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Raccolta di recensioni scritte da Maurizio Soldini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Roberto Pazzi - Romanzo - Bompiani

Verso Sant’Elena

 

Verso Sant’Elena” di Roberto Pazzi è un romanzo davvero singolare nella sua capacità di coinvolgimento non solo e non tanto per la trama, che pure fa sì che ci si senta immersi nella storia narrata con quella passione e quella perizia di un narratore provetto e di un poeta navigato quale egli è, e che pertanto rende la lettura piacevole, ma per un insieme di altre considerazioni. Dal punto di vista stilistico si ravvisa sin dall’inizio una acribia linguistica, che mette in evidenza una scrittura assai curata, senza cadute di stile e con un eloquio che vola piuttosto alto con un vezzo particolare di ricercatezza. Pur tuttavia sembra di ascoltare un linguaggio della quotidianità vista la netta imbastitura di leggerezza che accompagna l’intera narrazione, sì da rendere piacevole, come dicevo, la lettura. La struttura del romanzo per capitoli che di volta in volta chiamano in causa i diversi personaggi storici e soprattutto quelli più familiari a Napoleone, rende palese la volontà dell’innesto della storia nella Storia e questo vuole rendere giustizia all’uomo, a quell’uomo, con le sue fragilità che lo determinano, piuttosto che al condottiero all’eroe all’imperatore con tutte le sue sovrastrutture che pertengono più alla Storia che alla storia alla narrazione alla letteratura. Il romanzare alcuni scampoli del viaggio di Napoleone per arrivare all’isola di Sant’Elena, scopo precipuo del romanzo, ci mettono nella condizione di entrare nel core della fenomenologia esistenziale del corso e di guardarlo in relazione ai suoi cari ai suoi amici e ai suoi nemici. Ma l’invenzione di implementare la realtà con la dimensione onirica fa del romanzo il tentativo di andare oltre la dimensione empirica per adire a quella metafisica. Nel dormiveglia il pensiero entra nel sonno e qui abitano i sogni dove Napoleone rivede sprazzi del suo passato rivede la madre le mogli le loro gelosie i figli i loro giochi i suoi desideri quelli esauditi e quelli svaniti, ma sogna anche una realtà presente nell’assenza e qui il colpo di teatro è l’entrata in scena del momento virtuale col personaggio di Eugénie, protagonista del romanzo giovanile del corso quando aveva una qualche velleità letteraria. Virtuale fino a un certo punto però, perché si ha la sensazione che questo virtuale sia più reale del reale stesso. Insomma dove sta la verità alla fine? La verità è il sogno in quanto il sogno aderisce a una realtà non dimidiata. Quella realtà sognante e sognata ma ben integrata nella realtà presente e passata in prospettiva futura che aiuta Napoleone a desistere dal suicidio e a vivere continuare a vivere. Epperò vivere, in parte, nei sogni e di quei sogni che lo aiutano a dimenticare in primis la penosità che gli provoca il pensiero dell’arrivo nell’isoletta che lo farà esule.
Romanzo realista indubbiamente “Verso Sant’Elena”. Ma di quel realismo integrale che non disdegna di embricare al fisico all’empirico al fattuale il metafisico.
Una piccola mia sensazione tutta personale. Non penso che in questo romanzo prevalga la psicologia, così come non penso sia stata intenzione dell’Autore farla prevalere. Prevale invece la considerazione della vita come totalità somato-psichica-spirituale là dove prevale la dimensione spirituale dell’essere umano che anela sempre e comunque, mutatis mutandis, alla sua libertà.
E la cifra del romanzo, a mio modo di vedere, sta tutto nella volontà di uno scavo appunto non psicologico bensì fenomenologico di una realtà personale, sia di Napoleone sia degli altri personaggi, che voglia mettere in evidenza la primazia della vita e della sua complessità, spesso sfuggente, nel bene e nel male. Vita intesa nella sua complessità, appunto, dove anche la letteratura ha un ruolo di integrazione esistenziale. Non per niente è forte il richiamo a Napoleone narratore là dove nel romanzo in questione emergono tratti autobiografici del giovane Buonaparte che nella narrazione della narrazione donano senso al tutto.
Un gran bel romanzo, che tra le righe offre molte metafore del nostro vivere e del nostro morire.
Come ultima notazione, prima di concludere, è utile ricordare che questo romanzo è stato scritto da un narratore che fondamentalmente è poeta, con un’anima poetica, che si radica in una formazione sbocciata nella frequentazione e nell’amicizia con uno dei maggiori poeti del Novecento, Vittorio Sereni, che non per niente fece fruttificare la sua formazione filosofica soprattutto fenomenologica nella letteratura e nella fattispecie in poesia. E Pazzi può essere considerato un allievo di Sereni. Questo a spiegazione anche di quanto affermato più sopra.

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Marco G. Ciaurro - Poesia - Carmignani Editrice

A trazione poetica seguito da Contro la notte



La silloge di Marco G. Ciaurro qui presa in considerazione consta di due parti. La prima A trazione poetica e la seconda Contro la notte.

Nell'Avvertenza al Lettore nella prima parte della silloge il poeta mette ab initio in guardia dal fatto che "il libro, come ogni libro, nasce dal lutto e il suo riscatto è nell'amicizia". La parola è la protagonista del libro, parola viva ma ancor più parola morta. Parola detta, dicibile, non detta e indicibile. Parola che nasce e muore con l'individualità personale di ciascun uomo. La parola è necessariamente destinata alla morte. Ecco il lutto. La sua perdita. Ma non è tutto. C'è una possibilità di salvezza. La parola può farsi oltre. Nella misura in cui "trasforma il silenzio in cosa". Si intravede il ruolo della parola resa sacra e durevole in eterno, la poesia, nella misura in cui emerge il ruolo di chi si fa pastore della parola, il poeta. Ma il poeta deve essere sapiente, oltre che saggio, e avere la virtù dell'amicizia. Solo così riesce a portare  "la parola d'amicizia nel delirio e la restituisce al solco, alla verità del Giorno". Ma il poeta è anche maestro quando "lavora nel sogno linguistico, lavora nella parola franca della finzione, nella parola ... dell'essere, cioè nel molteplice ove lo schiudersi dell'individualità si trasforma nella verità del dolore, verità nuda del libro". E quindi "la verità è una maestranza strappata alla Notte [...], parola altra ... che parla nell'accapo, nel frammento e da sola si assegna al silenzio". Poeta, dunque, come amico e maestro, ma vieppiù amico, in quanto ha la capacità di posarsi "nell'essere, ovvero nel neutro in comune della parola condivisa, nella difficile pronuncia condivisa della parola amore".

Nella prima parte della silloge, A trazione poetica, il poeta afferma perentoriamente che in origine c'è la genitorialità da cui scaturisce l'esistenza. Dell'essenza è negato sapere la negazione. "Niente so di niente". Ergo si sa già tutto. E quel tutto è esistenza. L'essere che si fa fuori per tornare al dentro. Il poeta ha questa consapevolezza, dunque: "Niente so di niente/ niente tranne che esisto!". Non si dà conoscenza se non a priori, in una totalità di essere che è previa. E sub specie totius l'essere genera poesia. "Sono l'origine e la fine simultaneamente,/ fino a trarne poesia... ".

Già nella prima composizione, A trazione poetica, c'è la sensazione di avere a fronte dei versi caratterizzati da una poesia pensante che si nutre di un solido pensiero poetante. Protagonista la parola. Il logos. Il segno. Il nome. E "nominare è dire che il vuoto/ passa dalla parola alla parola", parola svuotata del pieno per donargli suono e segno, la sua corporeità. Come l'esistenza che incarna essenza in esistenza. La vita dell'uomo è coacervo di sensazioni, di ragionamenti, di razionalità e irrazionalità, di bene e male, di bello e di brutto e tutto si realizza nell'alfa e nell'omega spazio-temporale del qui e ora, ma anche di un oltre, che si fanno e sono parola. L'ontologia del logos. L'essere della parola che eterna il pieno nel vuoto dell'assenza futura del corpo, che ha dato segno e suono al verbo rendendolo eterno. La totalità e l'infinito abbracciano il biologico e lo psicologico. Soprattutto lo spirituale che libera. Ma nell'esistere entrano le cose, gli oggetti, gli spazi, i luoghi, con la determinazione che implementa il rammemorare nell'atto creativo-poietico. E danno senso all' "Essere che si confonde nella sua stessa coscienza". E la coscienza ha valenza di incoscienza... Si sogna. Ma il rischio è che "la vista sbatte su un muro difronte/ non su un artificio della mente". La nostra interiorità è come un mare di onde che non sappiamo ben discernere. "Il modo di conoscersi è ascoltarti e perdersi". Per avere in mano la parola soltanto per il nostro breve passaggio terreno. Per scriverne i silenzi, le indecisioni, le sue follie, in cerca di felicità e di senso, che possiamo comprendere solo in virtù della nostra infelicità e dell'insensatezza. E alla fine "se c'è una divinità è nel linguaggio./ Ecco la fine apostatica, ribelle, felice e inenarrabile di una storia infelice". L'ossimoro della "gioiosa tristezza" è il senso della valenza del tempo interno a cui va data la primazia rispetto al tempo esterno "per lasciarsi travolgere nel silenzio profondo" per carpire l'essenza del "bere un caffè nella rilevazione dell'istante" che ci fa cogliere nel fondo senza fondo (fondo della tazzina del caffè a mo’ di metafora) la ciclicità ripetitiva del mistero. O della vanitas vanitatum (Qoèlet)? Soprattutto se "la verità più semplice è che dentro l'essere ci sia l'ombra" (Spettri di Derrida). Ecco il postmoderno. L'elogio della logica dell'illogicità orfica. E il dialogo del poeta si fa serrato in un dialogo fitto che si affida ora ai versi ora a una mirabile prosa poetica in dialogo con una miriade di filosofi, poeti, critici, semiologi, teologi, linguisti, intellettuali tout court, che qui sarebbe impossibile citare per intero, ma che vengono rimandati alla lettura diretta dei testi. Testi che lavorano nella profondità "sul linguaggio e sull'animo umano multiforme" alla ricerca di un sodalizio amichevole sempre più amichevole con tutti gli interlocutori, per quanto in Sull'essenza dell'amicizia il poeta dica: "La forza dello spirito non risponde della nostra anima debole che nella lealtà si dispiega talora in rosa talaltra in ossidiana". Con un ritorno continuo, quasi ossessivo alla parola e sulla parola. "Parola è l'essenziale, il segno". Ma non la parola asseverativa, apodittica. Bensì la parola che entra in dialogo e che in testo e contesto del pensiero poetante implica la domanda piuttosto che la risposta. Non per niente, Marco Ciaurro, che è estremamente convinto di una poesia radicata nella filosofia, e viceversa, ha una volta affermato con netta determinazione che "la scrittura autentica è abitata dalla domanda".

Nella seconda parte della silloge, Contro la notte, si assiste alla presa in carico nell'orizzonte del pensiero poetante del libro, coacervo dei segni-parola che il poeta ha distillato e inciso sulla pagina, che parla nel silenzio e del silenzio e dice a lettere di fuoco la sua "verità artigianale". Libro-spartito che ha gettato e getta le fondamenta di un qualche Umanesimo musicando il "suo pianto segreto" vibrando sul nulla, nota chiave del dolore, la "prima sillaba stampata nell'etere...". Il nulla è analogabile alla notte, al sonno notturno, al dormire, che, per quanto fisiologicamente indispensabile, sembra togliere vita. Ma nel silenzio della notte "una parola vigile ci allerta". Ci induce alla fiducia nel linguaggio, a comunicare e a sentire con l'altro, guardandolo in faccia. Ecco l'Umanesimo. E in questa fattispecie "la poesia è uno stato di veglia particolare, essa è un vegliare incantato sulla paura della notte". E nella poesia c'è la possibilità di affidarsi alla parola e al dire salvifici che affondano pudicamente in una verità importante. Esistenza e morte circuitano viziosamente speranza e lutto (Freud) là dove si dà il pensiero che centralizza la conversazione di quell'ente errante che è l'uomo, tra conscio e inconscio, alla ricerca di sensazioni, fino a comprendere che "abbracciare la caducità è ... poesia", quel linguaggio che, traslitterandosi oltre il tempo, si fa, da umana, visione divina (teoria). E in questo, dice Ciaurro, "c'è un'irritazione lucida, limpida e genuina che nasce rileggendo i romantici "Inni alla notte" di Novalis. Non v'è felicità ultraterrena, sostiene il poeta sulla scia del pensiero antimetafisico, e allora "è necessario scrivere riscrivendo nell'oltre scrittorio". Stare nel margine, nella sottrazione del "gesto scrittorio". E in quel margine cogliere il minimo di analisi dell'uomo tenendosi fuori dal trascendente. Ma non solo il trascendente va eluso. Anche altro. Passato futuro storia geografia linguaggio. Per stare nel tempo "proprio". E qui aprirsi alla mutacità della parola che appartiene né a me né a te e quindi si fa 'essenziale' al di là dell'esistenza. E lo scrivere è appunto "parola essenziale". "La poesia può e allora 'deve significare' nel gesto". A evitare l'indicibilità dell'interiorità solipsistica, la passività della meditazione contemplante che sfocia nel " Nulla, fine di ogni promessa di presente e futura 'escatologia' ". Il pensiero deve prendere atto di ineludibili responsabilità e impegno. Perché è necessario vegliare sulla 'parola', anche se dormire sembrerebbe preferibile. Perché come conclude Ciaurro "la parola [sia essa] religiosa o umoristica, è il sacro che avvicina gli esseri e conduce alla via dell'uomo". Contro la notte è una palinodia della Notte romantica per tornare alla notte della realtà. È qui che l'uomo e in particolare il poeta nella dialettica di essere e nulla, io e altro e anche Altro, si gioca la faccia nella ricerca della propria, anche se non individualistica e non solipsistica, autenticità nel pensare e forgiare poieticamente la parola come Essere che travalica l'ente facendosi segno dell'essenza. Poesia certamente non facile quella di Marco Ciaurro. Poesia al di là degli scontatismi di scuola e tradizione, poesia che va comunque colta nella sua originalità, nella misura in cui si affida ad uno stile e a un significante, che modulano nel significato il senso della volontà di aprirsi in primis al dialogo serrato con una miriade di altre voci, poetiche, filosofiche, teologiche, religiose, etc. per dare luogo a quel gesto che è regesto delle gesta dell'umano vivere registrato poeticamente. Come si evince dalla poesia dedicata a uno dei maggiori poeti del Novecento, Paul Celan, che a mio parere tocca il vertice non solo stilistico, ma di significato dell'intera silloge, poesia con la quale intendo concludere questo mio intervento interlocutorio sulla scrittura di Marco Ciaurro. Interlocutorio perché la complessità del dire di Ciaurro implica che sia necessario riprendere più volte la lettura dei suoi versi e della sua prosa poetica per mettersi in ascolto del sacro, che emana ad ogni ripresa di lettura di questo piccolo ma assai intenso libro, che non posso non consigliare di leggere. Anche perché chi mi conosce sa quanto per me sia importante il legame che deve esserci tra poesia e filosofia e tra filosofia e poesia, in ottemperanza a quel filone di scuola, che privilegia quella poesia dalla quale emerga il filo rosso di un pensiero poetante, o di una poesia pensante che dir si voglia, che in campo letterario ha visto tra gli altri Leopardi e in campo filosofico Heidegger.

 

                                                        

                                                      A Paul Celan

VII

 

Alcuni versi sono ferri
inchiodati nella nostra carne,
sono conficcati nella nostra paura
spirituale, carnale della parola.
Nelle membrane bizantine
della memoria ci parlano…
il Linguaggio è una buccia,
una cucitura.
Talora sdrucita.
Ma il linguaggio è
un omaggio misterioso alla vita,
un tributo allo scarto che conduce
nella vita col pensiero.
Il pensiero è una medicina amara
all’esistenza misera e sovrana
del nostro scabro Aufhebung,
del nostro brullo sublimare,
intontire, incantare.
Alcuni versi sono stigmate
che portano la ferita dentro.

 

 

 

 

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Domenico Pisana - Poesia - Europa Edizioni

Tra naufragio e speranza

 

Nel momento in cui la poesia si interroga sulla sua destinalità di superficie e pertanto della sua pragmatica, intesa alla sua paventata crisi editoriale, ma anche più in profondità in relazione al suo disagio onto-assiologico - nella fattispecie siamo pervasi da una movimentazione nel mondo poetico a far sì che il canone si stringa sempre più attorno a stilemi, linguaggi e quant’altro, che viaggiano nel contesto di un minimalismo sempre più auspicato, a prevalenza empirico-sensistica, - la poesia di Domenico Pisana va in qualche modo controcorrente aspirando alla concretezza del valore della spiritualità.

Per il fatto che, a partire da una poliedricità di fondo nutrita di studi filosofici e teologico-morali, oltre che letterari, il poeta siciliano, molto attivo anche in campo letterario sia nella sua Modica sia nella rete e sui social, nonché docente di religione nei licei, coagula nel suo dettato una tradizione, che affonda le radici in una poetica caratterizzata da un afflato antropologico, che si interroga filosoficamente e che cerca di dare una svolta all’attuale impasse a rischio di nichilismo con una ricerca di senso, che si staglia in un orizzonte tipico della tradizione culturale ebraico-cristiana.

Difatti Tra naufragio e speranza ha una sorta di afflato poetico, o per meglio dire poematico, che ripristina con forza e con determinazione il linguaggio della Bibbia, da una parte simbolico, proprio dell’Antico Testamento, e d’altra parte a mo’ di parabola, propria del Vangelo, per quanto dalla lettura del poema si abbia l’impressione di una poematicità molto più aderente al primo, dacché si sente una stretta vicinanza ai Salmi come al Cantico dei cantici e come ad altri libri veterotestamentari. Ma vi è di più, dal momento che la poesia di Pisana attinge a piene mani a una tradizione filosofica, che parte da lontano dalla cultura classica per passare, - attraverso Nietzsche e Heidegger, ma non disdegnando anche Bloch, Adorno, Horkheimer e altri, - a coagularsi intorno alla tradizione esistenzialista e personalista a partire da Kierkegaard. E proprio a quest’ultimo si rifà Pisana. La malattia mortale della disperazione che ha portato al naufragio nel mare procelloso della Ragione, che ha imbastardito sia il senso sia il significato attraverso falsi valori propinati da un illuminismo assolutizzato, potrà essere ed è sanata soltanto con la speranza che unicamente apporta senso tramite l’amore e redime dall’insignificanza del nulla che porta al naufragio dell’uomo tramite la speranza.

La ricerca di senso è quindi anche un tacito rifiuto dell’hegelismo e della Ragione illuminista, con la ripresa, mutatis mutandis, delle tematiche leopardiane de La Ginestra.

Mentre Leopardi chiama col suo pensiero poetante alla comunione di tutti gli esseri umani ad affrontare la natura matrigna, Pisana chiama le singole persone a redimersi e a salvarsi dal naufragio nichilista del non-senso dell’attuale civiltà attraverso le virtù dell’amore e della speranza.

E il dolore e l’angoscia, che pure ci sono, si combattono con la fede e col ritorno al coraggio di credere, come implica la speranza di potersi affrancare dallo spaesamento del nulla per potersi librare e liberare nel mistero dell’essere.

E i poeti, a cui appartiene Pisana, per dirla con Montale, sono quella “rara sottospecie di uomini che tengono gli occhi aperti” e sono “nocchieri per i naufraghi del nostro tempo” per approdare dalla notte attraverso l’aurora al porto fidato di una speranza se non altro sognata di una Luce destinata a prevalere sul buio.

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Peter Handke - Poesia - Einaudi

Canto alla durata

 

Peter Handke è uno dei maggiori scrittori e poeti austriaci contemporanei. Cresciuto in una temperie tipicamente novecentesca e avanguardistica, si muta presto a un dettato minimalista e anti-novecentista, come nel poemetto Canto alla durata, scritto nel 1986 e ora riproposto nella Bianca di Einaudi, nel quale egli riflette su quella dimensione così comune ma nello stesso tempo sfuggente e difficilmente afferrabile e dicibile quale è il “sentimento della durata”.
La poesia di Handke ci conduce con leggerezza agli antipodi del mondo "liquido" in cui siamo immersi col rischio di annegare. Egli antepone, infatti, al transitorio, all'effimero, alla precarietà dei sentimenti, un forte senso della "durata", che implica fedeltà alle cose, ai luoghi, alle esperienze in genere, come i viaggi, e in particolare alle persone e a tutto quello che inerisce la memoria di un passato che tende a farsi presente per proiettarsi nel futuro. Dice il poeta: "Restando fedele/ a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante,/ impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,/ sentirò poi forse del tutto inatteso/ il brivido della durata/ ogni volta per gesti di poco conto/ nel chiudere con cautela la porta,/ nello sbucciare con cura una mela,/ nel varcare con attenzione la soglia,/ il chinarmi a raccogliere un filo".
Poesia realistica, ma nel senso più pieno e integrale del termine, quella di Handke, dacché si misura con la realtà esterna, ma anche con quella interna. E il substrato su cui si gioca la ricerca della durata è proprio "in interiore homine", là dove la poesia offre uno strumento di appercezione e riflessione sul mondo o meglio sul senso dello stare al mondo per ogni persona.
Nei versi del poeta austriaco, abilmente condotti su un registro prevalentemente minimalista e narrativo, ritroviamo il connubio di poesia e filosofia. Un pensiero "poetante" che si muta in modo intercambiabile in poesia "riflettente" sulla falsariga di Goethe, definito nello stesso poemetto "maestro del dire essenziale".
E già, perché per Handke è importante andare alla "sostanza" delle cose e il suo intento è quello di essere aderente a una dimensione ontologica, che dia contezza di un possibile senso della vita, che non sia precario né fugace, ma abiti stabilmente nello zoccolo duro della "durata", anche quando siamo imbrigliati nei gesti e nelle azioni più semplici e apparentemente innocui, come lo sbucciare una mela di cui sopra. Anche in tal caso c'è una durata che va al di là del transitorio. Ma nello stesso tempo c'è anche il transitorio nella durata. Ecco perché il suo poema è una ricerca, di indole filosofica, ma è soprattutto un "canto alla durata", là dove la poesia regna sovrana.
"È da tanto che voglio scrivere qualcosa sulla durata,/ non un saggio, non un testo teatrale, non una storia-/ la durata induce alla poesia. Voglio interrogarvi con un canto,/ voglio ricordare con un canto,/ dire e affidare a un canto/ cos'è la durata". Solo attraverso la poesia si può cogliere l’essenza del sentimento della durata. E in fondo, con un atto d’amore.

E allora non resta che dire col poeta che: "Il canto della durata è una poesia d'amore".
Un libro sicuramente da leggere e un poeta certamente da conoscere.

 

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Emanuele Tonon - Romanzo - Mondadori

Fervore

 

Sono davvero pochi i libri che abbiamo modo di leggere e che hanno un sapore diverso. Fervore di Emanuele Tonon è uno di questi.

È un romanzo dal gusto particolare e più lo leggi e più lo assapori  e più ne vorresti gustare il racconto. Senza indigestione alcuna, senza sbadigli, senza fermate. Un libro particolare, rubricato come romanzo, ma di difficile classificazione riguardo al genere.

Potrebbe essere certamente definito romanzo e romanzo autobiografico. Ma leggendolo ci si accorge di una particolarità.

Oggi siamo abituati a leggere molti libri di poesia che vengono definiti tali, nella misura in cui il libro è formato da frasi, che a un certo punto vanno a capo, senza nessun ordine, senza regole, liberamente, direi, meglio, libertinamente e in modo anarchico. Lì dove della poesia in verità non troviamo granché, senza quel fuoco e quel fervore che dovrebbero alimentare il canto in primis nell’effluvio del respiro e nel gioco pneumatico di inspirium e espirium. E nell’inspirium sta inscritta la fisiologica capacità dell’uomo di emettere una frase con undici sillabe. L’endecasillabo, che è un po’ la roccaforte della poesia.

Ebbene, leggendo Fervore ci si rende conto di questa poematicità intrinseca, di questa pneumaticità propria di un canto, che pur non avendo frasi che vanno a capo si con-forma di endecasillabi, per lo più.

Ma non mancano settenari ottonari novenari e talora, se il caso lo richiede, il lungo alessandrino. Basterebbe questa formalità, che sta per sostanzialità, per dire che il romanzo di Tonon è un poema dove abita la poesia più pura.

Ma ci sono molti altri fattori che depongono per la poesia. Il linguaggio è uno di questi. Un linguaggio realistico, certamente, ma di quel realismo che prende le distanze sia da un empirismo spinto sia da uno spiritualismo altrettanto forzato. Realismo mediato da una concezione antropologica che mette in prima linea la corporeità, intesa come una delle caratteristiche imprescindibili della creaturalità dell’uomo.

Non per niente Tonon ci racconta la sua esperienza di novizio francescano. Esperienza voluta, scelta col convincimento dell’appartenenza e dello slancio mistico. Esperienza attuata con serietà e acribia, di cui l’autore-attore in prima persona ci narra le fila più evidenti come le più recondite incavate nel mistero del corpo della psiche e dello spirito.

La stessa serietà con la quale dopo l’anno di prova nell’attesa di prendere i voti avviene la scelta definitiva alimentata dal dubbio.  

Poema sull’ontologia della scelta potremmo definire questo bel romanzo fuori da ogni riga della tradizione narrativa. Come pure potremmo definirlo un cantico delle creature della modernità, vista la bellezza che si affaccia sovente da questa scrittura così polita e cangiante che incarna natura, cielo, terra, animali, luci, colori, canti e soprattutto quel canto di balena immaginaria che naviga nel cielo stellato.

Sicuramente il poema-romanzo è, come dicevo, un inno alla corporeità. Alla persona umana, alla sua unicità, alla sua fragilità fisica e morale. Alle certezze come ai dubbi.

Ma sicuramente un libro di poesia pura per celebrare il mistero del creato e dell’uomo, sulla falsariga della spiritualità di Francesco, il santo “giullare” che continua a in-fervorarci.

 

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Romana Petri - Romanzo - Neri Pozza

Le serenate del Ciclone

 

Vera e propria saga familiare il romanzo Le serenate del Ciclone, che Romana Petri dedica alla memoria del padre, Mario, detto appunto il Ciclone, famoso cantante lirico e attore, dal fisico titanico e dal carattere forte. Un uomo mitico, come è normale che spesso sia per un figlio, ma in questo caso per un quid in più, un uomo caratterizzato da quella fortezza che è spesso virtù di chi ha la consapevolezza di avere avuto un qualche dono di natura, in questo caso dote artistica e non solo, ma che sa quanto sia dura farsi da solo, soprattutto se le origini sono umili e se il contesto sociale è quello che è. Non basta, infatti, nella vita, essere dotato, come nel caso di Mario Petri, che pure ha in dono diversi talenti naturali, quali una bellissima voce e un fisico atletico. Ma ha anche una particolare sensibilità, che lo porta ad avere la curiosità tipica della conoscenza, che lo inducono sin da giovane a divorare libri su libri, di filosofia come di letteratura, in particolare romanzi e nella fattispecie quelli della grande tradizione letteraria russa con a capo Dostoevskij. Come dicevo, nella vita non basta dimostrare di essere un talento. Qualcuno ti apprezza pure, ma poi in determinati punti nodali c’è il rischio di incappare in persone non cristalline. Da ogni punto di vista. E in quel frangente l’invidia, il rancore, e vizi privati ma anche pubblici, ti inchiodano. Ti crocifiggono. E tu muori. Professionalmente, ma anche dentro. A Mario Petri succede proprio questo. E nonostante il plauso di maestri e artisti e personaggi della caratura di von Karajan, che incoraggiano e lanciano Mario, ci sono in particolare due personaggi, un uomo e una donna, che faranno sì che lui si debba incollare la croce per ben due volte, all’inizio e alla fine della sua carriera. Fine della carriera che sarà determinata, se non in tutto, ma in grandissima parte, proprio da un giovanotto rampante, che poi sarebbe divenuto famoso, un direttore d’orchestra, che non solo ebbe il suo momento di gloria proprio in virtù di una magnifica esibizione di Petri nel Maggio Fiorentino, che in parte andava a riscattare una performance musicale del direttore d’orchestra allora definita “bandistica” da parte della critica, ma perché questi non mantenne la parola di quanto avesse promesso in tema di future collaborazioni, ma soprattutto dimostrando la codardia dell’uomo che fugge dalle sue parole date, dalle sue promesse, e anche dalle gratitudini. Questo è quello che si apprende dalla narrazione. E anche altro. Perché anche se non esplicitamente dichiarato, la storia evidenzia come il disagio esistenziale di Mario, scaturito dalle vicende suddette, contribuirà in modo forte a quella sopravvenienza di malattie acute e esiziali, che nel caso di Mario si appaleserà in un battibaleno, con l’improvvisa rottura di un aneurisma dell’aorta addominale, che insieme ai dispiaceri accumulati, lo porterà a uscire una volta per sempre dalle scene di questo mondo, prima del tempo, prematuramente, a soli 63 anni. Fuori dalle scene, fuori dalla scena.

Ma c’è qualcosa di più forte della morte. E è quel senso di presenza nell’assenza che determina il permanere al di là della morte. È così che il riscatto, per quanto possa valere, ma secondo me vale, lo ritroviamo nella capacità di immortalare con un estremo omaggio nella parola a chi è legato a noi da un filo particolare. Romana Petri fa proprio questo. Narra le vicende - e lo immortala - del padre, il suo maggiore mito, attorniato da altri miti, come Kid, il fraterno amico del padre, mito privato, ma da tanti altri miti, anche loro privati, ma molti altri privati e nello stesso tempo pubblici, che avevano fatto parte dell’esistenza di un padre e anche di una figlia, che ora si ritrova a tessere le fila di una narrazione, realistica e mitica nello stesso tempo, di una mitologia che ancora fu possibile nel Novecento e che oggi ancora si dà nel XXI Secolo. Quella mitologia che riempiva le notti insonni di Mario e di Romana di racconti sul presente intrecciati dall’Iliade e dall’Odissea e dall’Eneide.

Il romanzo si snoda per 590 pagine fitte dove il racconto parte dalla realtà più cruda della quotidianità nella quale si accavallano vissuti racconti emozioni tra vita e morte tra piaceri e dispiaceri tra gratificazioni e umiliazioni per elevarsi talora all’epos e talaltra al mito senza pur tuttavia perdere di vista la commedia delle umane sorti, che non ci mettono poi tanto a virare in tragedia. La morte è comunque il tragico dell’esistenza. L’ineludibile e inesorabile. Ma a questo tragico esiste comunque il rimedio che non è un ripiego. E la cura per sopperire al tragico dell’esistenza la troviamo nella nostra possibilità di raccontare, di mettere in parole l’antidoto alla morte. Alla fine per sempre. Che paradossalmente diventa il fine che dà inizio.

Va dato atto a Romana Petri di essere molto abile nella scrittura. In questo romanzo come nelle precedenti prove. Il suo eloquio è naturale, scivola liscio, sia che usi il dialetto, per rendere più realistica la dimensione della provincia umbra, dove abitano le sue origini, e dove si giocano le prime fasi - e le ultime - del romanzo, sia quando usa con leggerezza e padronanza un italiano per niente appesantito dalla letterarietà e così vicino a un linguaggio quotidiano che non teme di incorporare gli idioletti che hanno fatto parte di una zona, di un quartiere, di un certo ambiente e di una certa epoca, nel qual caso a Roma a cavallo tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento.

Una nota del tutto personale. Il romanzo mi ha appassionato a maggior ragione dacché mi sono ri-trovato per buona parte del racconto nelle stesse zone di Roma,  tra Salario e Montesacro e dintorni, dove sono nato e cresciuto, per di più nello stesso periodo storico nel quale avvengono le vicende narrate. E il linguaggio usato e “parlato” è lo stesso col quale sono cresciuto in quel di Montesacro.

Ma al di là del fatto che il romanzo riguardi la storia di una famiglia e di un padre in particolare, e che taluni lettori, come me, possano trovare dei ganci che in qualche modo ci facciano aggrappare con tutti noi stessi per tornare empaticamente a vissuti in cui ci si possa facilmente riconoscere, ritengo che Le serenate del Ciclone sia un romanzo, che riguarda la più alta letteratura per il fatto che chiunque si può riconoscere nel narrato se letto con gli occhi il cuore e la mente di chi tra le righe di questa saga va a cogliere la metafora della vita in universali. Vita che ci riguarda in tutte le sfaccettature narrate, nel bene come nel male, fino a farci cogliere il senso dell’esistenza.

Le serenate del Ciclone, infatti, è il romanzo che fa della letteratura una questione di intreccio coeso con le questioni esistenziali. Il realismo che abita nelle pagine del romanzo è talmente forte che non si può fare a meno dell’immedesimazione fino alla realizzazione di quel processo catartico che smuove al sentire per agire. E è proprio dal sentire, dal sentimento, dalla passione, che parte Romana Petri, per approdare a figure di canto che riescono a com-muovere anche il lettore. Non mi vergogno a dire che in molti passaggi del romanzo, letto d’un fiato, nonostante il volume di pagine, ho provato vera commozione e che nelle ultime battute di questa storia mi è spuntata anche una lacrima.

 

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Franco Cordelli - Romanzo - Einaudi

Una sostanza sottile

 

Sul romanzo di Franco Cordelli, Una sostanza sottile, possiamo dire di tutto e di più. E in effetti leggendo le prime recensioni lo si tocca con mano. Provate a leggere la nota di lettura di Andrea Cortellessa, che, più che una nota e più che una recensione, ha scritto un saggio molto bello e esaustivo. Oppure la recensione di Paolo Di Stefano o quella di Andrea Caterini o ancora quella di Giorgio Ficara. Leggete quindi tutte le recensioni, e sono davvero parecchie quelle che stanno uscendo a ruota libera sulla carta stampata e in rete, per rendervi conto che una cosa è certa: ci troviamo davanti a un libro di tutto spessore per diverse sue particolarità che lo rendono pregevole. Un libro, che nella valanga di libri di letteratura, e ne escono davvero tanti, sicuramente troppi, un libro dicevo, Una sostanza sottile, che si distingue dalla massa per il fatto di avere caratteristiche sue proprie. Ci è stato ricordato e sappiamo che Franco Cordelli, sulla scena letteraria ormai da più di mezzo secolo, è oltre che scrittore un grande lettore di romanzi e il suo acume critico è sopraffino. Per cui, quando decide di scrivere un libro, come questo, lo fa non solo con cognizione di causa, ma lo fa cercando di metterci dentro tutto il mestiere per offrire qualcosa di originale. Ho detto “libro”, quando avrei dovuto dire romanzo, come riportato sul risvolto di copertina. Ma possiamo definire “romanzo” questo libro? Sì e no. Dipende dalla prospettiva in cui ci poniamo. Dipende dalla concezione che abbiamo dei generi letterari e dalla teoria del romanzo che più ci aggrada. E già, perché sicuramente Cordelli ha scritto un libro, che prima di tutto e in modo incontrovertibile è una narrazione, ma è anche un saggio con puntate rivolte  alla riflessione filosofica fino a percorrere strade sapienziali e talora sfiorando la poesia con una convincente prosa poetica.

Un recensore per prima cosa ha il dovere di riassumere la trama del libro. E qualcosa dovrò pur dire in proposito, ma sarò molto breve, non solo per lasciare il gusto alla lettura di ognuno, ma perché nonostante il libro si snodi per 81 intensi capitoli, - sarà un caso che c’è una stretta corrispondenza con gli 80 + 1 capitoli del Libro della sapienza di Lao-tze? - la trama è già piuttosto snella di per sé e allora possiamo assumere lo stretto sunto per dire che abbiamo davanti un padre e una figlia, che vanno a svernare per una vacanza nell’amata Provenza, per fare il punto della situazione di un padre che, dovendo raccontare le sue vicissitudini di un recente ricovero per una embolia polmonare, che lo riduce in fin di vita, prende lo spunto per narrare alla figlia la sua vita presente passata e futura. La figlia è la voce narrante del “romanzo”, ora lo voglio chiamare così, perché a tutti gli effetti è anche per me un romanzo, per quanto non sia in assoluto auto-fiction, autobiografia, romanzo storico, e via dicendo come oggi la moda vuole. La figlia, dicevo, è la voce narrante del romanzo in quanto nella storia ha il compito di trascrivere tutto quanto il genitore le dice di lui, della sua vita, dei suoi dubbi e delle poche certezze, delle sue donne, dei suoi amori, dei suoi amici, dei suoi libri, dei suoi pensieri, dei viaggi, degli incontri, dei suoi libri, dei libri amati e di quelli odiati, del sesso, della religione e poi se non soprattutto della vita come della morte, che lui ha visto in faccia e è stato marchiato al punto da sentirsi non del tutto guarito, ma segnato una volta per sempre. La permanenza in alcuni ospedali dove il protagonista soggiorna per cura e per riabilitazione fanno sì che ci si trovi spesso a sentir dire di stanzoni bianchi, di medici, di infermieri, del bene e del male, della salute e della malattia (fisica e psichica), di terapie. Ma tutto filtrato dall’anima del protagonista, che a un certo punto mette in guardia dai medici e guarda caso li accomuna ai poeti, dai quali pure bisogna tenersi alla larga. Chissà perché. Anche se… Ma tralasciamo questo discorso. I poeti dicevo. E in Provenza non si può non finire a ritrovarsi a parlare di Petrarca, come spesso infatti sarà fatto. La malattia. La malattia del corpo. La malattia della psiche. Ma anche la malattia dello spirito. La questione si fa da organica a esistenziale in un ventaglio che si allarga facilmente. Al punto che il protagonista, superata la fase critica della malattia, si sente lasciato in balia di una guarigione imperfetta, che abbisogna di un percorso terapeutico che si chiama, guarda caso l’analogia, TAO. Ma in questo caso TAO è un acronimo e sta per terapia anticoagulante orale.

Nell’affabulazione che caratterizza la scrittura del libro ci si trova spesso a competere con una strenua possibilità ermeneutica offerta dalla narrazione, che con le sue continue allusioni, i ripetuti rimandi, gli intrecci, i flussi di coscienza, i passaggi di tempo dall’oggi al domani, per andare a ieri e per far ritorno all’oggi, abbiamo a che fare con un dettato che manda in deroga le logiche narrative degli scrittori odierni, che per lo più quando scrivono cercano di farlo linearmente rintracciando immagini e usando una strategia narrativa, che sia in riguardo di una possibile messa in scena del romanzo con una possibile trasposizione cinematografica. Quello che il romanzo di Cordelli non fa e non cerca è proprio questo, ovvero la possibilità di essere e di diventare un film. E questo è, a mio modo di vedere, un notevole pregio per una serie di motivi, ma soprattutto per evitare che la letteratura si trasformi in sceneggiatura. Sarebbe davvero arduo e difficile sceneggiare la scrittura di Cordelli, che narra pure, l’abbiamo detto, fatti, persone, luoghi. Ma lo fa senza nessuna velleità empirica. Il suo realismo non è analitico, di tipo logico-scientifico. È un realismo “integrale” – nel senso che contempla tutto quanto un uomo riesce a far contemplare - e i suoi personaggi come i luoghi sono trasfigurati da un atteggiamento proprio dell’anima, che svolge il flusso di coscienza in narrazione pescando dai vissuti depositati nelle more di una dimensione fenomenologica. Materia, fatti, spazio, tempo, organi e organismi, tutto esiste indubbiamente, ma quel che conta è la lettura, che ne offre il soggetto, in questo caso François, il protagonista del romanzo. E allora lo spessore non è delle cose ma delle relazioni con le cose. Si pensi al sottovia, che spesso viene chiamato in causa durante il racconto, la Galleria Giovanni XXIII, che più che un topos stradale è un topos dell’anima con tutte le sue significazioni simboliche possibili e immaginabili di un tunnel in cui si entra e non si sa se ne esce, tanto più per andar dove… A un certo punto si legge che nel romanzo “si tratta di una sostanza sottile, d’un tratto dell’anima, più dell’anima che del corpo. Ma l’anima senza il corpo certi scatti non li ha, s’addormenta”.

