancora sul monte, prima che sopraggiunga la sera. In tutto ciò, l’uomo catapultato nell’ordine del mondo è un brandello di carne che volge le spalle all’eterno, immoto e distante, e si aggira incerto, talora perfino timoroso, sul sentiero abbrancato dalle ombre o nel silenzio che incombe sul suo rifugio, rischiarato appena da una candela la cui fiamma «illumina il dentro più che il fuori». Questa traslazione tra interno ed esterno, questo scivolamento in una zona liminale verso cui spinge il buio che avanza dal mare dove resistono gli ultimi «nidi di luce», visione nostalgica e pungente per chi guarda dal fianco della montagna, sembrano suggerire le fasi di un incantesimo. Così pure il rossore delle cime, il giallo delle faggete, la «macchia verde oscura di vita irreale», i segni della natura che accompagnano i giochi d’infanzia del poeta, e tuttora ne seguono immutati il suo «ricorrente vivere», i cieli, il vento, i lampi, i torrenti, note di una mantica del sé che non a caso inaugura la raccolta, svelano una dimensione trasfigurante e fantastica, che leviga il tempo, annulla le distanze, livella forme e immaginazioni. Nella ciclica corrispondenza del tutto che l’alpe insegna all’uomo, si impara a considerare il passaggio degli esseri sulla terra come necessario; perché il seme si cambi in germoglio, nulla può rivendicare un’esistenza più durevole di quella che gli viene assegnata. Perciò in ottobre il castagno raccomanda il frutto alla terra «bagnata come una donna che l’uomo ama»: lì saprà conservarsi e generare nuova vita. Il ragionamento sul tempo occupa una serie di liriche centrali alla raccolta, dal sonno di un bambino, nel quale si coglie una prova d’immortalità, pur se breve, contrastante con la veglia dell’adulto, alla riflessione sulla caduta dell’essere umano in una temporalità dolorosa e struggente, come conseguenza della ribellione all’eterno. Il senso del passato affiora da una casa vuota, nient’altro che un rudere dimora del vento, il proprietario vi incise una data per non essere dimenticato e quei numeri corrono ancora incontro al viandante, portando l’eco di un’intimità andata ormai dispersa. Infine la catabasi, perché l’incontro coi morti rammenti il cammino a chi ancora vive, sebbene la discesa serva anche a comprendere che il tempo fissato nei ricordi è irrimediabilmente effimero. Nel caratterizzare questa vicinanza del pensiero a un regno metamorfico e rovesciato, di fronte al quale ogni ordine logico è destinato a entrare in crisi, Rolando Alberti predilige l’uso del participio presente, che si divincola tra verbo e aggettivo e ha un suono cantilenante, di straordinaria evocazione. Si veda ad esempio la chiusa di Il Terrestre, dove i participi si rincorrono quasi in una rapidissima mimesi della creazione: «aspri venti asciugano la già vogliosa terra/ la ballante dea/ ispiratrice delle striscianti pietre/ dei galoppanti venti/ e degli uccelli emigranti/ trascinatori dei miei roteanti pensieri/ che dal ventre del caos/ a me li hanno donati». Compagni di strada dell’autore sono nel presente lavoro Enrico Medda e Guglielmo Fiamma, entrambi impegnati sul versante della didattica e della scrittura, amici di lunga data di Rolando e da sempre interpreti affezionati della sua parola. Questa assidua frequentazione, che risale alla gioventù dei due curatori e alla loro passione per la montagna, è indubbiamente un valore aggiunto dell’opera. La ricerca letteraria si unisce a uno scavo profondo nell’identità e nelle consuetudini apuane, ambiente schivo e difficile, eppure amatissimo dall’autore e da chi commenta, dove il sodalizio umano asseconda il rivelarsi del poeta. Una ritmica arcaica, una levità pacata nell’osservazione, un invito a procedere con lentezza pervade il lettore. In un’epoca che ci ha abituato al frastuono, a essere rumorosi e ingombranti in ogni manifestazione del nostro esistere, le poesie di questo libro possono apparire oltremodo inconsuete e perfino di non facile comprensione, tanto poco siamo abituati al dialogo con la natura. Alberti ci invita, almeno nell’arco di tempo che occupa la lettura dei suoi versi, a far scendere in noi il respiro della montagna, a recuperare «canute voci» di fate e altre «antiche risonanze», a non temere l’incontro con gli esseri che popolano leggende e bivacchi, streghi che stanno sui noci come tanti lumini, e fantasmi a guardia di favolosi tesori. Dietro il poeta, infatti, c’è tutta una cosmogonia di luoghi, tradizioni e oggetti che ai più suoneranno desueti, se non estranei. Eppure, se ci si abbandona alla semplicità e al calore con cui ci parlano, anche nel ruvido sillabare del dialetto di queste Alpi, ne trarremo una lezione di sorprendente consapevolezza.

