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- Letteratura
Poetesse romantiche siciliane
Poetesse romantiche siciliane. Da Rosina Muzio Salvo a Cecilia Deni di Donatella Pezzino Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Questo pensiero, tratto dalla Lettera sull'"umanismo" di Martin Heidegger, si presta molto bene ad esprimere il ruolo che nel lungo Ottocento letterario siciliano ebbero a svolgere le figure di Rosina Muzio Salvo, Concettina Ramondetta Fileti, Mariannina Coffa Caruso, Letteria Montoro, Giuseppina Turrisi Colonna, Lauretta Li Greci, Caterina Furitano, Angela Amato, Cecilia Deni, Maria Ricci Paternò Castello. Ho precisato "lungo" perché di lunga stagione, appunto, si è trattato: in Sicilia, infatti, la temperie romantica si è protratta fino ai primi decenni del Novecento, forse per quello stretto connubio di malinconia e passionalità che la rende affine all'indole locale, e delle donne in modo particolare. Oscillanti tra un intimismo di stampo leopardiano e la volontà di aprirsi ad una società in pieno fermento, queste custodi della dimora dell'essere possono già essere considerate delle femministe ante litteram: danno voce, infatti, alle istanze che nello scorcio del secolo sfoceranno nell'impegno di attiviste come Anna Maria Mozzoni e Maria Antonietta Torriani. E lo fanno - con prudenza, eppure con decisione - attraverso l'arma della poesia. Non è ancora il momento di mettere in discussione quel sistema consolidato di valori nel quale si è state formate, e che non si può quindi abbattere d'un colpo senza sentirsi mancare la terra sotto i piedi. Occorre una rivolta, non una rivoluzione: un movimento "dall'interno", che lotti innanzitutto per una buona cultura per poi insinuarsi, attraverso la scrittura, nelle coscienze di tutte le donne, preparando il terreno alle battaglie future. Così, ogni parola di queste "pioniere" sicule è un invito all'esserci. È un urlo silenzioso, dove l'anima si riversa intera; dove il misogino e il superficiale vedono solo sterile sentimentalismo, e dove invece è racchiuso il germe di un'esauribile ricchezza - intellettiva e spirituale - che trova nel modulo romantico l'humus ideale per fruttificare in pienezza. Il Romanticismo come risveglio In Sicilia come altrove, nessuna corrente culturale e artistica è stata così congeniale alla sensibilità femminile come il Romanticismo. Provvidi erano anche i tempi: i moti risorgimentali e le idee liberali promuovevano un generale risveglio delle coscienze, al punto da favorire il sorgere di una nuova visione paritaria dei sessi, soprattutto in merito all’istruzione e alla crescita intellettuale. A questa visione, le letterate sicule apriranno la strada attraverso una parola poetica in grado di raggiungere alte vette di lirismo senza perdere in equilibrio e spontaneità. Impossibile, nelle voci di poetesse come la Muzio Salvo, la Ramondetta Fileti, la Turrisi Colonna, scindere le molteplici componenti di questo verseggiare capace ancor oggi di emozionare, trascinare, ispirare; nei loro canti, l’amor di patria, la dignità della donna, gli affetti familiari, la natura, la riflessione esistenziale, i travagli più profondi e intimi dell’animo umano sono una cosa sola. Purtroppo, la storia ha consegnato molte di esse all'oblio: a parte qualche eccezione - è il caso di Mariannina Coffa, alla cui divulgazione ha contribuito, ad esempio, l'opera di Marinella Fiume - il Romanticismo delle siciliane attende ancora una vera riscoperta. Caterina Furitano Caterina Furitano nacque a Palermo nel 1860, figlia dell’ufficiale medico Giambattista Furitano e di Concetta Scaglione. La sua famiglia – com'era uso nell’alta borghesia del tempo – teneva regolarmente un salotto letterario presso la sua casa di Palazzo Costantino ai Quattro Canti di Palermo: Caterina crebbe quindi in un clima culturale molto stimolante, che influenzò profondamente sia lei che le sue sorelle Netina e Adele. Iniziò a scrivere versi in tenera età: a 15 anni era già conosciuta e apprezzata anche grazie alla pubblicazione della sua prima raccolta poetica Rose e viole. Primi versi (1875), come dimostrano i frequenti riferimenti di illustri contemporanei. D’ingegno acuto e delicata sensibilità, ispirò diversi poeti del tempo, come Vincenzo Perez e Domenico Milelli, che le dedicarono alcuni aggraziati componimenti: i versi del Milelli, in particolare, ne diedero un’immagine “petrarchesca”, descrivendola bionda e d’animo soave. Dotata di una grande passione per l’arte e le lettere, venne ammirata per la sua raffinata cultura, che ebbe modo di affinare ulteriormente con i molti viaggi in Italia e all’estero. Scrive su di lei Francesco Guardione: “…viaggiando col padre, nel vedere le principali metropoli d’Italia, sentì da fanciulla agitarsi l’amore dell’arte. Bene educata alle lettere, per tempo i più incliti degli studi amarono la fanciulla, che lasciando le inezie e le corruzioni de’ trastulli e del lusso, dedicavasi amorosa agli studi. La benevolenza di accreditati uomini fu sempre a lei di sprone a meglio esercitarsi; e già si possono chiamare, in sì fresca età, maturi frutti i saggi co’ quali è comparsa pubblicamente. In Palermo, che dal nascere rivide nell’adolescenza, la giovinetta è pregiata da’ più colti, e il Perez volle presentarla alla Margherita, che udì i be’ versi d’offerta.” Nel 1876, l’Annuario Istorico Italiano lodò la sua commossa descrizione di Palermo nella poesia Un’ora di veglia. Poco si sa della sua vicenda biografica: solo in alcune poesie di argomento più intimo e personale, come Ad un passero solitario, è possibile ravvisare le tracce di un muto strazio interiore, dovuto forse ad un amore infelice, o al disagio di vivere fra “gente odiosa e trista”. Tutta la poetica di Caterina è permeata di una dolcezza struggente, con una tenerezza per la natura e il creato che è quasi dolorosa; lo stile ha una forte matrice leopardiana. Oltre alle poesie, la produzione letteraria di Caterina annovera alcuni racconti, nonché scritti di interesse storico e patriottico come la Commemorazione redatta in occasione della morte di Isidoro La Lumia (1879). Muore nel 1941. Di lei si conoscono diverse raccolte di versi, tutte anteriori al matrimonio con il pittore Luigi di Giovanni (1856-1938), avvenuto nel 1886. Risale a questo anno un suo poemetto d’occasione, Amore ed Arte, ultima esperienza poetica di lei nota. Alla già citata prima raccolta Rose e viole. Primi versi, seguono Promessa di un ballo (1875), Un’ora di veglia (1877), Il nove gennaio (1878), Addio, Firenze (1879), L’ho riveduta! (1879), il poemetto Rodolfo e Zelmira (1879), Lida (1880). Del 1880 sono anche alcune liriche (come Oltre la tomba e L’Esule) pubblicate sulla rivista “Il mondo giovane”. Ad un passero solitario Bruno uccellino che al fiorir d’Aprile Ogni anno da lontano a noi ritorni, Nella campagna solitario, umile, Traggi della tua vita i più bei giorni. Allor che riede a noi la primavera, E tutto intorno è festa ed armonia, S’ode il tuo canto da mattina a sera Informato a gentil malinconia. E non ti cale se festosi augelli Van gorgheggiando insiem dolci concenti, Non ti lusinga l’allegria di quelli, Ma, pensoso, in disparte osservi e senti. È la tua vita tutta amore e canto, Del mondo non conosce i disinganni, Le ingrate veglie, il disperato pianto, I rimorsi, il terror, l’odio e gli affanni. Non sai le lotte che sostiene il core Allor che avvampa d’un occulto foco, Nella memoria d’un perduto amore L’esistenza si strugge a poco a poco. Quando m’aggiro sconsolata e mesta, E alcun conforto cerco al dolor mio Io t’invidio augellin della foresta, La calma invidio che ti diede Iddio. Più che il trillar di vispa capinera M’è dolce il melanconico tuo canto, E se mi vien tra l’ombre della sera, Sento che al ciglio mi si affaccia il pianto. Quante volte con gli occhi io t’ho seguito Quando a volo pel Ciel l’ali spiegavi, E, poi che il guardo mio t’avea smarrito, Udir pareami ancor che gorgheggiavi. Pari alla tua vorrei la vita mia, Vorrei trarre solinghi i più begli anni, Lacrime, amor, silenzio e poesia, Sollevarmi potrian da tanti affanni. Ed il Cielo lo sa quanto ho penato E quanti ho già passato amari giorni! Bruno augellin, sovente io t’ho chiamato, Ma, se non riede April tu non ritorni! Andarmene vorrei sola e romita, Lontana da una gente odiosa e trista; Forse più bella mi parria la vita Lungi dal mondo ove sarei non vista. Amar sempre vorrei gli uccelli e i fiori La bionda luna, le lucenti stelle, Quella scena di vividi colori, Quell’armonia di cento cose belle. Sciogli il tuo canto, o povero augellino, Canta d’amore fin che n’hai desio, Segui sempre soletto il tuo cammino, Dolce è la calma che ti diede Iddio. Letteria Montoro Letteria Montoro nacque a Messina il 19 aprile del 1825. Diverse fonti coeve ne lodarono la fine bellezza e la spiccata intelligenza; ma Letteria fu soprattutto una donna politicamente impegnata, liberale convinta e dotata di una personalità forte, combattiva e spesso ribelle, caratteri che mal si accordavano al contesto culturale e sociale – fortemente maschilista – nel quale viveva. Così recitava il testo dell’epitaffio posto sulla sua tomba al cimitero monumentale di Messina: Qui per volere del Comune/ l’ala dell’oblio non graverà sulle ceneri/ di LETTERIA MONTORO/ che l’anima forte ed eletta/ trasfuse in versi soavii ed in prose eleganti/ donna di spiriti liberali/ confortò i fratelli che combattevano/ per la redenzione d’Italia/ li seguì nell’esilio/ e ad essi tornati in patria/ sacrificò cristianamente la vita/ mirabile esempio di fraterno affetto!