In questa frase c’è una delle chiavi per entrare nel senso, sempre che di senso ce ne sia solo uno, di questo romanzo, che vuole dire come si possa ancora oggi affermare nel XXI Secolo, nonostante tutto, e in controtendenza, che nella dimensione dell’uomo una ipostatizzazione si possa purtuttavia dare. Magari una ipostatizzazione certamente non alla Cartesio, aborrita giustamente da Wittgenstein, ma un tentativo di riabilitazione della substantia al modo degli antichi come Platone e soprattutto Aristotele e dei medievali come Agostino e Tommaso. E alla fine quello di Cordelli sembrerebbe proprio un tentativo di ipostatizzazione della realtà dell’uomo. E ci potremmo chiedere allora se non si voglia dare la primazia all’anima, che per lo stesso Cordelli sarebbe una cosa in controtendenza, dal momento che la sua formazione è materialista. Ma non è così. Infatti, Cordelli riprenderebbe più dall’antropologia degli antichi che non da quella dei moderni. Poiché se c’è qualcosa che non è presente in Cordelli è sicuramente l’idealismo con l’inneggiamento assoluto alla ragione. E infatti l’anima senza il corpo non avrebbe modo di esistere, come abbiamo trovato più sopra, giacché è il corpo a non fare addormentare l’anima. Per cui alla fine Cordelli ci offre la possibilità di riflettere in modo realistico su una concezione antropologica, che mette in chiara evidenza l’importanza della corporeità e secondariamente dei suoi vissuti.

Nel coacervo affabulatorio e affabulante della narrazione con quell’andirivieni da un fatto all’altro, da una cosa all’altra, da una persona all’altra, dal male al bene e viceversa, e così via, passando per vie talora logiche e talaltre illogiche, vi è un andare dalla ragione all’irrazionale, dall’empirico al sapienziale, dalla medicina alla religione alla superstizione, per dire che nei nodi esistenziali giocati tra il caso e la necessità, c’è quella sostanza sottile che tutto lega, che tutto correla e che offre l’opportunità, di avviarci sulla strada della salvezza, là dove vi è una coincidentia oppositorum data da uno stesso nome: il TAO. Il TAO, in senso fisico, è da una parte la terapia profilattica a scongiurare che il corpo si ammali nuovamente di embolia polmonare, la malattia mortale di cui ha sofferto il protagonista, e dall’altra il TAO è quello del Libro della sapienza di Lao-tze che aiuta ad uscire dal nulla, in senso metafisico, per fare approdare all’essere. Insomma, una delle possibili interpretazioni di questo romanzo potrebbe essere proprio quella di avere voluto rilanciare il messaggio di una concezione dell’uomo, che nell’antichità e nel medioevo erano ben lungi dal diventare così come oggi noi conosciamo l’uomo, che la scienza sperimentale ha reso alla stregua di una macchina. La scienza ha i suoi obbiettivi, che non vanno trascurati, tralasciati e abbandonati, perché la scienza può fare molto per l’individuo umano, ma anche la dimensione umanistica ha i suoi fini e non solo non deve essere tralasciata, ma deve essere recuperata e riabilitata al massimo, a contrastare l’egemonia della scienza sperimentale in campo culturale, attraverso l’arte, la filosofia, le religioni, e certamente non da ultima la letteratura, anzi, insomma il mistero, per aspirare anche alla sapienza. Allora il TAO presenta la sua ambivalenza, al di là del nome, che vuole riportare il nostro protagonista a una duplice salvezza. Alla fine, per quanto è possibile, il TAO è lo strumento, nella sua duplicità e completezza, per cercare di tenere in vita quanto più a lungo possibile e nel miglior modo possibile, in uno stato di salute fisico psichico e spirituale, François, in quanto uomo, come persona e non solo come individuo. Insomma, il messaggio di questo romanzo sembrerebbe essere tra gli altri che si cerchi di uscire da una deriva nichilista proprio attraverso una sostanza sottile (substantia), che con le sue interconnessioni e relazioni, ci consenta di accelerare, come fa il protagonista alla fine del romanzo, sulla via migliore, così per lui come per noi.

 

 

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Crocifisso Dentello - Romanzo - Gaffi editore

Finché dura la colpa

 

Una storia avvincente, ben architettata e scritta bene e con leggerezza. Quella leggerezza che Italo Calvino invocava nelle sue Lezioni americane.
A Dentello va dato atto di essere molto abile nella scrittura. Crocifisso è giovane, ma si sente che di libri, come il protagonista del romanzo, ne ha macinati davvero tanti. E alla fine il mestiere lo ha davvero imparato. Il suo linguaggio è fluente, accattivante e semplice, come semplici sono i personaggi del suo romanzo. Romanzo costruito nello scenario della periferia urbana della Brianza, ma che potrebbe essere la medesima periferia di ognuna delle città italiane, al nord come al sud. Là dove, semplicemente, alligna la miseria di chi lotta costantemente con la sopravvivenza attraverso il lavoro. Ed è proprio il lavoro che Domenico, il protagonista del romanzo, detesta. Facendo entrare in crisi i rapporti con la famiglia, già di per sé precari, a causa di vicissitudini, che, guarda caso, attanagliano sempre e sempre più i meno abbietti. Il padre di Domenico è immigrato dalla Sicilia proprio alla ricerca di una sistemazione economica attraverso il lavoro. E vorrebbe che anche il figlio potesse attraverso il lavoro trovare una qualche realizzazione, oltre che portare un aiuto economico alla famiglia. Ma Domenico non ne vuole sapere. Perché in fondo Domenico è un diverso. E la diversità è uno dei fili rossi di questo romanzo. Domenico è un solitario, un asociale, una persona senza amici, che detesta la scuola, non approva la mentalità dei suoi coetanei, non ama fare quello che solitamente amano fare i giovani, andare a rimorchiare, andare in discoteca, parlare sempre di sesso e di sport e di macchine, di sbornie, di fumo etc. Domenico ha un solo interesse, un solo amore: i libri. Le sue amicizie sono tra le pagine e le righe dei tantissimi libri che legge e in particolare tra i numerosi libri c’è un grande amore: Pier Paolo Pasolini, che a un certo punto farà da galeotto alla vera svolta della vita di Domenico, quando, underground, incontrerà Anna, anche lei innamorata di Pasolini.
Domenico è una mosca bianca come per lo più sono mosche bianche coloro che amano leggere, che amano i libri. Solo chi è in qualche modo come Domenico, e non siamo pochi, può capire che cosa significhi rubare del tempo alla lettura al profumo dei libri…
In Domenico scatta quel meccanismo che porta all’eremitaggio sociale, in qualche modo all’emarginazione nella diversità. Diversità in qualche modo voluta, anche narcisisticamente, con consapevolezza e determinazione, diversità da tutti gli altri, la maggior parte, che mirano all’utilità, al profitto economico, alla carriera, al potere, al prestigio, o più semplicemente, come si diceva una volta, al posto fisso. Ma uno dice a se stesso che è contento così e si sente realizzato. Ma tutti gli altri non potranno mai capire che significhi stare con un libro e godersi la lettura, al punto che ti bollano come diverso.
Uno dei tratti, e ve ne sono tanti, a far di questo romanzo 'un grande romanzo' è la costante nota di realismo. Senza troppi fronzoli. Senza iperboli. Si dice pane al pane. E in molti tratti sembra di rispecchiarcisi dentro, in tante situazioni, in tanti personaggi della storia. Che non è altro che storia impregnata di vita. Quando la letteratura si fa vita e la vita diventa letteratura. Una vita, quella vita, attraverso le vicende del protagonista, che sembrerebbe voler rifiutare la vita “pragmatica” per volersi rifugiare nel mondo dei libri e della fantasia, come dicevo, - in quella che sembrerebbe essere per Domenico ed è, mi sia consentito, la vera vita “attiva”. Ma alla fine Domenico si ritrova suo malgrado imbrigliato in vicissitudini e in una vita, non voluta né desiderata, in cui viene gettato a forza e senza volerlo, come la 'gettatezza' heideggeriana ci lancia nostro malgrado nell'esistenza.
Romanzo vero, aderente alla realtà, giocato nella periferia, tra persone umili e semplici, che arrancano non per vivere, ma per sopravvivere, fino a trovarsi in una vera e propria lotta tra poveri.
Sulla falsariga della stravagante diversità di Domenico, che più che definire psicologica mi sentirei di dire spirituale (perché qui c’è un discorso fine e di fondo che inerisce la libertà), si innesta l’altro caposaldo del romanzo che è il tema della colpa. E dobbiamo essere grati a Dentello per averci regalato Finché dura la colpa, che con la sua lievità, ma nello stesso tempo profondità, ci immerge in una temperie realistica tutta contemporanea, ma con radici affondate nella classicità. Come dicevo, uno dei temi forti del romanzo è appunto la colpa, che viene affrontata in modo da richiamare tutta una tradizione a partire dalla tragedia greca e passando per Fëdor Dostoevskij. E ancora una volta ci viene fatto assaporare il mistero della colpa, da cui non se ne esce e non se ne può uscire, finché dura la colpa stessa, dacché è difficile renderla manifesta nella sua genesi e rimane sempre al di là del bene e del male o se vogliamo al di qua...
Altra nota positiva del romanzo sono i frequenti sprazzi di poesia (del resto Pasolini docet e non per niente il poeta friulano è nelle corde non solo di Domenico, ma anche di Crocifisso) e allora troviamo nell’intelaiatura del romanzo un uso molto frequente di metafore, delicate e forti nello stesso tempo, a seconda delle circostanze.
Anche la trama e l'intreccio del romanzo sono da manuale. Nella misura in cui non vi è quell’appesantimento ormai quasi fatale (e inutile) che ritroviamo in molti romanzi. Ma chi ha detto che un buon romanzo non debba essere agile e snello, e invece piuttosto un polpettone o un mattone, come oggi spesso ne troviamo? Alla indigeribilità e alla pesantezza, preferisco l’agile, snella e poetica allusività del dire, del narrare e scrivere quanto basta. ed è questa la cifra della scrittura poetica di Dentello: agile, snella, lieve nella sua efficace profondità.
Alla fine una constatazione su base comparativa. Se letto in concomitanza o in vicinanza con altri libri (come ad esempio il libro La ferocia di Lagioia (vincitore dello Strega di quest'anno), Finché dura la colpa fa perdere ancor più i punti a quei libri, dacché ci insegna, insegna a molti, come si scrive un romanzo.
Per essere opera prima, questo romanzo fa intravedere un bel percorso di Crocifisso come romanziere. Bravo Crocifisso Dentello!

 

 

 



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AA. VV. a cura di Maurizio Casagrande - Poesia - puntoacapo

In classe, con i poeti

 

In un periodo come quello attuale di crisi generalizzata dove anche la scuola entra in sofferenza e i sommovimenti non sono più come da tradizione solo quelli studenteschi, ma a rivoltarsi è il mondo dei professori e dei maestri e entra in crisi perfino la poesia, di cui negli ultimi mesi si è riproposto il tema della sua paventata fine, avere sotto gli occhi un ponderoso libro fatto e scritto da poeti che in qualche modo ritornano in classe, debbo dire che è una inaspettata bella esperienza di cultura di civiltà di attualità.

Il libro In classe, con i poeti, curato da Maurizio Casagrande, prende le mosse proprio dal male della scuola. Male fisico ed esistenziale, che da sempre è esistito, che da sempre ha serpeggiato nel malcontento degli studenti da una parte e degli insegnanti dall’altra, in una dimensione spesso non gratificante per nessuno, ma che negli ultimi anni si è acuito, perché questa che abbiamo è una scuola niente affatto buona, tanto più come è emersa dalle azioni per così dire riformatrici degli ultimi governi, in uno pseudoefficientismo, che neglige la ricerca dell’eccellenza. Non ci resta che dire: ebbene sì la malattia della scuola rischia di diventare esiziale. E se non si corre ai ripari con un buon farmaco (to cure) e prima ancora con le migliori cure (to care) sarebbe forse troppo tardivo qualunque intervento.

Il farmaco adatto e il prendersi cura per rivitalizzare la scuola sembrerebbe passare attraverso l’autoreferenzialità, visto che in questo caso sono i poeti a vestire i panni del terapeuta. Ma ben venga in questo caso l’autoreferenzialità. E allora, tout court, sembrerebbe che la migliore cura non possa essere che la poesia o quantomeno lo spirito che la anima. Con il suo ottimismo di fondo, con la speranza in un domani migliore, e poi con quella carica di emozioni, di sentimenti, di passioni, di virtù, ma anche di intelligenza, che privilegiano anche, se non soprattutto, la diversità, per evitare appiattimenti e sotterfugi, e ampliare orizzonti in vista del buono del vero e soprattutto del bello, per far sì che la scuola rappresenti il trampolino di lancio per una vita che sia aperta e  alla ricerca della felicità, aperta alla bellezza e non chiusa, come oggi spesso è, nello stallo di un grigiore aporetico e annichilente, nella misura in cui i valori paiono essere quelli di un identitarismo individualistico, che muore nel suo stesso essere ossimoro, votato all’egoismo e all’utilitarismo più bieco.

I poeti, 87 poeti tra i migliori della nostra contemporaneità, si cimentano in questo bel libro nel confrontarsi con temi e problematiche della scuola. Voglio qui citarne alcuni, senza che gli altri se ne dispiacciano, per far comprendere dal solo nome lo spessore di questo libro, che si compone di una scrittura, che si embrica tra versi e prosa in un cimento poetico tra narrazione e lirica con problemi eventi memorie visioni illusioni disillusioni aspettative veglia e sogno fiaba e dura realtà il tutto comunque vissuto nel prodigio dell’esistenza più autentica in un passato che si fa presente e in un presente che si vuole immergere nel futuro. Ecco allora che ci imbattiamo nei vissuti scolastici dei poeti e entriamo in classe insieme a loro per sentire le voci, tra gli altri, di Sebastiano Aglieco, Mario Benedetti, Pierluigi Cappello, Tiziana Cera Rosco, Claudio Damiani, Milo De Angelis, Gianni D’Elia, Eugenio De Signoribus, Anna Maria Farabbi, Mauro Ferrari, Umberto Fiori, Alessandro Fo, Mariangela Gualtieri, Marco Merlin, Massimo Morasso, Giselda Pontesilli, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Beppe Salvia, Gino Scartaghiande, Gabriella Sica, Alberto Toni, Andrea Zanzotto.

Dalla lettura del libro, - i cui registri le sensazioni i temi le passioni sono i più diversificati e per i quali non entro nello specifico, rimandando alla lettura dell’intero testo, - che come dice Casagrande, è “improprio definire riduttivamente un’antologia”, emerge soprattutto un dato, che è quello di dare atto alla poesia e ai poeti di essere unici nel saper leggere la realtà a trecentosessanta gradi. Dice espressamente Casagrande, che questo libro è “più che un’antologia, dunque, un incrocio di sguardi, di vite, che declinano nell’unica maniera possibile – quella sempre mutevole e varia dell’esperienza individuale – il sogno di una scuola veramente degna di questo nome: in una parola l’arte, la scrittura, la poesia, la vita stessa come cura, come forma più alta di pedagogia per un amore sì, ma 'con gelosia'”, a scanso di equivoci creati da pseudo-esperti e tecnici e politicanti e burocrati, che nulla hanno a che fare con scuola e pedagogia. In fondo, il vero maestro, quello con la emme maiuscola, è quello che è anche un po’ poeta, che si rapporta in modo genuino e diretto alla vita alle persone agli oggetti senza sovrastruttura alcuna.  

I poeti hanno, infatti, un loro metodo e una loro verità, come diceva Gadamer, e non hanno niente da invidiare agli scienziati, ma anche ai sociologi e ai filosofi. Tutt’altro. Perché l’arte e la bellezza riescono molto meglio nel cogliere quanto è più vicino all’indole umana. Anche perché contrariamente a quanto si crede, la poesia non è solo poiesis, ma è anche praxis, è esperienza globale di vita e nello stesso tempo è morale.

La scuola, dunque, potrà sopravvivere al malanno se la poesia potrà curarla e prendersi cura di lei. Ma come? Semplice a dirsi ma ancor più facile a farsi. Quando si è malati si va dal medico, il quale, fatta la diagnosi, prescrive la terapia, che si sostanzia in un farmaco, che quindi il paziente acquista in farmacia. Allora e solo allora il malato ha il prodotto concreto tra le mani e può quindi assumerlo in attesa della guarigione.

Così, fatta la diagnosi della malattia della scuola, trovato il rimedio nella poesia, non resta che leggere la parola dei poeti. A questo punto occorre andare in libreria e comprare il libro per cominciare la cura sperando nella guarigione. E di libri di poesia, per curare i diversi malanni di questa nostra società e non solo della scuola, ce ne sono diversi e tutti di buona qualità ad attendere di essere comprati e somministrati, a cominciare da questo libro, in vista di una migliore salute del nostro essere umani. Il testo infatti potrebbe essere una buona occasione qualora fosse anche adottato nelle scuole medie primarie e secondarie, per iniziare a essere fattivi nel dare una nuova svolta pedagogica ad una scuola che si sta attorcigliando su se stessa in un’agonia senza pari.

Per concludere, lo faccio dando la parola alla poesia e in pratica ad un solo poeta, ascoltando Gino Scartaghiande, non potendo che rimandare all’ascolto diretto di tutte le altre 86 voci poetiche, che non sono da meno, alla lettura diretta del libro:

 

"Ci siamo dilacerati tra la consapevolezza di un alto sole che sorgeva, ogni maestro e maestra, ed ogni amico, tale è sempre la scuola per noi, e qualcos'altro di inconsapevole. Ma il Maestro già ci portava lontano; e più le materie si impigrivano, inerti, più Egli ne attraversava gli estremi, come la bellezza di un giovane intangibile, senza nome, senza possibilità di nessuna storia in comune. Pure, precipitando, si educava un'innocenza giovanile. Un originale abisso di ognuno”.

 

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Le scuole vivevano

di giorno

quando anche noi

eravamo andati via.

Entrava un sole

su per l'alto finestrone

e popolava di un suo silenzio

il rombo chiaro e dentellato

delle ore;

noi posavamo poveri

quel po' di polvere di ognuno

per guarire.



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Bruno Galluccio - Poesia - Einaudi

La misura dello zero

 

Un andamento poematico di ampio respiro quello de La misura dello zero, che abbraccia il tempo di vissuti lirici imbrigliati nel pensiero scientifico, fisico-matematico-cosmologico, che fa da sponda alle più ampie riflessioni sulla vita.

Lo zero è il punto di riferimento, il non-quid, che dà luogo alla possibilità del misurare, il nulla che rende possibile l’essere. L’essenza, tutto-niente, che commisura l’esistenza.

Lo zero è la circolarità che parte e ritorna dal vuoto, è il soffio, per restare nell’identità dell’etimo, di Zefiro proveniente dalla notte. Per far sì che si annunci la solarità e la rinascita della primavera (“Zefiro torna e il bel tempo rimena”, Petrarca).

Bruno Galluccio è il poeta per antonomasia, che non disdegna la cultura scientifica, - e pertanto assai distante dall’umanista Petrarca, - e non potrebbe farlo in quanto fisico, ma la riassume e la trascende in una concezione del mondo, che prende le distanze da una concezione positivista e materialista, per dare il là ad un canto nuovo, che pur tenendo alta la considerazione della scienza, con le sue caratteristiche e i suoi metodi, si approccia al mondo e agli uomini con un metodo nuovo, che non privilegia l’analisi, ma che porta nella sintesi la riflessione, il pensiero e la parola con una concezione nuova e diversa da quella oggi prevalente anche nella quotidianità, per gridare in modo forte il ruolo del poeta e della poesia anche in questa contemporaneità, dove tutto sembrerebbe essere ridotto (il riduzionismo) a quei minimi termini esplicativi, sulla falsa-riga della scienza, che disdegna, per lo più, una visione olistica, dove la comprensione e la contezza del fatto che la somma è sempre maggiore delle parti va in deroga a qualunque possibilità di misura che non sia appunto la cum-prehensione del tutto.

La silloge è composta da cinque sezioni: Misure, Sfondi, Matematici, Transizioni, Curvature.

Lo zero rappresenta il vuoto spaesamento davanti al mondo, davanti al mistero della vita e lo stupore insorge a ricucire lo strappo e lo fa attraverso la parola. Il linguaggio si fa allora strumentale per la scienza e in tal modo perde per strada lo stupore e acquista la freddezza che spaesa ancora di più. A meno che anche la scienza non ceda ad un linguaggio altro che non si perda nei rivoli dell’inconcludenza e dell’inautenticità.

Bruno Galluccio da buon conoscitore della scienza, in quanto anche scienziato, sa bene di che cosa si sta parlando e allora non carica di priorità il linguaggio scientifico, talora lo usa in figure retoriche e lo metaforizza, andando addirittura contro il metodo scientifico, e cede al linguaggio che solo può portare a salvezza l’uomo. Il linguaggio della poesia, che travalica ogni linguaggio strumentale, tecnico, scientifico, sociologico, giuridico, storico, etc., e che attraverso la ricerca non solo e non tanto della verità si apre alla ricerca prioritaria del senso, che viaggia su percorsi etici ed estetici. La poesia che si crogiola nel bene e nel male, nel bello e nel brutto, cercando così questa sua verità, che pur avendo rilevanza sul piano cognitivo non può basarsi solo ed esclusivamente su una dimensione epistemica.

E lo zero, e quel  vuoto che implica, è la misura incommensurabile di qualunque impossibilità, che neppure la scienza può sanare, ammesso che quel vuoto esista, in quanto enigma, e che rimarrà pur sempre mito, “lo zero/ è una funzione fantasma/ un valore esatto che non si può raggiungere”:

 

il vuoto sempre un enigma e un mito

abitante con orrore delle prime

domande infantili sull'universo

quando uscire dalla casa è pensiero

e l'oltre era segnato

dall'incubo dell'abbandono

 

e quel vuoto sembrava proprio

lì fuori di casa in agguato

un agguato lontano e incombente

un allontanarsi dal cieco

o muoversi senza ragione

abbandonando i punti cardinali

 

oggi sappiamo che il vuoto non esiste

ci sono ovunque fluttuazioni quantistiche

ovunque perturbazioni di campo

che fanno apparire fotoni o materia

perché anche qui lo zero

è una funzione fantasma

un valore esatto che non si può raggiungere

 

E così la morte di ogni uomo e l’eventuale estinzione del genere umano non potrà essere un ritorno all’infinito da cui si proviene, ma per paradosso sarà un abbandonare questo stesso infinito e l’universo non potrà sapere di questa “minima frazione” in cui l’universo si è riassunto in un così breve periodo:

 

morire non è ricongiungersi all’infinito

è abbandonarlo dopo aver saggiato

questa idea potente

 

quando la specie umana sarà estinta

quell’insieme di sapere accumulato

in voli e smarrimenti

sarà disperso

e l’universo non potrà sapere

di essersi riassunto per un periodo limitato

in una sua minima frazione

 

Se in Misure, il linguaggio, seppur trasfigurato, è prevalentemente quello strumentale della fisica della matematica della geometria della cosmologia, in Sfondi si entra nella dimensione della terrestrità e della quotidianità:

 

senti la terra delle parole

il seme del distendersi

vanno tracciando dritto per i campi

con una strana impazienza ti affretti

alla casa degli anni

il capogiro è da gerani del ricordo

dall’eco dei gelsomini evocato nella polvere

la prima notte qui sarà una notte

di presenze e di deformazioni

altra polvere dentro casa che aspetta

in armi di estraneità e abitudine

giorni su giorni da non poter combattere

dolorosa assenza di odori di cucina

ragnatele che toccano il viso

e una litania di verbi andati

 

E dopo il passaggio nella breve sezione di Matematici, composta da tre composizioni dedicate a tre eminenti figure di matematici intitolate Pitagora, Evariste Galoise e Kurt Gödel, significative per il fatto di evidenziare come dietro la scienza ci siano comunque degli uomini, delle persone con una loro singolarità biografica ed esistenziale, ci si avvia a quello che è il pezzo forte della poesia di Galluccio, ovvero alle ultime due sezioni di Transizioni e Curvature, che rappresentano il culmine della dimensione lirica di questa silloge.

Il linguaggio diventa ora piano, si addolcisce nell’abbandono del linguaggio strumentale, diventa il docile pass-partout della quotidianità e travalica lo spaesamento gnoseologico ed epistemologico per approdare al turbamento dello stupore esistenziale.

Si entra in una dimensione che da cosmica si fa terrestre, familiare per l’umanità e si apre al paesaggio mondano, alla natura, ai travagli urbani, al mondo degli affetti, delle passioni, delle speranze, delle illusioni, delle disillusioni, del passato, del presente e del futuro, e di ritorno al confronto diuturno con la vita e con la morte. E così non si percorrono più gli anni luce dello spazio cosmico, ma si rientra nel ricordo di un agosto caduto nel tempo di una passeggiata:

 

andando a ritroso coprendo le cadute di tempo

entriamo nell'agosto di quella passeggiata

 

la domanda negli occhi scuri

l'impazienza e il dolore per quello

che allora era futuro

 

malgrado il ruvido che a volte affiorava

e prendeva alla fronte alla voce

eravamo dalla stessa parte

 

la passeggiata era a tratti contenuta

da un passamano di corda

assecondava le rientranze della roccia

 

nei punti di sporgenza sul mare

ci prendeva l'aria

 

Il tempo e lo spazio sono ora quelli cittadini e quelli casalinghi e tutto è giocato nei tre tempi di presente futuro e soprattutto passato, per quanto “chi ricorda è perduto”. E lo stato di veglia si affastella ad uno stato quasi onirico che dona al sogno una carica di verità che spiazza la realtà della veglia. E i corpi celesti si misurano con i corpi terrestri di uomini e cose:

 

la luna onora le finestre chiuse

hanno sogni di rarità

perciò proiettano disegni

lungo le pareti

la nascita le attraversa

 

ma adesso non tutto è sogno

il tempo preserva le sue ore

nel bruciare discreto delle dita

il plastico curvarsi delle scapole

nello strisciare ferendosi la bocca

amano quindi come si può

durante una caduta

 

in oscura verità

dove più si tende la scena

e imitazioni di ombre diventano corpi stellari

 

In Curvature, ultima sezione della silloge,si ha il compimento della poesia di Bruno Galluccio con una perfetta embricazione del cosmico e del terrestre, in un olismo che sa comprendere in sé con l’acribia del poeta, e che solo un poeta potrebbe portare a compimento, scienza e humanitas nonché tutta la realtà fisica e metafisica nell’orizzonte e alla stregua non di un Rinascimento e di un Umanesimo, che avrebbero portato all’individualismo e al solipsismo radicatosi nella modernità e ancor più nella post-modernità, ma nella dimensione comunitaria e universalizzante del nostro Medioevo e forte di una tradizione realistica a datare dalla Commedia di Dante.

Straniati e spaesati, gli uomini, su questa terra e in questo mondo, tentano di fare luce e di dare tepore a questa vita come in una chiesa buia, dove il sereno è donato dal cielo di un quadro che per quanto malmesso fa da contraltare al buio e all’ombra, che quasi rassomiglia a quella di un carcere.

Coloro che portano i ceri a far luce, i poeti, tentano di avere “lingue forti” e alla luce della parola invitano ad attendere e a sperare; con il miracolo della poesia, che imprime curvature su linee di senso, che fanno incontrare le rette di fisica e metafisica, che ormai da troppo tempo stanno aspettando di ritrovarsi ad un in-crocio:

 

gli uomini entrano e portano ceri

li conducono nell’ostacolo delle inferriate

nella foresta dei banchi e dei legni

le concavità dell’ambiente mangiano la luce

e all’improvviso come una tagliola

il freddo

 

coperture sono ammonticchiate testi di peccati

polvere di buone intenzioni e insofferenze

lì sempre a camminare in un dominio

che proviene dall’oscurità

 

inginocchiatoi tarlati appoggi

umido nelle mani infiltrazioni nel collo

e il sereno del cielo nel dipinto

malmesso all’ingresso

già è lontano e irricevibile

timbri e sigilli dietro i sottili fumi allungati

 

hanno tentato di essere forti le lingue

e loro portano ceri e lo sanno

e vanno dicendo

qui avete posto da attendere

 

*

Alberto Toni - Poesia - Nomos Edizioni

Vivo così

 

Da più parti è stato detto come la poesia di Alberto Toni sia di difficile collocazione nel novero delle pur sbagliate approssimazioni, che tendono a incasellare i poeti in qualche corrente poetica o di pensiero, come pure in qualche scuola. In effetti, pur facendo parte della scuola romana a datare dalla seconda metà del Novecento, con intonazioni molto vicine alla sobrietà linguistica dei neo-classici, e pur avendo riferimenti forti, a detta del poeta stesso, con Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Vincenzo Cardarelli, Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Amelia Rosselli, Elio Pagliarani, Sandro Penna, Yves Bonnefoy, Elio Pecora, Mario Benedetti, la poesia di Toni sfugge a codificazioni di siffatta specie, soprattutto per il fatto che, come gli viene unanimemente riconosciuto, ha una sua propria originalità di timbro e di intonazione, che tra l’altro, come dice Santagostini nella Prefazione a Vivo così, il libro di cui ci occupiamo qui, si esplica in una modalità di genere che è a cavallo tra lirica e epica. E nella dimensione lirica, qui lo dico e qui lo nego, perché sarebbe necessario un dovuto approfondimento, mi sembra di poter cogliere alcuni tratti della poesia di Toni affini alla poesia di Milo De Angelis. Poesia di difficile collocazione questa, pertanto, così come di difficile approccio, dal momento che le recensioni e le letture fatte fin qui mettono in evidenza come sia davvero difficile cogliere nell’andamento narrativo di quest’opera, che è un dato di fatto, il filo rosso che tiene legate insieme le diverse poesie della silloge. Anche per quanto attiene alla liricità dei versi c’è concordia, dal momento che quasi tutti si soffermano sulla forma, sulle figure retoriche e sulla metrica dei versi, sui quali non c’è davvero nulla da dire per il fatto che denotano una sempre maggiore ineccepibilità e maturità stilistica del poeta, che, secondo il mio modesto parere, con questo libro raggiunge un livello sempre più alto rispetto alla sua produzione precedente, vasta e comunque sempre piuttosto impeccabile, tanto da renderla una delle maggiori voci della poesia contemporanea. Va però detto, che in pochissimi si sono cimentati nell’entrare dentro le righe della sostanza dei versi, sostanza che pure c’è e che emerge in modo prepotente ad ogni ulteriore lettura. Perché questa silloge, come tutta la poesia che si rispetti, ha bisogno di essere letta e riletta e non una ma più e più volte, per avere modo di soppesarla, di guardarla, di rimirarla e di entrare ogni volta di più a contatto con le sue possibilità ermeneutiche, ovvero con l’offerta di significato e di senso che essa pone.

E allora proverò a tracciare, seppure in breve, sia il filo rosso di Vivo così, sia il possibile significato, sia il possibile senso. Perché è stato anche detto che la poesia di Toni per i passaggi criptici dei suoi versi è vicina all’ermetismo del Novecento, ma è stato anche detto che questa poesia si staglia all’inverso sui canoni dell’anti-novecento. A tale proposito dico subito la mia impressione. La poesia di Toni pur essendo di difficile lettura, se non altro di primo acchito, per una qualche cripticità ermetica, non può essere analogata alla poesia ermetica del Novecento, nella quale vi era una vera e propria fuga dalla realtà, come ha ben sottolineato Giuliano Ladolfi. L’ermetismo era alla ricerca di una poesia assoluta sganciata dalla vita, qui piuttosto c’è un tentativo forte di approdare a una poesia che si faccia carico di una parola, che a prescindere dalla banalità linguistica, che qui non c’è assolutamente, possa traghettare verso lidi dove senso e significato della parola poetica siano la ricerca forte di un ritorno alla realtà.  La letteratura e in particolare la poesia declinata come verità, intesa come adeguamento del pensiero alla realtà, - piuttosto che come menzogna, intesa come parola inautentica, perché autoreferenziale al solipsismo dell’autore, come spesso altrove avviene, - è, allora, la cifra della poesia di Alberto Toni, che con la silloge Vivo così ne suggella in qualche modo un percorso iniziato, ormai, come abbiamo detto, diversi anni fa e che ora si attesta a dimensione di struggente forza poetica raggiunta attraverso la maturità nella consapevolezza della biunivocità di vita e poesia, che tendono al ricongiungimento pro-nomiale, e non solo, dell’io e del tu nel noi, che rende universale la poesia, in una dimensione cognitivista e etica della parola poetica.

Verità, a proposito di che ci chiediamo? Verità intesa soprattutto come ricerca di senso nella dimensione della complessità esistenziale, che si sostanzia in una visione della vita e della poesia nella loro massima interazione, che vuole l’esperienza di vita alla ricerca non solo del senso dell’hinc et nunc, ma anche dell’oltre e viceversa. Non per niente più volte compare nella trama poetica quel Dio, di cui spesso ci chiediamo quanto sia presente oppure assente, soprattutto quando c’è di mezzo il male, ma che seppure nella fattispecie di Deus absconditus, quel Dio prossimo e ribelle, denota comunque quell’Essere, di cui siamo in qualche modo vivendo in attesa. Quel Dio che conosce tutto, come il tratto dei misteri: Dio lo sa nel silenzio che attraversiamo e che attendiamo perché talora ci vuole la mano di Dio. E quindi il Dio risolto.

Vivo così. Pare che già il titolo sia emblematico e nello stesso tempo rivelativo. Vivo, dice il poeta, vivo la vita attraverso gli accadimenti e gli eventi, ne colgo gli aspetti salienti e cerco di rimanere nell’esemplarità del gesto, che si tramuta in parola e che ne svela il mistero, nel bene e nel male. Come? Così: fondamentalmente, semplicemente, vivo d’attesa. E sono vivo nell’attesa. L’attesa di qualcosa o qualcuno, meglio Qualcuno, che prima o poi si sveli. E che noi vivendo attendiamo in un’aura di sacralità attesa al mistero di una vita, di cui possiamo e dobbiamo continuare a stupirci, sperando. E comunque in presenza e in comunione con gli altri, con la loro calda mano, che illumina, riscalda e conforta:

 

Vivo così: d’attesa,

spergiurando su cosa mai può essere:

cuculo, tortora d’attesa. Oscilla il lume,

la calda mano degli altri.

 

Mi viene subito da dire, dopo avere letto e riletto questa bella e originale silloge, che la poesia di Alberto Toni è una delle massime espressioni della poesia contemporanea che vuole dare voce a un realismo onnicomprensivo, intendendo con questo un realismo che non si fermi soltanto agli aspetti naturali, empirici e razionali, e sociali, dell’uomo, ai suoi bisogni fisici e fisiologici, ma che vada oltre alla ricerca della genuinità del suo essere che implica il soffermarsi, camminando e cercando, su quanto fa parte della vera natura dell’uomo, che pur essendo un corpo, fatto di materia, va oltre il dato empirico, perché sia colto nella sua originarietà e originalità di unitotalità somato-psichica-spirituale.

La vita può essere vista, certamente, di primo acchito, sotto la lente della biologia, ma anche sotto quella della psicologia, che poi non si discosta molto dalla prima, ma soprattutto la vita può essere avvicinata e vista nei termini di una visione fenomenologica, nella quale il dato di coscienza ne rende chiari gli aspetti di fondo nel momento in cui la coscienza ci rappresenta la vita come esistenza, e, in quanto esistenza, da giocare nel migliore dei modi. La vita come esistenza pone i problemi della verità e della menzogna, del buono e del cattivo, del bello e del brutto, e del senso e del non senso, dell’essere o del nulla, quindi implica una dimensione strettamente legata alla più alta caratteristica dell’uomo, che è la sua libertà e che ne connota la sua spiritualità. Insomma, la poesia di Toni mi pare che possa stare benissimo nell’alveo di questa dimensione, che non esiterei a definire ontologica, nelle more di una concezione dell’uomo, oltre che come Dasein, esserci, come vero e proprio essere, che germoglia dall’Essere, e comunque, in quanto esistente, se ne pone tutte le problematicità per cercare di venire fuori dalle aporeticità del nulla, che fa slittare sull’orlo di un baratro senza fondo, se non se ne esce con una qualche ricerca di senso da dare all’esistenza stessa.

Poesia quella di Toni, dunque, tout-court, personalista. Poesia nella quale c’è un gioco dell’io del tu del noi, che richiamano in modo evidente le notazioni del pensiero personalista di Maritain, Mounier, Marcel, Ricoeur e soprattutto Levinas. Non per niente, mentre i luoghi naturali e urbani e la natura spesso sono evanescenti, approssimativi, indefinibili, non lo può essere il volto dell’uomo, di quest’uomo, qui e ora, che vive in questi luoghi, il volto dell’uomo prossimo a noi, che sta davanti a noi e che ci ricorda che siamo proprio perché c’è quel volto, quell’uomo, che ci guarda e ci interroga e ci invoca a una risposta con responsabilità e libertà.

Poesia e vita, dunque, che si radicano nell’esperienza di una onticità forte, senza infingimenti e ipocrisie, senza menzogne e falsa retorica, ma che si stagliano in modo altrettanto forte nell’orizzonte metafisico. E la parola poetica, nel frangente, ha il compito, oltre che teorico, pratico, di aiutare a reggere l’alto lascito di un impegno morale, che l’uomo, e ancor più il poeta, assume nella sua libertà, che è nello stesso tempo responsabilità.

La vita è certamente bella e va vissuta, ne vale la pena, ma non sono tutte rose e fiori, anzi, una delle costanti dell’esistenza è il dolore, fisico e morale. La vita può essere certamente rappresentata come una commedia, in alcuni passaggi sembra drammatica, ma se vista dall’alto e nella sua univocità legata al momento della persona, la vita ha del tragico. Nella misura in cui è, in ultima analisi, sotto lo scacco della morte. Ora che cosa è che fa pensare alla morte? Certamente vi sono i tanti casi di morte violenta, delle tante troppe morti causate dalle guerre, ad esempio, ma poi vi è la costanza delle morti naturali. E la morte, intesa a chiusura del percorso esistenziale, spesso è preceduta dalla medicalizzazione, oggi sempre più accentuata, della vita e così anche della sua fine. E uno dei momenti per i tanti che hanno la sventura di trovarcisi, è, nella malattia,  il momento dell’ospedalizzazione.

