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- Poesia
Guglielmo Aprile-o l’immaginifico astrale del verso poetico.
Guglielmo Aprile … o l’immaginifico astrale del verso poetico. “Tutto l’oro del mondo” – una silloge edita da Carabba Edit. Nella collana Diramazioni - 2024 L’immanifesto mitico alla base del rituale poetico che si celebra in questa raccolta di Guglielmo Aprile s’avvale di riferimenti magici e richiami ancestrali di un mondo che appare in sé compiuto, come a riconoscerne l’espressività filologico-celebrativa propria della lirica ‘aedica’, con la sottesa disponibilità a concernere l’arbitrato filosofico-elettivo che l’avvolge: “un’immensità che tutto travolge e ovunque è avvertibile” (Calasso) ...
“…è dell’oro che ho sete, l’oro occulto che della scorza di ogni parvenza come del cuore dell’uomo è il gheriglio”.
“…Il cielo è un altare che brucia e gli occhi i suoi iniziati, l’alba adempie a un rituale, crudele e fastoso: convoca i suoi ierofanti, le nuvole, e ad oriente le raduna”. “…a breve, il mondo riemergerà dal sonno, come fece dalle acque scure che lo ricoprivano alle origini, appena fu creato”.
Il richiamo alchemico, sempre così affascinante nell’autore, è presente quale effetto dell’immaginifico astrale che si vuole qui rappresentare, intrinseco del coglierne i molti aspetti, se non tutti, che elevano l’animo all’ardore, quell’impeto proprio del desiderio struggente e implacabile che spinge il lettore a discoprire l’ “oltre” quale verità afferente, appunto l’assoluto immanifesto ...
“…Il passero, araldo dell’alba – sembra che esulti, in preda a un’euforia per noi inspiegabile, e folle di giubilo acclama il corteo che da oriente avanza con in testa gonfaloni di porpora e corallo: è impaziente che sia giorno al più presto, proprio ora gli è giunta tutta la notte attesa la notizia che il sole … (nascosto si leva) ne scorge dai merli di un arboreo mirador le orme di fuoco più prossime”.
È nella vampa dorata del levarsi del sole che il richiamo immutabile del divino risuona nell’aere come per un ritorno alle origini del creato ... È “…(n)ella parola che le vie accarezza ancora vuote, come a benedirle (forse un peana, una supplica al sole perché torni, o una laude ad omaggiare un’amante che in ogni fiore attende che il suo bacio canoro la risvegli): quel sospiro flautato che riecheggia la voce, imperativa e a un tempo tenera, che ai monti diede ordine di sorgere dalle acque, alle galassie di prendersi per mano e di intrecciare danze per l’oscurità divampante delle loro livree di gemme e fiamme, negli spazi cosparsi delle schegge di un gigantesco diamante in frantumi, nei cieli che brulicano di gemme, disseminati delle innumerevoli faville di un incendio che riflette in ognuna delle sue lingue il palpito delle nostre domande, in ogni lampo scoccato dai capelli incandescenti di ogni cometa di passaggio il brivido delle nostre pupille, in ogni incrocio di orbite zodiacali e in ogni giro delle sfere sonnambule che vorticano in estatica corsa, il sordo battito del nostro sangue”.
Dacché l’edenico sentore di una natura che s’imprime nell’iride dell’umano davanti a una successione di quadri ‘impressionisti’ esposti in una galleria d’arte ricreata ad hoc: (vedi lo ‘stagno delle ninfee’ di Monet e/o le stupende vedute di Pissarro, solo per citarne alcuni), che l’ardore si svela, nel riecheggio festante del verso delle faunistiche creature che l’abitano, qui splendidamente accolti nel “…dondolante scrigno di tutte le melodie sussurrate dalle labbra del cielo e della terra, conchiglia astrale, culla di ogni inizio”.
È nella tavolozza dei colori, nelle ricreate ‘illuminazioni’ delle stagioni, nella lucentezza dei minerali che affiorano dalla terra, nei tesori sommersi delle profondità marine che la gioia d’essere e d’esserci lascia discoprire “Tutto l’oro del mondo”. E sono cristalli di vetro, stalattiti di ghiaccio taglienti che si susseguono nei nostri sguardi stupefatti, impressionati, sbalorditi, rincorrendosi e stringendosi d’appresso ...
“…Sembra intagliato il mondo alle prime ore nello smeraldo, come se il suo volto brillasse sotto le acque trasparenti di un lago calmo, i campi e le colline così nitidi appaiono, lavati nella fiamma di un’aria di cristallo, e di un verde si ammantano, dai toni così squillanti, dalle iridescenze così pure, da crederlo il colore che risvegliata dal tocco di Dio bagnava la terra tutta alle origini di una rugiada astrale, appena uscita dalle fucine della creazione”.