/ 19 aprile 1825 – 1 agosto 1893 Oggi questo epitaffio non esiste più: la lapide che lo conteneva, infatti, è andata distrutta durante il terremoto del 1908. Ma anche la memoria di Letteria ha subito un triste destino: caduta progressivamente nell’oblio dopo la sua morte, la poetessa siciliana è oggi quasi completamente dimenticata ed è solo grazie all’impegno di studiose come Daniela Bombara se abbiamo la possibilità di riscoprirla. Figlia di un esule per motivi politici, la giovane Letteria partecipò attivamente ai grandi eventi risorgimentali: durante i moti del 1848 collaborò con il settimanale “L’aquila siciliana” e fornì il suo sostegno ai patrioti che combattevano in prima linea. Dopo la conclusione dei moti, la poetessa siciliana scelse volontariamente di seguire i suoi fratelli nell’esilio. Questa scelta non era dettata solo da motivi di generosità, affetto o coerenza morale: in quell’epoca, infatti, la donna esule svolgeva spesso una preziosa opera di mediazione tra i proscritti politici e le istituzioni governative. E’ quindi probabile che Letteria abbia approfittato del confinamento per proseguire la sua attività in favore dei patrioti. Tornata a Messina, si assunse l’impegno di curare da sola la sua numerosa famiglia sollevando suo fratello sacerdote da diversi compiti gravosi; nonostante ciò, riuscì anche a dedicarsi alla scrittura. Dal 1850 cominciò a pubblicare poesie, romanzi e novelle, scritti nei quali trasfondeva i moti del suo animo e le tracce della sua vicenda autobiografica e che riscossero un immediato successo di pubblico e critica. Articolate in un’ampia varietà di generi – civile, patriottico, lirico, d’occasione – le poesie di Letteria destarono interesse soprattutto per la loro forte impronta leopardiana: in esse, la giovane poetessa siciliana cercò di unire le sue spiccate attitudini speculative ad uno struggente lirismo, con frequenti richiami al lessico e alle tematiche tipiche di Leopardi. Tuttavia, il suo contatto con il pensiero leopardiano restò perlopiù limitato alla visione del dolore come elemento costitutivo della vicenda umana, un tratto che ella sentì in forte sintonia col proprio vissuto e col proprio sentire. Nella poetessa siciliana, però, questo dolore trova una via d’uscita nella fede religiosa e nella convinzione dell’esistenza dell’anima, mentre le restano estranei il concetto di “natura matrigna” e il laicismo. Il pensiero dell’anima (1885), una delle poesie più famose e apprezzate della Montoro, costituisce sicuramente la cifra più rappresentativa di questo suo “leopardismo minore”. Nonostante la saltuarietà con la quale Letteria, assorbita dagli impegni domestici, potè dedicarsi all’attività letteraria, contemporanei del calibro di Giuseppe Pitrè tributarono ai suoi versi un’altissima considerazione, tanto da affiancarli alle opere di altre sue grandi conterranee quali Mariannina Coffa, Giuseppina Turrisi Colonna, Rosina Muzio Salvo e Concettina Ramondetta Fileti. Fra i suoi scritti in prosa, fu particolarmente apprezzato il romanzo storico Maria Landini: considerato la sua opera maggiore, è ricco di spunti autobiografici, a cominciare dal carattere della protagonista. “L’autrice” scrive Daniela Bombara “propone qui un’eroina fascinosa e combattiva, che cerca di affermare la propria volontà e libertà di scelta in un contesto sociale degradato, corrotto e violento.” In questo lavoro, Letteria sfrutta gli strumenti del romanzo “misto di storia e di invenzione” per dar vita ad una vicenda avvincente e scorrevole mostrando, allo stesso tempo, la reale condizione della Sicilia del suo tempo: vi risalta la marginalità culturale e sociale dell’isola rispetto al resto d’Europa nonostante i tanti fermenti culturali e artistici, ma soprattutto la condizione femminile vista da una singolare angolazione, quella di una donna – Letteria, appunto – soffocata da un ambiente misogino e restrittivo, che non le perdonava il fatto di non essere sposata e di aver preteso di fare della scrittura uno strumento di emancipazione e di legittimazione sociale. Dopo l’Unità d’Italia, la poetessa siciliana vide pubblicati i suoi scritti sul periodico genovese “La Donna”; collaborò inoltre alla Strenna femminile dell’Associazione filantropica delle Dame Italiane (1861), alla raccolta Poesie di illustri italiani contemporanei (1865), alla Strenna veneziana (1866) e al volume Candia, pubblicato a cura del Comitato Italo-Ellenico di Messina (1868). Nel 1865 fu l’unica poetessa messinese chiamata a commemorare il centenario di Dante: in questo evento, la città di Messina riunì i migliori intelletti della città fra letterati e docenti universitari. Per l’occasione, Letteria scrisse un componimento intitolato Pel centenario di Dante Alighieri, sostenendo la tradizionale immagine risorgimentale del Dante prefiguratore dell’Unità d’Italia. Morì nel 1893. Il pensiero dell’anima O peregrina Idea, dove t’aggiri o celi lungi dal guardo mio? Qual erma sede solo per te creata, o quale avventurata dell’immenso universo ascosa parte di tua presenza bei? Dimmi se vera è tua sostanza in questo moto eterno dell’essere infinito, o vagheggiata invano dal pensiero ognor tu fosti, o sei? Qual nell’umana o celeste famiglia qual beltade alla tua si rassomiglia? Te scopo de la vita, quando d’essa m’avvidi, idoleggiai. Per te la terra, il ciel, l’astro del giorno, e l’intera natura benedissi. Come il cor ti sentìa! quali diletti l’immagin tua mi porse! Che speranze, che affetti allor che per le stelle errava il guardo, o sulla queta aurora pien di speme posava, o pure il piè vagava per li fioriti campi, per le amene convalli e per deserti calli; o all’ora del meriggio sedendo all’ombra d’inchinate piante, e quell’immenso mare e quei monti remoti, quell’etere profondo, sede di mondi ingnoti, a meditar mi stava!… Quale, oh quale apparìa dentro te questa vita all’alma mia!… Ma presto, ahi presto il mondo al cor mancava, eppure allor non vinta d’incontrarti sperai per nove regioni, fra novi abitatori, di cui meco sovente ragionando venivi; e agli astri più lontani di te pensando ognor levai la mente; e nel bruno cammino ove lenti volveansi i giorni miei, al core ansio del vero era luce e speranza il tuo pensiero. Ed or benchè deserta del caro imaginar, di dolci inganni, benchè sovente i crudi lampi del vero sostener non osi, benchè nel fior degli anni, quando al mortal sì bella appar la vita, il dolore mi cinga atra ghirlanda, e di morir sospiri, e desolato ovunque il guardo io giri su quest’orrida landa, ove alla mente e al cor nulla risponde, tu, sacra idea, ai moti suoi primieri ritorni il petto mio; tu supremio desìo, primo sospiro d’ogni cor gentile, nell’estasi del pianto sol tu più cara del morir mi sei. Anzi qual io mi son conscia dei mali, più sento che a mirare le tue vere sembianze, imprenderei nuovo calle di pene nella terra non sol, ma in quanti avviva moti natura, se pur vita è in essi più misera di questa, che a noi dava il destino e più funesta. Se d’acquetar quest’alma in tua diva beltà non diemmi il fato, che troppo inver felice, troppo più che non lice a mortale natura il viver fora a tanto ben serbato, pure alla dolce immago perennemente avvinto protende i moti suoi l’avido petto; di sovrumano affetto s’irradia l’alma allor che più t’affisa, se tempestosa freme, se abbandonata geme per forza avversa che il volo le serra, vita immortal, tua voce le ragiona e dal limo la scuote e la sprigiona. Lauretta Li Greci Nata a Palermo il 15 novembre 1833, Lauretta li Greci era poco più che una bambina quando cominciò a scrivere e pubblicare versi. Il suo precoce talento poetico le procurò un’immediata fama, insieme all’apprezzamento per la finezza stilistica dei versi e per la dolcezza malinconica delle riflessioni di cui si facevano portavoce. Nonostante la giovanissima età, Lauretta scriveva soprattutto con il pensiero rivolto alla morte: la giovinetta era infatti ammalata di tisi e la consapevolezza della fine imminente non poteva che permeare in modo significativo tutta la sua scrittura. Adombrandone ogni parola e ogni afflato, la morte fu sempre presente nei suoi versi e li velò di una tenerezza cupa e struggente: un rimpianto che fu, insieme, accorato e rassegnato. Lauretta Li Greci morì, non ancora sedicenne, il 3 luglio 1849. Dotata di una sensibilità non comune e di una cultura notevole per la sua giovane età, la poetessa lasciò nella poesia femminile dei suoi tempi un’impronta profonda, tanto da essere ricordata a lungo nei decenni successivi alla sua morte. A compiangerne la perdita furono tanti intellettuali e poeti, siciliani e non; un omaggio particolarmente affettuoso le venne tributato da Rosina Muzio Salvo, che le dedicò il celebre carme In morte di Lauretta Li Greci. Il poeta