Ora è proprio l’esperienza della malattia, del dolore provocato dal male fisico, dolore che in partenza è fisiologicamente corporeo, ma che presto diventa anche dolore psicologico e quindi morale, e spirituale per meglio dire, che infligge all’esistenza la tara di quell’angoscia, che mette davanti alla coscienza la morte.

In questa silloge il filo rosso di cui si diceva all’inizio è proprio quello dell’esperienza e dei vissuti di questo dolore, che emergono in una location, che è quella dell’ospedale, luogo-non-luogo per antonomasia, che suscita le più svariate cognizioni ed emozioni e che, se visto non nei termini di un pensiero positivista e solo empirico e razionale, apre la porta ad una ermeneutica di senso e di significato, che in questo caso Toni sviscera con il bisturi affondato non nella carne ma nell’anima.

Il male fisico conduce davanti a molte porte e spesso tali porte non si aprono. E i vissuti si fanno i più svariati, anche se prevalgono la sofferenza e il dolore che non sono soltanto fisici e che anzi facilmente si trasformano in angoscia esistenziale.

Ma non è detto che si possa andare in deroga alla prevalenza dell’aporeticità del male:

 

Dopo, molto dopo. La porta è spalancata,

il raggio mi riconquista, finis terrae

in preghiera mattutina il tuo messaggio.

E c’è spazio per una nuova festa, amata,

disancorata.

 

In ospedale ci sono non solo pazienti, non solo individui biologici da studiare, che si danno alla scienza medica, ma uomini, persone come Raffaele, che porta nel suo letto di degenza la sua storia, i suoi affetti e i fantasmi di una vita:

 

Raffaele, operaio Fiat, la notte al muletto,

è solo un tempo fantasma

che racconta di sé e del dolore non smette

mentre dall’altra parte il nipote non sa,

poi chiude gli occhi per pensare al domani.

Forse, si chiederà più tardi, il tormento

non passa così in fretta e ci sarà bisogno

di ricordare.

 

A Raffaele non resta altro che la sua incoscienza giocata in un letto d’ospedale e lui è assorto dentro il quadro degli affetti, nell’elegia di un sogno che vale perché è presente nell’assenza nel cuore dei suoi cari, e forse anche lui sta sognando:

 

Raffaele non ha ancora reazioni alla vita.

Giugno potrebbe essere un mese come

un altro, ogni notte il gemito strazia l’aria,

corrompe il silenzio mai puro, tira in ballo

sogni di un’età spaventosa e raggiante.

E’ assorto

dentro il quadro degli affetti. Mancano.

Nulla toglie valore al sonno. 

 

In ospedale si vive. Si entra in ospedale e si esce, come nella vita. Sul come si esce è meglio sorvolare. A volte si esce meglio, altre volte peggio. Talora si entra, ma non si esce più. E comunque i letti si liberano. E allora avanti a chi tocca, e si hanno nuovi compagni di avventura:

 

G. ora allo stesso posto dell’altro.

Caricava un sorriso al mio rientro,

la moglie preoccupata di lasciarlo solo.

È l’umanità mite al suo bivio, mentre

per noi, carichi di presente, il cielo

è un improvviso transito di tutto ciò

che è stato. Il dubbio era proprio

negli occhi che bruciavano, sibilava già maturo in me.

Come dirlo? Come spiegarlo senza perdere il filo,

la vita, dormire un po’ tra le tue braccia in abbandono.

 

La vita scorre, va avanti anche in ospedale; si deve sottostare comunque ai percorsi stabiliti; si è come in un carcere, la metafora c’è tutta, come il corpo è carcere della nostra libertà, e per conoscenza, solo per la conoscenza si sottostà, perché si sappia, la diagnosi impera, fino a recinti di consapevolezza, ma poi non sappiamo se l’illusione è verità o viceversa e non resta, allora, che la trasparenza di un vetro a separarci dai colori che chissà se vedremo in una sola volta nell’istante:

 

Tutto deve andare avanti.

Ma poi noi non sappiamo

se l’illusione è verità. Allora scendo

e salgo fino alla prova e non per paura

e dolore, ma soltanto per conoscenza.

Vedrò tutti i colori insieme, soltanto

per un istante? Un vetro solo che separa,

esclude tutte le immagini più volte ripetute.

 

Nel vortice degli eventi, ci si dibatte dal male, si esce dal corpo, tra flussi di tempo e flussi di liquidi tra vene e flebo; il male mette tutto in bilico, in procinto della caduta; nonostante questo, non ci può essere abiura, rinuncia e abbandono, ci si può solo nascondere:

 

Uscire dal corpo si può,

per tenere il fuori campo, dibattersi,

controllare il flusso con tutto che rallenta.

Simili richieste dovresti tenerle per riprendere

fiato, una volta era più facile: bastava la vita

battente che si alzava a vortice. Non ora che

tutto è in bilico. Ma non c’è abiura, solo

nascondersi.

 

La vita in ospedale non può che consumarsi in alterità e di questa alterità consta il diario di bordo dei vissuti più diversi, che vanno agli antipodi dal dolore alla gioia, dall’amara consapevolezza del corpo come carcere alla dolce fioritura inebriante del gelsomino là accanto:

 

Un diario di alterità.

Corpo e prigione ma anche a un passo il gelsomino

tutto per te è fiorito.

Senti il vestito che ti va stretto

e non rinunci al sorriso.

Qualcuno penserà: quelle

aeree parole in cima alla collina

serviranno al risveglio.

 

Più sopra parlavamo del volto, che richiama alla prossimità e all’alterità. Le facce sono le maschere, sono le persone, che siamo e che ci invocano alla reciproca responsabilità e solo allora ci dicono che siamo davvero liberi. Nella misericordia, nel conforto. E in ospedale questo vale a maggiore ragione:

 

La bella faccia di R. Gli ho dato tutto

quello che avevo, non il superfluo, ma la parte vera,

l’essenziale parola nel conforto,

la considerazione mentre sdraiato

si lasciava andare e andare.

 

Ci sono l’assenza, l’ineffabilità, che rischia di portare all’afasia, la comparsa di una madre, accanto, i bambini lontani, che godono del mare, e la cogenza dell’ansia che conduce all’angoscia dell’essere assente, di non esserci, e che fanno toccare con mano, come avviene spesso in questa raccolta, lo zenit della lirica:

 

Una madre accanto, in sovrapposizione,

mentre i bambini si godono il mare

lontano, più lontano da ciò che verrà.

Crescono tra il mare e la città,

linea d’ombra, vita e sorgente

e l’ineffabile che ha il nome

dell’ansia congenita della sfida in avanti.

Nominati all’ascolto, mentre il corpo

già tormenta l’asfalto con fatica dei tanti

che verranno forse dopo a nominarlo, l’assente.

 

Ecco che l’attesa si fa nuovamente viva, e nell’attesa di un giudizio che potrebbe essere a prognosi sfavorevole, si prende il coraggio a due mani e si cerca, pur eludendo il nome del possibile evento, anche un improbabile entusiasmo per dire quale dovrà essere l’ultimo abito:

 

Decidemmo la strada.

Il grosso sarebbe giunto di lì a poco,

l’atteso, il non nominato giudizio.

Avevo scelto con te tra le pieghe

dell’abito, il più portabile, l’unico

forse che non casca male,

un blu solito, tra i tanti.

E l’entusiasmo per dirlo.

 

In ospedale ci sono immagini di vita e anche immagini di morte e sono tanti i momenti in cui il poeta indulge con discrezione su quei volti fissi e raggelati in enigmatici sorrisi a margine di scorribande di monitor che musicano quel rumore sordo del cuore in ritmi più o meno frequenti, che sfociano talora in aritmie e non solo del corpo, ma anche dell’anima:

 

Il rumore sordo del cuore,

animarlo delle solite cose e un salto

verso il cielo, quando è caverna e la perla

che qui consumava l’errabondo. Vedeva

e non vedeva, scavalcava. Lo sentivo appena.

Poteva non conoscere, non sapere dove

svetta la chioma dell’ultimo albero rimasto?

E gli altri, i nostri vicini così lontani.

Tutti lo sanno: distinguere l’ultima scintilla,

l’opaco del fuoco in brace che sconfina

nelle periferie, ciò che appena si vede, non si vede.

 

L’ospedale è il luogo-non-luogo, metafora dell’esistenza, dove ognuno è tutti, dove l’io e il tu si confondono e si coagulano nel noi, per entrare e uscire e nuovamente distendersi in una identità, che è sempre e comunque alterità. Così è; o, almeno, così dovrebbe essere, stando alla realtà.

La sofferenza, il dolore, l’ansia, l’angoscia, le sortite alla speranza, le riprese dal silenzio e dal precipizio, che spiazzano l’oblio e riportano a immagini presenti e passate, agli affetti, a presenze e assenze, confluendo nei sogni di notti insonni e di giorni passati nella penombra del dormiveglia e che appaiono senza futuro sono la condizione di ciascuno e di tutti. Al punto che le storie si incrociano, si confondono e spiazzano l’identità spaesata per farla ritrovare nell’alterità. E l’alterità la si legge nel volto e nello sguardo dell’altro. In questa sede ho riportato solo alcune poesie della silloge, e probabilmente neppure le più significative. L’invito non può essere altrimenti che leggere tutto Vivo così. È necessario, infatti, leggerlo tutto e tutto di fila, il poema di Toni, per rendersi conto di quello che ho appena cercato di mettere in evidenza, perché ogni passaggio poetico ha da dirci qualcosa, ha da aggiungere parole e sfumature, che portano alla quadratura del cerchio del senso profondo di una vita e di una poesia, che vanno accettati per quello che sono e che non possono essere vissute altrimenti che al modo che ci suggerisce il poeta.

Ma la poesia può darsi se c’è dolore sofferenza malattia morte? Il filosofo Theodor W. Adorno in pieno Novecento disse che dopo il male della Storia, nella quale gli uomini avevano esplicitato tutto il male possibile, oltre l’immaginazione, nei confronti dei propri simili, attraverso i campi di concentramento e l’olocausto, non era più possibile fare poesia.

Anche per Celan non è possibile che si dia parola, ancor più poetica, davanti alle tragedie, in quanto la tragedia stessa non può condurre che al silenzio. Ma il silenzio non può, secondo Celan, fermare il poeta.

Come dice Antonio Spadaro, Celan nella poesia Atemwende (Svolta del respiro) dice che il poeta “assume, ‘inspira’, la realtà che gli sta intorno, la elabora per mezzo dell’arte e la restituisce, la ‘espira’ come poesia”. Ma se l’aria intorno diventa irrespirabile? Allora al respiro del poeta non resta “che diventare rantolo e sarà sufficiente appena per un grido, incapace di dire il reale e appena utile a denunciarne l’indicibilità”.

Come Celan tenta di superare l’indicibilità davanti alla tragedia della Storia, mi sia concesso il paragone, Toni cerca di uscire dall’aporia dell’ “afasia incombente” a proposito della tragedia della storia personale del singolo uomo sopraffatto dalla malattia e dal dolore, che ne consegue, attraverso la speranza, comune a entrambi i due poeti, riposta nell’unica possibilità di salvezza, che spetta alla parola.

Parola della poesia, che si proietta dunque in una dimensione escatologica e metafisica per acquisire quella patente d’infinito, che porti a vivere nella realtà più autentica della vita vissuta a trecentosessanta gradi con lo sguardo al qui e all’ora, ma anche all’altrove in altro tempo. 

Fatte queste considerazioni, si capisce, allora, il significato della parola come è e come appare nella poesia di Toni. Da questa parola non ci si può aspettare una linearità di logica, cristallina, di matematiche certezze, giocate con linguaggi tecnici, strumentali o solo della quotidianità. La lingua di Toni è una lingua complessa proprio perché non si ferma alla scontatezza del dato immediato, ma procede in un oltre dove abita il mistero, che il poeta cerca di cogliere con la parola, che stenta e che si chiude, che rasenta il rantolo, ma che pure incede e si apre e pur continua a respirare e a far prendere aria perché si viva. E, purtuttavia, si vive, e si vive così.

Si deve vivere così. Perché questa è la vita. Pena la catastrofe di un irresolubile e ineludibile nichilismo, che la poesia autentica come quella di Toni vuole combattere e abbattere per eludere quell’abisso presso il quale spesso ci portiamo, ma nel quale dobbiamo evitare di cadere.  

Si comprende ora quali siano il filo rosso, il significato e il senso della poesia di Toni.

Nella poesia di Vivo così c’è un dipanare continuo quel filo rosso, che sono i vissuti di un’esistenza che si trova davanti al male fisico, che riguarda non solo l’io, ma il noi, e ci conduce a meditare sulla nostra vulnerabilità, sulla nostra precarietà, sulla finitezza di noi esseri umani, sulla nostra particolarità, che si trasmuta in universalità del dolore e della morte, che sono il metro della nostra umanità.

Se ne deduce che il poeta cerca di riflettere su questi vissuti e tenta di darne una parola come esito della sua elaborazione ermeneutica, facendo emergere, è vero, una amarezza di fondo, ma anche una estrema dolcezza nella misura in cui fa intravedere la possibilità dell’empatia del dolore, giocata in termini sia razionali sia irrazionali, ma comunque in uno sfondo di affetti.

Gli uomini nella loro esistenza devono confrontarsi, e nel corso dei secoli lo hanno fatto, e ancor più nel Novecento, con la Storia e con i suoi fatti e misfatti, così come da sempre si sono dovuti confrontare con quella natura matrigna, che da sempre coinvolge nella Storia naturale con terremoti, inondazioni, eruzioni vulcaniche, e quant’altro le vite e le esistenze di milioni e milioni di esseri umani. Ne sono emersi da queste tragedie problemi che l’uomo si è da sempre posto circa il significato e il senso della vita umana. Ne è scaturita perfino una teodicea. E alla fine qualcuno ha detto e dice che meglio sarebbe stato non essere mai nati, altri affermano che alla fine è meglio l’essere piuttosto che il nulla. Nella fattispecie, Toni si pone il problema della finitezza, della morte, attraverso i vissuti del dolore fisico e spirituale e morale, che si esperimentano in ospedale e davanti a quella che è una tragedia, comunque una tragedia personale, in quanto mette difronte al dolore e all’angoscia della morte, si risolve nella presa d’atto che anche questo tipo di esperienza fa parte della vita e in quanto tale va vissuta e vissuta nel modo più umano possibile.

Se la natura è comunque matrigna, e se esiste la malattia, il dolore, che prima o poi ineluttabilmente conducono alla morte, può l’uomo continuare a fare poesia? Certamente sì, pare rispondere, seppure indirettamente, il poeta; attraverso una vita vissuta autenticamente, con la consapevolezza di una finitezza della vita stessa, che comunque va vissuta in certo modo, e che fa da contraltare alla possibile eternità della sola parola poetica, che per quanto ancora e sempre inadeguata a esprimere tutta quanta la realtà così come è, ci prova e ci riprova in una comunione data per assunto di tutti gli esseri umani.

Giacomo Leopardi, nel periodo della Ginestra, aveva cercato di dare una svolta al suo pessimismo, proponendo una sorta di progresso, certamente non come quello prospettato dal positivismo, idea innestata proprio a partire dal pessimismo stesso. Leopardi era da sempre consapevole della condizione umana e aveva sempre guardato la natura come matrigna, come nemica, ma in questa fase comprese quanto fosse importante, per uscire dall’impasse di una visione nichilista, che gli uomini si unissero per combattere la minaccia della natura attraverso i valori della solidarietà.

Qui sembrerebbe che Toni voglia riprendere il senso dell’idea leopardiana, per quanto il riferimento è qui ristretto al microcosmo della natura del corpo umano, dove il male si può indovare, spesso non venendo da fuori, ma originandosi dalle nostre stesse cellule, dai tessuti, che siamo, facendo scattare tutti quei meccanismi che dovrebbero chiamare a raccolta le umane forze per fronteggiare la malattia, a cominciare dai medici, che purtuttavia non bastano, perché, come abbiamo detto, il male fisico ha come sequela il male psicologico e poi ancora quello spirituale, nella misura in cui la malattia ci pone davanti al senso di tutta un’esistenza. E allora una parola e un gesto che non siano solo della scienza e nella scienza possono certamente aiutare a tentare un oltre che la poesia, come in questo caso, riesce a compiere poematizzando e pneumatizzando la vita, quella vita che sentiamo così nostra nel bene e nel male, che non ci resta che vivere così, per dare compiutezza alla sua autenticità, che rimane radicata in quel mistero, che la parola poetica, salvezza essa stessa ma anche ancora di salvezza in mezzo a cotanto pericolo, cerca purtuttavia di svelare, emozionando.

In conclusione, dico che Vivo così di Alberto Toni è uno dei libri più belli di poesia, che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni e che è riuscito a emozionarmi non poco. Una poesia che sta dentro la nostra migliore tradizione e, per parlare dei poeti a noi più prossimi, trovo che ci sia nella forma e nella sostanza del dettato poetico del nostro una netta vicinanza a uno dei nostri migliori poeti del Novecento, Vittorio Sereni, che è stato uno dei migliori tessitori del nostro esistenzialismo in poesia, che Alberto Toni riesce a riprendere e a implementare col suo realismo onnicomprensivo, una posizione che in questo preciso momento storico politico e culturale mi sento ancora un volta di definire come poesia personalista, in barba a ogni nichilismo, post-humanismo, sperimentalismo, che non contempli l’ontologia e l’assiologia dell’essere umano in quanto persona, che pur essendo ben piantata nell’immanenza fisica, si apre alla trascendenza metafisica. Realtà che si dà in tutto e per tutto, ma che non è assolutamente scontata.

La realtà, e soprattutto la nostra realtà, la realtà di esseri umani, consta di fango come di aria e perfonde dovunque, nel qui e nell’oltre, la propria aura di prodigio e mistero.

Sta a noi e in particolare ai poeti e alla parola poetica vivere, e vivere così.

Vivo così, dice, appunto, Alberto Toni. Vivere in una dimensione mai conclusa e pertanto infinita, in cui la realtà ha la necessità di un continuo confronto, giocato con un autentico atteggiamento, genuinamente ermeneutico, dove si cerca di comporre il fuori e il dentro, il sacro e il profano, il bello e il brutto, il bene e il male, in attesa alla verità, ri-congiungendo fango e aria. Per tornare a stupirci e a meravigliarci ancora una volta del suo mistero. Forse un ritorno alle origini.   

 

Per la realtà ci vuole un confronto.

Toccava a lui ripetersi nel gioco, ricrearsi

nell'illusione. Poi sale l'infinito, si prefigura

il Dio prossimo, la roccia che è termine di paragone.

Avviene tutto dentro,

un moto rapido,

un'accelerazione che non dà tregua.

Forse un ritorno alle origini.

 

Roma, agosto 2015

 

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Simone Carella Paola Febbraro Simona Barberini - Poesia - Stampa Alternativa

Il romanzo di Castel Porziano

 

Alla fine di giugno del 1979 si consumò sulla spiaggia di Castel Porziano una delle kermesse letterarie, e non solo, che sarebbero passate alla storia. Basti vedere già allora il risalto che ne diede la stampa. Era un periodo, quello, in cui regnava lo spaesamento sociale, politico e culturale. Eppure c'era chi come Renato Nicolini, l'amato Assessore del Comune di Roma alle politiche culturali, seppe andare in deroga al grigiore di quel periodo e mentre c'era la tendenza a chiudersi in casa in una vera e propria temperie da coprifuoco, ebbe il coraggio di inventarsi l'Estate Romana, che quel coprifuoco tendeva a sdoganare e che in effetti per diversi anni riuscì a fare riportando nella Capitale quella voglia di vivere e di condividere, attraverso numerosi eventi culturali, la città, che oggi invece sembra, ormai da qualche anno, nuovamente appannata e ingrigita. In quel contesto Nicolini ebbe l'idea di sposare la celebrazione di quel Festival Internazionale dei Poeti celebrato dal 28 al 30 giugno del 1979 sulle spiagge  e tra le dune del Lido di Roma. Il Festival fu ideato da Ulisse Benedetto, Mario Romano, Franco Cordelli e Simone Carella, il quale insieme a Paola Febbraro e a Simona Barberini, nel 1999, raccolse la sbobinatura, ovvero la trascrizione, dei nastri audio registrati durante l'intera manifestazione, nel libro Il romanzo di Castel Porziano. Tre giorni di pace, amore e poesia, che è stato nuovamente riproposto da Stampa Alternativa in questo caldo giugno del 2015, corredato da un’interessante appendice iconografica con le immagini degli articoli usciti allora su riviste e quotidiani.

Il libro riporta per intero le parole di quell'evento, che invece, per quanto riguarda le immagini, fu invece filmato da Andermann. Come dice Simone Carella nella Prefazione al libro, nel filmato di Andermann si sente soltanto la voce di chi era sul palco, mentre la folla dei poeti di spiaggia, i minestrones, chiamati così per via di un minestrone preparato per tutti gli astanti, appariva muta. Il libro ha il pregio di ridare voce anche al pubblico. Insieme e in combutta alle voci dei poeti della Beat Generation e del Gruppo '63 e di altri giovanissimi poeti invitati per l'occasione e alle parole affastellate nei ghirigori strampalati e non-sense della ragazza Cioè, a causa di questo suo frequente intercalare, che sarebbe diventata, quasi, l'emblema di quella manifestazione poetica, che voleva parlare di poesia a trecentosessanta gradi e in tutte le salse e a tutti. A tutti significava soprattutto voler parlare di poesia a tutti i giovani, che in quella temperie culturale avevano una qualche difficoltà a trovare casa. Nel senso che il posto da occupare nel mondo era fornito ai giovani da modelli più o meno diversi e diversificati. E così ci si ritrovò nella (a)rena un pubblico variegato, che andava da chi in quel periodo faceva parte delle Comuni, a chi era epigono dei figli dei fiori, ai tanti giovani sborghesiti e in piena contestazione dello status quo o d’altro canto di giovani sempre più imborghesiti o che lo stavano diventando. E, così, non ci si poteva meravigliare se nelle discoteche a pochi metri di distanza da Castel Porziano infuriava la disco music di Hot Stuff di Donna Summer o I will  survive di Gloria Gaynor. C’erano anche tanti giovani che pensavano che, come in molti pensano ancora oggi, la poesia fosse quella cantata dai cantautori come De Gregori, De Andrè o il Battisti uscito qualche mese prima con Una donna per amico. Fatto sta che in quella che per gli organizzatori sarebbe dovuta essere la Woodstock romana della poesia, ci si trovò davanti a un pubblico dalle varie sfaccettature, dove però ebbero la prevalenza coloro che contestavano, contestavano un po’ tutto, e nella fattispecie contestavano la poesia e soprattutto contestavano i poeti. Fatto è che nel pieno di una dimensione post-moderna in cui, per citare il filosofo Feyerabend, anything goes, ogni cosa va e andava bene, in un relativismo spinto all'ennesima potenza, dove un po' tutto era lasciato al caso e all'improvvisazione, l'iniziativa fu quasi un fallimento, se non per il fatto che su quel palco di travi di legno e tubi Innocenti issato su sabbie piuttosto mobili e quindi con una stabilità, che si manifestò subito precaria e che in effetti crollò sotto il peso della folla, passarono a declamare i loro versi numerosi poeti, più o meno famosi, o che tali sarebbero diventati, che fecero o avrebbero fatto la storia della poesia: Fabio Garriba, Maria Paola Fadda, Daniela Ripetti, Victor Cavallo, Milo De Angelis, Aldo Piromalli, Dario Bellezza, Maria Luisa Spaziani, Valentino Zeichen, Giuseppe Conte, Cesare Viviani, Dacia Maraini, Renzo Paris, Sebastiano Vassalli, Giorgio Manacorda, Amelia Rosselli, Luigi Fontanella, Bruno Bossio, Johann W. Von Goethe, Mario Appignani, George Barker, Antonio Porta, Ivano Urban, Alberto Gasparri, Maurizio Cucchi, Erich Fried, Robert B. Harrison, Desmond O' Grady, Allen Ginsberg, Jacques Roubaud, Allen Gascoyne, Ignazio Buttitta, Marcel Fleynet, Jacqueline Risset, Patrizia Bettini, Delfina Vezzoli, Corrado Costa, Peter Orlovsky, Jiga Melik, Angelo Pasquini, Stavros Tornes, Fernanda Pivano, Thomas Gorfas, Johannes Schenk, Eugeny Evtushenko, Volker Von Torner, Enrique F. De Jesus, Gerard Bissinger, Gregory Corso, Ted Jones, Bryon Gysin, Diana Di Prima, John Giorno, Ted Burrigan, Giulio Basile, Ann Waldman, Meo Cataldo Dino, Miguel Algarin, William Bourroghs, Amiri Baraka.

Nella confusione più generale, dove tutto fu, più che organizzato, dis-organizzato, e fatto senza alcuna logica e dove non vi era nessun servizio d'ordine, a dispetto proprio del logos, fu la parola a essere la protagonista di quell'evento. E la parola, più cruda che nuda, è la protagonista di questo libro, come lo fu di quelle serate di poesia e di confusione generale. Il libro, infatti, raccoglie tutto quanto fu detto in quella circostanza. Parole dei poeti e non solo. Parole provenienti dal palco e dalla spiaggia dove era il pubblico. Pubblico che in gran parte era venuto non per ascoltare i poeti, come abbiamo detto, ma per contestare. A un certo punto qualcuno del pubblico disse che era venuto per sentire Patty Smith e non i poeti, di cui non gli importava niente, e allora andassero pure tutti a quel paese. E tra spogliarelli e inviti a mangiare un minestrone preparato per tutti, probabilmente da quelli della Comune, ecco che prendevano la parola, spesso tra i lazzi e gli insulti del pubblico, i poeti. E tra un annuncio di servizio e l'altro, come quando prima di chiamare la poeta Jacqueline Risset, Simone Carella, che conduceva la kermesse, fece un annuncio di servizio per dire che c'era bisogno di un medico, perché qualcuno tra il pubblico aveva avuto una crisi epilettica. Un vero e proprio manicomio!  

Sono rimasti impressi a tutti gli atteggiamenti ostativi da parte del pubblico nei confronti della poesia e dei poeti, soprattutto italiani, i quali furono ampiamente contestati e ai quali fu impedito di recitare i loro versi, al punto che taluni, come Dacia Maraini, si rifiutarono di leggere, mentre altri come Elio Pagliarani e Alfredo Giuliani non risposero all’appello e altri ancora come Viviani e Bellezza intrapresero un vero e proprio testa a testa nel tentativo di difendere poeti e poesia, che quel pubblico aveva intenzione di distruggere. Eppure, tra i poeti c'erano le giovani promesse della poesia italiana, che oggi sono state ampiamente storicizzate, come Dario Bellezza, Amelia Rosselli, Maria Luisa Spaziani, Renzo Paris, Maurizio Cucchi, Giuseppe Conte, Milo De Angelis e tanti altri. E a rileggere ora la trascrizione delle parole dette allora dai poeti ci si rende conto come questi recitarono poesie, che sarebbero entrate, nei decenni successivi, nelle antologie della letteratura italiana, come la poesia di Maurizio Cucchi, Dolce fiaba che l'anno successivo sarebbe stata pubblicata nella silloge de Le meraviglie dell'acqua, o i versi da Mana del mare di Giuseppe Conte, o i versi di Milo De Angelis, che fu tra i primi ad aprire la kermesse e lesse: “Quando una cosa naviga nelle unghie/ e da orizzonte a orizzonte cade nella sua radice,/ i tempi già cantati ci guardano,/ e chiunque sia lì, viene, ha amato,/ allora è vero arrendersi all'universo,/ calmo nei solchi di questo legno/ come l'attimo che ride di tutti loro/ o bisbiglia: 'io vi ho inventati'.”

Diverso, invece, fu l'atteggiamento nei confronti dei poeti stranieri, in particolare degli americani, accompagnati e tradotti da Franca Pivano, e infatti soltanto Allen Ginsberg riuscì con i suoi mantra a pacificare il pubblico e far scendere sulla spiaggia un sacro silenzio. Mentre il vero trionfatore della scena poetica fu Eugeny Evtushenko, che fu osannato, mentre diceva: "Essere me non mi basta, fatemi essere tutti! Di ogni creatura, di regola, c'è una copia, Dio, invece, lesinando la carta carbone mi ha stampato nella sua tipografia del cielo in un'unica copia, porca miseria... Ma io mescolerò le carte a Dio. Io confonderò Dio! Avrò mille volti fino all'ultimo giorno, da far rintronare la terra da far impazzire i computers, al mio censimento universale. Vorrei su tutte le tue barricate, umanità, combattere, stringermi ai Pirenei, impregnarmi di polvere del Sahara. Accogliere in me la fede della grande fratellanza umana. E quando morirò come un François Villon siberiano, che ha fatto chiasso, seppellitemi non in terra francese ma nella nostra terra siberiana, su quel dolce colle verde, dove per la prima volta mi sono sentito tutti".

Il romanzo di Castel Porziano è un "libro generazionale", che vuole dare voce ai poeti e a un pubblico di una generazione, che nel bene e nel male ha fatto storia e che in quel di Castel Porziano diede vita a un Festival Internazionale dei poeti, che da subito entrò nel mito. La storia di quella generazione, che è anche la mia, ha significato anche un disagio, che è stato proprio il disagio del post-moderno e che tutti in un modo o nell’altro ci siamo ritrovati addosso.  Certamente, quello fu un periodo di crisi, di pericoli, di confusione, di contestazione, di spaesamento, ma come ci ha insegnato il poeta Hölderlin, là dove c’è il pericolo c’è anche la salvezza. E in effetti, checché se ne dica, quel periodo fu un bel periodo, soprattutto se messo a confronto con quello attuale, nel quale sembra che anche tra i giovani si sia compiuta quell’omologazione culturale, che molto acutamente aveva intravisto Pier Paolo Pasolini.

Il romanzo di Castel Porziano è un pezzo di quella storia e di quella temperie, che non può mancare negli scaffali di chi ha fatto parte di quella generazione, ma anche di chi, non avendone fatto parte, nel bene e nel male, ne ha preso il testimone. E l'auspicio è che dalla lettura di questo libro, che come pregio fondamentale ha quello di volerne perpetuare la memoria, possa scaturire, tra le altre cose, in qualcuno, o in molti, la voglia di ripetere, prima o poi, mutatis mutandis, quella storica esperienza, per rendere ancora una volta omaggio alla poesia e a chi nonostante le molte difficoltà e gli impedimenti continua a perpetuarne l'arte: i poeti.

 

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Angela Caccia - Poesia - Fara Editore

Il tocco abarico del dubbio

 

 

Il tocco abarico del dubbio si snoda in cinque sezioni “senza un tema specifico” e in ognuna di queste “si stanzia un esserci di heideggeriana memoria”. Come dire, dunque, che il filo rosso tematico c’è, anche se non è così esplicito. Ma pur non essendo esplicito, si dipana nel dubbio costante tra presenza e assenza, tra vita e morte, nel gioco tra esistenza e essere. Nel dubbio sulla vita e sulla morte, che emerge costantemente seppur con lievità, tra le righe di questa raccolta, dove la parola incarna le problematicità dell’essente indovato nell’esistenza, ovvero dell’uomo, che stanzia nel Dasein. La poesia di Angela Caccia è, dunque, una poesia tipicamente esistenziale. La vita è il centro della poesia, o per meglio dire la vita è poesia e la poesia è vita, in una reversibilità identitaria portata alle estreme conseguenze. Una vita certo non facile da vivere, un’esistenza piena di gioie, ma soprattutto di dolori, con lo spettro incombente della morte, da cui scaturisce l’angoscia; morte, che durante l’esistenza è, dal punto di vista heideggeriano, l’unica certezza dell’unica possibilità dell’impossibilità di ogni progetto. La vita implica la morte e la morte la vita (Vita morte/ indissolubile diade/ e i nostri occhi impigliati nei suoi fili). E comunque la vita non offre certezze. Tutto è riportabile al dubbio e il dubbio è il primum movens dell’esistenza, nella quale noi non possiamo fare altro che metterci alla ricerca di senso. Il dubbio che ci tocca senza peso. In quella dimensione asettica e aerea, che si gioca nel campo della nostra spiritualità. Il dolore e la morte sono i determinanti di una vita che rischia di ridurci al nulla. Il fisicalismo naturalistico, di cui siamo anche parte col nostro corpo, Körper, ci ricorda ogni giorno il nostro essere materiale, la nostra precarietà, la fragilità, la caducità, nelle quali rientra perfino la nostra psiche, da cui la nostra psicologia. Tutto è destinato a perire. Ma l’uomo non è un qualcosa, che riguarda solo il suo essere fisico e psichico, l’essenza dell’uomo, pur partendo da qui, si apre alla verticalizzazione della sua libertà, che è dimensione prettamente spirituale, e allora è probabile che la destinazione a cui l’uomo può consegnarsi può essere quella di un superamento del dolore e della morte attraverso i suoi vissuti e soprattutto attraverso il corpo proprio, Leib. E i vissuti passano attraverso la coscienza, ma ancor più attraverso la poesia, perché è nella parola poetica che possono eternarsi. Anche il vissuto della morte, ovviamente della morte dell’altro (A noi, strati di tempo,/ memorie ancora da colmare/ il difficile piacere del dubbio// che sia finta/ la frontiera su quel crinale/ se chi muore chiede conto/ della propria morte/ a chi resta). E come dire che qui abbiamo di fronte una ulteriorità rispetto ad Heidegger, dal momento che anche la morte cede al “tocco abarico del dubbio”. La morte che, nonostante tutto, non vuota, ma riempie, “colma” silenzi e assenze. È quello che sembra suggerirci Angela Caccia con la parola, con la sua forza poetica, con la sua creatività, con l’affidare alla parola la bellezza dell’essere, che dona senso all’esistente che siamo. “La memoria dipinge quadri, ma solo la nostalgia preserva il colore fugace della felicità”: il pittore affida alla memoria i suoi quadri, come fa anche il poeta quando descrive i fatti, ma il poeta raggiunge il suo apice quando affida i suoi vissuti al dolore del ritorno ai colori fugaci della gioia. Con folgorazioni di istanti, che sono colti dai sensi o dall’anima e vengono sublimati e eternati nello spirito. Non per niente uno dei tratti più belli della poesia di Angela Caccia è anche quello di essere accurato nella descrizione paesaggistica, alla stregua di un pittore, che conosce molto bene la tavolozza dei colori e li armonizza sapientemente per la migliore resa. In senso fisico ma soprattutto metafisico, come quando in Sei letti descrive una stanza di ospedale: Tutti a ridosso di un lembo/ di parete viola stinto// corpi allettati/ fili d’oro su consunti broccati// rettangoli di croci abbalconate/ in uno spazio abarico dove/ ogni cosa è demandata/ - tiene duro solo la volontà -// barcarole abbittate ad un’unica gomena/ dopo il naufragio// violini abbrancati a caso/ - a turno, le stesse note strozzate -/ nessuno ha più un nome proprio/ tutti accampanati dallo stesso dolore.// Sei letti e una finestra sola/ da guardare e sognare/ - il cielo che pende da un ospedale/ ha più rondini. Poesia, che mi verrebbe da definire, alla luce di molti passaggi di questa silloge, prioritariamente come poesia pura, alla stregua di Celan e Ungaretti, ma soprattutto alla stregua degli autori più congeniali alla poeta: Rilke, Neruda e Margherita Guidacci, non fosse per quel dubbio, di cui sopra, che talora fa planare il verso e la parola da altezze sublimi a accensioni di concretezza quasi materica, che rendono pertanto questa poesia da una parte metafisica e dall’altra empirica, sensuale, razionale, ma che comunque conducono ad un realismo, che è tipico della dimensione ontica sublimata in ontologia, con un passaggio obbligato nella cifra della corporeità. E la dimensione ontologica è rappresentata dalla radura, all’uscita dal bosco e dalle sue ombre, là dove si dà la possibilità di percepire la girandola dei colori (prevalgono il blu e il giallo), i sentimenti più nobili, la gioia e soprattutto il senso di vivere che all’imponderabilità del dubbio possiamo sostituire, se non la certezza, la speranza di un futuro anche in una dimensione religioso-escatologica di salvezza. Speranza di salvezza per noi e per chi ci sta a cuore. In questo caso le battute finali del libro sono tutte per i figli ai quali si vorrebbe trasmettere il valore e non la nullità dell’essere e soprattutto dell’esistere.

La morte e il dolore sono il leitmotiv di questa poesia tutta esistenziale ed esistenzialista, ma proprio perché tale non potevano mancare i versi d’amore. Un amore che implica il corpo oggetto (Körper) e il corpo soggetto (Leib) e li trasfigura attraverso una sensualità, che dalla terra si verticalizza al cielo nel vissuto più paradisiaco come ne Le labbra al bello: Lasciami i tuoi occhi// vedrò il fiore minuto/ e bianco tra le agavi/ aprirò con le tue/ le mie labbra al bello.// Dentro, la tua voce/ ha fatto il nido sui rami/ fogliosi di un noi// resto nel tuo sguardo/ una pianura placida/ un sogno senza scadenza// è in questa luce spersa/ la tua assenza// l’ombra colma la stanza// sul pavimento cubi/ castelli torri merli/ e la mia cella; oppure comein Altro da te l’amore, con quella bella e significativa e metaforica chiusa, così materica, ma nello stesso tempo metafisica: Il giorno è geloso/ cancella il profilo della notte/ e sta sgranando il sogno// colano foglie gialle dalla penna/ mi sorprende che il bordo/ della pagina le raccolga.

In conclusione, mi sento di poter dire che la poesia di Angela Caccia è una poesia che, pur partendo dal corpo come oggetto, si libra al di sopra di questo, per raggiungere, attraverso i vissuti, una dimensione metafisica, affidata in ultimo alla parola poetica, che sa stupirsi e sa stupirci nel superamento dell’istante, che viene donato all’eternità. La parola incarna, in ultimo, forse (l’imponderabilità del dubbio è d’uopo), l’essere, per far sì che l’uomo, nella sua esistenza, ma vieppiù il poeta, si faccia pastore dell’essere, per custodirlo e per prendersene cura. Quella di Angela Caccia è pertanto una poesia che rientra appieno in un orizzonte metafisico, che pur passando per l’onticità si staglia nell’ontologia. La parola e soprattutto quella poetica, è il perno della ricerca di senso, che si dimena tra il paesaggio terrestre e il paesaggio dell’anima, che sa cogliere molto bene la fenomenologia dell’esistenza, all’esterno e all’interno dell’uomo. Una parola che lotta costantemente con il dolore e con la morte per sublimarli dall’assenza alla presenza, solo che la vita si riesca ad incarnare nella parola per farsi eterna. Per soggiornare dunque nel paradiso della parola, che è la vita ed è allo stesso tempo la poesia. Poesia che, unica, riesce a eternare l’istante, perfino quello della morte, per poter continuare nella ricerca del senso della vita. Quel senso che anche i nostri avi ci hanno trasmesso, se non nella sua certezza, nel dubbio, col suo tocco imponderabile, ma vitale, che ci spinge ad andare avanti fino alla fine, con la speranza che chi ci sarà dopo di noi potrà continuare nella ricerca di senso per non annegare nel nulla. Noi esseri umani, noi che veniamo all’esistenza gettati nel dubbio, dobbiamo prendere consapevolezza di quello che siamo e dobbiamo cercare di rendere autentica tale consapevolezza, prendendoci cura dell’essere, che abita nella parola e che nella parola dobbiamo eternare, stando attenti a non ridurre la parola alla banalità della pura chiacchiera. Che è quello che sapientemente riesce a fare in questa silloge Angela Caccia, che attraverso la sua virtuosità poetica crea un’opera d’arte valida su diversi piani, in primis quello letterario, ma anche estetico, etico, antropologico e civile. In attesa di quel tocco abarico del dubbio, che cerca risposte, forse senza mai trovarne, ma comunque sempre alla ricerca di senso, cercando di rispondere alla domanda: “Perché l’essere piuttosto che il nulla?”. E Angela Caccia, partendo da una prospettiva heideggeriana, che vuole l’uomo un-essere-per-la-morte, riesce a superare l’angoscia che ne deriva, per approdare all’esistenza autentica, in cui si accetta la propria finitezza e nullità da una parte, ma dall’altra si apre alla speranza riposta nell’eternità, che si incarna nella parola poetica e nel canto.    