Un labirinto talvolta oscuro come del resto il ‘mito’ impone, in cui l’autore cerca d’intrappolare l’affascinato lettore e costringerlo a perdersi nei rimandi di un passato fin troppo presente, a quella realtà quasi sconcertante che è il nostro “surrealismo” quotidiano ...
Da: “Il fuoco che è in tutte le cose”. “…Fu dalle nozze tra la roccia e il fulmine che scaturì la prole numerosa dei fiumi e dei vulcani, che diede inizio alla sua corsa il sole, che fu fondata l’ampia discendenza dei boschi millenari, e che gli uomini presero coscienza di quanto vasto fosse il loro cuore, e di essere mortali. … Cadde il chicco di grandine – e toccando l’erba, la fecondò: si fece seme di tutte le albe e dell’unica fiamma che palpita nel grembo dorato della spiga, in ogni nembo che stia per partorire il temporale, che il proprio raggio spande dal diamante di Antares, che riverbera nelle mie domande”.
È allora che, catturati dall’enfasi scrittoria dell’autore (che non ha bisogno di presentazione), entriamo nella fiction letteraria facendoci dono di quella “meraviglia” che è il suo linguaggio: ora opaco di gemma ruvida (naturale); ed ora di fine diamante cristallino in cui si riflettono immagini di luoghi sconosciuti (o forse mai esistiti), pur sempre attraversati dalle venature idilliache di vetro soffiato (alchemico e misterioso), espresse con la consueta eleganza verbale ...
“…L’alba si sta levando dentro me, la fiamma che dal mio occhio si effonde rischiara il mondo e gli ridà colori, l’acqua del sole mi colma la gola; e sento che il mio petto si dilata e che anche i cieli al suo ritmo respirano, e sento che anche onde e nuvole scorrono a tempo con il mio polso che batte; non più distinti ma una cosa sola io e la scena che ha per sipario i sensi, come i due azzurri paralleli uniti dall’orizzonte in una stessa riga”.
Una scioltezza di linguaggio dove perdersi, infine, nei meandri di quella realtà ‘immaginifica’ che fa di questa raccolta poetica, traslitterata ai lettori che noi siamo in quel “l’altrove”, o forse “l’altrui” che abbiamo obliterato, e che come ‘altra cosa’ si avvicina alla realtà che viviamo ...
Da “C’è in ogni conchiglia un tesoro” “…Dalle tue labbra socchiuse, una nota sommessa, soffocata dal frastuono della risacca, simile ad un’arpa dimenticata, che nel buio stilla soavi accordi, al tocco di una mano che la accarezza: voce che risuona immutata da quando la prima alba sorse sulla distesa informe e vuota delle acque enormi, e da oscure distanze giunge fino al mio orecchio; e in essa sento l’eco lunga del mare, sento il battito di un cuore gigantesco, affievolito eppure ben distinto, che all’unisono palpita con il mio, con il respiro dei venti, con le sistole e diastole delle maree, con l’onda che dilata il proprio petto e dopo lo contrae con il ciclo dei fiori e delle piogge, con l’ampio movimento circolare di Orione e Cassiopea, delle comete pellegrine sulle carovaniere dei quadranti celesti – contrabbandano forse, lungo i confini dell’eclittica, perle estratte di frodo dai fondali siderali, o scintille della fiamma che innesca la combustione dei soli e che insemina il grembo dei pianeti”.
Da “Il più semplice sasso”. “…Il mare dai suoi penetrali gronda d’ambre e topazi, e nel suo grembo un tempio sepolto e frantumato custodisce, ori dispersi di un naufragio giacciono sotto la sua pelle sottile e mobile, il velo trasparente fa distinguere ben visibili tutti quanti i ciottoli: azzurre dracme in uso presso i popoli di Orione per le loro compravendite, liquido arcobaleno proiettato dal prisma dei fondali, sparsi resti di un mosaico che decorò una reggia; me ne rigiro tra le dita uno tra tantissimi, simile ad ogni altro e insieme da tutti gli altri distinto, dalla superficie perfettamente levigata e dai bordi arrotondati dal lungo lavorio delle correnti: e mi sembra di stare accarezzando qualcosa che fu vivo o che lo è ancora, un esemplare della prima razza che abitò queste rive, sulla terra splendida di rugiada, appena nata; in quel suo corpo minuto e tenace si è fatta pietra la voce del tempo, e nel lampo che brilla sul suo dorso sopravvive traccia di avvenimenti dimenticati da milioni di anni”.