 

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Peter Gay - Saggio - Dedalo libri

La cultura di Weimar

Weimar fu una stagione di grande vitalismo politico e culturale ma anche di tensioni e difficoltà di ordine sociale ed economico che finirono per produrre molte delle fratture esiziali alla sua sopravvivenza.
Questa coraggiosa fabbrica dell’alternativa sociale, nata dal dramma della guerra, ebbe un cammino affatto agevole e fece non poca fatica a sfuggire ai bassi tiri del conservatorismo e ai maneggi di certi professionisti della politica e delle arti, il cui unico obiettivo era servire il proprio interesse, flirtando il minimo indispensabile con la repubblica per tirare avanti e aver garantita la propria esistenza all’interno della collettività.
Più di ogni altra cosa, ad affondare il progetto di Weimar fu proprio l’amore freddo della maggior parte di coloro che vi aderirono. Mai, denuncia Peter Gay, vi fu un coinvolgimento autentico. Per molti si trattò di una scelta per esclusione, altri addirittura la vissero come un obbligo forzoso che gli eventi avevano costretto ad assolvere, una sorta di giogo da sopportare in attesa di una soluzione. Il blando attaccamento, quando non l’aperto disprezzo, furono dunque i veri carnefici di Weimar. Ciò che nel decennio repubblicano (1919-1929) si era cercato di esorcizzare, ossia gli spettri del militarismo, dell’antisemitismo, della violenza nel dibattito pubblico, finì per riesplodere al massimo della virulenza, facendo a brandelli le istituzioni che erano venute alla luce dopo un parto tanto faticoso.
Coloro che ebbero chiara percezione del pericolo e a vario titolo dimostrarono sul campo vigore e decisione nel denunciarlo, e non furono pochi, vennero comunque ridotti alla condizione di outsiders, quando non banditi e duramente estromessi da ogni forma di partecipazione attiva.
Non a caso il titolo originale dell’opera di Gay è proprio The outsider as insider, a significare che la società weimariana fu, dall’inizio, destinata ad articolare una parte cospicua della propria esistenza fuori dai canoni. Fu una cultura che fiorì ed agì trasversalmente, ebbe un imprinting a-convenzionale, si avviò nella clandestinità e proseguì sul proprio cammino di rottura. I suoi artigiani più creativi e affezionati giocarono in realtà fuori campo e tuttavia continuarono, finché ne ebbero facoltà, a gettare i semi preziosissimi della loro opera dentro i fertili solchi improvvisamente aperti tra le ceneri imperialiste.
Quella di Weimar si connotò da subito come una cultura da esuli. La maggior parte dei suoi artisti, intellettuali, ricercatori, alimentarono una schiera di ingegni raffinatissimi e inquieti che in patria ricoprirono la posizione di battitori liberi, spesso nella consapevolezza del rovinoso logoramento al quale mese dopo mese erano sottoposte idee, istanze e propositi messi al servizio e schierati a presidio della repubblica.
Thomas Mann, Friedrich Meinecke, Walter Benjamin mostrarono un impegno costante nel rilevare trappole, incongruenze, atteggiamenti in difetto disseminati ovunque nel fragile organismo democratico che si andava costruendo.