 

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Antonio Scurati - Romanzo - Bompiani

Il tempo migliore della nostra vita

 

Quando un romanzo riesce a toccare le corde del sentimento anche attraverso l’intelligenza di quello che dice tra le righe, significa che ha colto nel segno e che è opera letteraria destinata a rimanere nel tempo negli annali della letteratura. Oggi siamo abituati a vedere romanzi e opere di poesia messi in vetrina per pochissimo tempo. Poi prevalgono ragioni commerciali e, chiodo scaccia chiodo, il libro appena uscito prende il posto di quello uscito poco prima, col rischio che il libro uscito in libreria da pochi mesi sia già nel dimenticatoio, perché nessuno lo vede, lo sente, forse neppure lo legge più, ma soprattutto non se ne parla. Un bel romanzo come questo di Antonio Scurati, Il tempo migliore della nostra vita, non merita certamente di essere lasciato nel dimenticatoio. Piuttosto merita di essere letto e forse anche riletto più volte, come si fa per i grandi romanzi, perché se ne possano cogliere le sfaccettature e le sfumature più diverse. Resta il fatto che, comunque, romanzi come questo non possono essere non letti o passare inosservati.

Antonio Scurati è autore ormai consolidato e affermato, riconosciuto e riconoscibile per la sua poetica, che lo vuole tra i protagonisti del romanzo scritto a cavallo di finzione letteraria e documentazione storica, con un incredibile gancio alla realtà. Certamente questa non è una novità, dal momento che il romanzo ha avuto in passato i suoi fasti come romanzo storico, ma già nell’Ottocento ci si poneva il problema dell’assenza degli umili nelle storie romanzate, della latitanza delle persone normali nel movimento della storia. Esempio emblematico della nostra storia letteraria è quello dei Promessi Sposi, i cui protagonisti, Lucia e Renzo, sono due popolani, che se non fosse stato per Manzoni, sarebbero rimasti all’ombra dei protagonisti storici, che nel romanzo manzoniano diventano invece personaggi di secondo piano. Ma Lucia e Renzo come molti altri personaggi del romanzo sono frutto della fantasia e dell’immaginazione dell’autore. Il Novecento, nella strenua ricerca di un canone, ha visto affacciarsi alla ribalta dei gusti di autori e lettori, a lato e in deroga alle avanguardie e agli sperimentalismi, il realismo, di marca soprattutto social-politico-culturale e pertanto su una linea hegelo-marxista, a seguito dell’oggettivismo naturalistico del verismo, e quindi nella seconda metà del Secolo il neorealismo, fino agli ultimi decenni del XX Secolo e negli anni del nuovo Secolo, che stiamo vivendo, quando ha preso il sopravvento in alcune scuole di pensiero di teoria della letteratura un impianto del romanzo in cui la Storia e la storia di persone comuni realmente esistite si embricano in una dimensione di realismo, che riguarda non soltanto i personaggi storici, ma riguarda anche le persone comuni, per le quali non si può più dire che ogni riferimento a fatti e a persone è puramente casuale, perché non lo è, in quanto le persone di cui si narrano le gesta sono realmente esistite. Un canovaccio della narrazione che si muove tra un piano di genere saggistico e un piano narrativo vero e proprio. Per quanto lo scrittore si prenda la briga di volere e potere romanzare la storia da lui narrata, che rimane comunque una storia letteraria. Al romanzo contribuisce così da una parte la Storia, col suo metodo che rientra nell’alveo di un’epistemologia scientifica e oggettiva, che necessita di documentazione e di rigore, dall’altro vi contribuisce una storia non epistemica, ma basata sulla doxa, e per questo lo scrittore può rifarsi a documentazione di tipo giornalistica o basata anche sul sentito dire, senza nessuna velleità di verità oggettiva. Queste opinioni, lecite nel narrare la storia di persone comuni, ma realmente vissute, vengono quindi trasfigurate nella verità letteraria, che è l’opinione dell’autore, suffragata anche da una lecita realtà, in ambito letterario, a livello metodologico e linguistico, che è quella dell’immaginazione e della fantasia. 

Ne Il tempo migliore della nostra vita, Scurati intreccia così un racconto, attraverso la sua poetica caratterizzata, come ho detto, da una verità propria di persone comuni (e realmente esistite) assemblata con la verità storica, di vicende avvenute in un periodo di alcuni decenni del Novecento, dove si narra l’incontro, in qualche modo parallelo, di due famiglie, quella dell’autore (Scurati e Ferrieri), di persone cosiddette normali, di persone comuni, che non entrerebbero mai nei libri di Storia, se non fosse per una decisione dell’autore, con la storia e le vicende di famiglia di un personaggio entrato invece di diritto nella Storia, quale è Leone Ginzburg.

Il romanzo di Scurati si apre con un “no” alla Storia, detto da un personaggio, meglio una persona, che ha fatto la Storia. Leone Ginzburg è stato partigiano e antifascista, che piuttosto che giurare fedeltà al fascismo, si precluse una carriera universitaria che si profilava più che brillante. Con il suo "no" si precluse anche la possibilità di vivere.

Leone Ginzburg fu, come sappiamo, eminente intellettuale, letterato, slavista, fondatore della Einaudi. Scurati ci presenta la storia di questo uomo e della sua famiglia, da cui emerge la figura di un altro personaggio storicizzato quale è sua moglie, Natalia Ginzburg, figlia dell’istologo professor Giuseppe Levi, maestro della Levi Montalcini, tutti entrati nella Storia con la S maiuscola. I fatti si svolgono nella temperie di un momento epocale, quale quello del ventennio fascista, fino ad arrivare agli anni del dopoguerra, che noi più giovani, compreso l’autore, non abbiamo vissuto e che la letteratura invece ci può aiutare a rivivere intensamente ed emotivamente, al di là dei libri di storia, che ci danno informazioni scientifiche su dati di fatto, senza la trasfigurazione ermeneutica della letteratura, che questi fatti riesce invece a rendere nella complessità di vissuti umani e non solo scientifici che rendono la vita, la vita personale, in qualche modo diversa e perfino superiore alla Storia. Perché possiamo continuare ad avere cura di una memoria che in qualche modo ci appartiene. Per chi, come me, fa parte delle generazioni nate a ridosso del dopoguerra, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, va detto che nella nostra giovinezza eravamo travolti da un'ampia letteratura, che riguardava gli anni della resistenza e giù di lì, così come l'avevano vissuta e raccontata gli scrittori del calibro di Fenoglio, Pavese (che pure entra nella narrazione di Scurati), Vittorini, Pasolini, Carlo Levi e numerosi altri autori che non cito solo per brevità. Con questo romanzo di Scurati, oltre a noi altri, anche i giovani di oggi hanno nuovamente l’opportunità di vedere ripresi quei discorsi sulle vicende della Resistenza e dintorni, ché dagli anni Ottanta e Novanta non se ne parlava poi più di tanto, per il fatto che ebbero un declino a causa di una overdose di letteratura sulla Resistenza, che sembrava non avesse più niente da dire dopo avere raccontato in lungo e in largo quelle vicende storiche in numerosi  racconti e romanzi. Antonio Scurati col suo romanzo dà oggi un nuovo impulso a quel tipo di letteratura, certamente con stilemi differenti, e con una visione teorica della letteratura diversa da allora. Infatti Scurati non cavalca più il neo-realismo o giù di lì, come avevano fatto quegli autori che ci raccontarono quelle storie "quasi in diretta", facendo comunque di quelle storie alta letteratura, ma lo fa soprattutto dal punto di vista che è quello di una trasfigurazione veristico-realistica della letteratura, che diventa però di fondo personalista, nella misura in cui vi è un passaggio da un background culturale di tipo hegelo-marxista a una dimensione, mi si passi il termine, di tipo kierkegaardiana. Prende il sopravvento la vita, l’esistenza delle persone, di tutte le persone, più o meno note, storicizzate o meno, come Leone Ginzburg e sua moglie Natalia da una parte, e dall’altra le persone comuni nate in quegli stessi anni e vissute sotto il fascismo e durante la Seconda guerra mondiale come Antonio e Peppino, Ida e Angela, che sono i nonni dell’autore.

Il filo rosso della narrazione di questo romanzo è la storia reale di Leone Ginzburg dal giorno della sua uscita volontaria dall’università, con il “no” al fascismo, fino a quello in cui viene ucciso nel carcere romano di Regina Coeli. Attraverso le innumerevoli vicende di lui e della sua famiglia, che riguardano le dimensione non solo sociale e politica, ma anche familiare e personale, che implica la considerazione di tutti gli eventi che in qualche modo accomunano tutti gli esseri umani, comprese le persone comuni, come nascite, morti, figli, libri, luoghi, case abitate o lasciate perché distrutte dai bombardamenti, e così via. Le stesse vicende che riguardano nascite, morti, figli, libri, luoghi, case abitate o lasciate perché distrutte dai bombardamenti, e così via, Scurati le narra in parallelo raccontando la vita privata della sua famiglia, dei suoi nonni, del padre, della madre e di chi era con loro a dividere la vita di ogni giorno. In qualche modo, volenti o nolenti, le storie, per quanto parallele, si incontrano, convergendo in un punto che assimila tutti gli esseri umani alla loro identità antropologica di persone, con una propria singolarità, peculiarità, irripetibilità e dignità, oltre a quella relazionalità di fondo, che si nutre di libertà, non sempre rispettata da chi dovrebbe favorirla, e di responsabilità, che ognuno dovrebbe dimostrare di avere, prerogative tutte queste che accomunano tutti gli uomini, a prescindere dal fatto che la storia sia scritta con o senza la s maiuscola. Il pregio dell'opera di Scurati, oltre che letterario, è allora anche culturale, storico e sociale. L’autore ritiene, infatti, che tutti gli uomini abbiano la medesima importanza, perché nella storia, alla fine, si è ugualmente importanti per la dignità che ci deve contraddistinguere in quanto siamo esseri umani, persone, e poiché in quanto tali siamo liberi e responsabili nel far crescere relazionandoci la comunità in cui viviamo. A   prescindere da quello che abbiamo, perché la nostra essenza non dipende dall'avere o non avere una qualche qualità, dall'essere o non essere illustri o comuni, ma dal fatto che siamo, per il solo fatto di essere, ecco la caratteristica ontologica, essere uomini, persone. Così come non dipende la nostra dignità dai luoghi dove siamo nati e cresciuti e dove avvengono le vicende e gli eventi che ci riguardano, siano questi i luoghi dei “miserabili vicoli” di Napoli, siano le strade dei sobborghi rurali di Milano, siano le strade della Torino dove risiedono e lavorano gli intellettuali, siano gli umili paesi del sud e dell’Abruzzo come Pizzoli, dove venne confinato il dissidente al fascismo Ginzburg. E che si tratti di uomini illustri ed esemplari o meno, di intellettuali, o eroi della resistenza, come nel caso di Leone Ginzburg, o “di umili, di operai e contadini, artisti mancati e madri coraggiose”, non ha importanza, perché tutti hanno una “profonda comunanza”. Perché la Storia di Hegel e la storia di Kierkegaard alla fine si ritrovano strettamente legate, e non è vero che prevalga l’hegeliana totalizzante astuzia della storia, perché alla fine non vi è razionalità totalitaria che tenga, ma a prevalere è soltanto il senso della vita. Perché alla fine nulla ha senso e importanza se non l’esistenza, la vita, e non la vita sub specie totius, ma la vita di ogni singola persona. E possiamo ben affermare, senza pericolo di essere smentiti, che questo romanzo di Antonio Scurati si profila nell’orizzonte improntato all’esistenzialismo della Lebensphilosophie.

Va detto, riprendendo quanto affermato all’inizio, che la lettura di questo romanzo, scritto con passione e sentimento, che trasudano da ogni parola, da ogni frase e da ogni capitolo, oltre che essere stato scritto con acribia storica in attesa ai fatti narrati, riesce davvero a commuovere, con punte di rara commozione empatica come quando si ha modo di leggere la lettera scritta dal carcere da Leone a Natalia solo qualche ora prima di morire. E questo significa molto, abituati come siamo, ormai da qualche tempo a questa parte, a leggere per lo più descrizioni e descrizioni di descrizioni. Sembra che spesso lo scrittore non debba e non voglia prendere posizione e stia in una posizione di neutralità rispetto alla presunta oggettività del racconto. La formazione cede sovente il passo all’informazione, anche in letteratura. E il sentimento sembra che non debba esserci, perché tutto deve fare riferimento alla oggettività del testo sostantivato.  Pare che per stare nel politically correct anche a livello letterario, oltre che nel mondo delle scienze sperimentali, non si debba essere aderenti se non a un mondo di cose, di fatti e di individui (non persone), tralasciando sentimenti e aggettivazioni. Scurati, pur non tralasciando attente descrizioni di fatti e cose, e spesso affidandosi a un repertorio di documenti, lettere e quant’altro possa essere preso come un dato di fatto, ci parla soprattutto di persone, delle qualità aggettivate dei sentimenti e dei vissuti e delle relazioni dei personaggi, di tutti i personaggi, che, ognuno con le sue peculiarità e caratteristiche del proprio carattere personale, non può non commuoverci. Siano persone illustri o comuni. Per Adorno "le forme dell'arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti". E Scurati nello scrivere questo romanzo sembra proprio che si sia voluto attenere a quanto sostenuto dal filosofo della Scuola di Francoforte. Scurati, infatti, nel volere comunque rievocare la Storia, non lo fa soltanto con la volontà di mettere al primo posto la Storia stessa, ma ci vuole parlare di quelle persone, che, attraverso i loro vissuti, hanno fatto la Storia e non sono state soggiogate dalla razionalità e dall’astuzia di questa. Per Scurati, in primis, vi è la persona, a cominciare dalla presenza assidua della persona dell’autore stesso, in una dimensione performativa della letteratura dove vita e racconto si integrano a perfezione. Ecco perché questo romanzo oltre che essere di alta letteratura, per il modo di scrittura e di stile, semplici, leggeri e diretti, come Calvino raccomandava dalla sue lezioni americane, è un romanzo di elevato impatto morale e civile. Non per niente la civiltà e la morale si fanno forti dell’adagio del filosofo Alasdair MacIntyre, che ha ripreso il concetto di virtù morale nel Novecento e che ha sostenuto e sostiene che “l’educazione morale è un’educazione sentimentale”, che viaggia anche, se non soprattutto, come ha ribadito anche un’altra famosa filosofa delle virtù, Martha Nussbaum, dentro il linguaggio della letteratura. E Antonio Scurati con Il tempo migliore della nostra vita ha fornito l’aspetto pratico a questi assunti teorici. Perché pensandoci bene, tutto il romanzo, vuole essere proprio un’introduzione alla nostra educazione morale attraverso un’educazione sentimentale, intesa a cercare una risposta a uno degli assunti principali della morale, nella fattispecie quella aristotelica, contrariamente a quella kantiana, della ricerca della felicità, della vita buona e delle virtù. Per fare questo Scurati gira intorno alla ricerca di quale sia, allora, il tempo migliore della nostra vita, la nostra felicità. Nelle battute finali del romanzo, viene infatti riportato un passaggio del racconto Inverno in Abruzzo di Natalia Ginzburg, scritto poco dopo la morte del marito, Leone, dove lei dice: “Mio marito morì a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all'orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so”. Quell’avvenire facile e lieto è proprio quello che abbiamo vissuto noi delle generazioni nate nel dopoguerra, in tempo di pace. Noi che spesso viviamo anche, per dirla con Heidegger, il grigiore esistenziale dell’inautenticità rispetto a eroi come Ginzburg o ai nostri avi, come quelli di Scurati, che, pure, ci hanno preceduto e ci hanno, insieme ai grandi, mutatis mutandis, spianato in qualche modo la strada con la dedizione “dell’affanno quotidiano, delle opere e dei giorni” verso quello che sarebbe dovuto essere ed è un avvenire di pace e di tranquillità e di desideri appagati. Ma quale è dunque e in che consiste questa felicità? Quale il tempo migliore della nostra vita? Quale l’autenticità? Nell’essere eroi? Nell'essere famosi e illustri? Nell'essere personaggi storici anziché persone comuni? La risposta sembra poterla cogliere nel passaggio del racconto di Natalia Ginzburg riportato prima. Persone illustri e persone comuni non hanno differenze sostanziali e la felicità è l’aspirazione al senso che dobbiamo cercare di dare all’esistenza, alla nostra vita. Sembrerebbe che Scurati si voglia rifare, pur non dicendolo esplicitamente, anche ad una lirica di Antonio Clemente, - poi divenuto principe Antonio De Curtis, il grande Totò, amico intimo del nonno Peppino, che pure fa parte della storia di questo romanzo, - la lirica ’A livella, secondo la quale tutti gli uomini sono uguali perché livellati, messi in pari, davanti alla morte, che non guarda in faccia se una persona è nobile, comune o miserabile. Alla fine, infatti, Scurati sembra darci la chiave per superare l’aporia: “l'unica epica che ci è rimasta è l’epica primitiva cui la vita privata ancora si attiene. E, poi, la sola storia che conti davvero, la sola veramente traumatica, per noi come loro, è quella cui dobbiamo la nostra nascita. E, poi, per tutti quanti si tratta pur sempre di vivere con l'amico estinto, e l'amico estinto con noi, si chiami esso Leone, Natalia, Antonio, Ida, Angela o Peppino”.

Nella prefazione scritta durante il confino a Pizzoli a Guerra e pace di Tolstòj  Leone Ginzburg dice che per lo scrittore russo ci sono personaggi storici, che vivono in tempo di guerra, e personaggi umani, che vivono in tempo di pace. “Certo, anche la pace presenta i suoi rischi – abbiamo visto pure questo – anche la felicità tende le sue trappole: ‘La felicità può perfino far distogliere lo sguardo di un giusto da un uomo ucciso ingiustamente’. Ciò nonostante, secondo Ginzburg, Tolstòj, pur avendo combattuto da giovane nel memorabile assedio di Sebastopoli e poi raccontato in modo leggendario la guerra, riservava le proprie simpatie al mondo umano, alla pace.  Tolstòj prendeva partito per la sua ‘felicità esplicitamente terrena’. È lo stesso partito di Leone Ginzburg, indubbiamente”. 

E allora, concludendo il romanzo, Scurati dice: “Teniamoci, perciò, stretto il nostro avvenire facile e lieto. Prendiamocene cura. Non distogliamo lo sguardo da un uomo ucciso ingiustamente.

E questo è tutto. Quando la felicità dei protagonisti è raggiunta, per grande o piccolo che sia, il libro finisce”. 

 

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Giuliano Ladolfi - Saggio - Giuliano Ladolfi Editore

La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà

 

Nel mondo della letteratura e in particolare nel settore della poesia, Giuliano Ladolfi è un nome riconosciuto e riconoscibile per autorevolezza. In primis per la sua opera poetica in proprio e quindi per la sua militanza critica extra-accademica ultradecennale, che negli ultimi anni lo hanno fatto approdare al ruolo di Editore, svolto con la fede nello spirito di chi ha sempre creduto nel valore delle lettere nelle more di educare l’uomo all’essere e al saper essere a prescindere da qualunque cosa faccia nella vita, alla ricerca di una tonalità che possa dare senso all’esistenza, nel combattimento diuturno avverso al nichilismo. Ladolfi è stato professore di ruolo nei Licei e quindi Preside. Mi si lasci dire che Ladolfi, -che sicuramente sarà più che contento del ruolo svolto-, a mio avviso, sarebbe stato un ottimo professore universitario e avrebbe sicuramente contribuito a dare all’accademia quel lustro, che, ahimè, negli ultimi decenni l’Università ha perduto per il fatto di essersi lasciata sfuggire personalità del suo calibro a tenere cattedra, poiché purtroppo per una gestione a dir poco fallimentare dei concorsi universitari e delle abilitazioni legata a nepotismi e clientelismi, non sempre si è dato libero accesso ai più meritevoli. Qualcuno potrà pensare che tale affermazione possa essere gratuita, magari legata ad amicizia, o a semplice conoscenza di Ladolfi, oppure a una qualche riconoscenza. Non è così. Dacché questo giudizio si basa da una parte sul curriculum letterario del nostro, ma soprattutto dal fatto che l’Opera che stiamo presentando in questa breve nota, La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà, in ben cinque volumi, basterebbe a giustificare quanto appena affermato. Difatti La poesia del Novecento si profila come opera monumentale sulla poesia a noi contemporanea, tale da dover sicuramente lasciare il segno.

Nei corposi cinque volumi ci troviamo davanti ai numerosi saggi dedicati alla poesia italiana di tutto il Novecento fino ai nostri giorni, qui raccolti organicamente e armonizzati allo stato presente, pubblicati negli ultimi venti anni sulla rivista «Atelier», tra le più quotate Riviste di poesia, che è stata fondata da Ladolfi insieme all’allievo Marco Merlin, con il quale ha con-diretto la Rivista, circondandosi di numerosi collaboratori, per lo più giovani e provenienti anche dall’accademia, che ancora oggi contribuiscono a tenere in piena forma la rivista e il blog a questa collegato.

Certamente titanica e in qualche verso non esente da rischi, una operazione come questa di volere presentare un discorso organico sulla poesia del Novecento. Ladolfi, checché se ne dica, ci prova, per cercare di trovare un qualche filo rosso in una particolare dimensione estetica, che contempli anche la dimensione storica del presente della nostra civiltà in un confronto serrato con le correnti non solo letterarie ma di pensiero. Infatti dalla lettura dei cinque volumi emerge una critica che non si limita al solo discorso letterario, ma che spesso colloca questo discorso nella sfera filosofica, sociologica, psicologica, religiosa, teologica, etc. Insomma, il metro di Ladolfi ha più sfaccettature e cerca di trovare una misura di possibile com-prensione sullo sfondo di una ermeneutica veritativa, che soddisfi il tutto in un vero e proprio olismo culturale, nelle more di un nuovo umanesimo, in antitesi al pensiero analitico che ha scientizzato teoria e pratica fino a portare a un non-senso sul piano umano. Operazione che nel Novecento è stata spesso negletta dalla maggior parte di intellettuali, scrittori, poeti e critici, nella misura in cui la compie invece Ladolfi, che sapientemente sposta l’attenzione dalle opere come oggetto-struttura, che rischiano di perdere di vista e di delocalizzare l’artista, ricentrando lo scrittore e il poeta, da una parte, l’uomo e la persona, dall’altro. E non me ne vogliate, se mi azzardo a dire che Ladolfi è un critico “personalista”, dal momento che, anche con il recupero di un’estetica molto vicina al personalismo esistenziale di Luigi Pareyson, tenta di ricercare gli abbagli del Novecento e tramite il movimento antinovecentista prova a ri-centrare la persona del poeta in una realtà in cui la massificazione da una parte e l’individualismo solipsista dall’altra hanno portato a uno sfacelo destrutturante del mondo e della letteratura. Nell’ambito delle linee interpretative del Novecento, Ladolfi si pone infatti in una dimensione cognitivista, sia sul piano epistemologico sia su quello etico, che lo portano ad abbracciare “una estetica e una poetica a misura d’uomo”. Nelle more di approdare ad un orizzonte ermeneutico in cui finalmente prevalga il concetto, -dopo tanta “liquidità” e non-senso-, di una cultura letteraria in cui siano ben embricati sia l’opera che l’autore dell’opera. Per Ladolfi, “il valore dell’opera dipenderà dalla possibilità di ‘chiusura dell’arco ermeneutico’; se un solo segmento cede, tutto l’edificio ne resta coinvolto. All’interno stesso della validità artistica l’opera rappresenta un modo originale secondo cui l’autore ha interpretato il periodo in cui visse e la sua realtà di uomo unico e irripetibile. La sola perfezione formale, se non è segno di un cammino generale, rimane sterile e priva di significati”. Il vero artista, l’artista per antonomasia è, allora, per Ladolfi, quello che nella sua individualità e irripetibilità ha saputo “elaborare opere d’arte divenute testimonianza del cammino percorso dall’umanità”. E allora, e solo allora, la critica, nei termini ermeneutici gadameriani di un possibile dialogo, trova il suo significato e un senso, perché “la critica risulta momento di intellegibilità non solo del testo, ma anche di chi lo compone e in questo modo il critico diventa l’homo querens, il ricercatore inesausto di significati e verità”.  

In particolare, nel I tomo, Dal Decadentismo ai nostri giorni, Ladolfi affronta in termini generali il problema della poesia italiana a partire dal XX Secolo per approdare ai primi anni del XXI Secolo, fornendo le categorie e i paradigmi teorici sui quali si muoverà nei tomi successivi nell’affrontare i singoli poeti inseriti nella sua ripartizione. Il punto nodale di tutto l’excursus sulla poesia del Novecento sta nel fatto della profonda crisi della cultura e della civiltà occidentale a partire dal mondo classico per trovare approdo nel momento storico in cui si ha contezza della crisi, il Decadentismo, quando si consuma “la più grande rivoluzione della Modernità” con l’evento princeps: “il divorzio tra parola e realtà”. Per Ladolfi, la “consunzione della parola” provoca scaturigini sul piano esistenziale. E l’ermetismo, in cui la parola poetica prende la fuga da una reale possibilità di comunicazione diretta, portando al rischio di un individualismo serrato nell’ineffabile della parola stessa, nel momento stesso in cui la gnoseologia viene sostituita dalla nuova scienza epistemologica, si perde la bussola anche dal punto di vista esistenziale e si dà il la ad un imperante alogismo e relativismo spinto che nella postmodernità condurrà all’individualismo e al solipsismo, nonostante già allora Wittgenstein ne avesse intravisto il rischio e il pericolo. Attraverso l’Ermetismo, il Decadentismo, letto da Ladolfi nell’orizzonte di una ermeneutica non solo letteraria, ma più ampiamente culturale e filosofica, proseguirà nel Novecento “nella linea avanguardistico-sperimentale che da Govoni giunge fino a Zanzotto”.

Per comprendere quello che è accaduto nel Novecento, Ladolfi sostiene che vi sia un punto cruciale, come ho detto più sopra, legato alla crisi della cultura occidentale, che giunge a consapevolezza nel Decadentismo, che provoca “il divorzio tra parola e realtà e si rivela nella linea, denominata Secondo Decadentismo o novecento, che da Corrado Govoni giunge fino a Zanzotto”. I poeti novecentisti (II tomo) sono Michelstaedter, Govoni, Corazzini, Gozzano, Palazzeschi, Sbarbaro, Campana, Quasimodo, Ungaretti, Montale, Porta, Rosselli, Giudici, Zanzotto.

Ladolfi sostiene che “mentre il Primo Decadentismo permetteva la fuga dalla realtà in un rifugio alla ricerca di un ‘minimo di vivibilità’, il Secondo si rassegna di fronte alla costatazione che la crisi della cultura occidentale sta distruggendo ogni possibilità di trovare un senso all’esistenza e di conseguenza di comprendere il reale, per cui all’artista non resta che rappresentare «ciò che non siamo e ciò che non vogliamo» (E. Montale) o giocare con le parole, con le forme e con i colori”. Siamo nella temperie dell’Esistenzialismo, nella quale la precarietà, l’instabilità etica ed epistemologica con la caduta delle certezze, insieme al concetto di “gettatezza” heideggeriana, pongono l’uomo, e in tal caso il poeta, in un mondo senza logica, lontano, nemico, per certi versi addirittura sgradevole, dove non abita il senso e il fine e dove l’esistenza pare affogare nel nulla, in quel nulla da cui si è venuti, in cui si sta e in cui si è destinati a tornare. Ne deriva la sartriana nausea e l’angoscia, che rimanda all’elaborazione di tutti i pensatori esistenzialisti a cominciare da Kierkegaard. In questa situazione, “la parola non riesce più a ‘dire’ il mondo e fugge o nell’Iperuranio, come avviene nell’Ermetismo, o nell’autonomia del significante, come nelle Avanguardie”.

I poeti, che non riconoscono tale discrimine e che non si ri-conoscono su questa linea, sono i cosiddetti antinovecentisti (III tomo): Saba, Rebora, Betocchi, Pavese, Caproni, Penna, Scotellaro, Pasolini, Fortini e Bertolucci, che tentano di seguire percorsi diversi dai novecentisti e, seppure con le dovute differenze tra loro, cercano di ricucire lo strappo e di rifarsi a poetiche, che abbiano fede in una parola che sia capace di “dire” il mondo.

Per Ladolfi, tuttavia, con questi poeti “l’opera di saldare la parola con la realtà non giunge a compimento, perché ci si limita a lavorare sullo stile, ignorando che la crisi riguarda le basi della civiltà occidentale”.

Il Novecento ha avuto, invece, per Ladolfi, i suoi maestri riconosciuti, “i quali hanno rappresentato in profondità la crisi della cultura occidentale e ne hanno indicato gli esiti”: Vittorio Sereni, Bartolo Cattafi, Pier Luigi Bacchini, Mario Luzi (IV tomo). I “maestri” sono coloro che “hanno saputo portare la poesia italiana oltre il “novecento” mediante una duplice opera di fondamento e di profezia”. Vittorio Sereni rappresenta l’uomo contemporaneo come “prigioniero” dell’intero sistema, politico, economico e culturale, che rasenta il camusiano “assurdo”. Bartolo Cattafi è, secondo Ladolfi, un poeta a torto trascurato, “uno dei più importanti poeti del Secondo Novecento per il fatto che ha poeticamente rappresentato la parabola della civiltà occidentale, ne ha esplorato gli esiti nichilistici e ha lasciato intravedere le linee della svolta”. Pier Luigi Bacchini, a sua volta, “presagisce la formazione di un nuova sintesi speculativa in grado di prospettare un’interpretazione del reale capace di superare le aporie dualistiche del pensiero greco e cristiano e di porre fine alla crisi della modernità”. Difatti, con la sua ultima produzione poetica, cerca di mettere riparo alle aporie della cultura contemporanea, uscendo dal pensiero “espressivo” per attingere al pensiero “rivelativo” (Pareyson), per cogliere in modo nuovo le istanze esistenziali, culturali, sociali e politiche dell’ Età Globalizzata. Ma chi ha saputo “saldare in profondità parola e realtà è stato Mario Luzi, il quale è riuscito in un’impresa, tentata invano da molti, perché ha “ricostruito” un senso per l’esistenza, per il mondo, per la storia, per il problema del male e del dolore, per la natura, superando la frammentazione e la “liquidità” postmoderna”.

Infine si giunge alla nostra epoca, la più recente, dagli anni Settanta al 2014, quella che Ladolfi definisce Età Globalizzata (V tomo), che comprende gli autori della Postmodernità, tra i quali “sono segnalati diversi giovani che inducono a sperare in una prossima fiorente stagione della poesia italiana”, che stanno cercando di andare oltre le avanguardie e gli sperimentalismi attraverso nuove vie. I poeti presi in considerazione sono nella Parte prima: Alla ricerca della parola perduta, Magrelli, Viviani, De Angelis, Buffoni, Pontiggia, Cucchi, Raboni, Conte, Oldani, Angiuli, D’Elia, Mesa, Deidier, Ritrovato, Riccardi, Ceni, Anedda; nella Parte seconda: La vertigine della parola “che dice”, Fiori, Franzin, Temporelli, Zuccato, Pusterla, Iacuzzi, Beck, Lucarini, Ielmini, Rivali, Cattaneo, Piccini, Italiano, Brullo, Fantuzzi, Nota. Ladolfi non intende assolutamente “tracciare un canone” del momento attuale, tutto in divenire, ma “esaminare una serie di poeti come portatori di una particolare istanza all’interno del difficile tentativo della poesia italiana di agganciare la parola alla realtà” in un periodo come il nostro devastato dalle problematiche sociali, politiche, economiche e, mi sia consentito, morali, dal momento che ci troviamo davanti a una vera e propria questione morale, dalla quale sembra impossibile venirne fuori. Anche nel mondo della letteratura le cose non cambiano sul piano etico, granché, di riflesso, e l’individualismo e il solipsismo, come recentemente ha sottolineato Alberto Asor Rosa, nel suo saggio Scrittori e massa (2015), hanno corroso sempre più le possibilità di dialogo, in primis degli scrittori, che non riescono più a dialogare tra loro e si disperdono in un “atomismo molecolare” annientandosi nella massa. Ma gli scrittori, a cui si riferisce Asor Rosa, sono per lo più i romanzieri e i narratori, dal momento che questi a un certo punto, riponendo fiducia nella poesia, afferma: “Si può rispondere alla massa, abbassando, invece di alzare, il tono di voce? C'è chi ci prova: la poesia”.

Anche secondo Giuliano Ladolfi nel nostro mondo “martoriato” la poesia lascia ben sperare, dal momento che sta avendo una svolta “realistica”, in quanto i poeti attuali, tra i quali molti giovani, “rifiutano una concezione autoreferenziale e ludica della poesia” e, in barba ad ogni scetticismo, concepiscono la poesia come “originale interpretazione del reale”, all’unisono con l’insegnamento dei “maestri”, per cercare di chiudere definitivamente con il Novecento, con una parola finalmente riagganciata alla realtà, che riapra spazi veritativi ri-posizionando l’uomo nel mondo, nelle more di ridonargli il senso dell’esistenza.

Certamente, quest’opera monumentale di Giuliano Ladolfi, nonostante la sua stessa estensione in cinque tomi, per complessive 1434 pagine, non riesce a fornire, e di questo ne è consapevole l’Autore stesso, tutto il panorama della poesia italiana contemporanea. Indubbiamente, sono state fatte delle scelte e ci sono molte omissioni riguardo i singoli poeti. Per quel che mi riguarda, ma questo conta poco, se non come esempio valido per ogni lettore, che potrà trovare discordanze con il proprio modo di vedere e di percepire e di interpretare e di includere o escludere i singoli poeti, ritengo che sia stato dato poco spazio ai poeti della scuola romana, e in genere della linea meridionale, rispetto ai poeti della scuola milanese, dove pure qualche nome manca, come per esempio, quello di Roberto Mussapi. E poi sono assenti tanti altri poeti come Davide Rondoni, che pure riscuote successo tra i giovani, e Umberto Piersanti col suo romanticismo-illuminista ereditato dal conterraneo Leopardi, dal quale ha preso il testimone come principale cantore contemporaneo del paesaggio naturale ed esistenziale delle Marche. Per tornare alla scarsa analisi dei poeti della scuola romana, basti fare qualche nome come quello di Dario Bellezza, di Elio Pecora, di Renzo Paris, di Gabriella Sica, di Claudio Damiani, di Dante Maffia, etc.

Va però detto che il titanismo di un’opera come questa sta anche nella scommessa di essere soggetta a critiche e Ladolfi di questo ne è più che consapevole. Ma vorrei spezzare una lancia nei suoi confronti, pur non condividendone alcune cose, per il fatto che le scelte da lui effettuate sono state tutte per lo più funzionali al discorso di base col quale ha cercato di mettere in evidenza come la poesia del Novecento sia stata caratterizzata dalla “fuga” dalla parola e dal suo significato e dalla sua ricerca di senso, determinata da una profonda crisi della cultura occidentale, per approdare ad una svolta che con “la ricerca della realtà” vuole mettere fine ad un’Epoca per andare “oltre il Novecento” nella misura in cui la parola si aggancia nuovamente alla realtà in una dimensione ermeneutica veritativa. Per qualche verso, possiamo dire che il fondamento da ricercare, con tutte le difficoltà del caso, sia quello di una conoscenza nuovamente intesa, secondo Tommaso d’Aquino, come adaequatio rei et intellectus. E non per niente, a me sembra di aver colto, come dicevo anche in precedenza, nelle pagine de La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà, il tentativo da parte di Ladolfi di ravvisare la necessità, che si sta in qualche modo compiendo negli anni più recenti, di ri-centrare nel mondo della letteratura, dove vi era stata una delocalizzazione del soggetto, la persona con il suo logos e con il suo ethos. Al punto che la parola possa tornare a “volare alta” come ha insegnato la poetica di uno dei più grandi poeti del Novecento, quello che per Ladolfi è il “maestro” per antonomasia, Mario Luzi.

Insomma, Giuliano Ladolfi ci ha regalato un’imponente opera sulla poesia italiana contemporanea, un’opera che non potrà mancare negli scaffali degli addetti ai lavori, dei poeti, dei critici e comunque di chi ama la poesia e la letteratura. Un’opera monumentale con la quale dovremo fare i conti per rimanere nel presente pur guardando al passato e alla tradizione, opera nella quale Ladolfi ci ha offerto la sua interpretazione personalista (il riferimento è al personalismo filosofico del Novecento) della letteratura e in particolare della poesia contemporanea, che a mio avviso sia ora sia nel futuro, attraverso la sua Wirkungsgeschichte, non potrà non portare frutti sia nell’elaborazione delle poetiche sia nell’approccio critico e che, anche se l’Autore se ne è guardato bene per modestia a dirlo, ci permetterà di poter parlare con maggior cognizione di causa di un possibile canone per il presente e per il futuro.

 

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Renzo Paris - Romanzo - Hacca

La vita personale

 

   Mentre ci si accinge a leggere le battute finali del romanzo La vita personale, il capitolo finale “Ponte Milvio”, come succede per tutte le storie travolgenti, appassionanti, coinvolgenti, si ha la sensazione di mestizia per una storia che si avvia alla fine, mentre si vorrebbe che non finisca, che continui. Il romanzo di Renzo Paris prende dall'inizio e si lascia leggere in un baleno. È un libro molto denso, ben strutturato, sinolo di materia e forma, un corpo snello che mostra incarnato lo spirito della vita, in un gioco di poesia e vita perfettamente integrate.

Scritto molto bene, con leggerezza calviniana, pertanto con leggerezza formale, che nulla toglie alla profondità dei contenuti, si profila da subito pane per i denti per poeti, scrittori, amanti della vita tout court, e poi critici, storici, sociologi, psicanalisti, che hanno di che poter trovare per le loro "letture", dal momento che il romanzo si presta molto bene ad una plurivocità e ai più diversi registri che danno il fianco a possibili plurime ermeneutiche.