Da “In un letto nel bosco (Alla finestra, di primo mattino)”. “…Compongono un’orchestra, che improvvisa il suo concerto a salutare l’alba; non ne intendiamo la lingua, ma sembra che nel coro che intonano si compia una catarsi: ogni cosa si immerge in quelle acque di suoni e vi monda il proprio sangue da un inganno antico come il tempo, e di nuovo pura torna, il mattino l’archetipo rinnova del primo giorno che fu sulla terra – il merlo, ascolta, è un giullare bambino e sfoggia il suo repertorio di scherzi, il colombo selvatico dà sfogo nel corno cupo ai suoi ombrosi umori, dedica una serenata la tortora al compagno, che ancora non rientra al loro nido, tra i rami xilofoni di cristallo, arpe che la cincia pizzica, corde di liuti, di violini i pini per i passeri, nacchere che vibrano nel fogliame, Penelopi nascoste tessono tele canore nel folto; e queste strade ancora silenziose alle prime ore, per un incantesimo diventano uno scrigno ma di gemme musicali. E vorrei al mio risveglio scoprirmi steso in un letto nel bosco, uccelli, avvolto dalle vostre voci, da quelle note in cui effonde il mondo il suo segreto tenero e profondo”.
Quand’ecco nascosto tra le righe si rivela il volto gioviale dell’autore che, al pare di un cosmonauta, osserva estasiato la terra avvolta dalle stelle. Se, come scrive Teilhard de Chardin: “Solo il fantastico ha qualche possibilità di essere reale”, allora l’immaginario mondo riordinato per noi da Guglielmo Aprile, è l’unico dei mondi possibili, quel non-luogo estremo in cui ritrovare l’intonsa bellezza del creato che tanto lo sguardo ha rapito ...
“…Esiste un dio di ogni risveglio, … (sì) che il mondo riapre gli occhi ed anche oggi l’oscurità le sue maree ritira – e i fantasmi di strade alberi e uomini riassumono colore e volto e carne”.
Nota: (*) Tutti i virgolettati "" sono di Guglielmo Aprile.
L’autore. Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive ad Ischia, dove si è trasferito per lavoro. È stato autore di alcune raccolte di poesia, tra le quali “Il dio che vaga col vento” (Puntoacapo Editrice, 2008), “Nessun mattino sarà mai l’ultimo” (Zone, 2008), “L’assedio di Famagosta” (Lietocolle, 2015); “Il talento dell’equilibrista” (Ladolfi, 2018); “Il giardiniere cieco” (Transeuropa, 2019); “Falò di carnevale” (Fara, opera I classificata al concorso Narrapoetando 2021); “Il sentiero del polline” (Kanaga, opera I classificata al premio “Arcore” 2021); “Thanatophobia” (Progetto Cultura, opera I classificata al premio “Mangiaparole” 2021); per la saggistica, ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.
Id: 1010 Data: 12/10/2024 08:45:35
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- Letteratura
Intervista a Cassandra - da Christa Wolf
“INTERVISTA A CASSANDRA” Da un libro di Christa Wolf – E/O edit. 1983
«Tremila anni … ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l’hanno fissata. Questa fortezza (Micene), una volta inespugnabile - cumulo di pietre ora - fu l’ultima cosa che vide.» Nessuno la credette allora, nessuno le avrebbe creduto – mito nella leggenda, intessuto nella tela dei secoli:
«Tremila anni … - così il verdetto del dio si mostrò duraturo: nessuno le avrebbe creduto» – mai per l’eternità:
Nessuno le crede ancora sebbene il suo fantasma si aggiri ancora come altre volte (quante) nel passato, sui guasti della guerra: Troia come Micene, Varsavia come Beirut, Afganistan come Birmania, come … quante altre? – Un nemico da tempo dimenticato e i secoli, il sole, la pioggia, il vento, l’hanno spianate. Immutato è rimasto il cielo, un blocco d’azzurro intenso, alto, distante.
«Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola.»:
Cassandra! … la cui voce ha fatto tremare un tempo le mura di Troia, sfuggita al destino mitico che la teneva imbrigliata, è tra noi, nelle pagine di un libro audace, almeno quanto i personaggi della tragedia eschilea a sciogliere furtivamente i nodi della verità occultata per così lungo tempo. Quella verità che non appartiene alla storia, ma è vissuta interiormente dal personaggio che reclama di diritto di entrarne a far parte da protagonista. Un personaggio di secondo piano, una comparsa si direbbe in gergo teatrale: che viene inavvedutamente alla ribalta e che improvvisa una parte non assegnatale. Ma che si riscatta – infine – per essere rimasta nella penna dei suoi autori, come nel pensiero di quell’Apollo che le aveva conferito il dono della veggenza, e il cui verdetto risuonò come un anatema nell’eco dei secoli.