Ettore Arculeo scrisse di lei: “La sua vita fu quanto il crepuscolo di un giorno e il suo passaggio su questa terra fu come il trasvolare di un angelo fra gli uomini; ella non lambì il lezzo della terra e, fortunata, non arrivò a comprenderne l’impurità e la sozzura“. Ancora oggi è possibile ammirare il monumento a lei dedicato, opera dello scultore Rosario Anastasi, nella chiesa di San Domenico a Palermo, di fronte alla tomba di un’altra illustre poetessa, Giuseppina Turrisi Colonna. Dimenticata e molto difficile da reperire, invece, è la sua produzione poetica. I versi che seguono sono contenuti in una silloge poetica dell’amico Girolamo Ardizzone, che così la ricorda: “Conobbe il greco, il latino, il francese, lasciò molte poesie inedite, fra le quali parecchi frammenti di una novella in versi sciolti, Giovanna Greij, e alcune traduzioni di Saffo e di Simonide che furono da me pubblicate nella Rivista Scientifica Letteraria ed Artistica per la Sicilia, anno 1833. Il suo monumento sorge nella chiesa di San Domenico, rimpetto a quello dell’ illustre poetessa Giuseppina Turrisi Colonna, della quale un anno innanzi aveva pianto in dolcissimi versi la immatura perdita.” E quella dolce speme, che risplende Qual iride di pace oltre l’avello, Mi conforta sovente in sulla terra, Ov’ io languo qual fior, che innanzi sera Piega le foglie. Nel materno tetto In cui vivo solinga, a me dischiusi Fur dell’arte i misterij e l’armonia Del bello intesi, che a profano orecchio Risonar non può mai; nella celeste Luce del vero s’ispirò la mente, E ignoto spirto, ch’io comprendo ed amo. Su di un raggio di stella a me discese: « E, prendi egli mi disse, o mia diletta, Prendi quest’ arpa che dal ciel ti reco Messaggiero di Dio; ma casta e pura Qual da me la ricevi ognor la serba! » E tentai quelle corde, e dolci suoni Ne trassi, amor cantando, e fede, e speme, Unica meta coi l’uman pensiero Negli affanni vagheggia e nel dolore. Or muta è l’ arpa: dal mortai riposo Chi destarla potrà ? qual man rapirle Nuovi concenti? Tutta in me già sento Mancar la vita; più non m’ arde in petto L’ immensa, arcana, irresistibil fìamma, Che a cantar m’incitava. Eppur sovente In quell’ ore solinghe al pianto sacre, Rammento i dì felici, in cui vegliando Al fioco lume di notturna lampa Educava la mente a nobil’opre; E del cieco di Scio negli immortali Canti, e di Saffo nelle ardenti note lo m’ ispirava. La magnanim’ ira Dell’esul ghibellino; il casto amore Del cantor di Vaichiusa; il rio destino Del misero Torquato, e il tardo alloro Che la sua coronò gelida fronte; Di Gaspara gli affanni e il disperato Amor, che innanzi tempo a lei dischiuse L’avello ; di Vittoria il nobil core, Ed il casto da lei vedovo letto Lungamente serbato; ahi tutto allora Mi destava nel cor sublimi sensi ! E salve, io ripetea, salve o d’Italia Illustri figli, che in perenne lotta Colla sventura, intemerata fama Serbaste e nome altero! Ahi quante volte Brancolando cercai dentro le vostre Tombe quel foco animator, che i vostri Petti infiammava! ahi quante volte attinsi Da voi nova virtude e forze nove! Dalla Terra del sol, dalle ridenti Prode che bagna il limpido Tirreno A voi mando un saluto! Oh se potessi A voi congiunta nell’ eterno Amore, Inebbriarmi, errar di stella in stella. Tutta goder quella suprema, immensa Felicità, che invan si cerca in terra; Quanto lieta sarei! ma forse ancora Mi rimane a soffrir; forse vicino Non è quel giorno, in cui, dal suo terreno Velo disciolta, alle celesti sfere Spiegherà la mia stanca anima il volo! Cecilia Deni Cecilia Deni nacque a Militello in Val di Catania nel 1872. Fin da giovanissima si distinse per le sue spiccate doti intellettuali e per la sua delicata sensibilità poetica: con il suo primo volumetto di poesie Primi canti, pubblicato a soli 18 anni, Cecilia attrasse l’attenzione di Mario Rapisardi che ebbe per lei parole di elogio. Ottenuto il diploma magistrale a Catania nel 1890, si laureò a Roma nel 1894 con il massimo dei voti in Lingua e Letteratura Italiana. Tornata in Sicilia, ottenne subito la cattedra di lettere italiane alla Regia Scuola Normale “Giuseppina Turrisi Colonna” di Catania; successivamente, dal 1916 al 1932, ebbe l’incarico di Preside della Scuola Normale “Regina Elena” di Acireale, di recente fondazione. Alla professione di educatrice, Cecilia affiancò una fiorente attività letteraria che si espresse nella pubblicazione di numerose raccolte di poesie, nella stesura di un poema ( l'Alberto, 1922), in collaborazioni con giornali e riviste e in testi di critica e storia della letteratura. Fra i suoi saggi più importanti si ricordano La donna nella poesia del Medio Evo, Il pessimismo nei poeti italiani precursori di Leopardi, Le donne del romanticismo, I Madrigali di Mario Tortelli e I sonetti di Vittorio Alfieri. Non mancò in lei l’interesse per la cultura e il folclore di Sicilia, soprattutto in merito ai canti popolari e alla poesia dialettale: a queste tematiche Cecilia dedicò diversi studi, che culminarono nella pubblicazione dei saggi “Canti di popolo in Sicilia” e La poesia popolare e i poeti dialettali in Sicilia. A questi scritti si aggiungono due raccolte di favole e la bozza manoscritta di un romanzo rimasto incompiuto. La sua vasta e articolata cultura riscosse l’ammirazione dei contemporanei; ebbe contatti con i più grandi letterati del tempo (Ada Negri, Verga, Capuana, Carducci, Martoglio, solo per citarne alcuni) con i quali intrattenne rapporti di amicizia e di corrispondenza. Oltre che nell’attività di letterata, Cecilia fu molto attiva dal punto di vista umano e assistenziale: nel 1909 fu una delle fondatrici della sezione catanese dell”Unione Femminile Nazionale”, un’associazione benefica a favore dell’infanzia, della famiglia e della donna. Morì nel 1934. La Cecilia Deni poetessa ci ha lasciato in tutto sette raccolte: la già citata Primi canti (1890), Verso l’erta (1900), Echi primaverili (1901), Idilli e Scene (1903), Idillj (1912), Patria (1916) e Liriche (1934). Composta da pensieri, prose e liriche è l’opera Adorazione, che Cecilia pubblicò nel 1907 in memoria del marito. Per la freschezza dello stile, la grande forza espressiva e la classicità delle forme, i suoi versi sono stati spesso accostati a quelli di Ada Negri. Foglie e speranze Riposan nella quiete altissima del bosco gli alberi sonnolenti, nel plenilunio mite, si specchiano nel lago, come in un cielo fosco, i tremolanti rami. Le foglie scolorite van per l’acque vagando, simili a coppe d’oro, con dolce ondulamento, staccante al ramo verde della quercia superba, del faggio e dell’alloro. E l’avido mio sguardo la debil traccia perde del cammin fantastico! Io penso alle divine speranze che del ramo fiorente di mia vita si staccano ad ogni ora e in mar senza confine, il funebre viaggio compion nella infinita alta quiete del tempo… Mentre nevica La neve cade a fiocchi, e il maestrale monotono ribatte alle vetrate; per il deserto e squallido viale migran l’ultime foglie abbandonate. Qualch’esule augellin le trepide ale sulla finestra posa affaticate, mentre dormon sul bruno davanzale, l’ultime roselline scolorate. Cade la neve; il grido di dolore della campagna desolata e bianca ripercuotersi sento in fondo al cuore e provo un’ansia trepida e segreta… e tu non ‘l sai, ma a quest’ anima stanca, tu sol puoi dare i sogni di poeta. Rosina Muzio Salvo Rosina Salvo nacque nel 1815 a Termini Imerese, in provincia di Palermo. La morte della madre, avvenuta quando lei era appena dodicenne, la avvicinò moltissimo al padre, un ufficiale filomonarchico ma aperto alle nuove idee. Rosina manifestò ben presto una grande simpatia per le correnti liberali, passione che condivise con suo fratello minore Rosario, il quale dovette subire l’esilio a causa del suo impegno attivo in favore della causa unitaria. L’insofferenza verso il bigottismo della religione e l’ottusità delle classi conservatrici spinsero la giovane Rosina ad affrancarsi dai canoni dell’educazione tradizionale e a scrivere i suoi primi versi satirici. Ciò nonostante, non le riuscì di ottenere la formazione culturale che desiderava: la sua istruzione fu infatti frammentaria e poco organica. Inizialmente fu affidata ai nonni, persone di raffinata cultura: successivamente entrò come educanda in un chiostro, ma il suo spirito ribelle la rese presto invisa alle monache, e dovette uscirne dopo qualche anno. Il padre assunse allora una precettrice francese, con la quale però Rosina non fece alcun progresso. Queste vicende frustrarono l’indole della fanciulla, naturalmente desiderosa di apprendere: per questo, l’importanza di una buona educazone restò sempre un punto focale del suo pensiero. Rosina, non ancora diciottenne, sposò nel 1833 il barone Muzio Ferrero, di otto anni più vecchio di lei, e si trasferì con lui a Palermo. I due coniugi avevano interessi diversi, ma il barone non ostacolò mai nè le letture “sovversive” di Rosina, nè la sua inclinazione poetica. Così, dopo il matrimonio, la giovane riuscì a colmare alcune lacune della sua istruzione: apprese, fra l’altro, i fondamenti della metrica e ciò le fu di grande sostegno nel suo processo di maturazione artistica e