 Molto interessante, tra le altre cose, la rievocazione, tra realismo e idealizzazione, della seconda scuola romana di poesia, che permette di rivivere quel periodo di intensa elaborazione valoriale e culturale, quando si era popolo di persone immerse in una qualche relazione, quella appunto della “vita personale” che oggi sembra venuta meno, in accordo all'assunto di Alberto Asor Rosa, emerso nel suo ultimo saggio da poco in libreria Scrittori e massa (2015) , dell'atomismo individualistico, che ha portato al solipsismo della massa e di conseguenza degli scrittori.

Infatti, come recita la quarta di copertina, La vita personale è il romanzo della generazione dei poeti e dei critici della seconda scuola romana di poesia imbrigliata nella realtà e nell’immaginazione del sogno poetico, letterario e politico degli anni Sessanta e Settanta. Ma non solo, dal momento che nel romanzo abbiamo a che fare con una quarantina d’anni a cavallo di due secoli, tra il XX e il XXI. Anni in cui si sono giocate, nel bene e nel male, le sorti della nostra storia, civile ma anche letteraria, e in qualche modo si sono determinati non solo gli eventi, le passioni, tra ideologia e realtà, le ambizioni e i sogni del presente (che per noi è passato), le teorie e le pratiche letterarie tra tradizione e avanguardia, ma è stata provocata la storia degli effetti, la Wirkungsgeschichte, di quelle gesta e di quelle opere per il futuro, che è il nostro presente. Ecco allora che tra i personaggi reali come Dario Bellezza, Alberto Moravia, Pierpaolo Pasolini, Elsa Morante, Amelia Rosselli, Enzo Siciliano, Sandro Penna, Elio Pecora, Valerio Magrelli, e tanti altri, come Giovanni Raboni, Milo De Angelis e Maurizio Cucchi, della scuola di poesia milanese, di cui pure si parla, oppure personaggi sotto mentite spoglie, quali l’Hidalgo (Alfonso Berardinelli?) e Crudelia (Franco Cordelli?), che rappresentano la coscienza critica di quell’epoca e nel romanzo sono la coscienza del protagonista, spicca Luca Saraceni, alter ego dello stesso autore, Renzo Paris, in un gioco di identità e sdoppiamento di personalità. Paris si prende gioco tra la realtà e la fiction nel descrivere con realistica crudezza, ma nello stesso tempo con dolcezza, e con ironia, come è nel suo stile di narratore, nonché di poeta neo-antico, la temperie della sua (di chi? del protagonista del romanzo? dell’autore?) vita personale. Il romanzo, fondamentalmente, è una storia, d’amore, vissuta da Luca Saraceni con tre donne, Laura Buffetti, Karen Willis e Sara Frish. Tre storie, (vere? inventate? questo non importa ai fini della storia; e comunque ciascuno ne tragga le proprie conclusioni), ognuna con le sue caratteristiche, ma anche con molte identità, passate attraverso una complessa relazione edipica del protagonista, che si risolve solo in parte con l’approdo alla paternità, che in qualche modo riesce a cambiare la sua esistenza. Tre storie in cui si innestano vicende pubbliche e quindi la politica, nazionale, con i fatti di terrorismo, e internazionale, con le guerre e i disastri causati dai fondamentalismi religiosi. Tre storie in cui le vicende private sono ampiamente condite di sesso, così come le teorie di Reich avevano liberato la sessualità dagli anni Sessanta in poi, senza infingimenti, sotterfugi e ipocrisie, che ben ci condizionano, anche oggi, liberandoci da tanto insulso e ipocrita puritanesimo, purtroppo ancora presente, in questioni di sessualità, che non considerino l’uomo per natura sessuato e di fondo uno spirito-incarnato. Sessualità che fa parte del bagaglio culturale di Paris, studioso della poesia classica, greca e soprattutto latina, ma anche di quella concezione del sesso e della sessualità appartenenti alla cultura francese che Paris conosce molto bene anche per appartenenza accademica al mondo degli studiosi della cultura e della tradizione letterarie francesi. Non per niente, a un certo punto del romanzo (pag. 243), parlando della vita sessuale, tema tra i più presenti nel romanzo, Luca Saraceni fa questa riflessione a cavallo tra sessualità-bioetica-poesia, che la dice lunga sulla profondità del dettato della scrittura di Paris in un serrato confronto dialogico con la contemporaneità, che tolga spazio all’individualismo metodologico e alla spersonalizzazione:

 

Gli scienziati pensavano alla clonazione, a cancellare l’amore legato al sudore dei corpi, a fare a meno della paternità e della maternità. Che posto poteva avere la poesia in quella trasformazione micidiale? Nessuna.

 

Per tornare, allora, ad Asor Rosa, a Scrittori e massa (2015), che citavo prima, mi sembra di aver colto comunque una riflessione interessante fatta dal critico e storico della letteratura, ovvero che oggi gli scrittori, per lo più, vanno ciascuno per la propria strada in un individualismo serrato e ingabbiato senza dialogare tra loro e soprattutto con la tradizione. Sono d'accordo. Dico, allora, che bisognerebbe cominciare o meglio ri-cominciare da romanzi come questo, La vita personale di Renzo Paris, che invece dialoga sia col presente sia col passato, per ridare un cenno a quel canone, ma anche a quel candore, di cui abbiamo bisogno per de-massificare e de-individualizzare gli scrittori e di conseguenza la letteratura, anche attraverso i classici. Infatti, se Asor Rosa parla di Pasolini, Fortini e Calvino come degli ultimi classici, Renzo Paris dovrebbe essere collocato tra i neo-classici della nostra contemporaneità, per il fatto che riesce, a fronte della massificazione e dell’individualismo imperante tra gli scrittori, a colloquiare col presente e col passato in direzione futura. Non per niente, Renzo Paris è tra i pochi scrittori di un certo calibro che non disdegna il contatto col mondo letterario, sia reale sia virtuale, essendo assidua la sua presenza anche sui social network, come Facebook, dove è sempre pronto al dialogo con tutti e dove spesso nel suo diario narra storie colte col suo acume dalla realtà della strada e le trasfigura in forma letteraria tra realismo e ironico, apparente, disincanto per affidarle poi ad un profondo incanto per la vita. Come fa nel romanzo di cui ci stiamo occupando. E non per niente, Luca Saraceni, dice a pag. 249:

 

Il diario, le ho gridato, per giustificarmi, detto tutto è pur sempre una finzione, anche quando si nutre della realtà più intima.

 

Colgo l'occasione per ringraziare Renzo Paris per aver scritto questo romanzo, che consiglio di leggere a chi ancora non lo avesse fatto, anche perché dà la possibilità di cogliere come la vita sia "personale" nella misura in cui ci sono anche "altri" in una dimensione dialogica e relazionale e lo ringrazio, come già detto, per avermi fatto assaporare la temperie della scuola romana di poesia e i legami con la scuola milanese di poesia che non ho potuto vivere in diretta in quanto della generazione successiva.

Grato a Renzo Paris anche per avere ri-centrato la persona in questo suo romanzo. Per il fatto che sono anni che mi batto per una poesia e una letteratura tout court personalista. E non per niente il personalismo filosofico, a cui guardo, - potrò anche sbagliare, ma mi sembra di coglierlo in tanti passaggi della narrativa di Renzo Paris, - è una creatura della cultura francese (penso soprattutto al personalismo relazionale e comunitario di Emmanuel Mounier) e pertanto nell’alveo della formazione culturale del nostro autore. Personalismo sviscerato nella sua estetica in senso tutto esistenzialista dal nostro Luigi Pareyson, per il quale la letteratura e i suoi prodotti sono strettamente connessi con la vita dello scrittore. Non per niente, Luca Saraceni, alias Renzo Paris, a un certo punto del romanzo (pag. 249) afferma, ironicamente, ma non poi tanto, e comunque con lucida contezza:

 

Si dirà che mi manca la fantasia, ma io che ci posso fare se penso che senza la persona non c’è alcun personaggio che tenga?

 

 

 

 

*

Silvana Palazzo - Poesia - Manni Editori

Poesie di un’estate

L’ANGOSCIA DEL RICORDO E LA MALINCONIA, RISCATTABILI DALLA POESIA E DALL’AMORE

 

 

Nella silloge Poesie di un’estate, da poco uscita per l’editore Manni, Silvana Palazzo scandisce i movimenti della vita quotidiana attraverso uno scavo, sui propri sentimenti, da una parte psicologico dall’altra esistenziale, facendo un diario che specchia l’anima sul paesaggio nei mesi dell’estate da giugno a settembre in un gioco di ombre e di luci. Tanto è che sono quattro le sezioni che costituiscono questa silloge e ogni sezione corrisponde a uno dei mesi estivi: Giugno, Luglio, Agosto e Settembre.

La Parte Prima, Giugno, si apre con la poesia Navigo al buio, che già dal titolo non sembrerebbe promettere nulla di buono, ma nel finale c’è un repentino passaggio dalle nuvole al sole, dal pessimismo all’ottimismo:

 

 

Tutto è nero d’intorno

ma so che presto

una luce alla vita

m’aprirà.

 

C’è tutto un lavorio, nello scavo interiore, un prepararsi per un altrove al di là di questa vita, ma con l’occhio teso ad aspettare qualcosa che accada, anche senza sapere se sia meglio l’adesso o il poi, e quindi cercare un punto di gravità nell’acqua, leggera e forte nello stesso tempo, uno scorgersi che tenta l’indicibile teso a quell’altrove in cui forme e connotati sono un mistero.

 

Scorgere

i tuoi lineamenti

attraverso il buio

di un’eco.

Cercare un tratto

che ci rassomigli

non certo per casualità.

Rintracciare forme

che porterai

lungo la vita

che verrà.

 

Ma è proprio in questo sconcerto, che immalinconisce, che avviene il miracolo e dal pensiero di una vita nell’aldilà riporta la poetessa alla realtà della vita presente con la Figlia di mia figlia, con l’avvento di una creatura che nascendo continua la vita, non la spezza, e che “figli avrà/ petali di fiori/ intatti nella loro/ bellezza”, donando così la speranza di vita nella bellezza. “Scrivere una poesia/ per allegria/ non m’era capitato/ ancora in vita mia”, dice la poetessa, ma ora è giunto il momento di farlo, per cantare una stella venuta dall’alto a dare speranza, a rinfocolare l’amore e i sentimenti e non da ultimo il senso della vita. Silvia, questo il nome della bimba, è un bocciolo, è un regalo che “sazia tutti per intero”, che ha riportato il sale della vita là dove era ormai perduto ogni sapore dell’esistenza e tutto era divenuto insipido. Silvia è fonte nuova di giovinezza che dona la mattina nuova come la può donare solo l’acqua di rugiada attraverso i teneri baci.

Nella Parte Seconda, Luglio,  si riprende lo scavo esistenziale. La poetessa si sofferma sul fatto che il mondo non cambia nonostante la voglia di cambiarlo, che le certezze sono finite, che non si dà un porto sicuro, che perfino i poeti smettono di scrivere… Ma ecco che l’estate si riaffaccia anche nella coscienza del poeta e la nudità della bellezza e della libertà con la solarità scevra da nuvole riporta alla tautologia di estate e poesia (“L’estate è poesia/ e la poesia è l’estate/ senza nubi nel cielo arroccate”).

L’estate evoca la sensualità, il calore la esalta, il vento la lambisce e ecco allora che la poetessa si lascia irretire dall’estate come da un amante:

 

È il vento che

gioca

con la mia gonna

a darmi un piacere

come mano

leggera

che accarezza

i miei glutei

le anche

le mie cosce.

Lo lascio fare

ferma restando

e di ciò godendo.

 

L’estate evoca anche la curiosità per gli altri, per i luoghi, per le cose. Vi è un ritorno non all’effimero, ma alle cose stesse perché parlino nella loro semplicità e allora tutto diventa interessante, come una valigia perduta, con il suo contenuto di cose intime e segrete, una chiazza sul mare, una stella marina vivente, come gli innamorati e i loro sussurri, che destano invidia tanto da volere essere al loro posto. E fanno tornare col pensiero a amori e a volti di questi amori ormai lontani.

Ma l’estate porta anche la pioggia e lo stare dentro coatto invita nuovamente a pensare l’esistenza, la poesia e la necessità di dire e di scrivere (“Datemi un/ foglio di carta/ per favore/ è un bisogno/ impellente visto che fuori/ piove”).

Anche la Parte Terza, Agosto, si apre sul lato melanconico di una vita navigata per mari lontani, una vita logorata e spezzata, ma per fortuna non ancora affondata. E anche qui prevale la speranza, un ottimismo che fa credere nella ripresa, che dà senso, comunque, al futuro. I momenti in cui il pensiero si fa nero e ti sorprende alle spalle non mancano, come non mancano le lacrime. Desolazione e straniamento. Ma in questi è sufficiente un SMS, per quanto vuoto, a ridare fiducia. Scrutare lo specchio mette l’angoscia di riconoscersi e diventare folle così come è angosciante stare con se stessi. E la paura di vivere in un futuro senza emozioni e senza colori fa rabbrividire. Bisogna pur uscire da uno stato simil-vegetativo.  La poetessa sa come poter fare. Affidando alle parole la ricerca di senso attraverso i propri sentimenti nel bene e nel male, ma soprattutto attraverso l’amore (“Avrei voglia/ d’innamorarmi/ ancora”). C’è una forte voglia di uscire fuori dal tormento del passato, di lasciare alle ortiche i ricordi del tempo andato (“i ricordi sono il cimitero/ di ciò che siamo/ meglio tenerli a bada/ oggi come domani”) e finalmente incominciare ad accettarsi come si è nel presente per meglio affrontare il futuro (“È una vita che cerco/ di capirmi/ devo incominciare/ ad accettarmi”). A far sì che nella vita avvenga quello che accade quando si dissolve il buio della notte e appare il sole e si intravede il suo splendore nonostante ci siano ancora le nuvole:

 

Il buio della notte

scompare al lento

apparire del sole

che non c’è questa mattina

ma che tra le nubi regala

lo stesso la sua luce.

Lento è il suo risveglio

graduale ma costante.

Punto fermo su cui

si può contare.

 

E il sole rappresenta allegoricamente l’amore, in quanto unico a togliere la malinconia e a donare speranza, togliendo i dolori dell’anima che sono peggiori di quelli del corpo.

E eccoci a Settembre, la Parte Quarta, l’ultima del libro, che è anche l’ultimo mese dell’estate, quello che per antonomasia immalinconisce, in quanto

 

Settembre

ha con sé

la malinconia

delle cose finite

e l’inquietudine

delle cose

non ancora

iniziate.  

È un mese

di transizione

più triste

di ogni altro

cambio di stagione.

 

Proprio in questo frangente stagionale è più facile l’alternanza di depressione e di euforia, di tristezza e di voglia di riscatto. E allora nei periodi in cui vi è tregua con la desolazione si aprono porte di speranza e la poetessa ruggisce come una leonessa e ha voglia di aggredire questo mondo che non va. Come poter fare? Certamente affidandosi alla poesia, come nella supplica

 

Ti prego aiutami poesia

tu che sei stata

fedele compagna

della vita mia

quando ancora la speranza

mi era sorella

ed ora non mi rimane più neanche quella.

Ti prego aiutami ora

cara poesia

perché questa vita

diventi più mia.

 

Anche se alla fine riemerge con tutta la sua potenza la nostalgia e la poetessa non può non riprendere a tema il discorso a proposito dei ricordi.

 

Come si dimenticano

i ricordi?

 

È più forte di lei la memoria, proprio non sa scacciare i ricordi e il brutto è che nella sua anima riemergono non solo i bei ricordi ma anche i più brutti, come quello dell’abbandono. E comunque secondo la poetessa non vi è ricordo, anche bello, che non sia malinconico, proprio perché fa parte dell’indole del ricordo. Ancor di più, dice la poetessa, “ I ricordi/ fanno parte di noi”, ci sono connaturati e allora l’indole malinconica non è del ricordo, ma dell’uomo.

Alla fine di questo excursus veloce sulle Poesie di un’estate, devo dire che si esce dalla lettura compiaciuti di avere trovato un libro molto interessante. La silloge è giocata con un filo rosso che attraverso il diario dell’anima della poetessa, nell’alveo di una stagione quale è l’estate nel passaggio di mese in mese, si snoda presentandoci le notazioni che da sempre l’uomo ha cercato di denotare e connotare attraverso lo scavo non solo psicologico, che sarebbe poco, ma vieppiù esistenziale e spirituale nei riguardi del proprio destino, dove non si può non venire a contatto con la vita e con la morte, con la tristezza e con la gioia, col diavolo e l’inferno da una parte e con Dio e il paradiso dall’altra, col bene e il male, col bello e il brutto e così via. Così come l’uomo non può non imparare a fare i conti con il proprio ambiente e finanche con le stagioni con le quali scambia sentimenti specchiandosi nel sole più splendente o nelle nubi più nere. Questa ulteriore prova poetica di Silvana Palazzo merita davvero di essere letta e soppesata, non solo perché rispetto alle prove precedenti, pur pregevoli, mostra un notevole salto di qualità formale e sostanziale, che ne dimostra un accrescimento delle proprie capacità espressive in poesia, ma val la pena leggerla perché riesce a rendere universali i sentimenti a partire da quelli suoi particolari.

Per concludere, mi si lasci dire che, se dovessi definire la poesia della Palazzo in sintesi, lo farei dicendo che si sostanzia in un esistenzialismo in cui prevalgono l’angoscia del ricordo e la malinconia, che solo la poesia e l’amore possono riscattare. E in effetti la nostra poetessa scrive ormai da anni fiumi di inchiostro con un romanticismo indefesso, per denotare e connotare l’esistenza, alla stregua di quello che hanno fatto da sempre la maggior parte dei poeti e degli scrittori a partire da Omero e Virgilio e giù di lì, scrittori per lo più inclini alla malinconia, come ha messo bene in evidenza il critico ginevrino Jean Starobinski nel suo saggio L’inchiostro della malinconia, dove ad un certo punto dice: “Oppure l’inchiostro della malinconia, a forza di opacità e di tenebre, perviene a conquistare un meraviglioso potere di barbaglìo e scintillanza? Il fondo tenebroso comporta la possibilità del bagliore, se gli si sovrappone del materiale liscio. Shakespeare lo intuisce, evocando il miracolo di un amore che risplende, salvato dalla devastazione universale del Tempo, nell’inchiostro nero della poesia: Che in nero inchiostro, l’amor mio splenda fulgido per sempre. Ma, in quest’ultima trasformazione metaforica, la malinconia divenuta inchiostro, diventa infine la foglia di stagno grazie alla quale l’immagine si irradia. L’oscurità più densa oppone alla luce una superficie da cui zampilla, luciferina, come da una seconda sorgente”, che sposerei anche per la silloge della Palazzo, per tutti i motivi che ho detto prima.

 

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Ninnj Di Stefano Busà - Romanzo - Kairòs Edizioni

Soltanto una vita

 

Soltanto una vita dà a pensare che nonostante nelle varie epoche ci siano dei canoni piuttosto ben individuati e individuabili in letteratura, che dettano le regole del gioco, c’è una qualche forza sotterranea, che di tanto in tanto fa riemergere come soffioni boraciferi generi ormai in disuso e non più apprezzati dalla critica contemporanea. È così che il romanzo di Ninnj Di Stefano Busà dà l’impressione di voler dare nuovamente voce al romanzo d’appendice. E con questo senza voler togliere nulla o disprezzare l’opera in oggetto o il genere medesimo. Con lo scopo, in questo caso, come nel caso dei gloriosi feuilleton delle epoche passate, di fare anche opera di divulgazione delle narrazioni e delle storie con l’intento di incrementare il numero dei lettori e di conseguenza di avvicinarli alla letteratura, e nello stesso tempo di dare alla letteratura una dimensione non soltanto narrativa intesa come descrittiva di eventi e caratteri, ma soprattutto una dimensione prescrittivo-moraleggiante.

   La storia narrata in Soltanto una vita racconta le vicende ambientate in America del Sud e precisamente in Argentina di una famiglia benestante alto-borghese nata dalle ceneri di un fidanzamento e di un matrimonio entrambi falliti, che la voce narrante sottopone a una diffusa analisi psicologica cogliendo con abilità sfumature che potrebbero far parte di tante situazioni rinvenibili nella realtà, tanto più se alla base dello scollamento delle coppie vi  sono momenti legati a problemi di psicopatologia come nel caso del romanzo.

   L’amore che sboccia tra Julie e George, i due protagonisti, non poteva nascere se non tra i rottami lasciati da un uragano, che sono l’alter ego della buriana, che aveva invaso l’anima di entrambi. Da un normale prendersi cura da parte di Julie di George, trovato gravemente ferito su una spiaggia, dove lei si era fermata “a leccarsi le ferite” della sua esistenza, gravata da un cattivo rapporto sentimentale, che per quanto finito non era ancora del tutto metabolizzato, c’è il passaggio a un amore che diventa subito travolgente e appassionato al punto che i due iniziano a essere coinvolti anima e corpo in una bella storia d’amore. Nonostante le mille difficoltà legate al fatto che George è ancora sposato con una moglie, problematica e nello stesso tempo psicopatica, che continua a dargli non pochi problemi, fosse pure per il fatto che i due hanno un figlio, Alex, che malauguratamente, nel momento in cui viene sancito il divorzio, viene affidato per assurdo alla madre con la conseguenza di provocare in George un grave turbamento. Dispiacere che pur incrinando l’umore di George non impedisce che Julie possa realizzare il sogno di poter sposare George per cercare di avere un figlio. Di lì le vicende si snodano nel bene e nel male e il rapporto sempre intenso tra i due procede tra un incidente di percorso e l’altro in un cammino per la coppia piuttosto roseo, anche in virtù del loro stato di benestanti, e tra un aborto spontaneo che dapprima tarpa le ali a una felicità che sembra non potersi compiere, e all’arrivo infine della figlia Emily, tra una malattia per George, colpito da un grave insulto cardiovascolare nel momento in cui sta per ritrovarsi con un figlio, che sembrava irrimediabilmente perduto per il padre in seguito all’affidamento alla madre, che li aveva allontanati definitivamente, e quindi ancora la malattia tumorale per Julie non fanno altro che riportare a quell’andazzo che è proprio di una vita soltanto, vita che sembra segnata da momenti di felicità, che preludono a momenti di infelicità e viceversa, come siamo abituati a vedere e a vedere riflettere nell’andamento meteorologico in quel movimento ondivago di tempeste, che preludono a cieli tersi e azzurri e che a loro volta precorrono l’onda d’urto di un uragano.

   Così sarà anche per la figlia dei due protagonisti, Emily, che nonostante i traguardi nella vita professionale e nonostante la vita più che agiata e un matrimonio con un facoltoso italiano naturalizzato argentino, Andrea Foscari,  dovrà fare i conti  con alcune traversie della vita che non guardano in faccia se uno è ricco o povero… Alla fine è soltanto una vita. La vita…

   Il romanzo di Ninnj Di Stefano Busà è circondato dall’inizio alla fine da un’aura paradisiaca naturalistica, sociale e linguistico-stilistica, dove tutto sembra collocarsi in una favola fuori luogo e fuori dal tempo (se solo pensiamo a quella che è la realtà, oggi in tutto il mondo, e tanto più in molti paesi del Sud America, dove spesso per la maggior parte delle persone vi è miseria, povertà, degrado, infelicità e comunque tutto il contrario di quello che si legge nel romanzo, che è invece solo per i pochissimi) in una u-topia nella quale, se non fosse per l’evenienza delle intemperie e del male fisico e/o psicologico che colpisce gli uomini a disturbare il clima edenico, vi è una prevalenza di fasti di feste di ricchezza di bellezza di politici di ambasciatori di persone comunque “importanti” e altolocate di primi e di primari in tutte e di tutte le dimensioni sociali, di efficienze e di eccellenze professionali e di inverosimile potere legato al censo, così come prevalgono scenari di sublime bellezza rubati “fotograficamente” al paesaggio oceanico dell’Argentina. Il tutto mediato da un linguaggio che spesso si fa iperbolico, superlativo, fin troppo aggettivato come è proprio del mondo aristocratico borghese che tende a circondarsi quasi esclusivamente con tutto ciò che è “griffato”. Insomma la favola bella di Ninnj Di Stefano Busà ci presenta quello che spesso vediamo nei film e nelle telenovela americani. Il bisogno di vedere la realtà è grande… ma forse gli uomini hanno bisogno di favole… E con questa consapevolezza l’Autrice offre al lettore questa opportunità di sogno. Anche perché per l’Autrice sembra essere prioritario far passare il messaggio che non è tanto importante poi quello che appare, ma, al di là delle apparenze, quel che conta sono l’interiorità e la forza d’animo e le virtù dell’uomo che fanno sì che alla fine i valori, come quello della famiglia, emergano e soprattutto che il bene possa prevalere sul male.

   Il romanzo, come ci si può aspettare, è a lieto fine. Ma lascio al lettore il piacere della scoperta dell’ulteriore svolgimento della trama.

   Come in ogni romanzo d’appendice che si rispetti, anche in questo caso la storia ha un intento pedagogico e moraleggiante e si conclude quindi con le riflessioni da parte della voce narrante dell’Autrice con questa morale:

 

Domani, domani è un altro giorno, come dice Rossella O'Hara nel film Via col vento, il sereno torna sempre, ancora e ancora, si spalancano le vie della provvidenza, che sono inesauribili.

La benedizione di Dio torna a farsi grazia, indulgenza, misericordia. Forse verrà messo a dura prova il corso della vita, da qualche altro ura­gano o tempesta, vi saranno altri ostacoli da abbattere, da superare, ma loro sono una famiglia, in loro si rispecchia l'umanità col suo carico di sofferenza, di lutti, ma anche di qualche gioia o consolazione.

Si può essere vincitori o vinti, si può bluffare con se stessi, o esse­re se stessi, dipende da come sei dentro, da come ti rapporti all'ester­no, ma sono fattori secondari, la forza più tenace che fa da collante all'universo è l'amore.

Veniamo al mondo per amarla questa vita, l'unica che abbiamo, non per opporci a essa o per oltraggiarla, e se talvolta ne veniamo feri­ti, ebbene, sì, tiriamo fuori tutto il coraggio, l'ardimento, la forza morale di cui siamo capaci per lottare strenuamente contro il male.

Non passi per troppo mieloso il concetto che Dio è la fonte, noi siamo la gola riarsa: il nostro limite è la sete inestinguibile, impetuo­sa e inarrestabile, abbiamo bisogno di lui per dissetarci.

Siamo in fondo soltanto una vita, nient'altro...

 

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Pasquale Vitagliano - Poesia - LietoColle

Come i corpi le cose

   

  Nel mondo abitano persone circondate da cose. Le persone agiscono e inter-agiscono, oltre che con se stesse e con il prossimo, con le cose. Assumendo come riferimento l’antropologia personalista, se per persona intendiamo un'unitotalità somato-psichica-spirituale, nella quale il corpo non è sic et simpliciter un dato puramente biologico, e seguendo la distinzione fenomenologica tra Körper e Leib, diciamo che da una parte abbiamo il corpo come oggetto e dall’altra il corpo come corpo proprio animato, vivo, possiamo allora ben affermare che il corpo, almeno nella seconda concettualizzazione, non può essere in alcun modo analogabile alle cose e che viceversa, a maggior ragione, le cose, in quanto tali, non sono persone e/o come persone.

   Se le cose sono, in modo esclusivo, oggetti e non soggetti verrebbe allora da dire che le cose potrebbero essere come il corpo inteso come Körper, ovvero come corpo oggetto.  Appunto Come i corpi le cose, come titola la sua recente raccolta Pasquale Vitagliano. Ma vedremo che alla fine non è così, o almeno sembrerebbe, dal momento che la finalità della parola poetica è tra le altre quella di animare, di dare anima, anche alle cose, anche nella loro più bassa dimensione e concezione. Per quanto il tutto avvenga come un evento tipico della desolazione esistenziale.

   La cifra della poesia della plaquette Come i corpi le cose è, infatti, lo spaesamento e il dis-perdersi (C’è chi ha perso la strada…. Le strade, pag. 26). Nel contesto del paesaggio dell'anima si aggira inquieto e debordante dallo spirito un corpo pressoché de-realizzato e de-contestualizzato dalla persona (Il mio corpo è di vetro…, in La via dell’acqua, pag. 25), che, insieme ad altri corpi spersonalizzati e stigmatizzati nella materia segnata dal loro passaggio, presente o passato, conosciuto e misconosciuto (Non ricordo più il tuo nome, pag. 20), indugia nella fusione d'orizzonte con le cose. Addirittura, si può dare uno spaesamento tale e tanto da far sì che si tracimi nell’angoscia e allora, mentre all’uomo cade la maschera, le cose paiono, uniche, nella permanenza, loro e solo loro, in una dimensione che, sola, sembrerebbe carica di senso. Quel senso che invece dovrebbe appartenere soltanto alla persona, persona anche in quanto corpo proprio, in virtù della sua corporeità, di quel corpo che è vivo, che è soggetto-vivente, e invece quel senso rischia di sfuggire al corpo, pena la sua cosificazione, per sfuggire in altri oggetti, nelle cose.

   Corpo che purtuttavia non regge, perché non è nella sua natura, alla reificazione. Il corpo è di passaggio, ma anche l'anima è transeunte, nella misura in cui è strettamente unita al corpo. Con la morte l’anima lascia il corpo a se stesso, in modo netto, nell’attesa dell’eskaton. Ma anche durante la vita si annida nella persona il pericolo della schizofrenia non solo della mente, ma dell’anima, e anche se non soprattutto del corpo, sempre più Körper e sempre meno Leib.

   Il pericolo scaturisce così da questa schizofrenia, da questa divisione patologica, che scinde e dissocia dalla realtà e conduce al solipsismo e alla disperazione, in mancanza della speranza. Se non fosse per quel barlume superstite di coscienza, come avviene nel caso dello spaesamento del poeta, che riesce a operare in modo trascendentale e nell'istante a trasmettere alla parola il senso dello sbarramento alla fuga. Fuga da tutto quanto è vi è di umano. Ma proprio in quanto umana, affetta dalla caducità e dalla finitudine, dal male morale e anche civile, ma con l’apertura di fatto al bene, la persona, per quanto mortale, proprio per questo motivo si diversifica dalle cose che invece per paradosso sembrerebbero eterne. Eterne ma non prossime al divino, perché alla fine mancano della soggettività, della libertà, in poche parole della spiritualità e soprattutto di quella sacralità, che possono avere solo per intermedia persona.

   Lo spaesamento nasce, allora, anche da questa presa di coscienza: la persona, salda nella sua unitotalità somato-psichica-spirituale, viene meno cedendo, quando la persona muore, sia virtualmente sia effettivamente, e pertanto solo se l'anima lascia il corpo. In tal caso sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) essere davanti ad un'irreversibile reificazione del corpo, che comunque non possiamo confondere con una de-sacralizzazione del corpo. Anche dopo la morte, infatti, il corpo, per quanto non più persona, potrebbe essere assimilato ad una cosa, ma non è così in quanto quel corpo in quanto è stato una persona è sacro e va rispettato anche in questa fattispecie per quella dignità che spetta al defunto, che fa sì che nessuno ne possa disporre a proprio piacimento, e una sana morale vuole che a quel corpo venga data la dovuta sepoltura, come da sempre ci ricorda anche Antigone.

   In vita il corpo si gioca la sua significanza tra Körper e Leib, corpo come oggetto e corpo come soggetto, quest'ultimo con i vissuti del corpo proprio. Come dicevamo, nella poesia di Pasquale Vitagliano ci troviamo davanti allo spaesamento proprio perché vi una difficoltà dell’uomo, di tutti gli uomini, e qui se ne fa carico il poeta, a reggere allo scacco provocato dal Körper che tenta di sopravanzare il Leib con la messa in pericolo della persona.

   Ecco allora una serie di paesaggi del corpo e nel corpo confusi, accatastati e compromessi con le cose e con gli oggetti, che entrano in contatto col proprio corpo e con altri corpi e che la coscienza in extremis riesce a sublimare, nel bene e nel male, nei vissuti che il poeta perviene ad incarnare nella parola, andando così verso quell’oltre in cui persone e corpi e cose si giocano la partita lasciando l'unica possibilità di scampo al nulla da parte dell'essere. Un essere altrimenti fuggevole e per di più ammalato e contaminato da una pseudo-civiltà, per non dire da una in-civiltà, e da una regressione sociale e culturale, che accentua la de-solazione dello spirito. Desolazione, spaesamento e angoscia che avvolgono in toto l'uomo (… Ed è di nuovo festoso questo restaurato silenzio,/ perché sì, non c’è niente di più familiare/ di questa mia, ritrovata e piena desolazione, pag. 29).

   La persona può avere come unica via di fuga dallo stallo in res, come ci indicano i versi di Vitagliano, quel tentativo di pacificazione che chiamiamo poesia. Le cose sono sempre di più come i corpi e ancor di più le cose si avvicinano al sacro, mentre il corpo rischia di perdere la sua sacralità. E le persone nel frangente perdono se stesse. Per usare un adagio della quotidianità potremmo dire: "Non c'è più religione". Si è perso tutto. Meglio ancora: “Dio è morto”. È venuto meno il fine che è il principio, il Bene, e noi ci siamo perduti. Insieme al venir meno del significato dei fini, primo fra tutti quello del Bene, vi è stato il disfacimento della persona e del corpo, che si stenta a declinare come Leib, come corporeità. E l'insignificanza e l'insensatezza rischiano di condurre all'oggettività di fatto, ma anche virtuale (Se solo ci fossimo parlati…, pag. 30), là dove si rischia di perdersi nell'evanescenza dell'etere, con lo spiazzamento definitivo del soggetto con la sua corporeità. Col rischio che sia e-veniente l’era della de-soggettivazione e della oggettivazione de-materializzata.

   In Come i corpi le cose vige per lo più un linguaggio aderente allo spaesamento, alla de-soggettivazione, all’angoscia esistenziale, al rinvenimento di stralunati paesaggi dell’anima, del giorno e della notte, dell’agnizione e della cognizione, del misconoscimento, della città, al caffè, nel traffico cittadino, del mare, del dolore, della campagna, del Sud con la sua arretratezza e desolazione mostrata dal pallore dell’ozio piuttosto che dei negozi dei bar, delle barberie, un Sud da costruire ma con “calvari in cantiere” (pag. 46), della fame, della povertà, dei figli, dei massacri, della morte violenta, della malattia, di una piazza che non è più piazza e non è più prato, ma campo da golf, incompleta cattedrale di vanagloria, dove non ci sono più operai, contadini e borghesi (chi vi è dunque?), di un centro commerciale, etc. Un linguaggio a volte netto ma più spesso criptico, logico ma più spesso alogico e visionario, che prende nota da una realtà surreale e onirica. Linguaggio che rende ben conto della realtà, nella schizofrenia di anima e corpo, in questo momento storico, politico, sociale, morale, intellettivo e affettivo di quel dilaniante non sentirsi più a proprio agio in un paese terrestre, in cui succede di doversi sentire fuori dal tempo e dallo spazio al punto che il soggetto non è più il corpo proprio che è e che vive, ma quel corpo reso vano oggetto.

   Le cose sono così assimilate ai corpi e siamo allora di fronte ad una inversione di ruolo, dove si può dire, in piena temperie di realismo terminale, che sono Come i corpi le cose.

   Ma verrebbe di azzardare che i fatti non stiano proprio così. In quanto per Vitagliano anche le cose hanno un’anima, se non proprio la loro quella che gli fornisce il poeta con la parola. Anche le cose sembrerebbero così avere, ci si scusi il paradosso, come i corpi una dimensione di Körper e di Leib. In questa fattispecie sembrerebbe che Vitagliano voglia mandare in tal modo il suo messaggio poetico e nello stesso tempo civile in modo forte e chiaro che solo una divinità ci può salvare e questa divinità non può essere altrimenti che la poesia.

   Come diceva HölderlinWo aber Gefahr ist, wächst das Rettende auch” – “Là, dove si annida il pericolo, nasce la salvezza”. La poesia fa così il suo tentativo, nella desolazione e nello spaesamento esistenziale, nel vuoto sociale e morale, e nell’attuale inautenticità degli esseri umani votati al nichilismo, di ridare speranza alla ripresa di senso, nella misura in cui con la parola e con i nomi donati alle cose avvenga pure che siano Come i corpi le cose, ma non che avvenga che tout court siano Come le cose i corpi e quindi soprattutto per cercare di re-staurare nel mondo terreno l'auspicata aura di sacro, l’unica a poter mettere d’accordo oggetto e soggetto, per tornare così ad una condizione per l’essere umano in cui si possa affermare Come le persone i corpi. Nel senso di Marcel, per il quale l’uomo, la persona, non ha un corpo, ma è anche corpo, e non solo... Quel corpo, mi sia permesso di dire, che si lascia irretire e che pure irretisce nella poesia e con la poesia, insieme a tutto il suo mondo. Quella poesia che solo l’uomo in quanto persona riesce a creare. E mi sia consentito… ad amare. La poesia in ultima analisi non può non parlare e non dire anche sull’amore, di cui Vitagliano ci offre momenti delicatamente lirici in ottemperanza all’esergo di Wystan Hugh Auden da lui stesso messo al libro: “La verità, vi prego, sull’amore”, come quando in Ho scritto cose, a pag. 31, dice a chiare note che la poesia come l’amore non possono esimerci al di là di tutto di continuare a scrivere e “a mettere in versi/ la vita” per amore, anche quando questo amore è sofferto (come ne La figlia del geco, pag. 34), amore… anche della vita :

 

 

Resta il fatto che scriverò lo stesso,

perché non sono stato fatto per mettere in versi

la vita, ma per portarmi la vita dentro

 

le parole che pronuncio senza fiato,

trattenendo in gola più di mille cieli bui,

fasciandomi le mani per i tagli delle stelle

 

 

Resta il fatto che rimanessi solo più

di un prigioniero, pur con le unghie

continuerei a scrivere la vita in cui verso

 

*

Giuliana Lucchini - Poesia - Edizioni Roma Congressi

Non morire mai

Non morire mai,  descrizione di un inverosimile dato di fatto o piuttosto imperativo categorico o piuttosto ancora aspirazione? Direi un po’ tutto questo, ma soprattutto aspirazione all’eterno imbastito nella parola poetica, trama di rete che avviluppa e intrappola all’istante perdurante avvenimenti, cose, persone, sensazioni, emozioni, piaceri e dolori. Nel flusso inarrestabile del tempo che tutto travolge nel mare della vita, la rete della parola poetica ha questa possibilità tremenda e nello stesso tempo magica e profetica di una immortalità che viene data nonostante tutto. E non al modo della fotografia che produce istantanee di contorni e facciate di linee e colori. Ma al modo della parola (soprattutto e per incanto prima fra tutte quella poetica) che allude, che svela e copre nello stesso tempo, che dice e non dice, che chiude e inesorabilmente apre. Apre al mondo passato presente e futuro e li integra, li fonde, li ipostatizza nell’essere sostanziale di un’assenza, che è puranche presenza, e immobilizza il tempo. Ecco il mistero della poesia: immobilizzare il tempo, nell’allusione visionaria della metafora mai spenta, che traghetta al senso della vita, allo scopo vero e proprio di una vita, che, se è candidata sin dall’inizio a finire, può comunque tentare la via dell’infinito per giungere all’eterno, per non morire mai. È un po’ questo lo zoccolo duro della poesia, in questa raccolta di Giuliana Lucchini messo al fuoco della ferratura, che cerca di immortalare cose, persone, avvenimenti attraverso una abile tornitura del linguaggio che si libra nelle passioni del vissuto e nello stesso tempo del vivente. A metà strada tra la poesia di Campana e quella di Celan, la poesia della Lucchini setaccia il reale per coglierne pepite di sogno e di assoluto. Aderente al sacro, ma non lontana dal profano, visionaria e trascendente la realtà, da cui pure parte, per un ritorno alle origini, per situare al presente il passato e il futuro, la poesia di Non morire mai è un canto dispiegato nella narrazione dell’esistenza, che si fa essenza. Come il canto di Orfeo, che brucia d’amore per la bellezza e il candore infuocato nella nostalgia di non aver potuto salvare Euridice in carne e ossa e di non avere potuto riportarla viva nel mondo, ma in qualche modo canto che traluce confortato per avere per sempre reso redi-vivo il racconto di lei e di averla così immortalata. Nella poesia di Giuliana Lucchini è dato in primis il vivente, la realtà, anche negli aspetti fisici biologici materici, ma v’è di più, vi è un oltre, vi è un approdo al metafisico e comunque predomina una visione fenomenologica del mondo, nel quale si instaura quell’epochè che consente un ritorno alle cose e alla loro originalità, perché diano voce all’essere. Essere che imbriglia il tutto, lo assolutizza e vanifica così il nulla. In tal modo anche l’assenza si fa presenza. Tenendo ben fermo il punto che il dolore l’assenza e il nulla non sono qualcosa di irreale. Anzi, la loro realtà smuove e sommuove dispiaceri e nostalgie, evidenzia fragilità e malattia, fisica e morale, e finitudine, ma non può scoraggiare, anzi, spinge a reagire e a fare in modo di convertir-si ad una realtà di piacere, di felicità, per non morire mai. Attraverso la poesia, attraverso la lirica, come questa di Giuliana Lucchini, che sprigiona da ogni suo poro il senso e ce lo dona per una sua condivisione in universali. Tutto il mondo dei viventi è destinato a morire, ma i vissuti non moriranno mai, almeno fintanto che c’è la poesia. Non morire mai: come monito come aspirazione come traguardo. Per uscire dall’ombra delle tenebre e adire alla luce per-sempre.