Lei, Cassandra … la cui figura mitica, di eroina vigorosa e temibile, improvvisamente proiettata nel presente dalla scrittura di Christa Wolf, che nelle pagine del libro recupera la sua anima inquieta, il suo sguardo, la sua voce di sacerdotessa – «per darci il racconto della liberazione femminile e del bisogno di pace» – universali.
«Voglio pregarvi di seguirmi in un viaggio …» – scrive Christa Wolf riferendosi a un viaggio fatto in Grecia ma anche alle vie percorse, dopo che Cassandra «..ha preso possesso di lei.»:
«La vidi subito. Lei, la prigioniera, mi imprigionò, lei, oggetto essa stessa di fini che le erano estranei, si impadronì di me. L’incanto ebbe subito effetto. Credetti a ogni sua parola. Provare una fiducia incondizionata era ancora possibile. Tremila anni-dissolti … Mi sembrò degna di fede … mi parve che in questo dramma, forse l’unica a conoscere se stessa.» Iniziamo a seguirla tra le rovine delle città greche, nella discussione delle teorie degli archeologi, attraverso la ricostruzione della storia dei miti, sulle tracce di una società (forse) matriarcale, (forse) pacifica, alla ricerca di un passato mitico: Cassandra ... la veggente figlia di Ecuba e Priamo attende la morte nella fortezza di Micene. Agamennone, il vincitore che l’ha condotta con sé da Troia distrutta, ha già varcato la soglia oltre cui morirà per mano di Clitennestra, sua sposa. Da questo punto la narrazione scivola all’indietro, lungo i dieci anni della guerra di Troia, fino alla sua fanciullezza. Nell’arco di un tramonto nel cielo arrossato di Micene, la principessa troiana ripensa al cielo fiammante di Troia in rovina e subito le tornano alla memoria la traversata dell’Egeo in tempesta, l’arrivo a Troia delle Amazzoni, gli orribili delitti di Achille la bestia, la rottura con il padre Priamo, accecato dal meccanismo inarrestabile della guerra …
Ma Christ Wolf – scrive Anita Raja che ha curato la traduzione delle sue opere in italiano e la colta introduzione al testo – non si consola con l’idealizzazione di condizioni sociali primitive, illusoria e pericolosa concessione all’irrazionalismo. Prosegue esplorando le vie del gelido pensiero maschile - in contrasto con la vita nelle comunità femminili sulle rive dello Scamandro e lo stesso amore di Cassandra per Enea – come anche quello per il patriarcato, fino agli esiti ultimi della perdita di senso della letteratura, della feticizzazione, della minaccia atomica:
Che cosa può fare Cassandra, (come ogni donna), schernita, inascoltata, dichiarata fuori della norma, in questo territorio maschile dove domina un’estetica inventata per proteggersi dalla realtà? Può parlare, scrivere, non più storie di eroi, di guerra e di assassini, ma forse, dare concretamente un nome alla preziosa vita quotidiana, trovare parole adeguate per ciò che «ci riservano gli anonimi tecnici della pianificazione nucleare», oppure raccontare la lotta delle donne e degli uomini per diventare soggetti l'uno dell'altro (?).
Scrive Christa Wolf: «Senza sapere ciò che cercavo, e solo perché sarebbe stato imperdonabile lasciarsi sfuggire quell’occasione, volli partire per la Grecia. Sui moduli scrissi ‘turismo’ a motivo del viaggio, tacqui a tutti, anche a me stessa … ho più simulato che provato un’attesa gioiosa e mi sono attenuta soprattutto a una disposizione ironica «cercando con l’anima la terra dei greci», col pretesto di voler assaporare impressioni non mediate mi sono solo scarsamente provvista di informazioni … il caso avrebbe governato il viaggio, un sovrano dispotico, imprevedibile, che è difficile capire, complicato ingannare, impossibile dominare.»
Ed ecco che dalle pagine toccanti del libro, sgorga quel canto che fa dell’autrice una poetessa generosa che pochi conoscono e che si dona a piene mani:
«Quando stetti per l’ultima volta sulle mura (di Troia) a contemplar la luce insieme a Enea … Ho evitato di pensarci fino ad ora. E ora viene la luce. Enea, che non aveva mai esercitato pressioni su di me, che mi aveva sempre accettata per quello che ero, che non aveva mai voluto piegarmi o mutarmi in alcunché, insistette perché andassi con lui, giunse al punto di ordinarmelo. Era insensato gettarsi in una rovina che non si poteva più arrestare. Dovevo prendere i nostri figli – disse: i nostri figli! - e lasciare la città. Era già pronta a questo scopo una piccola schiera di troiani, e non dei peggiori, con le provviste e le armi necessarie e decisi ad aprirsi un varco. A fondare da qualche parte una nuova Troia. A ricominciare daccapo … Tu mi fraintendi, dissi esitando. Non è per Troia che devo rimanere. Troia non ha bisogno di me. Ma è per noi. Per te e per me.»