intellettuale. Rosina compì i suoi studi con grande difficoltà, a causa delle sue quattro gravidanze e dello strazio per la scomparsa prematura di tre dei suoi figli. L’unica figlia sopravvissuta la seguì a Termini Imerese, dove decise di tornare nel 1843 in seguito alla separazione dal marito. La poetessa continuò, comunque, a frequentare i salotti palermitani e in particolare gli intellettuali legati ai moti risorgimentali. Le rivolte del 1848 rappresentarono una svolta nel percorso di Rosina: fu in questo periodo critico, infatti, che la nobildonna ebbe l’idea di promuovere una delle prime associazioni femminili siciliane, la cosiddetta “Legione delle pie sorelle”. Questa società organizzava con programmi precisi e con una ferrea regolamentazione gruppi di donne dedite ad opere di carità e di insegnamento fra le classi più bisognose. In particolare, la Legione si assumeva il compito di impartire un’educazione di base alle donne del popolo. Rosina, infatti, considerava l’educazione il primo strumento di emancipazione della donna dalla povertà e dalla ancestrale condizione di subalternità. L’associazione aveva un suo giornale ed era strutturata con un sistema gerarchico quasi militare: al suo interno, Rosina ricopriva l’incarico di segretaria. Per sostenere economicamente le loro attività, le associate si “autotassavano” e raccoglievano fondi per aiutare i poveri, le vedove e gli orfani e per mantenere l’istituto dove venivano istruite le fanciulle di condizione modesta. La Legione delle Pie Sorelle ebbe, purtroppo, una vita molto breve: durò infatti meno di sei mesi. L’entusiasmo iniziale che aveva animato le “sorelle” si esaurì in poco tempo: forse nessuna delle associate aveva davvero una forte motivazione, o più semplicemente i tempi non erano ancora maturi. Fu però un esperimento che aiutò le donne a prendere consapevolezza e aprì la strada a futuri sviluppi. Negli anni Cinquanta dell’Ottocento, Rosina fu coinvolta in un’intensa attività di propaganda clandestina a favore dei patrioti mazziniani e rischiò più volte di essere scoperta e arrestata: la sua cerchia si occupava di diffondere pamphlets e di mantenere i contatti fra i rivoltosi. Dopo l’Unità, però, l’impegno politico della poetessa fu sempre meno incisivo, fino a lasciare definitivamente il posto ad interventi di carattere solo letterario e pedagogico. Ciò fa supporre che, come tantissimi altri siciliani, anche lei fosse stata amaramente disillusa dagli avvenimenti post-unitari. Morì nel 1866. La produzione di Rosina Muzio Salvo annovera prose e poesie: particolare fortuna ebbero i romanzi Adelina (1846) e Le due contesse (1865). Scrisse versi dal 1845 al 1869, pubblicandoli su riviste e raccolte. Romanza Ahi quante volte all’aura, Che mi lambiva il viso Dei tuoi sospir , conquiso Balzava forte il cor, E d’ogni cura immemore Viveva per l’amor! Nei lumi tuoi specchiandomi, L’immago mia vedea, Ed ebbra a te dicea: « lo son felice appien. » Vidi mia viva immagine Incisa nel tuo sen…. Ma assisa sotto il salice, Quando dicesti: « Addio! » La terra a me spario, Sugli occhi scese un vel: Quindi gli apersi…. al misero Ch’è mai la terra, il ciel? Giuseppina Turrisi Colonna Giuseppina Turrisi Colonna nacque a Palermo il 2 aprile 1822, secondogenita del barone di Buonvicino, Marco Turrisi Colonna, e della nobildonna Emilia Colonna Romano. Fu sempre molto legata alla sorella maggiore, la pittrice Annetta, di due anni più grande di lei. Giuseppina crebbe in un clima familiare sereno e rispettoso delle sue inclinazioni, come di quelle di sua sorella e dei suoi tre fratelli Nicolò, Giuseppe e Antonio. La stessa madre, donna di raffinata cultura e di larghe vedute, incoraggiò, in particolare, il talento artistico delle figlie ed il loro sentimento patriottico. Mentre Annetta mostrava una spiccata propensione alle arti figurative e pittoriche, Giuseppina, fin da giovanissima, rivelò una eccezionale attitudine alla poesia. Giuseppina ed Annetta ricevettero quindi una scrupolosa educazione ed una accurata istruzione: a tale scopo, i genitori le affidarono a maestri di grande levatura culturale. Molto peso sulla formazione delle due ragazze ebbero a questo proposito, le lezioni di Giuseppe Borghi, in seguito alle quali Giuseppina compose i suoi primi Inni sul modello di quelli manzoniani. Ad appena 14 anni, la poetessa mostrava già di possedere talento ed una forte personalità: i suoi componimenti, infatti, erano ben lontani da qualsiasi sentimento di cristiana rassegnazione. La nobile giovinetta preferiva raccontare, con una passione vibrante, di Giuditta liberatrice del suo popolo, anticipando quello che sarebbe diventato poi uno degli aspetti fondamentali della sua poetica: il ruolo delle donne nella liberazione della Sicilia dal giogo straniero e nel processo di unificazione italiana. In questo senso, Giuseppina Turrisi Colonna può a buon diritto essere considerata una precorritrice del femminismo. Così, maturando nel suo intimo una poesia “eroica” e con un’epica tutta al femminile, Giuseppina rifiuta di tradurre Anacreonte perché troppo delicato e preferisce i tormenti di Byron, il suo coniugare assieme poesia e vita da immolare sull'altare della libertà. Nel 1841, a soli 19 anni, pubblica il suo primo volumetto di poesie. È un momento molto delicato: Palermo, recentemente colpita dal colera, è in preda alla più cruda desolazione. I versi servono a Giuseppina per continuare a guardare avanti, e a continuare a sperare in un futuro migliore per il suo popolo. La sua poesia è tutta calata nel suo tempo: romantica nei temi, nello stile, nella sensibilità. Fra i suoi modelli, però, troviamo anche grandi poetesse del passato, in particolare Gaspara Stampa e Vittoria Colonna: in esse, infatti, rifulge già l’ideale di una femminilità attiva e consapevole, nella quale Giuseppina si ritrova appieno. Lei, infatti, scrive per tutti ma soprattutto per le altre donne, incitandole a reagire con forza, coraggio e tenacia: tre virtù tipicamente femminili, da sempre al servizio della famiglia e della patria intera. Di lì a poco, Giuseppina comincia a scrivere articoli sul polemico giornale palermitano “La ruota” e nel 1846 trascorre l'estate a Firenze, dove con Le Monnier pubblica un secondo volume di poesie molto apprezzato dai critici. È fra i primi a superare il concetto limitante di “patria siciliana” e continua a rivolgersi alle donne, da cui attende un risorgimento morale affinchè possa realizzarsi quello politico. E sogna un'Italia unita, ma non ad opera del papa: secondo lei, infatti, l´Italia non può rinascere «nelle tenebrose sale del Vaticano». Nel 1847 Giuseppina sposa il suo grande amore: è il principe Giuseppe Galati De Spuches. Sembra quindi attenderla una lunga vita di successi, sia artistici che familiari. Ma la sua felicità è di breve durata: nel 1848 muore di parto, a soli tre giorni di distanza dalla sorella Annetta (morta di tisi). La poetessa riposa nella bellissima chiesa di san Domenico a Palermo. Di lei ci restano tanti ritratti dipinti dall’amatissima sorella, dove attraverso la bellezza del volto traspare l’indimenticata grandezza del suo animo. La sera Oh bella Sera ! Più soave splende Il firmamento al pallido chiarore Di tremolanti stelle, che vestito De’ raggi vividissimi del Sole, Come è più bel di donna il caro sguardo, Se furtiva d’amor lacrima il veli. È pei felici del mattin sereno La luce e il moto: per gli oppressi, il vasto Silenzio della Sera, allor che spira Sì placida mestizia il bianco volto Della placida Luna ; è per chi sente Del delitto l’ Erinni e del rimorso La truce interminata ombra di notte. — Me ispira il lume d’amorosa stella, E l’interrotto suon della campana Che parmi dir: Prega agli estinti pace, Ai cari estinti che si amasti un giorno Ed or d’affetto e di beltà son nudi; Prega per loro ed a morir t’appresta ! Mariannina Coffa Caruso Mariannina Coffa Caruso nacque a Noto il 30 settembre 1841. Il padre, stimato avvocato, fu un patriota attivo nelle rivoluzioni del 1848 e 1860: da lui, Mariannina mutuò quel profondo e acceso “amor di patria” di cui sono pervasi tanti suoi componimenti. Inoltre, fu proprio lui a incoraggiare, per primo, le straordinarie doti della sua “bambina prodigio”, conducendola fin dalla più tenera età nei salotti e nelle accademie: qui, Mariannina improvvisava versi estemporanei fra lo stupore e l’ammirazione generale, dando prova di un talento precoce e di una sensibilità non comune. A soli 17 anni, faceva già parte di diverse accademie prestigiose, come quelle degli Zelanti di Catania e dei Trasformati di Noto. Educata dapprima in collegio e poi sotto la guida di un precettore, apprese versificazione e francese. Per contenere il suo temperamento passionale, il padre le scelse come precettore un canonico, così da indirizzarla verso temi di carattere religioso: tuttavia, la sua scrittura resistette a qualsiasi tentativo di controllo, e restò di forte impronta romantica. Ancora giovanissima, la poetessa si innamorò, ricambiata, del suo maestro di pianoforte, il venticinquenne Ascenso Maceri. I genitori, però, le avevano trovato il classico “buon partito” in Giorgio Morana, un ricco proprietario