All’indomani del viaggio attraverso la Germania in preda all’inflazione, nel 1923, Benjamin presentì i rischi pesantissimi corsi dal proprio paese, e la sconfortante visione alimentò, nel corso degli anni, un’amara consapevolezza: «Ciò che rende totale il grottesco isolamento della Germania agli occhi degli altri europei, ciò che porta costoro, in fondo, ad atteggiarsi nei confronti dei tedeschi quasi avessero a che fare con degli ottentotti è la violenza, del tutto incomprensibile a chi sta fuori e per nulla presente alla coscienza dei reclusi, con cui le condizioni di vita, la miseria e la stupidità rendono in questo luogo gli uomini sottomessi alle forze della collettività come solo la vita di un primitivo è condizionata dalle leggi del clan. Il più europeo di tutti i beni, quella più o meno piccata ironia con cui l’esistenza del singolo reclama sempre un corso dissimile dalla vita della collettività nella quale esso si ritrova sbalzato, i tedeschi l’hanno smarrito del tutto» (Da Einbahnstraße, “Kaiserpanorama”).
Sapeva, lui come altri, che dietro la malmessa facciata avevano continuato a covare le braci di un ingombrante e funesto passato con cui si sarebbe rinvigorito il fuoco di antichi errori. Ernst Toller, che proprio nel compromesso aveva colto la fine, e perciò scelse di aderire alla repubblica sovietica, cosa che gli costò cinque anni di detenzione, ebbe modo di sperimentare, anche lui tra i primi amanti illusi e traditi, l’inesorabile avanzarsi della minaccia.
Questa tragica esperienza occupa le pagine della sua autobiografia, Eine Jugend in Deutschland (Una giovinezza in Germania), cominciata il giorno del rogo dei libri sulla Babelstraße, quando ormai la deriva aveva chiaramente assunto il suo aspetto più fosco. Il meccanismo, quello stesso che aveva fornito l’oppiaceo alle giovani generazioni per annullarle, era da tempo in funzione. La giovinezza d’Europa, cui Toller rivolgeva l’estremo commosso appello, era stata ingannata e svenduta al nuovo padrone, senza che nessuno si battesse per strappargliela. Per due volte i padri furono ciechi al sacrificio dei figli; la prima guerra mondiale non era stato un dramma sufficientemente atroce da far comprendere la lezione.
Ma a Weimar mancò anche la pazienza e la piena comprensione della necessità di agire razionalmente per poter rimuovere gli ostacoli incontrati dalla vita pubblica e i bisogni espressi dalla collettività. Tutto ciò avrebbe richiesto uno sforzo non indifferente ma il raggiungimento di un equilibrio nella vita pubblica sarebbe stato la salvezza, o almeno alla lunga avrebbe dato credibilità e giovamento al percorso istituzionale intrapreso.
«Certo tutto pareva andare parecchio meglio su ogni fronte durante questo primo lustro dorato degli anni Venti. La disoccupazione si era ridotta, il potere d’acquisto dei salari risollevato, l’estremismo politico pareva ormai fuori gioco, la repubblica di Weimar, insomma, si stava rivelando un buon posto per vivere. Per gradi, proprio in quegli anni, la Germania stava anche ponendo fine al suo isolamento per ricongiungersi alla comunità delle nazioni. La politica estera di Stresemann, ma, in definitiva, il puro e semplice trascorrere del tempo stavano dando il loro frutto» (Gay, p. 177). Il processo di lenta risalita non fu accompagnato dalla giusta pacatezza e neppure da un senso di misura che molto avrebbe contribuito a mantenere saldi i valori democratici e gli obiettivi ad essi ispirati.
Nel 1928, pochi anni prima del baratro, molti erano ormai i nodi venuti al pettine, nonostante la buona volontà di più d’uno avesse continuato a spingere perché il lavoro cominciato non si guastasse. La disoccupazione dei giovani e il loro massiccio reclutamento all’ideologia di estrema destra, l’arrivismo di imprenditori della politica che concentrarono nelle proprie mani ricchezza e mezzi di comunicazione, diffondendo messaggi conservatori e adulterando il confronto politico, lasciarono poco spazio agli slanci e agli entusiasmi della prima Weimar.