E cos’è questo se non un parlare d’amore, di quella poesia che all'amore suggerisce parole incancellabili, che sovrasta ogni cosa, ogni azione della nostra vita (?). Cassandra ... come Medea (altra eroina del mito per Christa Wolf), sono in primis donne che amano, carnali e umane, entrate di forza a far parte di quell’amore superiore che pur regna incontrastato e che ancora fa girare il mondo. Lo dimostrano i passi che seguono:
«Era chiaro a tutti i sopravvissuti, i nuovi padroni (gli Achei) avrebbero imposto la loro legge. La terra non era grande abbastanza per sottrarsi a loro. Tu, Enea, non avesti scelta: dovevi strappare alla morte qualche centinaia d’uomini. Eri il loro capo. Ma presto, molto presto saresti diventato un eroe. Sì! Hai esclamato. E allora? - Vidi nei tuoi occhi che mi avevi compresa. Non posso amare un eroe. Non voglio vivere la tua trasformazione in un monumento. Caro. Non hai detto che questo non ti succederà. O, che potrei evitartelo. Contro un’epoca che ha bisogno di eroi non c’è nulla da fare, lo sapevi bene quanto me. Hai gettato in mare l’anello a serpente. Dovevi andare lontano, molto lontano, e non sapevi che cosa sarebbe accaduto. Io resto. Il dolore ci ricorderà di noi. Grazie adesso, dopo, se ci rincontreremo, e qualora un dopo esista, potremo riconoscerci.»
Dunque la luce si spense … si spegne:
«Oh, l’umano destino, se felice, a un’ombra assomiglia; se sciagurato – passandogli sopra, l’umida spugna lo cancella! E più d’ogni altra cosa, questo spegnersi mi fa male.»
Il caso quindi, sostanza volatile, senza cui non nasce racconto che voglia sembrare naturale, eppure così difficile da catturare. E allora:
«Va’ Cassandra! Entra. Lascia questo carro, sottomettiti al giogo!»
Ancor prima che Cassandra apra la bocca per parlare, noi lettori già sappiamo che la guerra di Troia è finita. Agamennone, il re che ha guidato gli Achei per dieci lunghissimi anni fa ritorno a Micene, atteso da sua moglie Clitennestra e dai suoi vegliardi che erano restati. Egli arriva, accanto a lui siede sul carro di trionfo Cassandra, la troiana, figlia del re Priamo, che è morto, come sono morti tutti i suoi fratelli e la maggior parte delle sue sorelle. Troia è distrutta, e lei tutto questo l’aveva predetto, restando inascoltata … i suoi compatrioti non le hanno creduto:
«..ho immediatamente subodorato la maledizione che pende sulla casa degli Atridi» – dirà.
«Ora si permette di predire agli stranieri che l’attorniano che il loro re, appena invitato dalla moglie Clitennestra ad entrare nella rocca, calcando il tappeto di porpora steso al vincitore, e proprio da questa verrà assassinato … Cassandra non accoglie il pur nobile invito di lei a prendere parte al sacrificio che si prepara all’interno:
«E sola, (dirà) con questo racconto vado nella morte!»
«Ma che vuole, essere immortale, Lei che è una donna?» – si domanda l’autrice. E ancora, di seguito: «Di cosa oscuramente si ricorda Eschilo quando crea donne come questa? Chi vorrebbe che Omero sparisse o addirittura riapparisse in veste di storiografo fedele alla realtà? Quanti anni aveva Cassandra quando morì? Trenta? Trentacinque? Conobbe la sensazione di essere sopravvissuta a molte, troppe cose?»
Quante, troppe domande che pretendono una qualche risposta. quand'ecco una ne arriva:
«Era una cosa nuova per me domandarmi … non vogliamo assolutamente sapere il male che ci aspetta. Non solo i vincitori, anche le vittime sono salite sull’Acropoli. L’uomo e la bestia. Anche per gli dèi è così. Colui che viene prima, colei che viene prima, è sempre anche la vittima di chi viene dopo.»
«Ecco dove accadde. Questi leoni di pietra (sulla porta d’ingresso di Micene) l’hanno fissata. Al mutar della luce paiono animarsi …»
Tremila anni che non sono mai passati, che non possono essere passati invano.