terriero di Ragusa. Ascenso le propose di fuggire insieme: nonostante l’amore profondo che provava, Mariannina non ebbe la forza di lottare contro il volere dei genitori e si piegò al matrimonio di convenienza. Ascenso non glielo perdonerà mai. Dopo le nozze (1860), la Coffa Caruso si trasferì a Ragusa, dove condusse un’esistenza triste e opprimente. Il marito era spesso assente da casa a causa dei suoi numerosi impegni politici (era il sindaco della città); in più, Mariannina doveva sopportare l’ostilità del suocero, un uomo gretto e pieno di pregiudizi che la criticava aspramente, ritenendo la cultura – e soprattutto la scrittura – un’attività scandalosa, assolutamente non adatta ad una donna perbene. Per evitare discussioni, l’autrice era costretta a leggere e a comporre nottetempo, di nascosto. Mariannina era fragile e delicata non solo nell’animo, ma anche nel corpo: le gravidanze, la conduzione della casa, la continua pressione psicologica a cui era sottoposta e il dolore per la morte di una figlia finirono per indebolirla, intaccando pesantemente la sua salute. A ciò si aggiunse la ripresa dei contatti con Ascenso, con il quale tenne per un certo periodo una fitta corrispondenza. Questo evento avrebbe dovuto rappresentare un conforto alla sua vita tormentata; invece, le diede nuove amarezze, perché l’amato non perdeva occasione per recriminare sul passato. Mariannina tentò anche di incontrarlo, in segreto, a Ragusa: ma lui non si presentò, ponendo fine a qualsiasi possibilità di riappacificazione. Dopo questa delusione, Mariannina si gettò a capofitto nella sua “doppia vita” di madre di famiglia e poetessa. Si iscrisse a diverse accademie e collaborò con riviste letterarie di tutta Italia; intrattenne rapporti epistolari e di amicizia con artisti e letterati (fra cui Mario Rapisardi, Giuseppe Macherione e Lionardo Vigo). I suoi ideali romantici e patriottici, uniti alla crescente insofferenza verso una società ipocrita che sminuiva l’intelletto, i valori dello spirito e soprattutto le capacità della donna, la avvicinarono ad alcune logge massoniche. L’amicizia con il medico omeopata Giuseppe Migneco la iniziò allo spiritismo e al sonnambulismo, pratiche con le quali sperava di curare i mali del fisico e della psiche. Col passare del tempo, la sua poesia inasprì i toni di denuncia verso le convenzioni sociali del suo tempo, alle quali venivano quotidianamente sacrificati gli affetti più sacri. Negli ultimi anni, l’infelicità e i rimpianti la portarono a nutrire un sordo rancore contro i genitori e i parenti, per averle impedito di vivere liberamente la sua vita e per la spietata insensibilità manifestata in tante occasioni. La sua decisione di lasciare il marito aggiunse nuovi motivi di attrito e di rancore: preoccupati per lo scandalo, infatti, i familiari le voltarono le spalle, abbandonandola al suo destino durante la malattia che doveva portarla alla morte. Mariannina si spense a Noto il 6 gennaio del 1878, a soli 36 anni. Apprezzata dai suoi contemporanei che la chiamarono con ammirazione “Capinera di Noto” e “Saffo netina”, la Coffa Caruso è stata rivalutata ulteriormente negli ultimi anni, grazie a una più ampia diffusione delle sue opere e agli studi che le sono stati dedicati. I suoi versi, tecnicamente raffinati e al tempo stesso ricchi di una passione vibrante, hanno delineato intorno alla sua figura un’aura di “maledettismo” che contrappone alla Mariannina giovane, romantica e ingenuamente animata da un caldo afflato patriottico la Mariannina rabbiosa, sofferta e disillusa che emerge soprattutto nelle opere più mature. Una voce che si ribella, quasi con violenza, all’aridità sentimentale e intellettuale della buona società borghese del periodo post-unitario e soprattutto alle regole assurde imposte alle donne, costrette in un ruolo che spesso le soffoca e le mortifica. La potenza della donna A te la voce dell’ amor fu data, A te la gloria, l’ armonia, l’ affetto, Quando d’arcana speme inebriata, Più sublime ti fai d’ ogni altro obietto. E allor che di splendore irradiata La bella chioma ti discende al petto E di virtù favelli… oh, in te traslata Veggio la possa dell’ eterno Detto! E nei rai, nella voce, e nel sorriso Fulge il gaudio di Dio che ti feconda, Che congiunge la terra al paradiso! Donna, che sei tu dunque?... e Vita, e Morte. . . E spesso adduci alla beata sponda, E sovente del Ciel chiudi le porte! Concettina Ramondetta Fileti Considerata fino ai primi decenni del Novecento una delle più illustri poetesse d’Italia, Concettina Ramondetta Fileti (Palermo, 1829-1900) manifestò fin da giovanissima uno spiccato spirito patriottico. Di nobile famiglia (il padre era Francesco Sammartino Ramondetta dei duchi di Montalbo), partecipò attivamente al clima risorgimentale non soltanto con i suoi scritti dichiaratamente antiborbonici, ma anche con intrepidi atti di ribellione: nel 1849, non ancora ventenne, fuggì di casa per andare a scavare a Sant’ Erasmo i fossati che avrebbero dovuto ostacolare il rientro delle truppe borboniche. “Esitai al pensiero di mia madre” raccontò in seguito ripensando a quell’evento” ma mi feci coraggio all’idea che la patria vuol questo servizio da me; e la patria è pur madre: voliamo!” Si sposò nel 1850 con il cavalier Domenico Fileti, fu madre di otto figli ed ebbe una vita familiare serena e appagata. Dopo l’Unità d’Italia, le sue poesie smisero di cantare il sentimento patriottico per concentrarsi proprio sugli affetti domestici: fu il periodo artistico più intenso della sua vita, denso di tenere composizioni molto apprezzate dai critici e dai letterati del tempo. “Poetessa dal core materno” la definì l’importante letterato Ugo Antonio Amico, che nel 1906 scrisse riguardo alla sua poesia: “Poche volte mi è avvenuto legger versi così belli, casti, soavemente malinconici». Nel 1877, la morte della figlia ventiquattrenne le inflisse un duro colpo inaridendole per sempre la vena poetica. Per l’albo di Marietta Piccolomini Figlia d’Italia, che trasfondi al canto L’italo foco, un ciel puro e sereno Del tuo primo sorriso E del cor salutavi; Ma qui t’inebria, nel sican terreno. Più miti e più soavi Spiran l’aure fra noi; del sol più pura L’eterea luce splende; Qui primavera eterna Di fiori e di verzura Riveste il colle, il prato; E il genio e la virtude Degli avi, ancor l’alme sicane accende. Il prisco onore, i fasti Tu cerchi invan: li tolse a noi sventura. Ma il cor che bolle e freme, Le memorie, la speme, Di natura il sorriso interminato, Rapir non ci potrà l’avverso fato. Angela Amato Poche sono le notizie attualmente reperibili su Angela (o Angiola) Amato, palermitana, nata nel 1830 “da onesti genitori” com’ebbe a scrivere un testo edificante destinato alle giovinette. Probabilmente, a differenza di molte poetesse siciliane sue contemporanee, Angela appartenne alla media o piccola borghesia cittadina. Di temperamento introverso e profondamente sensibile, trascorse una giovinezza appartata, tutta dedita alla cultura ed alla riflessione; sentendosi incompresa dall’ambiente che la circondava, si chiuse sempre più in sé stessa riversando nella poesia il suo delicato mondo interiore. Fu allieva di Francesco Caminiti, “uomo di grandissimi pregi intellettuali e morali” la cui frequentazione, se fosse durata più a lungo, avrebbe portato a piena maturazione la sua spiccata propensione agli studi e all’attività letteraria. Invece, a seguito della morte del suo precettore, delle nozze e della maternità, particolarmente dolorosa a causa della perdita dei figlioletti, Angela non potè approfondire le sue doti intellettuali; anzi, in tal senso ogni suo interesse venne meno, mentre si accresceva il bisogno di confidare alla penna il suo intimo travaglio. Mai, quindi, l’autrice vide inaridirsi quella vena poetica che fino ad allora l’aveva spinta a comporre versi di natura affettiva e personale ma, al contrario, le sventure e i dolori che ne segnarono l’intera esistenza fornirono alla sua poesia un alimento costante. “La sua poesia” riporta il testo già menzionato” è veramente poesia del cuore più che dell'intelletto. In essa è quasi dipinta tutta la sua vita con tutti i suoi affetti, nessuno dei quali si può dire esagerato, nessuno mentito.” A Gualberta Alaide Beccari No — quella speme che i sepolcri fugge Ultima dea non è.... trionfatrice Per fin del tempo ch'ogni cosa adugge, Virtù — diva maggior — s'eleva, e indice Vivo ricordo ad ogni onesto petto Tal, che a notte d'oblio coprir non lice. — Sorvivere nei cor con mesto affetto! — Questa lusinga all'anima deserta Rende men duro il funerario letto; Chè se fin la speranza, ahi, ne diserta Di quell'amor che sugli avelli piange, Qual ne resla conforto, o mia Gualberta? E quest'angoscia ch'ora il cor ne infrange, Sacro è tributo a quella Eletta e Pia Che Italia tutta, estinta ahimè! rimpiange. Mai non la vidi — eppur l'anima mia L'amò con senso di devoto amore Qual chi per lungo di noto ci sia. E dal mio duol compresi il tuo dolore... E un gelido mi corse in sen, pensando, 0 mia Gualberta... al tuo povero core! Povero cor! quai gaudj già sognando D'una nostra gentil, la bella idea Rivestendo di luce ed informando? E di desio