«La Weimar di quegli anni era però come la società sulla montagna incantata e le guance rubiconde mascheravano sintomi insidiosi. Di questi la cartellizzazione della cultura, sul modello della cartellizzazione dell’industria, fu uno dei più preoccupanti. Alfred Hugenberg, membro di primo piano della corrente di destra del già di destra partito nazionale tedesco, grosso industriale con ambizioni politiche e su posizioni irrimediabilmente reazionarie, costruì un impero nel campo dell’industria dei mezzi di comunicazione e divenne la voce stridente della controrivoluzione esercitando un’influenza enorme. Gli ufficiali, si disse, leggevano soltanto la sua stampa. Hugenberg riuscì a concentrare nelle sue mani dozzine di giornali in tutto il paese, acquistò il Berliner Lokalanzeiger, popolare quotidiano della capitale e fu proprietario di un’agenzia di informazioni dai numerosi abbonati fra cui poté propagare le «sue» notizie. Nel 1927 salvò dalla bancarotta l’UFA e la trasformò nella maggiore fabbrica di sogni a occhi aperti di tutto il paese. Personalmente insignificante, Hugenberg fu animato da insaziabili passioni politiche e odi mascherati da convinzioni e poté contare su smisurate risorse finanziarie» (Gay, pp. 177-178).
In questa breve riflessione ci premeva rilevare che l’ascesa e il declino weimariani si presentano come un cantiere ideale per cogliere molti fenomeni che hanno continuato ad affollare il concitato panorama storico e sociale del ‘900, compreso questo decennio, confuso e per molti versi regressivo, di inizio XX secolo.
Buona parte dello spirito dell’Europa contemporanea risiede nelle istituzioni e negli uomini di Weimar. La dettagliata e appassionata analisi di Peter Gay si pone come un contributo ancor più prezioso, alla luce delle tante questioni che oggi occupano i tavoli della diplomazia internazionale e le cancellerie di Stato.
Se vogliamo procedere a una soluzione serena e obiettiva dei problemi che proprio in queste ore agitano il vecchio continente, e non solo, mettendo alla prova le sue classi dirigenti, bisogna ripercorrere le tracce di questo fondamentale capitolo di storia.






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Nikolaj Leskov - Narrativa - Einaudi

Il viaggiatore incantato

Si è detto, è una riflessione di Alberto Arbasino, che il romanzo, e dunque la letteratura occidentale moderna, finisce sul corpo morto dello starec Zosima nei “Fratelli Karamazov”.
Altri hanno parlato di una notte di ottobre ad Arzamas dove il conte Tolstoj descrive la paura di morire come “l’orrore bianco” dentro una stanza quadrata.
Nel 1873, l’anno in cui esce “Il viaggiatore incantato” di Nikolaj Leskov, l’arte del narrare sembra godere ancora di ottima salute. Walter Benjamin, la cui voce non casualmente viene ad avviarci alla lettura di questa storia tradotta per Einaudi con piglio vivace e ironico da Tommaso Landolfi, scrive un’apologia dell’epica del racconto ispirandosi proprio al métier di Leskov. Questo russo dalla vita e dalla penna itineranti sa raccontare in modo da non immobilizzare la spontaneità dell’actio nella forma di romanzo né impegolarla nella sua tormentata anamnesi interamente orientata dall’individualismo psicologico. Piuttosto è perfettamente in grado di restituire la semplice leggerezza della fiaba, l’improvvisazione fantastica che innesca i suoi innumerevoli cambi di scena, le sue improbabili allusioni in grado di esercitare un richiamo irresistibile sull’immaginario degli ascoltatori; come non manca di osservare il narratore, “dopo questo tutto da noi andò in fretta come in una favola.” Ciò suggerisce qualcosa anche riguardo al ritmo della narrazione. Sulla corrente del Ladoga, vicino a S. Pietroburgo, il narratore si manifesta ai passeggeri e inizia così una fluente cronaca di viaggio e di vita, incalzata dalla curiosità dei suoi uditori.