Note: Un particolare ringraziamento va a Elisa Ferri delle edizioni E/o, per la sua disponibilità di imprenditrice e ispiratrice di questa trasmissione radiofonica; ad Anita Raja che ha saputo mettere nelle parole un così alto senso musicale e, ovviamente a Christa Wolf (a ricordo del suo forte impegno sociale) e per averci lasciato opere memorabili come “Cassandra” e “Premesse a Cassandra” edizioni E/o 1983.
Opere di Christa Wolf tradotte in italiano. • 1960 - Pini e sabbia dal Branderburgo • 1968 - Riflessioni su Christa T. • 1974 - Sotto i tigli • 1975 - Il cielo diviso • 1976 - Trama d'infanzia • 1979 - Nessun luogo. Da nessuna parte • 1983 - Cassandra • 1983 - Premesse a Cassandra • 1987 - Guasto • 1989 - Recita estiva • 1992 - Nel cuore dell'Europa • 1994 - Congedo dai fantasmi • 1996 - Medea. Voci • 1999 - L'altra Medea • 2002 - In carne e ossa • 2003 - Un giorno all'anno. 1960-2000 • 2005 - Con uno sguardo diverso • 2009 - Che cosa resta
Soprattutto dopo la riunificazione tedesca le opere di Christa Wolf hanno dato luogo a molte controversie. La critica della Germania occidentale rinfaccia alla scrittrice di non aver mai criticato l'autoritarismo del regime comunista della Germania orientale (così, per es., Frank Schirrmacher). Altri hanno parlato di opere intrise di "moralismo". I suoi difensori hanno invece riconosciuto il ruolo svolto dalla scrittrice nel far emergere una voce letteraria della Germania orientale. Con la sua monografia sui primi romanzi di Christa Wolf, e con successivi saggi su quelli più tardi, Fausto Cercignani ha contribuito a promuovere la consapevolezza della vera essenza della produzione narrativa della scrittrice, a prescindere dalle sue vicende politiche e personali. L’enfasi posta da Cercignani sull’eroismo delle protagoniste create da Christa Wolf ha favorito la nascita di altri studi sugli aspetti puramente letterari di questi romanzi.
Hanno scritto di lei: A. Chiarloni, “Christa Wolf. Le forme della dissidenza” contenuto in Le dissenzienti. Narrazioni e soggetti letterari, a cura di C. Bracchi, Lecce, 2007, pp.103-120.
«Addio a Christa Wolf, scrittrice del dissenso». Corriere della Sera, 1 dicembre 2011. URL consultato in data 1 dicembre 2011.
Dal web - ilsussidiario.net sez. cultura. Int. Franz Haas - venerdì 2 dicembre 2011 Si è spenta ieri a Berlino la scrittrice tedesca Christa Wolf. Una vita trascorsa sotto i regimi totalitari: prima il giogo nazionalsocialista della Germania di Hitler, e poi il comunismo della Repubblica democratica tedesca, che Wolf abbracciò con convinzione in gioventù, salvo poi prenderne le distanze nella seconda metà della vita, senza però mai «abbattere» quel Muro che i seguaci di Marx e Lenin misero in piedi per proteggere la loro costruzione politica dalle cattive sirene del mondo libero. Christa Wolf nacque nell’attuale Polonia nel 1929 - allora parte della Germania -, venne inquadrata nella gioventù nazista, a vent’anni scelse il blocco sovietico e si iscrisse al Partito socialista unificato di Germania. Germanista, critica letteraria, la sua prima opera letteraria di fama internazionale fu Il cielo diviso, uscita in Germania nel 1963, a due anni dalla costruzione di quel Muro di cui Christa Wolf prese le difese. Successivamente la sua ortodossia cominciò a incrinarsi. Criticò il regime, senza però mai abbandonare il socialismo. Dopo quello scorcio di novembre del 1989, che sancì la fine del blocco orientale e cambiò la storia europea, denunciò da posizioni socialiste la crisi dell’occidente.
La notizia della morte è stata diffusa ieri da Der Spiegel. «Faccio una cauta difesa di Christa Wolf» dice a IlSussidiario.net Franz Haas, germanista, docente nell’Università statale di Milano: «Sicuramente andrebbe assolta dall’accusa di esser considerata una scrittrice di regime. Si potrebbe dedurre da alcune opere, è vero, ma la sua produzione nell’insieme non lo giustifica. Resta in ogni caso la scrittrice più rappresentativa della Germania comunista.»
Come cambia la personalità di Christa Wolf nell’arco di tempo che va dalla sua prima produzione letteraria al crollo del Muro? Mentre nel primo periodo della sua attività, che comincia nei tardi anni cinquanta con Moskauer Novelle, Wolf è ancora completamente schierata dalla parte del regime comunista e in linea con il partito, successivamente ne prende le distanze, ma rimanendo all’interno dell’orizzonte ideologico della Ddr. Wolf divenne critica nei confronti del regime fino alla soglia del punto di rottura, ma senza spingersi oltre: se avesse fatto un «passo» in più, sarebbe stata cacciata o messa in prigione, come è stato per tanti altri.