cotanto ei si pascea Che ogni ostacolo lieve — ogni fatica Fors'anco a lui gradita pur si fea, Solo perchè la veneranda Amica D' itali fiori un serto avesse, quale Donna non s'ebbe mai moderna o antica. Ma sul martire capo ed immortale Quel divo serto, ahi, non posò peranco, Chè per l'aere tuonò bronzo ferale... E vacillante suir infermo fianco — Oh figli!... Oh Italia!... — disse... e a Benedetto Sull'omero chinando il capo stanco, Tacque — per sempre!!... — 0 tu d'immenso affetto D' immensa angoscia e d' infinita gloria, Unico erede, ch'or nel patrio tetto Solo t'aggiri, a rimembrar la storia Di questa Italia, a cui per te si attinge Ogni santa domestica memoria, Mira il nodo fraterno che ne stringe Tutte d'attorno a questa sacra bara, Che i venerati avanzi asconde e cinge; Mentre a quell'alma generosa e cara Quattro fulgide stelle fan corona Là dove il premio alla virtù si appara. Ascolla il voto, che con fronte prona, Qui nel silenzio austero dello avello Fiero e solenne a noi sul labbro suona: t Informarci all'altissimo modello... t Seguir la fé che a Lei fu meta sola, «Solennemente giuriam su quello! » — Verace fé — non farisaica scuola — Nella potenza del volente spiro Quando la mente ad ogni error s' invola! Gualberto, se il tuo nobile desiro Di porre un serto su quel capo santo, Ahimè, si sciolse in un vano sospiro; Leva or la fronte, e tergi il mesto pianto; 0 tu che prima attorno a Lei ci univi, Del nostro voto or t'abbi prima il vanto! Tu che di amore e di lavor sol vivi, Sorgi... e in suo nome, sulla nostra insegna Di — Lavoro ed Amore — il motto scrivi... Ella dal ciel ne sarà scorta degna. Maria Ricci Paternò Castello Maria Paternò Castello di Carcaci nacque a Catania nel 1840 (nel 1845 o nel 1847, secondo alcune fonti). Restò orfana di entrambi i genitori in tenera età e fu educata a Palermo da una zia, dimostrando fin da giovanissima una grande intelligenza e una spiccata propensione per la poesia. I suoi primi versi apparvero sulla rivista fiorentina “Letture di famiglia”: la poetessa, allora quindicenne, si cimentava in uno stile ancora scolastico e di maniera, rivelando già, comunque, un precoce talento. Era dotata di uno spirito indipendente e ribelle che mal si adattava alle convenzioni del suo tempo; era, soprattutto, estremamente curiosa di tutto ciò che poteva arricchirla intellettualmente. Per questo, non appena fu maggiorenne, Maria manifestò la ferma volontà di emanciparsi e cominciò a viaggiare per l’Europa, frequentando gli ambienti più stimolanti dal punto di vista artistico e culturale. A Ginevra divenne allieva del filosofo materialista Carl Vogt (1817-1895) le cui teorie, in radicale antitesi con le dottrine spiritualistiche dell’epoca, consideravano il pensiero in senso fisico e meccanicistico, riducendolo ad un mero processo biologico. Ma fu la città di Firenze a segnare maggiormente il destino di Maria: durante la sua permanenza nella città toscana, infatti, la nobildonna pubblicò vari scritti (Poesie, Rosalinda, Idillio fantastico, Spigolature, Note Tragiche) che furono accolti molto favorevolmente e le diedero una discreta notorietà. A Firenze, inoltre, Maria conobbe il marchese Antonio Ricci Riccardi, diplomatico e scrittore, che sposò nel 1870. Il matrimonio durò felicemente per cinque anni, prima che la coppia entrasse in crisi a causa di alcune gravi incomprensioni; alla fine, riconosciuta l’impossibilità di sanare i loro contrasti, i due decisero di separarsi. Affranta per il fallimento del suo matrimonio, Maria si gettò anima e corpo nella scrittura, componendo poesie di rara intensità che furono poi, insieme ai suoi precedenti scritti, raccolte in un unico volume intitolato Nuove Poesie, edito da Le Monnier. L’eccezionale profondità dei versi, nei quali vibravano sentimenti vivi e autentici, decretò per l’opera un grande successo di pubblico e critica, raccogliendo recensioni molto positive su alcune delle più autorevoli riviste letterarie. Un articolo uscito su “La Libertà” del 4 luglio 1885 definì le Nuove Poesie “un libro che fa onore al sesso femminile.” La raccolta riscosse consensi anche all’estero, tanto che ne venne pubblicata una traduzione in tedesco. Successivamente, la poetessa pubblicò i sonetti Fogliuzze erranti (1886) e A Vallombrosa (1895). Morì a Firenze l’11 giugno del 1923. Esponente del tardo Romanticismo, la Ricci propose una poesia incentrata soprattutto sulle tematiche dell’amore infelice, della disillusione, delle falsità svelate, degli affetti familiari vissuti in una dimensione struggente e sofferta; frequenti nelle sue poesie sono le ambientazioni mondane e salottiere che, almeno per un certo periodo della sua vita, dovettero costituire la sua quotidianità. Sull’ Etna Valle d’Etna, vorrei fra’ tuoi vigneti Signoreggiare una casetta bianca, E col fantasma de’ miei sogni lieti Là riposarmi vecchierella stanca; Fra quercie annose e giganteschi abeti, Calcando il monte, che la neve imbianca, Allor quei dolci mormorar secreti Non detti nell’età che presto, ahi! manca. Ciccuzza, ancella dalla carne bruna, Dall’ampio sguardo, dalle membra svelte, Compagna ne saria della fortuna; E sorridenti con la fresca aurora, Dai mondani fastidii alme divelte, La giovinezza sogneremmo ancora. Fonti Per la parte introduttiva: Martin Heidegger, Lettera sull'"umanismo", Milano, Adephi, 1995, p.31. Per Caterina Furitano: Caterina Furitano, Amore ed Arte, Palermo, Tipografia dello Statuto, 1886. Francesco Guardione (a cura di), Antologia poetica siciliana del secolo XIX con proemio e note, Palermo, Tipografia Editrice Tempo, 1885. Domenico Milelli, In giovinezza. Versi (1857-1873), Tip. Asturi, 1873. Culturelite.com. Wikisource.org. 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Id: 1043 Data: 17/10/2025 11:25:17
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- Letteratura
L’angelo del focolare e l’opera della Marchesa Colombi
Non ci insegnano a scrivere perché hanno paura che la penna ci serva a scrivere lettere amorose: non ci permetterebbero nemmeno di leggere, se non dovessimo servirci del libro di preghiere. Così confessava a Goethe nel 1787 un'amica milanese: la proibizione, curiosamente, riguardava solo l'istruzione, dato che, per il resto (feste, viaggi, amicizie), alla ragazza era concesso un ampio margine di libertà. La testimonianza - tanto più sorprendente se si pensa che viene resa in piena età dei Lumi - solleva il velo su una realtà sconcertante: dalle famiglie del tempo, la cultura viene ritenuta una delle principali fonti di corruzione delle fanciulle. Il nuovo secolo assiste ad un ulteriore irrigidimento di questa posizione, complici il clima severo della Restaurazione e, successivamente, l'avanzata delle idee socialiste e l'aumento della manodopera femminile nelle fabbriche. La donna lavoratrice, in particolare, desta preoccupazione, poiché la sua attività extra-domestica - che per di più assorbe la maggior parte della giornata - viene vista da molti come un pericoloso fattore di disgregazione familiare e di destabilizzazione dell'ordine sociale. Per la maggior parte delle donne dell'epoca, lavorare non è un'opzione, ma una dura necessità: tuttavia giovinette e madri di famiglia potrebbero apprezzare il lavoro - per faticoso e poco gratificante che sia - come mezzo per raggiungere l'autosufficienza economica e per acquisire consapevolezza delle proprie potenzialità. Da qui, l'eventualità concreta che ne siano "sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia", come afferma Leone XIII nella Rerum Novarum (1891). Un vecchio pregiudizio misogino, inoltre, vede nella donna un essere estremamente manipolabile, a motivo della sua accentuata sensibilità, di una innata debolezza di carattere e di una congenita inferiorità intellettuale: non deve stupire, quindi, se nell'immaginario maschile la donna che varca le mura domestiche divenga una facile preda per tutte le idee più sovversive e corruttrici. Sempre nella sua famosa enciclica sociale, papa Pecci sottolinea i germi di degrado morale insiti nella situazione, avvertendo che "per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l'integrità dei costumi corre pericolo nelle officine." Urge una soluzione efficace in grado di arginare tali sviluppi: le autorità, tanto civili quanto religiose, la trovano nell'immagine dell'angelo del focolare. Niente di nuovo: basta esaltare e assolutizzare un modello già consolidato, avvalendosi dei canali di diffusione attivi soprattutto in ambito cattolico (come la devozione mariana). Scrive ancora Leone XIII: Certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l'onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l'educazione dei figli e il benessere della casa. L'angelo del focolare, infatti, è moglie e madre: una creatura pia, riservata e morigerata senz'altra aspirazione che non sia la cura della casa e dei suoi familiari. Tale dedizione ha come caratteristica imprescindibile la radicalità: è, infatti, spinta fino al sacrificio e alla totale spersonalizzazione. Nella sua applicazione pratica, questo ideale di perfezione muliebre si configura come un potente strumento di controllo sociale, perché riconosce alla madre un