 

Muore anche la palma, vedi, che ti dipinse

il cielo dell’ardore, si sbriciola il tronco

(infuriano gli occhi) di polvere s’invade.

Accanto al sempreverde morire

marcisce d’erba gravida la pigna

(così anche gli uomini si mangiano l’un l’altro

per una stessa essenza, o verdi o bruni).

Se via dal dito ti scivola l’anello

con cui vita ti sposò, qualcuno ti mangia,

si muore

Ma tu!

Non morire mai

 

Un giro d’aria ti faccia fremere

ali. Non morire.

con vestiti di piuma

avrai il caldo o il freddo che ti necessita

Non morire

 

E in extremis possiamo aggiungere, d’accordo, non morire… Ma per andare dove?

 

– Dove vai!

                      (- vado…

                         a mettermi negli occhi la bellezza)

 

Proprio là dove abita l’impermanenza (…permanente), là dove la tua passione sarà/ d’altra bellezza.


*

Umberto Piersanti - Romanzo - Marcos y Marcos

Cupo tempo gentile

“Andrea continuava a guardare gli ippocastani: tra loro e i vetri adesso sfrecciavano rondoni neri e luminosi, maggio splendeva in tutta la sua gloria come nei versi di A Silvia. Sì, lui non pensava alla rivoluzione culturale, ma ai versi di Leopardi e poi ai giorni della sua infanzia”: in questo quinto capoverso del capitolo Due c’è un po’ tutta l’essenza della comprensione di Andrea, il protagonista del romanzo di Umberto Piersanti, Cupo tempo gentile. Siamo in pieno Sessantotto nel fervore della contestazione studentesca in una delle tante università italiane, quella di Urbino, nelle quali si cominciava allora a fare Movimento, tra contestazione e radicalizzazione di costumi culturali sociali economici politici e quant’altro. Ma spesso con tanta confusione e con idee talora poco chiare, mentre imperavano al posto delle idee le ideologie. Ideologie che avrebbero condotto anche a prese di posizione violente, che a loro volta avrebbero condotto in molti casi a giustificare le dittature, i soprusi, le uccisioni da parte di regimi politici e non solo. E che anche nei paesi democratici avrebbero condotto nell’ambito degli esponenti di movimenti politici ai contraltari dei revisionismi, ovvero ad una lotta con aspirazioni rivoluzionarie e alla violenza, che si sarebbe fatta violenza armata e avrebbe nel futuro portato anche al terrorismo. Andrea è di Urbino, è studente di Lettere e fa parte del Movimento. Crede fermamente che molte cose debbano essere cambiate, in qualche modo pensa che qualche rivoluzione o meglio evoluzione debba pure avvenire, ma non ama la violenza, crede in valori che debbono rimanere fermi, come è convinto che non si possa fare violenza gratuita su altri uomini e soprattutto è convinto che non si possa uccidere. Ama la sua terra, con la sua gente, con i suoi valori, con quel retroterra culturale e civile che ritiene che in qualche punto debba essere cambiato, modificato, ma che non può essere annichilito e bruciato tutto d’un colpo. Aveva ragione Nietzsche: Dio è morto, ma adesso saranno in grado gli uomini a sostituirLo? Andrea non vuole la morte di Dio, non vuole ucciderLo, liquidarLo, e neppure vuole che sia ucciso, liqui-dato ogni essere umano, sia pure un nemico politico. Spesso Andrea si rifugia nelle chiese, ad ammirare la santità e la bellezza del luogo e dell’arte. A respirare gli ultimi bagliori di una spiritualità,  non idealista ma realista, concreta, tutta legata alla corporeità alla matericità di una esistenza davvero reale. Nelle ultime battute del romanzo leggiamo: “… ma quando c’è di mezzo la vita umana…, sì, sì, bisogna riconoscere che quelli dell’Azione Cattolica … non avrebbero mai cercato di bruciare dei nemici politici”. Andrea non vuole uccidere Dio e non vuole che si uccidano gli uomini. Non si è battuto nel Movimento per il nulla, ma per l’essere, per le cose buone e per quelle giuste. Per i cambiamenti, là dove occorrono, ci vuole tempo, pazienza. Ecco perché Andrea non è ben visto dai capi del Movimento: è considerato un revisionista, non un rivoluzionario. Ma quando si tratta di far passare in assemblea una mozione contro l’invasione dei carri armati sovietici a Praga, Andrea predomina sui capi, con l’appoggio di tanti studenti, tra cui ci sono anche due suore… Andrea è costretto in qualche modo ad abbandonare il Movimento. È troppo sensibile. Non si trova in una mentalità scabra materialista nichilista ideologicamente fine a se stessa. Andrea ama gli uomini, l’umanità, con i suoi pregi e i suoi difetti, in particolare subisce il fascino femminile, ha diverse storie d’amore. Così come ama la sua terra, con il suo paesaggio, descritto così minuziosamente nel romanzo, con la sua fauna e soprattutto la sua flora. Ama la sua famiglia, con quel lessico famigliare e quelle usanze, non da ultimo quelle delle feste comandate come il Natale con le sue tradizioni anche culinarie, da cui è bene sì prendere le distanze, ma senza mai abbandonale del tutto, anzi ogni tanto ritornandoci, come Andrea fa con sentimento e piacere e gioia. Andrea ama la cultura e predilige soprattutto la poesia, con i suoi autori, Pascoli, Carducci, D’Annunzio, il conterraneo Giacomo Leopardi. E quindi Eugenio Montale, sul quale Andrea discuterà la sua tesi di laurea, che lo traghetterà nel mondo del lavoro a insegnare a trasmettere a sua volta di tramando i valori in cui ha creduto e crede. Valori che si trovano nelle voci liriche e nello stesso tempo civili di “Montale e anche oltre, Luzi, Sereni, Caproni, Bertolucci”. Ma non nell’avanguardia letteraria e poetica: “ma l’avanguardia no, quella con lui (con Andrea) non c’entrava niente”. Mentre molto si respira della poetica e delle idee di Pierpaolo Pasolini che pervadono l’intera opera. Romanzo di formazione e di memoria e di nostalgia ma senza rimpianti, se non fosse per la nostalgia del tempo che passa, sicuramente con una forte impronta autobiografica, dove emergono in modo forte la Weltanschauung e la poetica dell’autore, Umberto Piersanti, oltre che romanziere, scrittore e saggista, soprattutto poeta di fama. Caratteristiche che ritroviamo appieno nella sua vasta opera poetica. Poetica e Weltanschauung che ad un certo punto del romanzo possiamo cogliere nelle parole di Andrea: “… una poesia… può raccontare la mia emozione più lontana e segreta, il passaggio di una nuvola, un fiore che viene su dalla terra. L’arte può raccontare tutto, essa è al di sopra e al di là della lotta di classe”. Come dire che l’unica cosa che potrà salvare l’uomo e fargli compiere la vera e propria rivoluzione è quella che si compie nell’anima, in interiore homine, attraverso il pensiero del cuore e attraverso il linguaggio della poesia. Del resto non siamo lontani da quando Heidegger sosteneva: “Ormai solo un Dio ci può salvare”. Quel Dio che fa sì che la vita continui ancora oggi ad avere un senso e che l’uomo, pastore dell’essere, custodisca e ogni tanto tenti di portare allo svelamento attraverso il linguaggio della poesia. Poesia che accede a quel mistero di verità spesso insondabile che pure esiste. E che ci consente in qualche modo di compiere quella metanoia che fa sì che si possa compiere una vera e propria rivoluzione o meglio evoluzione sul piano ontologico e su quello assiologico.


*

Maurizio Cucchi - Romanzo - Ugo Guanda Editore

L’indifferenza dell’assassino

Un romanzo garbato, ben detto, la cui parola aleggia sulla leggerezza (Calvino docet), nell'intento di rappresentare i fatti con la freschezza della percezione tra passato e presente, volendo mettere in evidenza l'esistenza ridotta ai suoi minimi termini alla epochè della sua realtà fenomenologica. Per quanto si tratti di un giallo tratto da fatti (efferati) realmente accaduti nell'Ottocento e rivissuti alla luce della Milano a noi contemporanea e viva, vista la presenza dell'Autore e di amici poeti scrittori e parenti e conoscenti, leggendo la narrazione di Maurizio Cucchi tra le vie di una Milano nello stesso tempo così amabile e discreta e nobile e popolare e preziosa anche dal punto di vista architettonico e toponomastico, così ben descritta a nostro beneficio in un tour ad hoc, si ha l'impressione di un godimento che nasce da un racconto che prende e trascina piacevolmente per mano tra il serio e il faceto. Serio e faceto che fanno parte dell'esistenza, come ne fanno parte il bene e il male. E il male non è meno umano del bene, questo il messaggio che emerge dalla lettura del romanzo. Il male esiste. E il suo vissuto non può essere secondo l'Autore ancorato agli stereotipi degli psicologismi, ma se ne deve prendere atto come un fatto. Andando controcorrente e stigmatizzando, giustamente, la deriva attuale delle interpretazioni psicologiche o biologiche degli assassini, alla Lombroso. Il male compiuto in diverse azioni perverse da parte dell’assassino, in questo caso l’Antonio Boggia, el Togn, è un fatto, che sta sotto i nostri occhi, ma sarebbe riduttivo pensarlo solo come fatto materiale, empirico. Essendo un fatto umano, il male non può essere, qui come altrove, che un fatto che inerisce la spiritualità. E Maurizio Cucchi, che conosce bene l’animo umano come lo può conoscere un poeta, certamente meglio di uno psicologo, ci descrive un mondo fatto di esteriorità e di interiorità, di corpo e di anima, di cielo e di terra, ma sempre ben collocabile a livello topografico, che non possono essere in alcun modo disgiunti e che solo una comprensione unitaria e realista della persona, delle persone, può permettere la giusta percezione delle dimensioni. Anche in questo caso, voglio dire in questo romanzo, in questo viaggio narrativo, la letteratura, intesa non come artificio dell’esistenza, ma come presa d’atto della realtà nella parola che aderisce all’esserci  non può che far bene alla nostra crescita spirituale. E ancora una volta dobbiamo dire grazie a questo scrittore, a questo poeta, a Maurizio Cucchi, che tanto ha fatto e tanto continua a fare per le nostre lettere, per la nostra poesia, per la nostra cultura. Non per altro, ad esempio, se non per quelli che a me sembrano essere i momenti forti per il canone da lui proposto: che la parola, in poesia come in narrativa, sia essenziale e vada al nocciolo, pur lasciando la giusta apertura all’allusione, all’oltre-parola, facendo sempre e comunque assurgere a protagonista la vita, l’esistenza. Esistenza e parola vanno vissute con leggerezza e senza eccessiva enfasi, sempre, come in questo romanzo dove la narrazione sin dall’inizio ci fa presagire e come si ha modo di avvertire nelle ultime battute a chiusa del romanzo stesso, dove la parola, per quanto scabra e apparentemente indifferente, come l’assassino, non può fare a meno di guardare all’immediato oltre, affidandosi a qualcosa o qualcuno:

Antonio Boggia salì le scale che lo portavano alla forca, e le sue ultime parole, rivolte al boia, furono solo queste:“Me racumandi! Eh, me racumandi!, me racumandi!”.



*

Gian Piero Stefanoni - Poesia - Edizioni Joker

Roma delle distanze

Poesia dell’ineffabile distanza

 

“Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” è uno dei passaggi più significativi del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, ma è anche uno dei passaggi più importanti del pensiero del Novecento, che avrebbe caratterizzato quella svolta linguistica che avrebbe avuto come scaturigine la prevalenza in molti settori dell’intellighenzia di quella filosofia analitica appiattita sulle scienze empiriche, che avrebbe a sua volta determinato molto del pensiero novecentesco. E non solo del pensiero. Ma il principio di ineffabilità espresso da Wittgenstein, lo sappiamo bene, non fu e spesso non è ben interpretato in modo adeguato, in quanto apre proprio a quanto sembrerebbe in prima battuta essere il contrario di quello a cui invece vuole mirare: al mistico. La dimensione del sacro nell’ineffabilità di Wittgenstein non è preclusa, tutt’altro, in quanto nel silenzio della ragione si aprono mondi. Gian Piero Stefanoni si colloca con la sua poesia di Roma delle distanze proprio in una dimensione del sacro pervaso dall’ineffabile. La silloge Roma delle distanze consta di sette sezioni, Di ieri, Prima dell’arrivo, Olimpica, Ut unum sint, Oppidum, Umana regina, Dalle distanze. E nelle sette sezioni si muove proprio come un filo rosso una certa ineffabilità, ovvero una difficoltà a dire, a dire soprattutto il Divino con parole comuni. Si veda tanto per cominciare Via Giulia, la poesia d’apertura, a pag. 9,

Ma invidiabile e perfetta

nella sua luce d’assenza

è la verità del colore…

La dicibilità è qualcosa di scontato per l’uomo ma sul quomodo c’è da discutere. Come ci sarebbe molto da dire sui diversi linguaggi che oggi si contendono il primato. Per non parlare del fatto che i linguaggi si innestano nei vissuti fin dentro il midollo dei luoghi. Empiricamente il poeta si trova per lo più a Roma, come si trova in altri luoghi dei suoi passaggi, ma in effetti è come se i diversi topoi nei quali nasce e cresce la poesia di Stefanoni fossero in e nello stesso tempo distanti da Roma, così come in e distanti dagli altri luoghi, in cui vi è stata l’illuminazione che verticalizza la parola incontro al Divino. I luoghi sono quelli dove si incarnano e si incardinano i vissuti del poeta, sono i luoghi soprattutto di Roma, e ancor più di un quartiere, Monteverde, quartiere di poeti e di ragazzi, a pag. 50, e in particolare la via Ozanam dove abitano essenza ed esistenza del poeta e dei suoi vissuti ed affetti più cari. Poesia pertanto poco minimalista, poco empiricamente centrata, ma poesia dello stato di coscienza, in una dimensione tutta fenomenologica. Qui però, in queste stanze, in questi luoghi, vi è una presenza che è anche assenza, come in Via Giulia, assenza che si fa attesa, perché di-stanzia dal luogo per traghettare in Altro Luogo, come in Cola di Rienzo, pag. 14

Voltati e guarda, guarda Maria

piegata senza nulla chiedere

se non l’attesa, la preghiera indecente.

Assenza e presenza che come il bene e il male ingaggiano una lotta che rischia di rendere la vita lacerti di disperazione in virtù della libertà che spesso ci distanzia, per nostra colpa, da Dio, come in Via Ozanam a pag. 93

Più forte il male,

più forte il dolore,

più forte l’assenza:

più forte la Tua presenza

e la libertà nel cui rispetto

ci ami. Questa forse

è la risposta che ci devia

e che ci porta al delitto,

non il Tuo male,

non la Tua assenza.

Il poeta vive nell’orizzonte geografico della Città Santa e si muove tra le strade e i monumenti canonici, tra la pletora di persone più o meno conosciute, ma sempre porgenti quel volto creato a immagine e somiglianza di Dio, che non può non essere Essere e Persona divina, come in Via della Conciliazione, pag. 10

Tu non sei colui che sa o che non sa

ma colui che è e che in questo oscillare

sa che il suo non sapere conta;

che la misura è tra l’amare e il non amare.

E ancora come in Via Cardinal Tripepi, pag. 63, a mettere in evidenza una delle cifre della poesia di Stefanoni, che si colloca in quell’orizzonte di poesia personalista, come ho avuto modo di definirla altrove, che tanto mi sta a cuore

La persona in più,

che non attendevamo-

che ingrassa il numero –

incalzando e smentendo

i nostri giorni, si chiama

il nostro prossimo.

Nel volto delle persone, ogni volta, c’è un’accensione d’amore di benevolenza di carità di comprensione che apre la porta al Volto sacro della luce divina, permettendone supplica e ringraziamento in una repentina verticalizzazione. Luce comunque accecante che incanta il poeta al punto da strozzare il canto, spezzato da un ineffabile che apre al mistico. Ecco che il dettato di Stefanoni, salmodiante come preghiere che si levano ex abrupto nella realtà di una città nelle vie nelle case nelle chiese davanti ai monumenti, si risolvono in una rarefazione di significato che sfugge al logos razionale per dare senso di controcanto alla comprensione del cuore estasiato ogni volta dalla contemplazione dell’oltre materia dell’Essere per antonomasia. Poesia dell’anima, pertanto, quella di Stefanoni, che platonizza in qualche modo il suo sentire come in Penitenzieri a pag. 71

Tu conosci il mio corpo

e l’anima che lo sottende…

Ed è questo il punto di forza, ma nello stesso tempo di debolezza, se così si può dire, del dettato poetico di questa raccolta. Perché, se da un certo punto di vista il dettato si snoda su un filo rosso etereo, ideale, luminoso, pieno di anima e di contemplazione, che trascende la realtà concreta dell’empiricità, dall’altro non riesce bene ad incarnare la parola corporea e materica nella realtà fatta anche di miseria di buio di sofferenza che riporta al mistero della Croce, come in Piazza Sempione, pag. 25

Grazie Croce Santa, Stormo dei pendii

che ci segui e anticipi il volo, roteando

e sorprendendo lo sguardo spinto

al freddo a sostare con Lui, Gloria dell’inverno

che dischiude le distanze…

Ma questo proprio perché il sacro per Stefanoni, come per una tradizione che va da San Francesco a Wittgenstein e oltre, è l’ineffabile, il mistico, nel quale spesso se non sempre la fede può fare a meno della ragione. Non può però fare a meno, come in questo caso, della poesia, che nonostante alcuni momenti di ermetica cripticità riesce a fare ben comprendere l’intenzione dell’autore che è soprattutto  il senso del sacro. Quel senso che cerca di fare emergere il senso della vita e per paradosso anche della morte sullo sfondo del misterioso prodigio che si spera, come in Colli Portuensi, pag. 34

La morte non ha canali né ripetitori

nel grande collettore terrestre,

la morte è un ostacolo sulla via del risveglio.

Ma la resa di grazie al Signore è grande per la vita così come è, come ci è elargita, con le sue bellezze, i suoi affetti familiari e amicali, e soprattutto con la poesia che potrà anche non esserci per un giorno, ma che Lui sempre ci ridona, come in Via Ozanam, un giorno senza poesia, pag. 35, che per me è tra le migliori poesie di questa silloge ed è un vero e proprio Lied alla vita e alla lettura della quale rimando per intero, oppure come in Via Balduina a pag. 40 dove si dice

il Signore ci ha dato una perla,

sei tu, sono io, la sostanza

benedetta alla fonte.

La poesia di Stefanoni si colloca nella tradizione della poesia religiosa cristiana a partire dal Medioevo con San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi, per arrivare al Novecento con poeti come Carlo Betocchi, Clemente Rebora, Giuseppe Ungaretti, David Maria Turoldo, Paul Claudel, Charles Péguy, Jan Jakub Twardowski. Ma la cifra dell’originalità della poesia di Stefanoni mi sembra di poterla cogliere nella sua aderenza all’estetica di uno dei maggiori teologi del Novecento, Hans Urs von Balthasar, che scommette su una teologia incentrata sulla forma, alla Goethe, facendola transitare attraverso la sua negatività più assoluta, kenotica, del sabato, nel silenzio del Verbo. Stefanoni, lo abbiamo detto sopra, sposa l’ineffabile, ovvero questo silenzio del Verbo. E mettendo al centro della sua poetica il soggetto trascendentale opera quella filigrana nella quale centra la relazionalità come distanza e nella distanza, nella quale si apre il luogo del mistico, che poi è il non-luogo dell’io caratterizzato da una soggettività vuota e nello stesso tempo piena perché ac-cogliente. Che cosa possiamo dire a secolo XXI entrato ampiamente nel suo secondo decennio della poesia? L’ineffabile dovrà prevalere? Oppure dovrà prevalere un linguaggio affabile? La poesia avrà dunque i suoi luoghi, la sua abitabilità? E il sacro, in un mondo come il nostro ampiamente secolarizzato, trova ancora lo spazio per abitarci? Nonostante nella nostra post-modernità si siano acuite le distanze, intese come cattivi stanziamenti che spesso si logorano in non-stanze, oggi abbiamo bisogno di una stanzialità che riduca la distanza e avvicini, dal nulla, all’essere. Le distanze possono essere innanzitutto accorciate attraverso la ricerca di una dimensione di senso e Stefanoni trova il senso nel sacro e nella poesia come mezzo per avere accesso al divino nel tentativo ulteriore di svelare il prodigio della vita (il richiamo non può non essere fatto all’aletheia come processo veritativo, ma di una verità sapienziale, intesa etimologicamente come presa di distanza dalla lontananza in una dinamica ermeneutica di fondo). Quello di Gian Piero Stefanoni e in particolare di Roma delle distanze non è un sacro di riflusso, come oggi spesso va di moda secondo la tendenza dei polpettoni new-age. Il divino a cui tende ma da cui nello stesso tempo trae vigore la poesia stefanoniana è quello forte e vigoroso del cristianesimo, anche se spesso caratterizzato da un Deus absconditus,  e in particolare vissuto nella consapevolezza del cattolicesimo con il suo abbraccio della communio personarum. Un Deus absconditus che comunque non si perita di dare un gessetto a Suo Figlio affinchè scriva sui muri distanti di Roma: “Guarda che c’è chi ti ama e questo sono io” in Via della Farnesina, pag. 16

“Se anche Dio non ti vuole bene

io ti voglio bene”. Ho letto una volta

su un muro di Via della Farnesina.

Ed ho pensato fosse Lui stesso

dando del gesso al Figlio

mentre andava sul fiume a pescare.

Ma Dio il gessetto lo ha dato anche agli uomini e con questo gessetto soprattutto i poeti possono dare molto con la loro poiesis che si muta in praxis nel mentre si fanno certamente anche pescatori, ma soprattutto pastori, il richiamo è ad Heidegger, pastori dell’essere della parola, della parola per antonomasia che è quella poetica. E nel leggere il bel libro Roma delle distanze possiamo sentire quello che è stato, con la meraviglia e nella meraviglia, capace di scrivere con questo gessetto il nostro poeta Gian Piero Stefanoni, che può essere condensato dalle sue stesse parole di Via Ozanam a pag. 49

Scrivi di ciò che parli, scrivi

di ciò che senti: io sento questo Dio

che troppo ci manca perché troppo

lo nasconde il tempo della nostra distanza.

Ad un certo punto il poeta si lascia a andare ad una forte invocazione una supplica a Dio perché si alleggeriscano le di-stanze, come in Via Ozanam, pag. 99

Fammi stare

dove non so stare…

ma soprattutto, dice il poeta, con una dedizione totale, “fa che il mio essere pastore della parola, la mia poesia, dipendano da Te e dal fine che Tu, mio Dio, hai voluto donare agli uomini” (Via Ozanam a pag. 103)

Scrivimi Tu, cancella

di me ogni idea,

ogni immagine

che mi sono dato.

Il giorno è

appena iniziato,

concimami,

fammi dettato

perché solo Tu, Dio, Via Ozanam, per Roma, pag. 111

Solo Tu puoi dare luce alle ombre.

E per concludere ancora una supplica perché Dio assista nelle stanze delle ridotte distanze, nel rifugio della vita, l’uomo e il poeta, affinchè si abbiano parole, ma soprattutto virtù come la misericordia e l’umiltà e soprattutto ancora capacità di azione (Via Ozanam, pag. 107)

Prima che diventi rifugio, scacciami

e mandami dove poeti non siamo

nella solitudine delle nostre bandiere.

Non darmi le parole che voglio,

non cerco visioni, a Dio le cose di Dio;

per noi misericordia e azione,

e l’ascolto dove Ti perdi

nel mucchio delle intenzioni,

dove la carta che esce ci spinge a barare

bleffando ogni volta al Tuo tavolo.

Ed aiutami a restare

nel piccolo: quella è la porta per noi.


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Carmelo Pistillo - Poesia - La Vita Felice

I ponti, i cerchi

La poesia di Carmelo Pistillo de I ponti, i cerchi si bagna nel dolore primordiale, già stato prima di essere, sotto i ponti della fisicità dell’esistenza segnata dalla fragilità, da un destino prescritto di finitudine, di dissolvimento, di scomparsa, di un’assenza presentificata di volta in volta.

Il dolore era già/ prima di noi,/ sconosciuto alla voce,/ alla parola.

Ma nello stesso tempo si pneumatizza nella geometria metafisica della perfezione del cerchio, etereo, il cui ultimo grado di conoscenza non può essere dato nella realtà, se non nel mondo iperuranio delle idee, come nella VII Lettera di Platone. Sempre nella VII Lettera come nel Fedro e in altri passi dei Dialoghi, Platone fa dire a Socrate, proprio per quanto detto prendendo ad esempio il cerchio, che l’oralità è superiore alla scrittura, motivo per cui Socrate non ha scritto niente. Il fonologocentrismo socratico vorrebbe preservare l’idea del cerchio come l’idea di qualunque cosa come di qualunque persona. Ma il prezzo dell’ipostatizzazione è troppo in confronto alla perdita della realtà e la realtà non può permettersi la perdita, nessuna perdita, pena l’incompletezza, la non aderenza alla sua verità. Va infatti evitato l’errore del platonismo e di tutti i dualismi, fino al più terribile, quello cartesiano. Perché l’uomo è una persona, essere unitotale psico-fisico-spirituale, e ogni cedimento da una parte o dall’altra ne incrina la sua unitotalità, la sua realtà antropologica, che nega i dualismi, ma che salva la dualità per dare la primazia allo spirito, seppure incarnato. La stessa operazione deve avvenire, e non solo metaforicamente, ma anche nella realtà, per la parola. Perché se il concetto si incarna nella parola abbiamo il vero e proprio logos. Pertanto oralità e scrittura si possono dare allo stesso modo e entrambi sono validi. Ma se non si entra in questa ottica, antropologica, c’è il rischio di approdare all’anomia, all’afasia, oppure a una mancata con-giunzione tra significato e significante. Pena una mancanza di effetto comunicante e comunicativo. La parola di Pistillo ci conduce sui ponti della città terrena, ce ne fa assaggiare le tormentate sembianze, ma poi si scolla dal vento su cui è difficile fare attaccare l’oltrepassamento dell’esistenza se non se ne coglie la valenza antropologica. Allora, come fa tanta poesia contemporanea, la parola si strania. Lo straniamento è spesso totale nell’incoerenza logica. Ma la logica che manca è quella del cuore. Perché di logica ne troviamo tanta nei costrutti irrazionali creati ad arte da una poesia spesso logorata nel nihilismo di un senso che si nasconde sempre di più:

… si formano/ le ortografie opache/ adagiate sul nulla.

Quand’è che la poesia di Carmelo Pistillo tocca vertici di liricità? E lo fa sovente. Quando? Quando si abbandona alle note dei precordi e dal cuore sale il canto nel ricordo della sorella, Maria, scomparsa prematuramente, alla quale è dedicata la silloge, e nel ricordo dei poeti e dei pittori più amati cantati in numerose poesie.

Anche tu, amore mio,/ sorella che muti/ e trascolori,/ almeno così ti scorgo/ nel sorriso che ci accorda/ più dei giorni…

Spesso si ha la sensazione che nella poesia contemporanea la parola ceda all’insignificanza al nulla alla disperazione. Quando l’arte o l’artificio (come dire meglio non so) prevalgono nella trovata che sinestetizza anestetizzando. Preferisco la sopravvenienza del canto direttamente dal sentimento perché ci sia comunicazione, perché ci sia empatia, condivisione, come quando Pistillo dice:

Avanzano come binari/ i carteggi dell’assenza,/ un solo, enorme crepuscolo/ che isola tutte/ le lettere d’amore/ mai più ritrovate./ Sono le rinascite/ e le innumerevoli rose/ invisibili, di notte/ piantate nel cuore.

Soltanto il senso accantona la disperazione e una poesia saprà raccogliere i suoi effetti facendone storia solo nella misura in cui saprà emozionare.


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Renato Minore - Saggio - Donzelli Editore

La promessa della notte

La promessa della notte. Conversazioni con i poeti italiani


Che cosa è la poesia? Ma soprattutto chi sono i poeti? I poeti che hanno abitato il Novecento sono stati tantissimi. In un secolo breve ma pure così intenso da aver dato la stura alle visioni alle figurazioni alle poiesi alle prassi e nello stesso frangente a una parola che ha incarnato l’esistenza in un dire che, nonostante tutto, come ha scritto Stefano Verdino, rappresenta una necessità etico - estetica ineludibile dell’uomo, soprattutto quando la parola si fa poesia. Il nostro bisogno di dire e di parlare, anche in versi, è inalienabile: “giacché è pur vero che la sismografia accidentale e frantumata dell'esistere, con i suoi colpi di vento consente anche dati di acquiescenza come "lo sbocciare sempre nuovo / del senso rabbonito della vita", che è anche quanto non inficia il nostro comune destino e giustifica altresì il nostro bisogno di dire e di parlare, anche in versi”. Tra i tantissimi poeti del Novecento italiano ne abbiamo, nel libro La promessa della notte. Conversazioni con i poeti italiani di Renato Minore, critico letterario e poeta egli stesso, una rassegna di ben ventuno tra i maggiori protagonisti della nostra poesia contemporanea. Il libro è strutturato così da offrire per ogni poeta un piccolo ma esauriente quadro introduttivo alla bio-bibliografia di ciascuno di essi. Segue una conversazione con il poeta sollecitato dalle acute domande di Renato Minore, che stimola alla circostanziazione dei vissuti che hanno determinato i topoi e le poetiche di ciascuno senza tralasciare la concretezza offerta dall’aneddotica e dalle memorie di ciascuno correlate ai rispettivi genius loci abitati da quella natura da quelle persone da quei familiari da quei maestri da quegli affetti da quei libri da quelle scuole da quei paesaggi dalle dimensioni e interiori e esteriori dagli eventi della storia collettiva e individuale che hanno dato il là ad una ben precisa poetica. Ecco allora Attilio Bertolucci nella sua tana la casa romana di Monteverde parlare della sua poesia e dei figli ma in generale della sua famiglia che è stato il filo rosso della sua ispirazione. Carlo Betocchi parla dei suoi amici poeti e dell’ispirazione votata alla “poesia come innamoramento dell’universo” con “un senso di riconoscenza verso l’infinito e nell’infinito, scorgendo in esso la religiosità”, quando racconta la genesi della sua prima poesia. Ignazio Buttitta trasuda poesia da tutti i pori, ha fatto della poesia una forza rappresentativa della vita e racconta le sue vicissitudini che l’hanno condotto attraverso la poesia a liberarsi dalla tristezza giovanile. Giorgio Caproni è convinto che “con la poesia, da fatti autobiografici, si scava in se stessi: ma si va proprio in giù, come un minatore, e si può trovare una zona dell’io che è di tutti, che era in tutti, soltanto che negli altri dormiva”. Il poeta per Caproni è lo scopritore di “nodi di luce che sono di tutta intera la tribù”. Nella poesia c’è il paradosso del narcisismo che conduce agli altri. Carolus Cergoly celebra la sua triestinità nell’atmosfera tutta mitteleuropea presenti Joyce Svevo Saba ma con un occhio teso alla poesia dialettale romanesca di Trilussa e Belli. Franco Fortini risponde all’accusa di essere uno scrittore “difficile” con la convinzione che “non bisogna concedere tregua al lettore”. Giovanni Giudici è colto nel suo rapporto sentimentale con Roma; in particolare con la zona di Montesacro,  “quasi al Tufello”, dove è vissuto fino a trentadue anni. Un’adolescenza imbevuta di educazione cattolica che nella giovinezza troverà congiungimenti con la fede comunista. Un percorso di vita e poesia legati nella coerenza di dare senso all’esistenza attraverso una progettualità con l’aspirazione ad una totalità che riesca a dare speranza, soprattutto metafisica, morale, affinchè se profitto ci debba essere, questo appartenga al sentimento, al cuore. Alfredo Giuliani auspica un futuro sonoro per la poesia pensando alla possibilità di ascolto della poesia per radio. Tonino Guerra è colto nella sua lingua vernacolare sanguigna e asciutta, tra i suoi aneddoti, nel suo mondo romagnolo, che sarebbe diventato lo sfondo di tante sceneggiature scritte per Federico Fellini. Franco Loi scrive per lo più in milanese e alla domanda se questo rappresenti un ostacolo per il lettore dice che il problema non è il dialetto, bensì l’allontanamento della gente dalla poesia. Mario Luzi affronta diverse tematiche esistenziali tra fede religiosa e cultura nel passaggio di un tempo caratterizzato dal Concilio Vaticano II. Alla domanda sulla poesia, se conserva ancora fede nella poesia di un tempo lontano, Luzi risponde che la poesia è stata “la ragione di vita. Senza il confronto con la parola, non avrei trovato una possibilità sufficiente d’impegno e di convinzione nella continuità dell’esistere, nell’essere presente nel mondo”. Per Luzi non è pensabile una dimensione dell’esistenza senza la poesia, senza la fede nella poesia. Alda Merini è la favola incarnata in una vita di folle amore per la poesia e per la stessa vita vissuta all’ombra dell’incoscienza dello scrivere, che viene da solo, spontaneamente. Il poeta non deve fare altro che mettersi in ascolto di questa follia e percepirla e prenderne atto. Per la Merini non la poesia, ma la follia salverà il mondo. Elio Pagliarani parla della sua poesia che è la sua vita, della sua vita che è la poesia. Poesia con vezzo estetico ma in una forte intelaiatura etica quella di Pagliarani, che con le sue narrazioni descrive il mondo e la sua realtà con la speranza di trasformazione sociale del mondo. Ma prima di tutto la poesia deve essere letta, gridata, tra la gente. Albino Pierro tra memoria e presenza tra origine tursitana e  stanza romana vissuta all’ombra del mito di Immanuel Kant. La poesia di Pierro non ha bisogno degli esterni, si ciba di sola interiorità, un’interiorità stanziale, acinetica. Con l’ossessione di una lingua dialettale che si fa monumento della storia. Antonio Porta è l’intellettuale che a un certo punto della sua vita si decide solo per la poesia e a questa si vota decidendosi per la felicità. Poeta ottimista, a cavallo di vitalità e felicità, Antonio Porta è convinto che l’arma per sconfiggere l’aura apocalittica sia l’ottimismo. La felicità è possibile. E in questa possibilità il poeta può fare e dare qualcosa di diverso con il linguaggio che deve essere differente da quello mediatico tenendo però sempre presente la necessità di comunicare qualcosa. Il ruolo del poeta oggi dovrebbe essere “ Quello di stare immerso nel linguaggio. Da una parte di interpretarlo, dall’altra di modificarlo. … La poesia fa uscire dall’imposizione piatta del linguaggio dei mass media. Il poeta deve esprimere quel qualcosa che c’è nel tempo, Freud lo chiamava il ‘ già noto ’, ad esempio l’esperienza dell’infanzia”. Giovanni Raboni si picca un po’ nel sentire “linea lombarda”, dice che è un’etichetta di comodo che non dice poi molto, ma inconsapevolmente ne fornisce una lucida definizione quando afferma: “Come cultura in generale, mi riconosco moltissimo nell’essere lombardo che significa rimpianto illuministico, una certa fede scettica nella ragione e un certo attaccamento al reale, al particolare. Ciò significa vedere la città – [la sua Milano] – come modello possibile di vita ragionevole, nonostante tutto”. Amelia Rosselli abita una mansarda di poesia di storia di consapevole inconscio e viceversa vicino a Piazza Navona. Una piccola abitazione con una stanza dalla finestra della quale anziché avere la visione del fasto e della bellezza a portata di mano di una Roma sorniona nella sua eternità si scorgono fughe di tetti e coppi. Le stesse fughe dell’anima in cui si inabissa per risalire la poesia tutta esistenziale e psichica della Rosselli. Una poesia che da sfogo diventa sfocata nel finimento della soggettività nel volere eludere il tu e soprattutto l’io a beneficio del noi. Roberto Roversi sostiene l’impegno civile del poeta che deve avere il coraggio di sporcarsi le mani per tornare a lavarle continuamente con la libertà attraverso il lavacro dell’ironia, del dissenso, attenti a non farsi travolgere dalla stessa libertà. Non dimenticando che la poesia deve avere il suo bell’impegno civile, ma senza disdegnare l’occasione, il canto del contingente, del sentimento momentaneo, di questa necessità di usare la comunicazione in poesia. Edoardo Sanguineti è il bardo di una poesia tutta familiare fatta di esperienza riflessa e sublimata ma sempre attenta ad evitare il manierismo del “poetese”. Maria Luisa Spaziani è poetessa dalla pronuncia nitida con una certezza ben radicata che “la poesia potrà tornare a ricoprire un ruolo centrale nella società del futuro”. Andrea Zanzotto è poeta stretto tra natura e cultura, tra centro e periferia, tra dentro e fuori, tra interiorità ed esteriorità, tra ragione e fede, tra certezze del conscio e incandescenze dell’inconscio, tra scienza e metafisica. E la poesia è per lui “memoria  [di tutto ciò] nel senso più alto del termine”. “La vita tende a darsi una giustificazione, non a togliersela”, ecco il perché la poesia non può tradire quello che la vita chiede e la scienza spesso nega. Ed ecco perché Zanzotto dice: “Non mi convince il ragionamento che dice: va bene, hai voluto vedere come stanno le cose, eccoci a una insensatezza finale, la storia è questa senza né capo né coda. C’è promessa nella notte”. E forse con la poesia l’uomo attua questa promessa tutta orfica di poter sconfiggere il non senso e il nulla. La promessa della notte è un libro molto bello e nello stesso tempo affascinante. Ti consente di entrare nelle fucine e nell’anima di ventuno poeti tra i più rappresentativi del nostro tempo e ti consente di venire a contatto con la metapoesia e le poetiche di autorevoli voci, che Renato Minore ha fatto parlare per noi, regalandoci per ognuno un assaggio dei loro versi, donandoci un vero e proprio monumento di esistenze poetiche e nello stesso tempo di spaccato di storia letteraria. Un libro che non può non essere letto, soprattutto da chi ama la poesia, perché legge la poesia e soprattutto se scrive poesia.