In che modo il rapporto con il potere ha influenzato le sue opere? Si tratta di un condizionamento presente e innegabile, ma che si evolve nel tempo. Lei stessa rinnegherà molti scritti del periodo giovanile, rimproverandosi di essere stata troppo credente in quella ‘chiesa’ che era il comunismo.
Una delle sue opere più note è “Il cielo diviso”, tradotto in italiano nel 1975. Sì, è forse l’opera più nota. È una storia d’amore in cui la protagonista, fedele al regime, vuole rimanere a Berlino est, mentre lui va all’ovest e per questo impersona la figura negativa, colui che tradisce la patria. Non è molto noto che questo libro è la risposta al romanzo di un altro scrittore tedesco orientale dell’epoca, Uwe Johnson, che nel 1959 pubblica Congetture su Jakob, in cui la situazione è invertita: c’è una coppia di amanti in cui la ragazza va in occidente e il giovane, invece, rimane. Johnson, non potendo pubblicare il romanzo in Germania est, lo fece uscire in Germania ovest ma questo gli costò l’abbandono della patria. Wolf replicò a Johnson con una cauta difesa del regime comunista.
Il 1989 cambiò qualcosa nella posizione di Wolf? Rimase traumatizzata dagli attacchi che le vennero rivolti nel 1993, quando si seppe che era stata una collaboratrice informale della polizia segreta. Scrisse anche un libro di saggi in cui si difendeva, e tutte le sue opere da allora sono state la trasfigurazione letteraria di problemi politici tipici delle dittature. Criticò il totalitarismo, ma nel paradosso di un’autodifesa della sua appartenenza ideologica. Certamente non è rimasta la comunista ‘credente’ che era all’inizio degli anni sessanta.
Che dire delle sue opere dal punto di vista letterario? Molte opere valgono ancora. Il cielo diviso non è una grande opera letteraria, ma è un ottimo «documento» in grado di far rivivere al lettore l’atmosfera di quel periodo, in Germania e nel blocco comunista. Sono di rango superiore le successive Cassandra e Medea.
Perché il ricorso a queste figure mitologiche? Per poter parlare apertamente di cose di cui non avrebbe potuto parlare. Allora c’erano due grandi movimenti, quello pacifista e quello femminista. Siamo nei primi anni ottanta, al culmine della guerra fredda tra est e ovest, Cassandra li ammonisce entrambi e dice cose che senza travestimento mitologico non avrebbe potuto dire. All’epoca di Cassandra, nel 1983, la Wolf aveva già preso le distanze dal regime.
Se “Il cielo diviso” non è un’opera d’arte, allora quali sono i lavori di Christa Wolf che vale senz’altro la pena di leggere? Molto più validi del “Il Cielo diviso” sono “Trama d’infanzia”, del 1976, e il precedente “Riflessioni su Christa T.”, del 1968, due opere più o meno autobiografiche nelle quali la Wolf riflette sulla sua infanzia sotto il nazionalsocialismo e sulla sua gioventù sotto il comunismo. Queste sono opere d’arte certamente avanzate, oltre a Cassandra e a Medea.
Il suo consiglio al lettore italiano? Se è disposto ad affrontare una scrittura particolarmente ostica, suggerisco le Riflessioni su Christa T. Dico ostica perché siamo nel 1968, in un periodo in cui la letteratura tedesca molto gioca sullo sperimentalismo, utilizza una prosa riflessiva, contorta, difficile, con continui salti avanti e indietro nel tempo. Più abbordabile, invece, “Cassandra”. (Trad. Federico Ferraù).
Id: 1007 Data: 01/10/2024 16:35:57
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- Musica
The Entertainers: George Gershwin
THE ENTERTAINERS - “Gershwin in Blues” by Giorgio Mancinelli.
George Gershwin (nato Jacob Gershowitz; Brooklyn, 26 settembre 1898 – Los Angeles, 11 luglio 1937) è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra statunitense. Considerato l'iniziatore del musical statunitense, la sua opera spazia dalla musica colta al jazz.