posto privilegiato nella trasmissione di valori e schemi comportamentali. Nell'adesione a questo canone, come si può ben immaginare, l'acculturazione, la coscienza di sé stesse e la realizzazione personale non solo non sono previste, ma vengono addirittura considerate d'ostacolo. Ad accettare di buon grado questo modello non è solo l'universo maschile, bensì le stesse donne. Perché? Il diritto inalienabile alla propria dignità di persona è, per il mondo femminile, una conquista recente. Fin dal basso medioevo si cristallizza infatti, nella civiltà occidentale, la tendenza a riconoscere alla donna un valore "condizionato" dall' inquadramento in una categoria ben precisa: monaca o moglie. Ciò può spiegare come mai la donna, in pieno XIX secolo, non trovi nulla di strano nell'adeguarsi ad un prototipo solo per essere socialmente "in regola". In tal senso, l'angelo del focolare è il modo più immediato di acquisire un'identità, al quale però, paradossalmente, si arriva proprio con la rinuncia alla propria identità. Il compromesso, come spesso accade, porta con sé conseguenze dolorose: conformarsi evita lotte impegnative e dall'esito incerto, ma rende la quotidianità vuota e alienante. In questo contesto si inserisce la scrittura della novarese Maria Antonietta Torriani (1840 –1920), letterata, giornalista, protofemminista, sociologa e co-fondatrice del Corriere della Sera, meglio nota al pubblico del suo tempo con lo pseudonimo di Marchesa Colombi. La multiforme attività della Marchesa Colombi mira a supportare un unico intento: la denuncia della condizione femminile del tempo. Più che sensibilizzare gli uomini, tale denuncia intende in primo luogo suscitare una reazione nelle donne. Da donna e da scrittrice, infatti, la Torriani è conscia della sua responsabilità: e per questo, mentre utilizza il romanzo popolare nella sua funzione "canonica" di diletto e di svago, propone esempi, personaggi e situazioni dalla forte valenza didattica. A questo scopo, l'autrice pone l'accento sulla sfasatura che intercorre tra la facciata imposta dalle convenzioni - l'angelo del focolare, appunto - e l'urgenza di restituire alla donna la propria dignità di persona dotata di intelligenza e volontà. Per farlo, è fondamentale eliminare dalla scrittura i filtri, le affettazioni e gli altri fronzoli con cui le donne sono abituate ad addolcire o peggio ancora a mascherare la realtà. Si spiega così l'affinità della Marchesa con temi e moduli di stampo verista. Fra le analogie più evidenti che possiamo riscontrare fra l'opera della novarese e il ciclo verghiano dei vinti c'è la rassegnazione: in mancanza di una via d'uscita, la reazione non è di insofferenza o di rivolta, ma di piena accettazione del proprio destino. Nonostante ciò, la Torriani mantiene una sua indipendenza dai canoni verghiani, prima di tutto nel rifiuto della regressione al livello mentale e culturale dei personaggi. E’, questa, l'eredità della tradizione manzoniana che costituisce il tratto distintivo del cosiddetto "verismo nordico". Dei ritratti verghiani, questa particolare versione del verismo conserva il realismo (spesso crudo e impietoso), ma lo stempera con l'apertura manzoniana ai valori positivi della gentilezza, della bontà e delle buone maniere, visti nella loro utilità correttiva e "redentiva" di qualsiasi umanità. Ma c'è di più. Al "verismo nordico" della Marchesa, infatti, non sembra appartenere l'impegno - tipicamente verghiano - verso l'opera che pare "essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale; senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine", come chiarisce lo stesso Verga nell'introduzione alla novella L'amante di Gramigna. Con il Verga, Maria Antonietta condivide sicuramente l'interesse per la scienza del cuore umano, per "quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico"; in lei, tuttavia, tale indagine ha finalità differenti che devono, proprio per la loro peculiarità, seguire la strada del dialogo e della reciprocità, e che presuppongono quindi la presenza - massiccia e ben percepibile - della voce narrante. Con la Marchesa Colombi, anzi, si va ben oltre il manzoniano fare capolino tra le pieghe del racconto: l'autrice si guarda bene dal lasciare sole le sue lettrici anche solo per un attimo, deve assicurarsi che stiano ascoltando, recependo, elaborando. Non può rischiare che la sua prosa fallisca l'obiettivo, e che il suo pubblico si abbandoni - ancora una volta - alla trappola del fittizio, dell'illusorio, del fantastico. Per questo, la Marchesa utilizza il mezzo più incisivo a sua disposizione: l'ironia. Non c'è niente di meglio di una battuta ben piazzata, infatti, per riportare con i piedi per terra un intelletto da sempre educato (o auto-educato) ad alienarsi dalla realtà. Così, proprio nel bel mezzo di una situazione da comédie larmoyante, l'ironia si inserisce come una staffilata, sottile ma bruciante, per mostrare l'intrinseca assurdità di valori e codici di comportamento universalmente accettati. Basta poco: il "pungolo" può essere un semplice commento, un rapido intercalare, una nuda parola, insomma un segno, anche piccolo, di partecipazione personale capace di trasformare la trama del racconto in un'interazione, da autrice a lettrice (e viceversa!), da donna a donna. Avevano diciott'anni, povere bimbe! E le loro nudità avariate non ispiravano piú peccati di desiderio. Primo obiettivo di questa "arma bianca" non poteva che essere l'attesa del principe azzurro, fulcro attorno al quale ruota la quotidianità delle ragazze e delle loro famiglie. Dalla Torriani, il tema viene splendidamente dispiegato, in tutte le sue componenti sociali e psicologiche, nel romanzo-capolavoro Un matrimonio in provincia. ... alla lunga, quell'ammirazione di passaggio, e di gente ignota, mi venne a noia, o almeno non mi commosse piú. Ero impaziente che la Titina trovasse marito, per potermi vestire come le altre ragazze della mia età. Ero vicina ai diciassette anni. Non potevo star tutta la vita coi piedi fuori dalle gonnelle e pettinata da collegiale perché mia sorella non era maritata. Tanto piú dacché la matrigna aveva detto che, vestita a modo, in otto giorni, avrei trovato marito. Ed io in quella casa brutta con quelle abitudini laboriose e casalinghe e quell'uggioso marmocchio sulle spalle, colla sua faccina vecchia da figlio di vecchi, mi struggevo di maritarmi. Un altro strale è diretto all'uomo dell'epoca, spogliato dei suoi luminosi panni di eroe romantico e rivelato nel suo essere infido, ottuso, opportunista e dispotico. Il vertice di questa mediocrità è rappresentato, senza dubbio, dalla figura del padre di famiglia: uno per tutti, il patriarca di Un matrimonio in provincia, rara mistura di egoismo, misoginia, pregiudizio e scarsa intelligenza. Non ci mandava neppure a scuola, perché diceva che tutte quelle ore di immobilità sono micidiali. C'insegnava lui di quando in quando a leggere, scrivere e far di conto. E durante le nostre passeggiate faceva la nostra educazione letteraria. Strettamente connesso alla critica della mentalità patriarcale del tempo è lo svelamento del preconcetto sull'educazione femminile, di cui spesso le donne non son solo vittime ma, ahimè, anche sostenitrici. Le parole della matrigna di Un matrimonio in provincia ne sono una chiara conferma: Il babbo insinuò modestamente che ci «raccontava i classici» passeggiando, ma lei diede una crollatina di spalle e disse: — Sí, va bene; ma possono anche farne a meno. Io non so neppure cosa siano, ed ho trovato marito lo stesso. Un po' tardi, soggiunse con la franchezza imperturbabile che faceva passar la voglia di burlarla, ma insomma, l'ho trovato. Dunque, a correre tutto il giorno non s'impara nulla. Di «leggere, scrivere e far di conto» ne sanno a sufficienza, le ragazze non debbono diventar dottoresse. Ora è tempo che imparino a tenere la casa in ordine, a cucire, a stirare, a cucinare, ad essere buone massaie. Maria Antonietta ebbe modo di toccare con mano la gravità della situazione in occasione del ciclo di conferenze sull'emancipazione femminile tenuto con l'amica e collaboratrice Anna Maria Mozzoni; iniziativa che, infatti, registrò scarsa partecipazione e ancor più scarsa risonanza. Eppure, le voci delle due lombarde non erano affatto un caso isolato, e avevano già avuto delle anticipazioni nel resto d'Italia: si pensi, ad esempio, a Rosina Muzio Salvo (1815-1866), poetessa romantica di Termini Imerese (Palermo), giornalista della rivista progressista "La ruota" e segretaria della Legione delle pie sorelle. Supporto femminile ai moti del 1848, la Legione propugnava il cambiamento della condizione femminile nella società attraverso un'adeguata istruzione; principio ben sottolineato da pubblicazioni come “Anche noi siam risorte” che rivendicavano il diritto all’emancipazione e all’istruzione femminile. Per questo, l'associazione promuoveva tutta una serie di iniziative (dagli spettacoli teatrali alle lotterie) volte a finanziare un ampio spettro di attività benefiche a favore delle donne: assistenza alle vedove povere e alle ragazze orfane, sostegno agli asili infantili, acquisto di materiale didattico per la formazione delle