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Alessandro Zaccuri - Romanzo - Mondadori

Dopo il miracolo

Siamo nel 1985 durante il pontificato di Giovanni Paolo II in un frangente socio-culturale nel quale si ha una rinnovata effervescenza religiosa e l’aumento delle vocazioni consente la riapertura nella tranquilla provincia italiana del seminario della Vrezza, rimasto chiuso fino allora per mancanza di studenti e di professori. Il romanzo, Dopo il miracolo di Alessandro Zaccuri, si apre proprio con il seminario della Vrezza, che sarà fino alla fine il bari-centro di tutta la narrazione. Alla Vrezza viene trovato impiccato al cancello il giovane Beniamino, dodicesimo figlio di Attilio Defanti, imprenditore, devoto alla Madonna e di una religiosità quasi esorbitante. La morte del giovane suicida lascia irretiti e non si riesce a comprendere il perché di questo estremo gesto, fintanto che l’ispettore Canova, che ha come unico indizio un bigliettino lasciato dal giovane, non riapre ufficiosamente un caso burocraticamente chiuso, e attraverso indagini condotte in proprio non arriva attraverso una serie di intrecci tra il comico e l’esilarante a far cadere i sospetti proprio sul padre e sulla sua integrità morale. Intrecci che con il procedere della narrazione mettono in evidenza l’innocenza morale di Attilio Defanti, il quale addirittura avrebbe agito per ottenere il bene di tutti. Ma questo bene alla fine si è rivoltato nel male e nel male più grande, quello della morte del figlio ultimogenito, soltanto perché come si suol collodianamente dire le bugie hanno le gambe corte. E quando, come in questo caso, non viene fuori la verità, le scaturigini della mancata comunicazione della verità favorisce la maldicenza e da questa l’incomprensione e la mistificazione che portano alla disperazione e alla morte del giovane. Emerge in tal caso un momento della complessità e della conflittualità del vivere e in questo caso del vivere anche religiosamente. Nel seminario c’è uno dei fratelli di Beniamino, Guido, che studia per diventare sacerdote. Guido, come tutti i componenti della famiglia, non si dà pace del fatto di non aver potuto evitare la morte del fratello più piccolo. Non si dà pace anche Fausto, “colpevole”, lui e non il padre, della travolgente e tutta sensuale relazione adolescenziale con Susanna, dalla quale nascerà Massimo, figlio del peccato, fatto nascere, protetto in qualche modo, ma tenuto fuori, nel segreto, da una vita familiare divenuta per tutti quasi normale, seppure all’ombra delle dicerie e delle voci e delle maldicenze di paese, che alla fine determinano l’esplosione del caso in tragedia. La tragicità dei vissuti esistenziali sono la cifra delle storie che girano intorno al seminario della Vrezza dove tra gli altri c’è don Alberto, professore di Teologia, che, trasferitosi dall’Università Lateranense, è quasi fuggito da Roma portando in seno il suo bel segreto. Un fatto davvero comico avvenuto poco prima del funerale di Beniamino fa sì che don Alberto finisca sul giornale. Maria Sole, da cui il professore in qualche modo è fuggito, ha così modo di rintracciarlo e insieme ai suoi accoliti mette tenda con la figlia Miriam proprio davanti al seminario.  La donna e la bambina sono legate a don Alberto e il fatto mette in subbuglio paese, Seminario e Diocesi. Don Alberto non vuole ricevere non vuole vedere si barrica. Il problema è che Maria Sole, sessantottina arrivata con un lungo percorso che l’ha portata per le strade del mondo fino ad abbracciare la fede, crede nei miracoli e don Alberto non crede nei miracoli. Il fatto è che la piccola Miriam un giorno è vittima di un bruttissimo incidente. Ha un trauma cranico e non dà segno di vitalità. Sembra morta, anche per gli infermieri dell’ambulanza che la stanno trasportando in ospedale. Ma inaspettatamente risponde alla benedizione di don Alberto, si rianima, prende nuovamente vitalità, respira, parla, come se niente fosse stato, quando non aveva risposto alle terapie del personale sanitario. Maria Sole grida al miracolo. È convinta del miracolo. Il suo rammarico e nello stesso tempo il raccapriccio è che un sacerdote non creda ai miracoli. Da lì una persecuzione nei confronti del sacerdote, che lascia l’accademia, dove tra l’altro aveva i suoi problemi per essere stato ai limiti dell’ortodossia, e si trasferisce nella sua diocesi per insegnare al seminario della Vrezza e per portare a termine nella tranquillità della provincia il suo controverso Trattato di Teologia. Anche in questo caso emerge la complessità dei vissuti esistenziali e al centro anche in questo caso vi è la morte. La morte che in un modo o nell’altro rimane un mistero, appesa come è ad un destino o ad una provvidenza che si compie comunque in un modo o nell’altro. La morte che arriva e che resta, la morte che arriva e che parte riconsegnando alla vita. Rimane il mistero. Rimane la fede. La fede che dona speranza. E qui si innesta il problema dei miracoli delle apparizioni… C’è chi per credere vuole dei segni e chi di questi segni non ha bisogno per credere. Purché non si cada nella superstizione. Purché a tutto si dia una valenza metafisica. Ma oggi parlare di metafisica non è cosa da poco… E poi nella comunità cristiana e cattolica non vi è univocità, nonostante l’unica voce del Magistero, e il romanzo di Alessandro Zaccuri ne dà uno spaccato della sua plurivocità in modo significativo. È stato detto che il romanzo è la sede privilegiata di quella concezione dialogica così cara a Bachtin nella quale ci troviamo davanti un mondo aperto e non fossilizzato, in continua trasformazione proprio attraverso la plurivocità. Ed è attraverso la plurivocità che Zaccuri attraverso congegni goldoniani fatti di un canovaccio avvincente di intrecci e di colpi di scena che rasentano la comicità e nello stesso tempo con una tragicità esistenziale di fondo tutta cattolicamente manzoniana, ma con in più tutta la leggerezza invocata da Italo Calvino, fa di quest’opera, Dopo il miracolo, un piacevolissimo romanzo, che apre a un mondo, il nostro mondo, con tutte le aporeticità di una umanità, che cerca, soprattutto nella fede, il senso di un’esistenza comunque degna di essere vissuta. Vissuta prima di tutto nell’armonia e nella comprensione reciproca che alla fine del romanzo sembra riconsegnino la bella provincia alla sua vita normale e alle vicissitudini  quotidiani di gioia e dolore.


 


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Gabriella Sica - Saggio - Il Saggiatore

Scrivere in versi. Metrica e poesia

Scrivere in versi. Metrica e poesia di Gabriella Sica pubblicato nel 2011 per Il Saggiatore è alla terza edizione aggiornata e riscritta in alcune parti ed è stata ampliata di una nuova introduzione, con una nuova lettera sulla poesia, 2011. Gabriella Sica è tra i maggiori poeti del nostro tempo e  questo manuale è un’indiretta esemplificazione del suo lavoro di scrittura, in qualche modo della sua esperienza e di come ella intenda la poesia; in qualche modo nel libro ritroviamo la sua teoria della poesia e contemporaneamente la sua poetica.

Cifra della postmodernità può essere considerata la decostruzione, che in campo letterario ha determinato, tra le altre cose, la fine della metafisica e del logocentrismo. E se è vero come è vero che la dichiarazione della fine dell’uomo e di Dio sono stati l’appropriazione ultima del nichilismo, anche la letteratura, la poesia e l’arte attraverso la loro dissolvenza, mercé il decostruzionismo, hanno avuto il loro approdo al nulla. In modo particolare l’avere contestato e messo in discussione il logos, la parola, il discorso, la concettualità, ma anche l’espressione, che non è altro che l’impressione incarnata nella parola, hanno celebrato la fine del senso. Senso umano e letterario, della persona come dell’arte, della poesia, che in qualche modo andava e va ri-costruito sull’onda della memoria e di un passato che necessitano essere ri-attualizzati. Occorre un impeto estetico e nello stesso tempo etico, che scavi nel passato letterario e in opere che presentano valori di contenuto e forma e di riferimento.

Proprio per questo scrivere versi oggi può avere una valenza di recupero. Recupero fondamentalmente di un canone ancorato ai valori di una tradizione che ha fatto sì che ancora oggi si senta la necessità di scrivere in versi per mantenere non disgiunti, come sosteneva il Petrarca, la virtù e lo studio delle lettere. Virtù, amore, salvezza; di cui oggi abbiamo più che mai bisogno e che rimangono soltanto delle idee fintanto che non vengono incarnate nella parola e nell’azione, col duplice effetto di fare estetica e etica contemporaneamente. Ineludibile pertanto l’opera di ricostruzione, a fronte della decostruzione, che mostri l’ineludibilità e la centralità della parola con un ritorno al logocentrismo metafisico proprio della persona autentica. E per traslato dell’artista autentico, del vero poeta.

Croce affermava che “la materia poetica corre negli animi di tutti: solo l’espressione, cioè la forma, fa il poeta”. E che cos’è la forma? Se non l’anima della poesia che è anche il verso, il metro, la rima; quei piedi con cui tracciare un percorso iniziato secoli fa e che oggi i poeti continuano a percorrere, per quanto con maggiore libertà. Ma pur sempre con quel respiro che è traccia e fondamento della dicibilità poetica nel gioco tra inspirium ed espirium, che determina la ritmica connaturata col senso, col corpo e con la musicalità della poesia, come aveva intravisto anche sant’Ignazio di Loyola. Scrivere versi non è altro che rendere alta la parola, dare espressione ai sentimenti, alle intuizioni e alle impressioni in un modo e in una forma che, come dice Gabriella Sica, fanno sì che si scriva “non solo con la propria generazione nel sangue, ma attingendo all’immenso patrimonio metrico della tradizione classica e moderna”. 

Ecco perché questo libro, che parla di poesia, sulla poesia e con la poesia, lancia una duplice sfida per il presente e per il futuro agli appassionati di poesia, ma soprattutto ai poeti: da una parte di ricostruzione formale e materiale della poesia attraverso la conoscenza delle tracce delle forme metriche, che si sono succedute nella poesia nel corso dei secoli, dall’altro di ricostruzione sostanziale, in quanto “questo libro sulla metrica non ha come fine la metrica, ma la persona”. Non dimenticando, con Martha Nussbaum, che la poesia ci aiuta ad accrescere le nostre capacità e a diventare persone coltivando l’umanità.


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Filippo Cruciani - Racconti - Giuliano Ladolfi Editore

I racconti della cataratta

I racconti della cataratta potrebbero ben evocare dal titolo una qualche storia fluviale, magari una saga come Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli o una storia d’amore o di avventure tra le sponde del Nilo e le piramidi egizie. Invece siamo davanti ad un libro di racconti che riguardano l’impoetico, a prima vista, di una patologia dell’uomo, la cataratta, ovvero l’opacamento del cristallino. Sono racconti della cataratta e non il racconto, o meglio la storia della cataratta, come a dire che non si tratta della storia medico-chirurgica di questa affezione, ovvero non si affronta il problema col metodo storico, in tal caso storico-medico, ma sono racconti, narrazioni con al centro personaggi talora reali talora fittizi, che in qualche modo hanno avuto a che fare con la cataratta. Tanto meno si parla di questa patologia con l’esclusivo linguaggio della scienza medica. Per quanto il libro sia stato scritto da un medico-chirurgo oculista. Ma Filippo Cruciani è da anni un noto commediografo in lingua e in dialetto ed è molto conosciuto soprattutto nelle Marche. Così un libro che a prima vista potrebbe essere visto come impoetico, si presenta da subito come un libro di prosa narrativa con una intelaiatura tipica della commedia che si basa molto sul dialogo tra i vari personaggi, facendo emergere caratteri, vizi e virtù, situazioni e quant’altro che fanno assaporare il mondo di un’umanità, che gira intorno al problema della cataratta o comunque intorno al problema della vista e della cecità. Si parte da Omero, il poeta cieco; poeta per antonomasia e cieco anche per antonomasia. E si passa attraverso racconti che riguardano Ippocrate, Achimele, Catone, Virginia, Plotinio,  Celso, Teofilo, Frediano, il Cardinale Petrocchini, Benevoli, Cristoph  e Jacques Daviel, Strampelli, don Alberto, Tullia Grandocchi e Nasser. Personaggi veri o fittizi, tutti comunque realistici, che abitano i loro mondi e le loro età, dall’antichità classica greca e romana, a quella medioevale, a quella moderna fino all’epoca a noi contemporanea e addirittura con una proiezione nel futuro dove Nasser, personaggio  immaginario, ci  catapulta in un’era tutta virtuale e robotica. Cruciani ha un indiscutibile talento narrativo, col quale riesce a immergere il lettore nel racconto. E crea un’aura di empatia tra autore e personaggio, tra personaggio e lettore, quindi tra autore e lettore. Il plauso per l’autore di questo libro, I racconti della cataratta, è tale anche perchè contribuisce attraverso le sue storie a sensibilizzare ogni lettore sul problema di una patologia, che se non curata può portare alla cecità. Attraverso questa operazione, infatti, Cruciani fa azione preventiva, che non è solo medica e sociale, ma fondamentalmente letteraria e in quanto tale umana. Egli si rivela infatti fine dicitore e narratore, che attraverso le armi della retorica sa bene imbrigliare il lettore al punto da immergerlo in queste storie con finalità sia estetica che etica. Per Roberto Maggiani, “la poesia ha l’obbligo di espandersi sui territori della scienza, fino ai suoi estremi confini. Sia la poesia che la scienza sono fatti umani, pertanto devono incontrarsi nell’uomo e donare l’una all’altra la libertà di muoversi nei territori che ognuna ha raggiunto o conquistato”. Che mi sembra sia quel che riesce a fare molto bene con la sua plasticità poetica, ovvero creativa, Filippo Cruciani, il cui bel libro, valido sul piano sia etico che estetico, consiglio di leggere a tutti, per cogliere la capacità del nostro autore di addivenire ad un linguaggio, che riesce molto bene a soddisfare agli auspici di Novalis, come ricordato sempre da Roberto Maggiani, il quale si è occupato con molta perspicacia dei rapporti tra arte e scienza: “La forma compiuta delle scienze deve essere poetica”. Le scienze devono essere poetizzate, e mi sembra che Cruciani, con I racconti della cataratta, nel cercare di ottenere questo, prima di tutto ci provi e quindi ci riesca, contemporaneamente, in modo egregio.


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Benedetta Cibrario - Narrativa - Feltrinelli

Lo scurnuso

In una temperie come quella odierna, nella quale la vergogna e il pudore sembrano essere usciti di scena come un fardello, che sembrava necessario dover estirpare ad ogni costo, come altri fardelli quali il male e la malattia, il dolore e la sofferenza, senza invece considerare la reale natura dell’uomo, Benedetta Cibrario ci accompagna per mano in un racconto delicato e avvolgente nel viaggio lungo il tempo dal 1792 al 2009, che si coagula intorno alla figura dello scurnuso, il vergognoso. Lo scurnuso è una statuetta di creta che rappresenta, ma nello stesso tempo incarna Tommaso Iannacone, figuraio di presepi, che vive nella Napoli borbonica bella e barocca come non mai, con quel caos di dedali di vicoli e viuzze e botteghe e colori e mare e cielo e azzurri e persone e personaggi impastati come in un sortilegio dell’uomo nell’avventura della vita con l’amore per l’arte e la bellezza. In una Napoli comunque e ineluttabilmente bella e affascinante, allora come ora. Allora, nel 1792, allora ancora durante i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, allora nel 2009 quando la statuetta, la stessa, è il dono prezioso di un padre ad una figlia. Oggi, seppure tra cumuli di immondizia, nel dicembre 2011, in questo tempo di Avvento, quando la storia affidata alle pagine stampate è chiusa…  ma la narrazione cammina ancora dentro di noi e chissà lo scurnuso in quale presepe starà per essere collocato… Tommaso Iannacone ha bottega di pastoraio e ha adottato Sebastiano, soprannominato Purtualle, giovane orfano avuto in cambio di un lavoro. Sebastiano ha doti di artista inconsuete. Riesce con le sue mani e le sue dita a sciogliere e modellare l’argilla con facilità plastica e a creare personaggi che sembra respirino, che mostrano nelle linee dei loro volti i caratteri, che sembrano essere immortalati al di là dell’esistenza. Ecco che al padre adottivo, nonché maestro dell’arte, come atto d’amore e di estrema riconoscenza, Sebastiano regala immortalità e pregio, ritraendolo in una statuetta di creta con efficace bellezza, seppure nello stato di dolore scavato ad arte nel viso, nella condizione di malato e fasciato, semisdraiato, in uno stato di verisimiglianza realistica, tanto da sembrare che respiri, affaticato, ma comunque animato mentre sembra continui a respirare, adombrato da un senso di vergogna. E pur tuttavia lo scurnuso continua a vivere. E vive, nel corso dei mesi, degli anni, dei secoli, passando di mano in mano, di presepe in presepe, nei tempi d’Avvento, a stazionare in accademiche esposizioni fino al giorno della candelora, quando i personaggi del presepe rientrano nelle loro custodie. Purtroppo il male, fisico e morale, esiste, come esiste la sofferenza causata dal dolore per il male, e la vergogna, che è pudore, esiste anch’essa. Gli esseri umani hanno inscritti nel loro DNA e nella loro anima queste qualità come tante altre peculiarità. Un atteggiamento positivista e scientista ci ha illusi in un passato neanche tanto lontano che il male si potesse debellare e che il male per antonomasia, la morte, che segna la finitezza dell’uomo, potesse essere un giorno vinta. La realtà è quella che noi tutti abbiamo sotto gli occhi e la consapevolezza cresce sempre di più nel ritenere il fine degli esseri umani, compresa la loro fine, una dimensione di senso nella quale l’arte e la bellezza rappresentino insieme alla verità e al bene quei trascendentali che aiutano a vivere, a vivere bene, anche se è necessario fare i conti col male. Il romanzo breve di Benedetta Cibrario è un inno alla vita, alla realtà della condizione umana, e pertanto al bene, ma anche al male e alla sofferenza, alla caducità e alla finitezza, ma ancor di più alla bellezza, all’arte e al loro senso tangibile e recondito, nelle more di una dicibilità infinita che immortala. Il tutto affidato alla parola, al racconto, alla poesia, che aprono alla radura del mistero. Alla narrazione poetica, che suscita allusioni, ellissi, verticalizzazioni di senso e, perché no, di piacere, soprattutto in un periodo come questo, di Avvento al Natale, nel quale il silenzio dell’attesa si nutre e si vuole nutrire di canti, come questo bel canto offertoci dalla nostra narratrice. Inno alla felicità di vivere e di vivere bene, con un occhio alla tradizione, che è la nostra giovinezza, e altro occhio al futuro, che è la nostra consapevolezza adulta, in cui tuttavia non può mancare lo stupore innanzi al mistero. Mistero dell’arte e mistero della vita, che giocano in reciprocità, ai fini dell’essere e di un possibile senso. Mistero in questo caso di una scrittura, quella della Cibrario, che sa affidare alle parole, ai tratti del discorso, quell’alone pur anche poetico, che ci avvolge, ci coinvolge, ci coccola in una storia, la storia dello scurnuso, che in qualche modo pudicamente ci appartiene e che vorremmo non avesse mai fine. 
 


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Salvatore Contessini - Poesia - LietoColle

Una tempesta di parole (suggerimenti accolti)

Una tempesta di parole trova la sua articolazione in quattro sezioni, nelle quali Salvatore Contessini si misura in un re-lato di suggerimenti accolti scaturiti da un dialogo avvenuto non soltanto nella distanza-vicinanza della pagina scritta e letta, nella vicinanza della parola poetica incarnata nella condivisione di percorsi di poetica con gli altri, ma nei vissuti concreti in cui la sua esistenza si è incontrata con l’esistenza degli altri poeti, con i quali si è visto, ha parlato, si è confrontato, ne ha sentito il re-spiro e il so-spiro. Gli altri sono Diana Battaggia, Corrado Benigni, Giusi Busceti, Luigi Cannillo, Maddalena Capalbi, Fabio Ciofi, Flaminia Cruciani, Fortuna Della Porta, Luca Denti, Francesco Doniselli, Tania Ducoli, Anna Maria Farabbi, Luca Grancini, Corrado Guerrazzi, Stefano Leoni, Giorgio Linguaglossa, Roberto Maggiani, Gianpaolo G. Mastropasqua, Giampiero Neri, Fausto Nicolini, Guido Oldani, Terry Olivi, Rita Pacilio, Gabriele Pepe, Antonio Scardino, Alessandro Sichera, Maurizio Soldini, Marzia Spinelli, Guido Turco, Aky Vetere, Pasquale Vitagliano, Liliana Zinetti. Avere nominato gli altri non è di poco conto, perché se è vero come vero che questa silloge è “un omaggio alla poesia in generale”, è soprattutto un vero e proprio tributo alla singolarità dei poeti presi in considerazione, unici nelle loro persone e con la loro personalità, che si estrinseca nella loro poesia, con la quale Contessini interferisce in una ermeneutica vitale.

La Sezione prima apre la silloge con un titolo che è domandare: Cosa si offre alla vista? A prima vista si dà il nulla. Il vuoto, il silenzio, il culto dell’assenza, dove “la perfezione è stata/ l’istante contraddetto”. Nulla e vuoto nel quale “mi appresto al vortice dell’indolenza/ secondo il turbine spossato/ della reminiscenza spenta”. All’inizio dell’esperienza col mondo si è travolti dalla meraviglia e dallo stupore che bloccano e sgomentano. Cosa si offre alla vista? Davanti alla tempesta degli innumerevoli significanti che ac-cadono nel mondo, l’uomo sembrerebbe colto dal crampo mentale di wittgensteiniana memoria, che rende aporetica la svolta ad un’apertura di significato. Sembrerebbe allora che alla vista non si offra se non il silenzio del vuoto, il nulla, l’insignificanza.

Nella Sezione seconda, Percepire lo “svanire” delle cose, si appalesa come le cose siano evanescenti, così come lo sarebbero le persone, siccome il mondo. Nella percezione del mondo l’uomo prende atto del suo fluire fuggente. Il circolo ermeneutico è il metodo per esorcizzare l’evanescenza. In un vanishing world Contessini si immette nel circolo e interpreta nella com-prensione le parole altre per trasformarle in altro, che a loro volta gli altri hanno la possibilità all’infinito di leggere comprendere trasformare, per eludere proprio lo “svanire delle cose”. Siamo nel gioco dell’alterità che fa della poesia e della lirica una comunità-di-poeti intenti a preservare quello che ci accomuna. E quello che ci accomuna non è sempre logico, chiaro, con-creto nel senso di materico, ma il senso sboccia in una dimensione che è astratta meta-fisica criptica ermetica. Si fa sempre più spazio l’orfismo contessiniano, come in Spazi: “Scrivo,/ scrivo d’intersezioni/ che scorrono la mente,/ di quadri mai dipinti/ coi pennelli, di spazi che modificano tempi./ Lascio che il gioco del pensiero/ si faccia filo in fumo/con linea di percorso verso l’alto,/che il demone del verso astratto/ afferri lo sbocciare/ dei petali del senso./ Così propago vuoto/ per interrare imbuto/ in cui trascino il gorgo/ di ermetici sistemi./ Sole di mondi ignoti/ solo… per scelta.”

La Sezione terza, dal titolo Scivola nel dubbio l’esistenza, si apre con due poesie molto belle e intense impregnate di metafisica musicalità: Itinerari e Impresa. Itinerari: “ La luna confinata/ tra l’eco di un sussurro/ e il tremito di un urlo/ occulta la sua luce clandestina/ oltre i vapori di una notte cruda./ Parole divengono nemiche/ allontanate in circondari avversi,/ il cielo da una coltre avvolto/ sfianca barlumi d’estro/ ed ammonisce gli astri”. Impresa: “Svegliato in un giardino d’ansia/ sul ciglio dell’angoscia del far nulla/ stento ad alzare gli arti contraffatti/ ad ordinare il filo del presagio/ a dissipare il giorno scarcerato/ nella calotta di sfere senza poli./ La luna inarca un cielo stagno/ per scatti a specchi in bianco e nero/ e nuvole che infrangono colore dei metalli”. Il tremito dell’urlo della luna è lo stesso dell’uomo posto nel mondo come in un giardino d’ansia in cui ciglia l’angoscia del far nulla all’esistenza. Ma l’esistenza è anche un esser-ci orientato al dissolvimento del dubbio gnoseologico. Ed è qui che si gioca il progetto di vita e di poesia e di poetica. Non siamo davanti agli assoluti delle certezze moderne. Davanti alla Ragione con la sua violenta imposizione di strade maestre. Siamo davanti alla introflessione nella complessità dell’uomo che oltre alla ragione possiede una irragionevolezza di fondo. Come vive come sperimenta come documenta il poeta questa realtà? Attraverso un linguaggio che spesso tracima nell’ineffabile del significato nella criptica dicitura che spesso a mala pena consente di afferrare il senso concettuale, per il fatto-non-fatto che l’uomo si sfilaccia in vuote lande di vuote parole clamantes in deserto, come in Disabitato tratto: “Appaio come meridiano curvo/ in longitudine di versi vacui/ e sfitta latitudine deserta”. E nel dubbio in cui scivola l’esistenza si apre un varco di senso, si intravede l’essenza: Quel che sono: “Sono una rena con orme incerte/ ed ombre seminate in solchi/ residui di presenze concentrate/ fuori da impegni di coscienza./ La sabbia di un deserto immaginato/ che sfoglia pagine di vento impresso/ passaggio registrato effimero nel segno”. Si delinea il senso di un’esistenza non ontica ma tutta immersa in una ontologia, per quanto non essenzializzata nel significato cartesiano dell’ipostatizzazione della coscienza che può vivere solo nel suo dubbio metodico. Nella post-modernità c’è la necessità di ri-pensare l’essere.

La Sezione quarta, infatti, ha il titolo di Ripensare l’Essere nella sua originarietà. L’assenza il nulla il vuoto l’ombra il buio, contrariamente a quel che si può pensare, rimandano per il nostro poeta, così come per una schiera enorme di filosofi poeti teologi mistici, piuttosto che al non-essere, all’essere, che in questo mondo non si darebbe se non nell’incompletezza nell’angustia nel vuoto nell’ombra e nel limite di una mortalità che sferza la parola ad andare nell’oltre misterico nell’orfico alla ricerca dell’originarietà proprio dell’Essere (come lo scrive il poeta). La discesa agli inferi è salutare in quanto non nega ma afferma l’essere. Il mondo orfico è allora la base fondante della poesia contessiniana. Non ci resta che il canto. Il canto la poesia come originarietà. La poesia, difatti, è fatta di parole, da una tempesta di parole, e noi tutti siamo presi in un vortice che rischia (ma per il poeta ne vale la pena) di farci scendere agli inferi, nel nulla, nell’anti-essere. Scendiamo nel mondo ipogeo del nulla, ma come diceva Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, si annida la salvezza”. E la salvezza quale è se non il canto della poesia affidato proprio a quelle parole che ci conducono all’originarietà dell’Essere? Pertanto quella di Contessini, che apparentemente sembra una poesia affidata tutta al significante, è pregna di quella significazione che attualmente si sta riproponendo nel mondo poetico dove regna molto spesso sovrano il minimalismo dei termini. Pertanto non nichilistico il dettato contessiniano, ma essenzialista, per quanto passeggi in un ambiente orficamente ordinato o disordinato che dir si voglia, che apre le porte passando per il niente all’Essere. Metafisico pertanto lo sfondo della poesia di Una tempesta di parole. Ma non la metafisica cartesiana, come dicevo, che assolutizza l’essere, bensì una metafisica dinamica, aperta, in divenire, quasi sofferta, che pur tuttavia tende all’Uno, all’unità, al ricongiungimento, ben rappresentato nelle metafore di Lunazione: “Uscio di luna,/ scendo la tromba/ e penso che t’incontro./ Esco alla notte e/ cerco nel tuo cielo/ l’opalescenza d’aria/ e la mancanza d’acqua/ d’altrui disposizione./ Mezza ti trovo nel tuo ciclo/ e penso al disco unito./ quella che vedo/ è la mia parte amica,/ quella che manca/ metà del cielo a vita”. Una metafisica che passa comunque attraverso il fisico, per quanto affastellato nella frammentazione della dispersione e dell’evanescenza. Una parola che si incarna e che subisce tutte le intemperie della vita come la tempesta che le agita le porta da fuori a dentro in alto e in basso in cielo in terra e sottoterra per catapultarle poi nella verticalizzazione di una ri-nascita che dona vita senso salvezza.

Caratteristica dell’originalità della poesia di Contessini, oltre a tutto quello che fin qui ho detto, e oltre alla cripticità tutta orfica del suo dettato, che volente o nolente si distende sull’onda lunga delle poetiche ermetiche, metafisiche e orfiche, come quelle di Ungaretti, Onofri, Campana, e oltre a una musicalità del verso tutta propria, si coglie come nelle opere precedenti l’assenza degli articoli non solo determinativi ma anche indeterminativi. Come se non solo cose e persone non fossero determinati ma come se ci fosse un’indeterminazione di fondo dell’essere che trova proprio in questa indeterminazione la sua cifra. Questo e non solo troverebbe fondamento in tante tesi della filosofa spagnola  María Zambrano, che ha cercato di dare risposte nuove nella ricerca di un’autenticità perduta per l’uomo, nella sua integralità legata alla totalità ontologica e storica. Infatti la Zambrano critica la filosofia razionalista e lo fa soprattutto con la proposta della sua ragione poetica fondata sui concetti di rinascita e di persona, in una dimensione tutta etica, ma soprattutto metafisica e ontologica, e con una metodologia ermeneutica, nella quale solo la poesia potrà dare una nuova direzione al tentativo di risoluzione delle problematiche esistenziali e culturali. Contessini in fondo cerca di fare tante di queste cose e le fa in questa bella silloge attraverso una metodologia ermeneutica che trova nel circolo del dialogo il senso e la verità dell’esistenza. E con questo modus operandi tocca vette davvero sublimi, come quando entra in dialogo con Roberto Maggiani e con i suoi versi, tratti da Scienza aleatoria: “Luce che passa/ abbaglia scende invade circuisce alimenta/ desta lega disgiunge compara diffonde”, in questo modo, in Oscuramento (che a mo’ di ossimoro è tutto il programma contessiniano): “Colloqui di una sintesi di luce/ tra capolini di colori raffreddati/ ascende lentamente dalla terra/ filo di umori nuovi e di sorgenti gemme”. Ed è proprio la luce, ancora una volta, che fa da contraltare al buio, a cui il poeta tende, nella composizione finale de L’angelo: “Da tanto tempo sogno/ un paio d’ali da poter toccare/ un ambito di luce innaturale/ che mi consenta di volare”. Il senso dell’esistenza per l’uomo sembra essere alla fine quello che si trova nello spiccare il volo alla volta della luce e le ali sognate dal poeta sembrerebbero essere proprio quelle della parola poetica che mette in relazione e consente di comunicare le vibrazioni dell’uomo intero, della persona, corpo e anima, nelle more dell’eternità.


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Tomas Tranströmer - Poesia - Crocetti e Herrenhaus

Poesia dal silenzio e Sorgegondolen

Tomas Tranströmer, Poesia dal silenzio, Crocetti Editore, 2011

Tomas Tranströmer, Sorgegondolen. La lugubre gondola, Herrenhaus Edizioni, 2003


Trascorso il tempo della notizia dell’assegnazione del premio Nobel a Tomas Tranströmer, è giunto il momento di passare alla conoscenza diretta attraverso la lettura dei suoi testi. Tra i maggiori poeti svedesi contemporanei, l’ottantenne Tranströmer, appena laureato in casa, vanta al suo attivo un numero di poesie piuttosto contenuto che coprono un arco di tempo dalla prima raccolta del 1954 (17 Dikter) all’ultima pubblicazione del 1996 (Sorgegondolen). Non molto conosciuto in Italia, sono finora state pubblicate nel nostro Paese soltanto due opere: nel 2003 Sorgegondolen. La lugubre gondola, per Herrenhaus, tradotto e curato da Gianna Chiara Isnardi con un ottimo apparato critico e l’antologia Poesia dal silenzio, a cura di Maria Cristina Lombardi, pubblicato da Crocetti la prima volta nel 2001 e in questi giorni in terza edizione. Conosciuto e apprezzato in tutto il mondo anche prima del più alto riconoscimento appena ottenuto, Tranströmer lo potremmo definire come un poeta metafisico del mistero, che si apre alla contemplazione del paesaggio naturale a specchio del paesaggio dell’anima e che lascia parlare entrambi con i loro linguaggi nel silenzio, creato come controcanto dalla parola umana che si ritira nella decifrazione dell’ascolto. Ne vien fuori un dettato coinciso, nitido, sostantivo, scevro da aggettivazioni. Per quanto misurato su toni musicali. Si è davanti ad un cartesianesimo e ad una geometria dello spazio e del tempo esterni, che nella loro interiorizzazione aprono all’ossimoro metaforico della percezione giocata in una dimensione gestaltica, che si fa parola tanto basta per accedere al sublime e al panico del paesaggio, che si fanno elegia dell’angoscia, dell’esistenza, della malattia, della morte, del vuoto, dell’ombra, della notte. Spazio e tempo colti nella loro fugacità al bello e sublime, che aprono nello stesso tempo a una pienezza dell’essere dell’anima. Caratteristica della poetica di Tranströmer sembra essere un’elegia panica dell’esistenza, nella quale la morte e il lutto fanno in qualche modo i conti con l’angoscia nelle more di risolvere la pseudo aporia della disperazione. In questo senso Kierkegaard sembra essere dietro allo scavo psicologico, che in tal modo diventa, più che psicologico, spirituale, aprendo alle sfere musicali di una dimensione altra da quella terrena, nella quale il poeta dice “Son trasportato dentro la mia ombra/ come un violino/ nella sua custodia nera”, facendo però intravedere la possibilità che per quanto nell’ombra della sua custodia il violino continuerà a suonare per sempre. Realismo metafisico, pertanto, quello di Tranströmer nella misura in cui coglie la realtà dell’esistenza, che se giocata nell’autenticità sa trasformare il vuoto del pessimismo in ottimismo pieno di speranza. La frammentazione dei versi, l’ellissi pressoché continua, l’allusione, l’ossimoro frequente, la metafora, tipici del poeta, stanno ad indicare come l’uomo sia fragile, quanto sia caratterizzato dal limite dei confini di questo spazio e di questo tempo. Ma lasciano pure intravedere una qualche possibilità di autenticità a contrastare il chiacchiericcio: il silenzio, che piano piano fa posto alla parola poetica, la quale apre alla radura della salvezza, a quel Dio, che, pur non detto, è. Sembra proprio di poter dire che Tranströmer, sulla falsariga di Kierkegaard, sia proiettato con la sua poesia, piuttosto che a soddisfare il tempo, a soddisfare l’eternità.