Questo asciutto resoconto articolato tra fantasticherie e stralci di un’ipotetica realtà corre veloce come le acque di un fiume, fatalmente il señal del passaggio degli anni che si gettano all’inseguimento del giovane Ivan Fljagin fino all’inesorabile farsi largo dell’ultima stazione del cammino, o per meglio dire rêverie.
Il costante avanzare del nostro perfetto novellatore che si sente dominato da una forza a lui estranea, la quale assume diverse forme, dalle visioni del monaco ucciso quando era adolescente, al potere del magnetizzatore, all’amore di Gruška scaturisce dalla profezia annunciata all’inizio della storia, secondo cui “dovrà molte volte perire e mai perirà”.
E ogni cosa procede lungo il corso mutevole dei fiumi o nell’impeto forsennato dei cavalli, perché proprio in questi animali è riposta la più intima e particolare comunione sensibile e visionaria del narratore incantato.
Le folle selvatiche reali o sognate che scuotono la trama, simili alle genti della Scizia descritte da Erodoto o, a detta dello stesso Leskov, a quelle che popolano le favole di Eruslan e Bova Korolevič, con un richiamo scoperto ai suoi probabili modelli fantastici, le personae mythicae che non appartengono a nessun tempo e luogo ma sono ovunque e si danno dappertutto come forze motrici del racconto, ci riportano agli antichi cicli narrativi, alla peregrinatio della parola che nel passaggio dall’uno all’altro episodio è essa stessa materia dinamica, corrente che attraversa veloce le diverse sponde dell’immaginazione, e nel suo costante cambiarsi tesse le innumerevoli possibilità di un viaggio letterario altrettanto infinito.
Le affascinanti serie combinatorie che giocano la tragicommedia di Ivan Sever’janyč Fljagin sul filo del grottesco, talora affidandosi ai toni dell’elegia, come nel caso delle considerazioni sulla “malinconia senza fondo” della steppa o l’invocazione alla bella e infelice Gruška sulla riva del fiume immerso nel vespro, rivelano la loro essenza nei contrasti visionari e paradossali che ne alimentano il vorticoso alternarsi sulla scena.
Al suono di un “pti-com-pe” un guaritore esorcizza la notte di Kursk, e Ivan scivola attratto dal magnetismo e non può arrestarsi, va via trascinato dalle formule incantatorie che il suo tempus mirabile gli recita attorno, ritualmente abbandonandosi al flusso. Così il viaggio approda all’agnizione finale, che coincide con il compiersi della profezia, nella quale non è solo il risveglio cosciente di Fljagin ma anche l’emergere di un’intelligenza ossessionata e acuta che fa presagire la perdita del mondo.
La fine dello smarrimento comporta per il viaggiatore incantato la chiarezza. Vede il suo popolo vacillare e piange, Ivan-Fljagin-Ismail, l’uomo dall’identità viandante, che sulla pace appena conquistata sente insistere nuove visioni e farsi largo la minaccia della guerra. La leggerezza e la fluida grazia che sostengono la dizione epica di Leskov improvvisamente si trovano smorzate dal confronto con una labilità ineludibile. Proprio qui, nella chiusa, si affacciano le lunghe ombre del tramonto in cui Benjamin ha visto aggirarsi il narratore. Nello stesso istante in cui l’autore solleva il velo scoprendo che pure la realtà ha un volto ostile e incerto, il racconto entra in affanno.
Dieci anni dopo, dalla bianca stanza delle “Memorie di un pazzo” Tolstoj sembra voler recuperare a una concretezza visiva le angosce del Signor Fljagin.
Forse Leskov non sentiva già scricchiolare qualcosa nella Grande Russia?
Il vagare senza posa del suo protagonista trova la principale sponda in un amaro sconcerto profetico, in parte riflettendo i rovesci di sorte dei singoli o di intere nazioni che al lettore più tardo non possono non evocare la prima guerra mondiale, il cui spettro pare nutrire come falda sotterranea il nero disincanto col quale si chiude il secolo del progresso.