fanciulle, gestione di istituti destinati all'educazione femminile. Già allora, la Muzio Salvo aveva intuito che nessun affrancamento sarebbe stato possibile per la donna senza un adeguato supporto formativo. E aveva colto nel segno: alla fine dell'Ottocento, da Nord a Sud, le italiane si trovano ancora nell'identica situazione di mezzo secolo prima. La Marchesa, naturalmente, non manca di sottolinearlo con la consueta ironia. Così scrive nel suo galateo La gente per bene: A' miei tempi, - tempi delle vecchie mamme, delle nonne, delle bisnonne, - le donne non ricevevano l'istruzione che si dà ora alle fanciulle. Allora era generale l'opinione dell'Arnolphe di Molière circa le donne: "C'est assez pour elle, à vous en bien parler, De savoir prier Dieu, m'aimer, coudre et filer. " Ora le giovinette escono dalle scuole dotte come tanti piccoli professori. Guardano il mondo dall'alto della loro dottrina geografica, senza mai scambiare un punto per un altro. Una rigorosa censura sfoltisce la già magra biblioteca accessibile alla giovane: l'angelo del focolare non deve avere grilli per la testa. Il libro diventa un tabù e ossessiona i padri, al punto da essere aborrito tout court. Ancora in Un matrimonio in provincia, il padre di Denza preferisce le "passeggiate formative" e impartisce lui stesso lezioni alle sue figlie, non solo nella convinzione che tale cultura basti e avanzi, ma soprattutto per la sicurezza che gli dà poter mantenere il controllo sulle loro menti. Il suo orrore per la donna che legge arriva fino alla proibizione dei libri più innocenti per alleviare la noia delle lunghe serate invernali, delle quali anche la Marchesa, a suo tempo, era stata vittima come tutte le sue coetanee. Appena noi ragazze eravamo tornate di collegio aveva messo l’Alfieri sotto chiave. -Se leggono questa roba addio lista del bucato-diceva-addio note della spesa; addio testa! Si mettono in mente di sposare un eroe e non si maritano più. Emblematica è la figura, nella Torriani come in altre autrici coeve, della giovane seduta dietro i vetri, senza altre occupazioni che non siano il lavoro di cucito, le chiacchiere futili con qualche parente, l'osservazione del via vai giù in strada, la costruzione mentale di una storia d'amore attraverso il ricordo di piccoli episodi insignificanti. Un passo del romanzo La casa nel vicolo, opera della tardoverista siciliana Maria Messina, descrive con grande efficacia questo appassimento interiore ed il suo rispecchiarsi all'esterno: Nicolina cuciva sul balcone, affrettandosi a dar gli ultimi punti nella smorta luce del crepuscolo. La vista che offriva l’alto balcone era chiusa, quasi soffocata, fra il vicoletto, che a quell’ora pareva fondo e cupo come un pozzo vuoto, e la gran distesa di tetti rossicci e borraccini su cui gravava un cielo basso e scolorato. Nicolina cuciva in fretta, senza alzare gli occhi: sentiva, come se la respirasse con l’aria, la monotonia del limitato paesaggio. Nel "verismo nordico", però, la componente manzoniana potrebbe offrire come antidoto a tanta desolazione il sentimento religioso: invece, non è così. Pare infatti che le eroine della Marchesa ignorino i conforti dello spirito; nel loro piccolo universo, la devozione è il ripiego delle vecchie zitelle, e fa tutt'uno con un vano formalismo. Della solennità non c'importava nulla, della musica poco, del Santo men che meno. Ma si vedeva un po' di gente, qualche giovinotto ci guardava; e nella monotonia della nostra esistenza era qualche cosa. Di solito era la zia che ci accompagnava perché la matrigna non amava la musica, ed il babbo, di sera, stava sempre con lei. E poi, la chiesa era il dominio della zia. Forse perché più urgenti sono gli interessi pratici e concreti, o fors'anche perché la preghiera difficilmente può aver presa su un animo infiacchito, i personaggi della Marchesa Colombi non sembrano inclini ad alzare gli occhi al cielo (è già tanto se Denza, al teatro, riesca per un attimo a cogliere la sua immagine riflessa, restando peraltro stupita come chi si veda per la prima volta). Di più: nella Marchesa, anche la religiosità si tramuta in un'occasione di sovvertimento della mentalità corrente. Nei racconti Una vocazione e Suor Maria la figura manzoniana della monaca di Monza viene ribaltata: la "monacazione forzata" diventa "automonacazione forzata". La più classica forma di coercizione imposta dalle famiglie diventa un escamotage per opporsi ad una situazione familiare scomoda, ribellarsi ad un futuro indesiderato, guarire dalle ferite di un amore infelice, affermarsi come donna e come persona. Attenzione, però: anche qui c'è un rimando, un "oltre". L'automonacazione forzata è una castrazione dall'essere creature dotate di sentimenti; è un'altra via per approdare al disincanto dopo una lacerazione affettiva, che può derivare da una delusione d'amore (come nel caso di Suor Maria) o da una idealizzazione del rapporto amoroso (come invece accade a Paola). L'automonacazione quindi è allo stesso tempo la pars destruens e la pars construens di una nuova affermazione di sé: è rottura con ambienti e situazioni non congeniali, ma anche con l'"immagine residua di sé" che ha coltivato sogni e desideri. E' un processo di demolizione che scaturisce dalla propria personale inadeguatezza ad accettare una vita "altra" rispetto alle aspettative della giovinezza; ed è del tutto autonomo, ragion per cui sarebbe errato considerare queste donne come vittime o come sacrificate. Maria e Paola, però, non possono essere considerate neanche ribelli; almeno, non nel senso che solitamente attribuiamo a questa parola. Per sfuggire ad un destino inaccettabile, infatti, queste due donne si muovono nel solco di una scelta convenzionale: per questo, nessuno fra i parenti e i conoscenti si dà pena di approfondire le loro motivazioni. Il no al compromesso, qui, si svolge nel silenzio e nel conformismo: e l'incapacità di andare controcorrente, di mettere apertamente in discussione il sistema, conduce in ogni caso alla rassegnazione e all'infelicità. Nonostante ciò, il messaggio della Marchesa per le sue lettrici è chiaro: ambedue le figure preferiscono alienarsi piuttosto che piegarsi. Solo che qui l'alienazione segue il processo inverso a quello osservato a proposito dell'angelo del focolare: si rinuncia all'identità assegnata dal mondo per ritrovare, pur nella dolorosa condizione di sopravvissuta, un'identità che è - più che scelta di vita - rifiuto libero e consapevole di omologarsi. Donatella Pezzino Bibliografia - Giuseppe Zaccaria, L'alternarsi dei punti di vista nell'opera della Marchesa Colombi, in La Marchesa Colombi, una scrittrice e il suo tempo. Atti del Convegno Internazionale - Novara 26 Maggio 2000, Novara, Interlinea, 2001, pp.91-100. - Clotilde Barbarulli - Luciana Brandi, La sovversione del sorriso: l'ironia nella Marchesa Colombi, in La Marchesa Colombi, una scrittrice e il suo tempo. Atti del Convegno Internazionale - Novara 26 Maggio 2000, Novara, Interlinea, 2001, pp.139-155. - Adriana Chemello, Le "lettrici" nella narrativa della Marchesa Colombi, in La Marchesa Colombi, una scrittrice e il suo tempo. Atti del Convegno Internazionale - Novara 26 Maggio 2000, Novara, Interlinea, 2001, pp.169-186. - Carla Sandon, Non solo zitelle: la monacazione autoforzata nella narrativa della Marchesa Colombi, in La Marchesa Colombi, una scrittrice e il suo tempo. Atti del Convegno Internazionale - Novara 26 Maggio 2000, Novara, Interlinea, 2001, pp.195-203. - La Marchesa Colombi, Cara Speranza, prefazione di Emmanuelle Genevois, Novara, Interlinea, 2003. - La Marchesa Colombi, Un matrimonio in provincia, prefazione di Giuliana Morandini, Novara, Interlinea, 1999. - La Marchesa Colombi, Il tramonto d'un ideale, introduzione di Clotilde Barbarulli e Luciana Brandi , Ferrara, Luciana Tufani Editrice, 1997. - La Marchesa Colombi, Serate d'inverno, introduzione di Clotilde Barbarulli e Luciana Brandi , Ferrara, Luciana Tufani Editrice, 1997. - La Marchesa Colombi, La gente per bene, Novara, Interlinea Edizioni, 2000. - La Marchesa Colombi, In risaia, Introduzione di Riccardo Reim, Milano, C. Lombardi, 1992. - www.treccani.it - Marta Riccobono, «Nella dovuta decenza e modestia», Versi civili e ricezione critica di quattro autrici siciliane del Risorgimento, Tesi di Perfezionamento in Letterature e Filologie Moderne, Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere, A.A. 2019-2020. - Alessandro Leoncini, Angela Collarini. Una donna insegnante nell'epoca dei lumi, Università di Siena, A.A. 2013-2014. - Maria Messina, La casa nel vicolo, Palermo, Sellerio, 1982. - Giovanni Verga, Novelle, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1983. - Donatella Pezzino, Tra Verismo e denuncia: le donne “invisibili” di Maria Messina, su “Agorà” n.57 , Catania, Editorale Agorà, pp.44-47. - Leone XIII, Rerum Novarum, in Le encicliche sociali. Dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, Milano, Edizioni Paoline, 1996, pp.19-74. - https://www.policlic.it/la-condizione-femminile-da-fine-ottocento-alla-riforma-del-diritto-di-famiglia/
Id: 921 Data: 21/08/2023 14:20:41
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