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Paolo Di Paolo - Romanzo - Feltrinelli

Dove eravate tutti

Il romanzo Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo è uno spaccato sociale, culturale, politico, ma più che altro esistenziale, e ancor di più familiare, di un ventennio raccontato da un giovane,  nato nel 1983, di 27 anni, che narra le sue vicissitudini dal 1992, ovvero dai nove anni, quando comincia ad avere memoria storica, fino al 2010. Il ventennio è quello in cui Silvio Berlusconi ha fatto il bello e il cattivo tempo della politica, ma anche della società caratterizzando una filosofia di vita, che a partire da influssi mediatici ben definiti, mediate appunto anche da un certo tipo di televisione a dir poco leggera quali trasmissioni come Colpo grosso, passando per il Grande fratello, mettono in luce una specifica visione del mondo, delle cose e delle persone, che volenti o nolenti faranno parte di uno stile di vita, definibile tout court come berlusconismo, che coinvolgerà un po’ tutti, quei tutti, gli adulti, i padri, dei quali Italo, il protagonista del romanzo, che parla in prima persona, alias Paolo Di Paolo, si chiede dove fossero, nel senso di come avessero fatto a non rendersi conto di quello che stesse avvenendo, come se non ci fossero. Italo ricorda come i suoi anni di bambino che si proietta sull’adolescenza e i suoi anni di adolescente e quindi di ragazzo fossero pervasi da questo signore della politica e della televisione, che in qualche modo ha ossessionato la sua esistenza. Sono le vicende raccontate dalla radio, dalle televisioni, ma soprattutto dai giornali a cominciare dalla caduta di Bettino Craxi, passando per la Seconda repubblica, fino all'attentato alle Torri Gemelle e all'elezione di Barack Obama, che segnano un filo rosso di una storia in un modo o nell’altro coagulata a livello nazionale intorno ad un unico politico. Quasi assenti tutti gli altri. Al punto che dovendo scegliere la tesi di laurea, decide di farne una in Storia contemporanea proprio su Berlusconi. Le vicende narrate nel romanzo si imperniano però, piuttosto che su vicende politiche, di cui si hanno cenni per frammenti, per quanto emblematici, su quanto succede ed è successo nella famiglia di Italo, per quanto la memoria aiuti a ricordare. E il fatto su cui gira un po’ tutta la vicenda è l’incidente causato volontariamente con la propria automobile da Mario Tramontana, padre di Italo, professore di scuola media superiore, da poco in pensione, con la smania di voler pubblicare ad ogni costo un saggio storico, snobbato dall’editoria di spicco e allettato da un piccolo editore che lo intrappola nell’illusione della pubblicazione (a pagamento), che esasperato dal comportamento di un suo allievo, Tomas Marangoni, nonché fidanzato della figlia Anita, che in un gioco di vendette incrociate per fatti avvenuti durante una gita scolastica a Parigi (il ragazzo che si fa inghiottire da un postribolo, e quindi deve sorbirsi la paternale del professore davanti a tutta la classe; a sua volta il professore accusato con un biglietto anonimo fatto pervenire a casa sua nella cassetta delle lettere - con l’intento di farlo sapere alla moglie - col quale si dice che il professore avrebbe avuto una relazione con una collega di sostegno molto più giovane di lui), portano all’investimento di Tomas. Di qui si snodano tra presente e passato le vicende di una storia personale e familiare attraverso fatti, fotografie, oggetti da sempre presenti nella memoria e non solo, come il furgoncino azzurro del nonno, che in qualche modo farà ri-trovare Italo con Scirocco, infatuazione dell’infanzia che diventerà amore ri-trovato della giovinezza,  e poi le gioie e i dolori della quotidianità, i dubbi e le poche certezze, che abitano solo nella fede dell’onestà, della semplicità, alla ricerca di una vita buona e felice, tra tradizione e progresso, con un passato e un futuro incardinati su un presente certamente non facile dal punto di vista socio-politico, ma con una emergenza di quella forza d’animo che fa riprendere le fila da quanto di buono si può trovare nell’onestà di vita di questa come di tante famiglie italiane, che più nel passato che oggi sono andate avanti con sacrifici e dedizione radicati su quei valori di socialità e solidarietà che oggi paiono scomparsi perfino dal vocabolario e che laici e credenti in un modo o nell’altro professavano credendo nel valore dell’alterità. Alterità che nel romanzo si scorge in altro luogo, in un altrove rappresentato da una Berlino, che rappresenta una via di fuga verso un non-posto dove potersi ritrovare. E dove in effetti si ritrovano Italo con la madre, fuggita dopo il presunto tradimento del marito, e dove si riannodano le fila di una vicenda che pur non essendo chiarita è però compresa dai personaggi del romanzo che trovano la forza per ricominciare a esserci, insieme. Oggi il mondo sembra rivoltarsi contro di sé attraverso violenze di ogni tipo, che si giocano perfino all’interno dei nuclei familiari, violenze materiali, psicologiche, morali, spirituali, che sembrano negare quella libertà di cui molti di noi vogliono riappropriarsi. Ma non una libertà scevra da qualunque altra dimensione, ma una libertà legata, co-legata alla responsabilità di ciascuno e di tutti, con tutti e per tutti. Quei tutti che forse non eravamo in qualche modo presenti, che non eravamo attenti, e ci siamo visti condurre a quel mondo che in qualche modo ci siamo meritati. Oggi è giunto il momento di una ribellione, pacifica, condotta con la serenità e anche con un pizzico di ironia da parte delle nostre capacità critiche, de-costruttive ma soprattutto costruttive, per cercare di tessere le fila di una nuova società, dove finalmente ci sia la capacità di poter tornare a dialogare, a vivere insieme, senza presunzioni, con apertura all’altro, anche a quello che dell’altro non ci piace, come avviene alla fine del romanzo. Perché se ci siamo, se siamo insieme, uniti, le gioie sopperiscono in qualche modo al dolore della vita. E la vita forse diviene meno complessa e meno amara. Una vita nella quale è necessario soprattutto amare, senza retorica, ma soprattutto senza egoismi e sopraffazioni e tornaconti. Il romanzo di Di Paolo è sicuramente una ventata di novità nel panorama letterario contemporaneo. Scritto con quella leggerezza formale evocata da Italo Calvino, ma nello stesso tempo armato di una profondità e di una saggezza, che ci stupiscono se pensiamo che Di Paolo è un giovane coetaneo a Italo, il protagonista del romanzo. Un romanzo che prende dall’inizio alla fine in un crescendo che difficilmente fa allontanare il lettore, preso da una forza calamitante che lo trattiene fino all’ultimo incollato alle pagine, fintanto che non si arriva alla fine. Una fine che però è un inizio, inteso a lavorare per ricucire lo strappo di non essere stati e per esserci a vigilare che le nostre storie, le nostre esistenze possano dare un collante alla società, facendo riacquistare ad essa i valori perduti. Il romanzo di Di Paolo ha tante altre qualità, oltre a quelle già menzionate, quali la leggerezza formale, l’alta densità di contenuti, una leggibilità piacevole che coinvolge e avvolge nella trama ben dipanata, nell’invenzione dei tratti narrativi, con l’incursione di notizie a frammento di una realtà che tocca la quotidianità dell’esistenza delle singole persone e della comunità superstite, quali la famiglia, la scuola, etc., svelando quelle che sono le ansie, le dolcezze, le amarezze, le illusioni, le dis-illusioni, le in-comprensioni e soprattutto la possibilità di ognuno di comprendere con fiducia gli altri. Romanzo di formazione potremmo definirlo, dove si dipana la fioritura di una giovinezza all’ombra e al sole (più ombra che sole) delle vicende sociali e politiche ma soprattutto della maturazione e della caratterizzazione di un bambino-adolescente che diviene giovane e prende consapevolezza della Storia e della storia. Con all’interno un conflitto generazionale che evidenzia come molti giovani di oggi possano chiedere alla generazione precedente: Dove eravate tutti? Spesso si condannano i giovani di essere nihilisti. Molti fatti lo mettono ben in evidenza, come quando attentano senza ragioni alla propria vita, alla vita degli altri, in poche parole al bene comune. Ma per fortuna non tutti i giovani si ispirano al nulla, alla vita giocata in modo inautentico. C’è chi come Italo ha capacità di rivalsa caratteriale e culturale su chi è stato assente, su quegli adulti che sono stati i maestri del nulla. E ci sono giovani come lo scrittore Paolo Di Paolo che dimostrano attraverso il mezzo della cultura della scrittura della letteratura come sia possibile reagire alla pseudocultura del niente. Un romanzo, infine, questo, che dimostra soprattutto che cosa significa per uno scrittore essere responsabile, nella misura in cui pur non facendo filosofia dei massimi sistemi, ma attraverso la letteratura e il romanzo e una scrittura snella e pulita, scevra da facili retoriche e da facili naturalismi, oggi tanto di moda, dimostra come si possa lanciare un messaggio di autentica rinascita per costruire una società migliore basata su qualcosa piuttosto che sul nulla, a cominciare dalle piccole cose di ogni giorno dagli affetti dalla famiglia dagli amici dalle persone a noi care che per una buona sorte ci amano e noi possiamo amare. Perché è solo con la fede (laica o religiosa che sia),  è solo con il fondamento di determinati valori che si potrà costruire una società migliore che attenda al bene comune. E il messaggio che dovremmo cogliere con questo bel romanzo è proprio quello di fare in modo che oggi davanti all’appello abbiamo la responsabilità morale di esserci e di essere presenti, con valenza esistenziale, oltre che personale, familiare, culturale, intellettuale, sociale, politica, affinchè possiamo testimoniare quell’autenticità che mandi in deroga che qualcuno nel prossimo futuro possa dirci ancora una volta: Dove eravate tutti.


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Guido Oldani - Saggio - Ugo Mursia Editore

Il realismo terminale

Il poeta Guido Oldani, voce tra le più autorevoli nel panorama letterario contemporaneo, nel suo libro Il realismo terminale, Mursia, 2010, affronta il problema dell’epocale trasformazione del mondo, nel quale gli oggetti materiali, le cose, prendono il sopravvento sull’uomo, sul soggetto, lo assimilano, sino ad annullarlo, tanto da far sì che «nasce un modo radicalmente diverso di interpretare il mondo e di rappresentarlo, anche artisticamente, a partire dalla poesia». Il passaggio attraverso  l’ermetismo e il surrealismo, secondo il nostro poeta, a partenza dal futurismo, conduce all’incirca a metà del Novecento, quando compare il neorealismo, che degenera nelle neoavanguardie, per le quali l’oggetto sarebbe morto, nella misura in cui i significati periscono a beneficio dell’ “involucro fonetico del significante”. Il varco al virtuale è consequenziale. In questa temperie vi è una mutazione antropologica legata all’urbanizzazione e nel terzo millennio cambia la percezione della realtà, “fatta più di oggetti che di natura”.  Siamo al realismo terminale, dove la natura imita l’oggetto e non viceversa. Gli uccelli sono copia degli aerei e non viceversa. Siamo davanti ad un vero e proprio rovesciamento estetico. E il realismo sarebbe meglio detto con oggettismo, ma la significatività è tutta riposta nell’aggettivazione terminale. Una dittatura estetica dell’oggetto si è insediata nel nostro sguardo mutato. Tutto è artificiale e questa artificialità abitata da oggetti la ritroviamo per antonomasia raccolta e osannata nel centro commerciale, che ritengo essere diventato il tempio di quello che Oldani definisce oggettismo terminale. Lì dove gli oggetti, heideggerianamente parlando, sono i prodotti della tecnica, che si continua a imporre e a cercare di sostituirsi all’uomo, scambiando i ruoli di oggetto e soggetto, lì dove la stessa tecnica sta ormai terminando di fagocitare il soggetto umano. Lì dove potremmo trovare, però, una possibile via d’uscita e una qualche verità di senso quale è riposta nell’arte e in particolare nella parola poetica, fonte di salvezza dello stesso essere, parola di cui l’uomo si deve fare pastore e curarne tutti gli aspetti a ché non sia travolto e stravolto dalla tecnica e dai suoi oggetti, proprio come oggi sta avvenendo e come denuncia lucidamente anche Oldani. Parola che oggi più che mai, così come viene veicolata nel linguaggio soprattutto virtuale e pertanto non parlato degli sms e delle e-mail, ha bisogno di essere curata. Una parola diventata muta, che non suona più, che non si muove più tra inspirium ed espirium. Una lingua fatta di parole morte, esangui, che andrebbero fatte rinascere a nuova vita. Problema estetico e nello stesso tempo etico. Che chiama alla responsabilità chiunque, ma in particolare chi scrive e chi parla soprattutto come poeta. Gli scrittori oggi sono chiamati a usare un linguaggio “leggero”.  La leggerezza non sarà anch’essa imposta dall’oggettismo che detta legge?! Un oggetto più è leggero e meno ingombrante, più è pragmaticamente efficiente. Non sarà che anche l’anoressia mentale ha a che fare con questo paradigma? E non sarà che il linguaggio e la parola si stanno prosciugando su questa falsariga? Nella valanga degli oggetti è avvenuta la frantumazione dell’io. E nel momento in cui scompare il soggetto, là dove lo stesso soggetto rischia la cosificazione (a tal proposito si pensi alle tecniche di ingegneria genetica e alle neuroscienze che parlano della coscienza come se fosse un oggetto materiale), sembrerebbe di essere davanti ad un mondo pieno, mentre invece siamo al cospetto del vuoto, davanti al nulla. L’uomo non è più soggetto, ma è il complemento oggetto, là dove soggetto è diventato l’oggetto. La poesia è sui generis in quanto sempre meno prodotto di consumo. In questa sua limitatezza c’è una possibilità di via d’uscita dall’impasse, come nel “realismo terminale ci sono alcune condizioni per il contrario”.  Nel realismo terminale, infatti, si compie il dissolvimento del soggetto nell’oggetto e gli oggetti sono divinizzati, portati ad assumere quel surplus, come voleva Spinoza, che li fa dirigere verso la soggettività. Nello scenario metropolitano del Duemila l’uomo globalizzato e cosificato è posseduto dagli oggetti e questo oggettismo è terminale non per se stesso, in quanto gli oggetti sono destinati a resuscitare come l’araba fenice e a trasformarsi nel loro succedaneo sempre più innovativo, ma terminale è riferito alla dimensione soggettiva degli uomini, che sono fatti ormai schiavi della tecnica. E il poeta in questa situazione che senso ha, che ruolo assume? Ma ancora, il poeta a quali luoghi mira? Il pericolo è l’arcadia. Un mondo che fu e che or non è più. Come possiamo meravigliarci se oggi non c’è un possibile canone? Ma poi siamo sicuri che il canone non ci sia? “Ognuno per sé, con uno “stile libero”… cerca di sostituire il canone disperso … e così praticamente chiunque può improvvisarsi e simularsi poeta…”. In effetti il canone, che può anche essere un non-canone, oggi c’è ed è proprio il realismo terminale. Oggi abbiamo davanti il totalitarismo degli oggetti “che il realismo terminale vorrebbe però smascherare”.  “Là dove c’è il pericolo, c’è anche ciò che salva”, diceva il poeta Hölderlin. E così “il futuro … potrebbe essere quello del bozzolo-farfalla, oppure … del bozzolo sarcofago”.  Il poeta potrebbe aiutare la farfalla ad uscire dal bozzolo. La roba, gli oggetti ci determinano. E nel determinarci ci annullano, attraverso le mafie, le guerre, etc. Abbiamo creduto nella libertà, abbiamo pensato e pensiamo di essere liberi (si vedano le scaturigini sulla sessualità, sulla demografia, sulla religione, sui valori, sulle scelte morali tout court etc.) senza renderci conto di come “l’oggetto determina, agendo come un boomerang, le nostre regole esistenziali”. Non solo non siamo responsabili, ma non siamo, contrariamente a quanto pensiamo, neppure liberi. Insomma il realismo terminale è un passaggio epocale col quale anche la poesia non può non fare i conti. E il canone è dettato dai dinamismi oggetto-soggetto, in cui l’uomo subisce l’imposizione e, secondo me, l’impostura dell’oggetto. E in questa impostura bisognerà lavorare di fino, con le unghie, ma se capita anche con ironia, per cercare di smascherare la trappola. Nel rovesciamento globale di oggetto-soggetto, nell’era post-human, dove non si sa più quanto ci sia rimasto dell’uomo (biologicamente parlando) e ancor più dell’umano, quanto ci sia rimasto di naturale rispetto all’artificiale, anche del paesaggio, che dire del silenzio della cultura attuale a tale proposito? E che dire della poesia, che pare faccia finta di nulla e di non accorgersi dei cambiamenti epocali intercorsi? “La poesia odierna  – conclude Oldani - … in realtà è come la vivida luce di una stella, che continua a fluire. Essa stella è morta da tempo e chi da questa luce sopravvissuta viene ancora rischiarato, … può sentirsi al sicuro e credere che la stella sia nel pieno della sua vitalità, ma tale corpo celeste, se potesse, esibirebbe il proprio certificato di avvenuta estinzione. Naturalmente tutto quanto detto può benissimo essere inteso come l’invenzione di una metodica per la produzione dell’ironia, o una sua semplice esercitazione: poco male, sarebbe come scambiare un’alba con il suo naturale sosia che è il tramonto. Anche questo può succedere, ed è sia ironico che no”.


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Cinzia Marulli Ramadori - Poesia - LietoColle

Agave

“… ora son io/ l'agave che s'abbarbica al crepaccio/ dello scoglio/ e sfugge al mare da le braccia d'alghe/ che spalanca ampie gole e abbranca rocce;/ e nel fermento/ d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci/ che non sanno più esplodere oggi sento/ la mia immobilità come un tormento” sono i versi di L’agave sullo scoglio di Eugenio Montale, a cui rimanda direttamente la cifra del significato della raccolta poetica (la prima) di Cinzia Marulli Ramadori. Nella metafora tutta verdicante della silloge e della vita – Vita Tra tanto cemento/ un filo d’erba - e a iniziare dal titolo c’è il simbolo della fortezza che nello stesso tempo è debolezza della natura rappresentata dall’agave e nello stesso tempo dell’essere umano e dell’esserci: vita, morte, gioia, dolore, incespicamento, ma soprattutto resistenza a non cadere nel crepaccio e mettercela tutta a credere in quell’essere che non muore mai ma che solo si trasforma in un altro essere. Il tutto nell’immobilità di un essere che si misura costantemente col baratro del nulla abbarbicandosi alla roccia per dare comunque vita, al fiore, e poi finire, soddisfatto e felice del fine raggiunto: Figlio/ io sono Agave/ nel suo fiore/ svetta/ il mio amore. La silloge è un inno alla vita attraverso l’amore. L’amore ricevuto ma soprattutto quello donato. Il dettato della Marulli ha soprattutto uno scopo, che è quello della significazione, perché attraverso la densità della sostanza vuole ancora continuare a donare, a dare amore, a trasmettere e a comunicare un forte sentimento, che spesso tralascia il significante, nel senso che si cura di più del messaggio che non del messaggero e vuole che questo messaggio arrivi, diretto. Il figlio, soprattutto il figlio, generato come il fiore dall’agave, il marito – Tu sei acqua/ amore mio/ nella quale leggera/ io nuoto -, il padre che ha lasciato “questo vuoto/ che scava baratri nel mio cuore”, la madre – i tuoi occhi mi hanno inseguita/ in essi solitudine/ cantava a squarciagola – che in un letto d’ospedale rende speculare la metafora dell’agave, non detta ma presagita, che mette angoscia, l’angoscia di vedere, lei ora fiore, la madre sfumare nella metamorfosi finale e allontanarsi con occhi che inseguono con lo spauracchio dell’assenza che in-voca cantando ossimoricamente solitudine. Poesia che contempla valori. I valori soprattutto della famiglia. Ma la famiglia si allarga alle persone vicine, alle amiche e agli amici, ai poeti con i quali c’è condivisione di esperienza e di vita. Ma l’orizzonte si allarga verso altri, lontani ma comunque vicini. Come nel caso del componimento finale dedicato alla sofferenza di una madre e al dolore in-vissuto cognitivamente e forse affettivamente, ma tutto avvolto nella musica, di Roberta, una ragazza schizofrenica. O come nel caso dei versi di Si straziano i silenzi in cui la voce si leva civilmente alta in ricordo di Peppino Impastato e di tutti coloro che come lui, e il pensiero non può anche qui non correre alle madri, hanno cercato di ribellarsi al male con l’urlo di rivolta a far chiarezza della vita e dell’amore e sono finiti nel sangue: moderna Pietà dei giorni nostri. E anche qui, nei due ultimi casi richiamati, emerge uno dei fili rossi del libro che è inquadrabile nella contemporaneità della poesia femminile che canta i suoi topoi, come quello della maternità, che la Marulli ben sa dipanare con originalità innovando nella tradizione un luogo, che rischia di diventare religiosamente retorico, ma che invece la nostra poetessa sa rendere molto bene con laica pacatezza e senso del sacro. Poesia lirica questa della Marulli, elegiaca, ma assolutamente non solipsistica, per quanto la frammentarietà del dettato sia affidata a squarci impressionistici, che descrivono come bozzetti di vita la quotidianità sedimentata nel pensiero. Pensiero. Parola che ricorre sovente nei versi della raccolta. Perché in fondo nella poesia di Cinzia Marulli c’è soprattutto anima e poco corpo. Difatti non c’è circostanziazione, non c’è toponomastica, non c’è, almeno sembra, il tempo, così come latita lo spazio. Ci sono solo i tempi e gli spazi dell’anima. Cartesiano il dettato. Aereo, pneumatico, leggero. Una leggerezza che non si affida, come dicevo, al significante, ma mira soprattutto al significato. Ed è questo il pregio della poesia della Marulli, in un momento come il nostro, nel quale la poesia, come è stato detto, mira più all’aggettivazione che non alla sostantificazione. Anche se va detto che nelle prossime prove ci aspettiamo dalla nostra poetessa un maggior lavorio sulla parola, affinchè i pensieri, che crescono nella mente come coriandoli di idee, escano dall’ipostatizzazione e si incarnino sulla parola stessa, dando la possibilità non solo di vedere, ma di toccare con mano le passioni dell’anima, di cui ella è abile artefice nella loro rappresentazione.

 


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Maria Pia Quintavalla - Poesia - Effigie Edizioni

China. Breve storia di Gina, fra città e pianura

L’affabulazione monologante è l’indubbia cifra del poemetto China, nel quale Maria Pia Quintavalla riesce con abilità di demiurgo della parola a condensare in lingua o logos i fumi di un’esistenza che evapora e si allontana insieme al trapasso di una madre, col rischio di nascondere tutto, col rischio che tutto finisca. Demiurgo il poeta, in quanto, lavorando con la parola di ogni giorno, demotica, pop, recuperata dal nascondimento del possibile oblio, dà vita all’altrimenti della stessa vita. E ne stabilizza la vivacità nella presenza di un’assenza a cui dona tutta la tonalità possibile di vita attraverso un repêchage nella memoria, attraverso la rammemorazione di un passato che rischia di essere un vuoto, che invece la poesia riempie nel fermo immagine dei versi a dar luogo ad un incancellabile pieno. In qualche modo siamo di fronte ad una morte esorcizzata dal nulla attraverso una presentificazione di un vissuto che la poetessa vivifica attraverso la narrazione di quel che è stato, di quel che è, ma soprattutto di quel che resta e resterà per sempre, una volta affidato questo vissuto alla poesia, che rende immortale, o almeno ci prova, a riabitare pianura e città come Parma e Milano, ma soprattutto gli spazi dell’anima. Maria Pia Quintavalla parte dalla scomparsa della madre, ovvero da un’assenza, per riempire non solo il foglio bianco, ma il suo vissuto, di una vera e reale presenza. E lo fa narrando, raccontando, creando, poetando, quasi cantando, con interruzioni di pianto, che crepano in qualche modo l’ordito grammaticale, lo rompono, lo spezzettano, dando luogo alla voce della madre, dei parenti, più o meno lontani, che entrano nel monologo con i loro interventi, le loro parole, le frasi, di allora come di adesso, in una sequenza di immagini color seppia, più o meno sfumate, di un album che si fa piano piano uscendo dal sottobosco della memoria per trovare la luce della radura della parola e dell’eternità. Il dettato poetico della Quintavalla si prende cura, heideggerianamente parlando, della parola, come il buon pastore si prende cura delle pecorelle, ma nella parola c’è l’essere e pertanto il poeta anche in questo caso è pastore dell’essere. Il registro linguistico è, piuttosto che basso, piano e volutamente fluido come la lingua normale; non c’è impostazione letteraria e ancor meno retorica, visto l’argomento trattato, e il dettato è quello che scaturisce dalla realtà della quotidianità e dalla normalità del popolo parlante, dalla normalità di un “lessico famigliare”. Come sono normali le scene di vita ritagliate in cornici di quotidianità tratte da musiche, canzoni, trasmissioni televisive, un coro di personaggi del mondo del cinema, dello sport, della televisione, che volenti o nolenti hanno abitato e abitano le nostre vite, i nostri immaginari e in qualche modo determinano col loro imprinting nel bambino e nell’adolescente quello che saranno da adulti, a scanso di tante arcadie e mellifluità che troviamo oggi nella poesia fuori-tempo. Parlando della madre, Gina, o come veniva soprannominata China, la Quintavalla parla anche di sé e volendo o non volendo  andare in deroga all’anti-lirica e alla de-territorializzazione dell’io propri della post- modernità poetica squarcia il velo degli io, l’io materno e il suo io, per ricostruirli in unità attraverso una modellizzazione del soggetto che va in deroga al solipsismo e si connatura in quello che dovrebbe essere una persona, nella misura in cui aprendosi all’altro rivede nel volto dell’altro il proprio volto e si determina proprio nell’alterità. In questo caso la madre non è scomparsa, nonostante la sua assenza, perché è presente nella figlia. Questo è un esempio di poesia personalista, che tanto auspico ai giorni nostrim nella quale l’individuo cede il passo alla persona. Sembrerebbe che il linguaggio poetico di China sia caratterizzato da un pedale basso, anti-lirico, nel quale non c’è il soggetto, non c’è l’individuo. Perché la poesia di China è piena di cose elencate tutte nella loro fisica matericità. Sembrerebbe. Perché, come dicevo, nella poesia di Quintavalla troviamo soprattutto un popolo di persone vive e vegete che abitano nella persona narrante, nel poeta, che si fa carico dell’onticità del linguaggio per aprire ad una nuova lirica caratterizzata da una realtà che sa farsi anche se non soprattutto metafisica, donando vita e vitalità anche nell’assenza.


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Barbara Constantine - Romanzo - Fazi Editore

Tom, piccolo Tom

 

Il romanzo racconta, attraverso gli occhi e le parole del piccolo Tom, bambino di 11 anni nato da un rapporto adolescenziale di una ragazza tredicenne, che ora ne ha 25, un universo di fatiche, indigenza e mancanza di sicurezza, ma allo stesso tempo di piccole fortune, qualche vizio e molte virtù, di quelle gioie che possono restituire il gusto di un’esistenza leggera e profonda allo stesso tempo. In poche parole una vita sensata.

Ogni tematica importante è trattata con estrema delicatezza e garbo, Tom ti strappa un sorriso e ti invita a riflettere e comunque ad apprezzare la vita.

Sin dalle prime battute si ha l’impressione di essere calati in un ambiente da favola, anche se il racconto riguarda una realtà certamente non idilliaca.

Il linguaggio è scorrevole, simpatico, attraversato da ironia e da un senso quasi ludico della vita, anche quando i fatti sembrerebbero essere più tragici che comici.

Nel racconto c’è un filo rosso che va dall’inizio alla fine che mi sembra di rintracciare in una sola parola: il bene. Spesso non sono narrati eventi in cui predomina la giustezza e la giustizia, ma è in primo piano il bene, della singola persona e in comune, il bene per l’altro, l’altruismo e quindi il bene per sé, e spesso trattasi di un bene metafisico, tutto interiore.

Mi verrebbe da dire che questo racconto è un inno alla vita, all’esistenza, alla cura della vita, alla sua accoglienza, e soprattutto un canto lieve e giocoso, ma nello stesso tempo profondo come l’azzurrità del mare, alla famiglia, al senso della famiglia, al senso della nascita, al senso della genitorialità ma anche al senso di essere figlio, che nello stesso tempo è fratello. Un canto alla vita, anche se questa vita non riserva le migliori condizioni di soddisfacimento ai nostri bisogni e alle nostre aspettative. Una vita impostata alla ricerca della felicità, tema classico dell’etica aristotelica dell’eudaimonia.

Una vita che, comunque sia, merita sempre di essere vissuta, nella misura in cui la si accetta per come è, con gli  alti e i bassi, il bello e il brutto, e soprattutto accettandosi, accettando quello che siamo anche come corpo. Non per niente Joss, la venticinquenne mamma di Tom, che tanta attesa ha riposto nel fare un intervento di mastoplastica riduttiva, pensando di migliorare il suo status, rischia alla fine di non essere ri-conosciuta e soprattutto di ri-conoscersi.

Una bella commedia quella di Tom, piccolo Tom, nella quale alla fine ci sono sorprese di ritrovamenti e di ricongiunzioni, anche non propriamente fisiche, che danno una sferzata al male del mondo e aprono alla poesia, come quando Samy, il papà di Tom, che viene da un’esistenza certamente non facile e fa un lavoro certamente poco romantico, dice alla fine che “se avesse avuto fortuna, o meglio, se avesse avuto scelta, avrebbe fatto il poeta. Avrebbe scritto poesie che avrebbero fatto venire la pelle d’oca a chiunque le leggesse. E ne avrebbe scritta una anche per lei, per la ragazzina del piano di sotto, quando aveva tredici anni…”.

 

 


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Alberto Pellegatta - Poesia - Mondadori

L’ombra della salute

Alberto Pellegatta è poeta affermato nonostante la sua giovane età e con L’ombra della salute, Mondadori, 2011, approda alla collana de Lo Specchio, dopo aver percorso una strada che già dalle origini, alla sua prima pubblicazione con LietoColle nel 2002, Mattinata larga, lo presentava come una promessa più che certa. Il primo dato da mettere in risalto è che finalmente una grande casa editrice apre ai giovani così da dar modo all’ingresso di un vento nuovo che si spera porti freschezza ed effervescenza alla poesia contemporanea. Poesia che spesso si arrampica sugli specchi di un canone difficile da cercare e da trovare. Perché spesso si oscilla da un minimalismo ad un massimalismo, da un oggettismo elenchico a uno psicologismo esasperato e decadente, il tutto ormai fuori luogo in una realtà esistenziale come quella odierna nella quale è invece necessario cogliere la complessità del mondo, a fronte di una liquidità culturale esistenziale formale concettuale e sentimentale. Il gioco, come mi piace dire da qualche tempo, è tutto fra una poesia ontica ed una ontologica. E quello che oggi ci si para davanti è per lo più un dettato poetico ontico piuttosto che ontologico, ergo l’approdo nel niente. Nel nihilismo imperversante e corrodente che spesso fa slittare su semplicismi e affettazioni fonetiche semantiche e pragmatiche oltre che pratiche ed estetiche, oggi la poesia ha la necessità di riappropriarsi proprio di quella complessità che fa parte dell’esistenza e che trasla nel logos che la sorregge, o viceversa,e che necessita pertanto di un lavoro sul linguaggio che soltanto uno studio adeguato e una cultura altrettanto adeguata possono dare. Se da un lato il dettato poetico deve essere necessariamente leggero, per non avere la pesantezza formale e concettuale, che introduca a mondi arcadici e di manierismi superati e inconcepibili nel nostro tempo, non può perdere la complessità legata anche alla frammentazione del linguaggio dovuta alle sedimentazioni di settore e non può cadere in ciò che si dà per scontato. Oggi le scienze sono frastagliate e frammentate e gli specialismi anche linguistici non consentono neppure una comunicazione adeguata. Necessario pertanto il tentativo di rimettere insieme le fila del linguaggio per far sì che tutti possano comprendere, se non capire, tutti e tutto, per cercare di approdare a quegli orizzonti di saggezza che oggi paiono perduti. Ebbene, uno dei compiti della poesia dovrebbe essere proprio quello di assumere questa complessità di linguaggio, ma anche di senso dell’esistenza e farne uno dei capisaldi del canone per la poesia contemporanea. Tra i meriti della poesia di Pellegatta mi sembra proprio che ci sia quello di aver assunto la complessità al suo modo di poetare. Il nostro poeta è anche filosofo e critico d’arte e la sua cultura fa sì che il linguaggio poetico da lui adottato si nutra di filosofia (autori di riferimento sembrerebbero essere Hume, l'empirismo in genere, ma anche Nietzsche, e quindi Merleau Ponty e altri, e pertanto la fenomenologia, in particolare per quanto attiene alla percezione, e poi lo strutturalismo, Foucault, Bataille, etc., e soprattutto i pensatori esistenzialisti, penso all’ultimo Pareyson), ma il linguaggio poetico di Pellegatta si nutre anche di scienza, di astrofisica, di medicina, in quella commistione di ritorno unificatrice della lingua a cui dobbiamo necessariamente tendere per spezzare il frammento e la dispersione in gerghi di settore e incentivare la possibilità di comprendere a scanso del capire, pur tuttavia capendo, perchè non ci siano steccati tra culture. La sinestesia del soggetto con gli oggetti circostanti, soprattutto con l'ambiente architettonico urbano e con il mondo dell'arte sono un'altra componente importante del suo dettato poetico. La poesia non può essere letta come un romanzo, ma deve essere letta e riletta per cercare i piani di intersezione legati ad un lavoro di cesello ermeneutico che ad ogni nuova lettura aprano a mondi di senso diversi e diversificati, lasciando intravedere ogni volta uno stupore sempre nuovo. La complessità e la non facilità di primo acchito, che richiede ulteriori ritorni di lettura, lo ritroviamo ne L’ombra della salute. Molto bello l’incipit della raccolta, che gioca con la Salute, la chiesa che contiene i dipinti del Turner, «che si squaglia./ Conosce i vantaggi della morte» e la salute «questo mistero sconcio, meraviglioso/ e, finalmente, senza futuro». Un vero e proprio introibo all’altare dell’esistenza. Ebbene sì, perché alla fine tutta la vita, l’esistenza umana, si gioca in una salute che, per quanto meravigliosa, si risolve e si dissolve nella morte, nella fine che appunto fa ombra alla stessa salute. Il tutto in una dimensione cosmica e cosmologica, nella quale abita l’infinito che risucchia il tempo e lo spazio. Le storie si conglobano annullandosi nelle geometrie dell’universo. Tutto si squaglia (è questo un termine che ricorre sovente, quasi a essere il filo rosso del libro), tutto si liquefa, la dissolvenza sembra essere il leit motiv della vita così come dell’arte, basti vedere gli oli del Turner. Basta osservare Antonio che «cammina piano per guardare le muffe. Ti abita/ ma ha più acqua che anima dentro» per cogliere la liquidità dell’uomo. E vedendo una macelleria siamo davanti alla metafora del disfacimento della nostra carne. Perfino il lampo, che pure è fuoco, è liquefatto. E comunque l’evangelico “Cenere sei e cenere tornerai” è lì a fare da memento: «Sbriciolano, corrompono, depongono./ Alla farina, ognuno alla sua sabbia,/ al mulinello più banale/ ritorna ogni animale. » E in questo heideggeriano “essere per la morte” dell’uomo, il poeta va a concludere il poemetto iniziale su La salute con versi molto toccanti ed efficaci, in un adagio che possiamo definire montaliano a tutti gli effetti, quando dice «… Quindi io/ come prodotto finito, alla ricerca della formula/ amorosa perfetta, del meccanismo terminale». La salute si conclude infine con versi sapienziali nei quali si può scorgere sia una Weltanschauung sia una poetica: «Chi separa e scarta secondo un progetto/ crea esuberi incessanti./ Scriviamo senza calore/non ciò che avreste voluto/ ma quello che non avete/ pensato. Non per riscatto/ ma per vendetta./ Non è mai/ciò che abbiamo scritto.» Nella poesia di Pellegatta sembra di cogliere pertanto un humus esistenzialistico, che coglie molto bene la realtà odierna nella quale l’uomo vive una desoggettivazione in una dimensione oggettistica, nella quale, come dice Guido Oldani, è fatto oggetto egli stesso. In questa temperie non vi è posto per il soggettivismo, lo spiritualismo, il mentalismo, lo psicologismo, ma non vi è più possibilità di essere per lo stesso individuo umano e a maggior ragione per la persona. Ma non c’è spazio allora neanche per la morale, non c’è più etica. E nel mondo odierno caratterizzato dal post-human, sembrerebbe non esserci più neanche l’estetica, ovvero sembrerebbe che il giudizio estetico non abbia alcun significato e utilità, come ritiene Wittgenstein. Non ci resta allora che il semplice e puro sentire, che, come sottolinea Mario Perniola, è “un particolare tipo di esperienza che fa saltare le nozioni tradizionali di identità e alterità: essa consiste nel vedere un’entità che resta immutata ora come una cosa, ora come un’altra /…/ In realtà sono molte le cose che ci danno questa impressione di ambiguità: innanzitutto le opere d’arte…”. Ecco allora quella dimensione impersonale dell’esperienza che destruttura l’ipostatizzazione della soggettività, che mi sembra di ritrovare nei versi di Pellegatta, nei quali mi sembra di cogliere la negazione di un sentire cartesiano, legato alla metafisica razionalista, ma che ha molto a che fare una metafisica dinamica, che accomuna Wittgenstein e Tommaso d’Aquino.

Anche negli altri due poemetti, che fanno parte della raccolta, Secondo appuntamento e Discordanze, vige lo stesso tenore poetico e tra fisicità e metafisicità, nel gioco tra ontico e ontologico, si dipanano le intonazioni di una poesia consapevole del fatto che nella vita tutto si «squaglia», termine che percorre ancora gli spazi del discorso, che rappresentano molto bene la baumaniana liquidità del mondo attuale. Ma se la poesia di Pellegatta ha consapevolezza culturale e scientifica del mondo, non è da meno per quella che è la sua contezza formale stilistica e anche letteraria. Il suo dettato è complesso, ma nello stesso tempo non perde in leggerezza, e si muove vivacemente con padronanza della lingua poetica, che è fredda quel tanto che basta, come pure è capace di accendersi e riscaldarsi, senza cadere nella facile retorica o in una lecita prescrittività.

Per quanto riguarda la collocazione letteraria di scuola, mi sentirei di collocare Alberto Pellegatta nella tradizione tra le più nobili della poesia del Novecento, ovvero sulla linea lombarda, dove si scorge l’influsso di un Sereni, di un Raboni, di un Cucchi, etc. Ma trovo che nella sua elaborazione del linguaggio poetico ci siano anche forti influssi montaliani e vista la sua frequentazione col mondo di lingua spagnola mi sembra di cogliere sfumature della letteratura spagnola e ispano-americana e in particolare l’influsso della poesia borgesiana.

 


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Aa. Vv. - Poesia - Kairòs

Frammenti imprevisti

LA LINEA MERIDIONALISTA DELLA POESIA, IN ANTOLOGIA


Sembra che la poesia all’inizio del secondo decennio del XXI secolo stia rinascendo dalle ceneri del Novecento come l’araba fenice. Dopo un periodo di stagnazione e di incertezza canonica, annichilata nel non-senso della post-modernità, oggi pare che la poesia e il soggetto lirico stiano riprendendo forma e sostanza. Il canone è diventato un problema imprescindibile per chi si occupa di poesia e anche il lettore ha bisogno di una guida per riuscire a orientarsi nell’infinità di libri che vengono pubblicati. Ecco perché in questi ultimi tempi stanno uscendo numerose antologie di poesia. Tra queste vi è il volume “Frammenti imprevisti”, curato dal poeta e critico napoletano Antonio Spagnuolo, che è appena uscito nelle librerie. Sono oltre cinquecento pagine di poesia che si lasciano sfogliare e leggere e assaporare con un tratto “simpaticamente godibile”, come afferma Spagnuolo nella bella introduzione che incornicia e presenta i cinquanta autori antologizzati. Sempre Spagnuolo, nell’incipit della prefazione, afferma che “questa antologia non si prefigge alcun programma di focalizzazione e discussione circa i vari orientamenti stilistici o di creatività, attualmente inseguiti, ma, al di là di suddivisioni critiche e di scelte precostituite, cerca di riunire sotto un ‘tetto comune’ alcuni validi autori che si sono impegnati e si impegnano nel fare poesia oggi”. E' questa un'opera molto interessante e nel mare magnum delle antologie poetiche avrà sicuramente un ruolo del tutto particolare. Sembra di cogliere nel libro un filo rosso, che in qualche modo ironizza con l'imprevista frammentarietà del titolo, subito fugato da quel riferimento di Spagnuolo al “tetto comune”. Perché mi sembra che le poesie raccolte non siano né frammenti né imprevisti, dal momento che il tetto comune e il filo rosso siano rappresentati da una specifica tradizione poetica, rintracciabile nella maggior parte dei poeti antologizzati, che si staglia su quella linea poetica meridionalista e anti-minimalista, di cui Spagnuolo è stato nella seconda metà del secolo passato, insieme a Maffia e a Nastasi e ad altri, uno dei caposcuola, che hanno brillantemente contrastato la linea lombarda della poesia novecentesca. La dimensione ontologica della poesia è, a mio modo di vedere, il dato prevalente di questi "Frammenti imprevisti”, che sovrastano la dimensione ontica di una poesia, che, anche in virtù di questa operazione editoriale, avrà il merito di aver riproposto il problema del canone. Ma non attraverso un discorso meta-poetico, bensì con la poesia stessa. E con la poesia di oltre cinquanta poeti, ormai riconosciuti tali, tra i quali voglio ricordare Umberto Piersanti, Renato Minore, Arnaldo Ederle, Gabriela Fantato, Arnold de Vos, Michele De Luca, Aldo Ferraris, Annalisa Macchia, Ugo Piscopo, Anna Santoro, Giuseppe Vetromile, senza nulla togliere a tutti gli altri che hanno contribuito alla buona riuscita del libro.