L’America fu indubbiamente la grande protagonista dei ‘Ruggenti Anni Venti’ (The Roaring Twentie’s), in cui si condensò la grande civiltà della macchina in quanto essenza della società industriale subentrava nell’inseguimento economico del ‘new deal’ americano e che portò a uno sfoggio inusitato di libertà dei costumi e dei consumi, ivi inclusa la musica e l’intrattenimento in generale che permise ad operatori scaltri di guardare alla grande ‘macchina dei sogni’ con occhi pratici e utilitaristici. Ancor più gli Anni Venti si presentavano spumeggianti di una tale vitalità e freschezza musicale che l’America, e in seguito tutta l’Europa, si abbandonarono alla follia che la nuova musica Jazz sembrava trascinare con sé. Il fascino misterioso e prorompente del Jazz esplose quasi improvviso nelle sale da ballo: “..si ballava a Biarritz, nei salotti privati dell’albergo Miramare, a Bordeaux, all’Hotel Astor di Londra. Nei locali di New York le cosiddette Taxi-girl mordevano amorosamente l’orecchio del loro ballerino occasionale e si lasciavano accarezzare con trasporto, per tutta la durata di uno scontrino, ridiventando subito dopo, freddissime e distanti, pronte ad accusare di violenza l’uomo che insistesse per un appuntamento notturno.” “Il Jazz – ha scritto George Gershwin – è il risultato delle energie immagazzinate dall’America. È un genere di musica energica, rumorosa, impetuosa e perfino volgare. Una cosa è certa, il Jazz ha dato un contributo positivo e duraturo all’America nel senso che ha espresso la sua reale personalità”. Una personalità esuberante, inquietante, straordinaria che i nuovi artisti emergenti non tardarono a scoprire. Fu inevitabile che il Jazz una volta raggiunta la popolarità e quindi il successo internazionale, si commercializzasse. Dapprima adattato al ballo dai musicisti bianchi era un genere con pochi punti di contatto col vero Jazz dall’anima nera. Il repertorio espresso dalle orchestre allora molto in voga di Paul Whitman e Ted Lewis o dell’Original Dixeland Jazz Band, non differivano poi molto da quello delle tante orchestre da ballo che attraversavano gli States o che arrivavano in Europa. All’occorrenza leggere l’articolo su “Il Grande Gatsby” apparso in questa stessa rubrica. Anche l'influenza di Scott Joplin, compositore di colore e padre del Ragtime, appare netta in alcune sue composizioni. In particolare il ‘Concerto in F’ di Gershwin fu fortemente criticato perché troppo simile alle opere di Debussy. Comunque, la sua principale innovazione sta proprio nella combinazione di questi elementi classici (perfezione nello stile, rigidezza dello schema, ecc.) e dei ritmi e delle melodie jazz che erano già fortemente radicate nella musica nera americana. Di fondo la nuova musica riprendeva il ritmo sincopato del ‘ragtime’ di cui si è parlato nell’articolo apparso su questo stesso sito “The Entertainers - Rag-Time” dedicato alla figura di Scott Joplin. L’esplosione nei teatri di Broadway del ‘musical show’, la cui organizzazione aveva un nome alquanto curioso Tin Pan Alley fece il resto. Le canzoni contenute in alcuni ‘musical’ di successo come “La La Lucille” (1919), “George White’s Scandals” (1920-21-22-23-24-25), “Lady Be Good” (1924) e numerosi altri, su testi di Ira Gershwin e le musiche per gran parte composte ed eseguite al piano da George Gerhwin, arrivarono sulla bocca di tutti e ben presto entrarono a far parte della ‘canzone popolare’ americana. La sua prima composizione ad essere pubblicata fu “When You Want 'Em You Can't Get 'Em” (1916), tuttavia non riscosse successo immediato ma vendette comunque bene ma fruttò a Gershwin la nomina di compositore ufficiale per i grandi musical di Broadway. Aveva 18 anni. Nel 1917 compose “Rialto Ripples”, un ragtime che ottenne un discreto successo commerciale, ripetuto a livello nazionale nel 1919 con “Swanee” cantata allora dal minstrels Al Jolson. Contemporaneamente, Gershwin registrava pezzi per pianoforte di sua composizione e non. Dal 1920 al 1925 Gershwin scrisse musica per una serie di ‘musical show’ "George White's Scandals" e fu proprio durante questo periodo che il ‘re del jazz sinfonico’, Paul Whiteman, gli chiese di scrivere un'opera con tutti i caratteri del jazz sinfonico, adatta alla sua orchestra. Nel 1924, assieme al fratello Ira, collaborò ad un musical teatrale intitolato “Lady Be Good”, che fu seguito da molti altri fino al 1931 anno nel quale realizzò “Of Thee I Sing”, che valse al fratello Ira il Premio Pulitzer per i testi. Nel frattempo il cinema ‘sonoro’ si andava preparando al lancio sul mercato della più fiorente industria musicale con compositori di grande spessore come: George Gershwin, Jerome Kern, Oscar Hammerstein, Cole Porter e l’insuperabile Irving Berlin che all’inizio si dilettavano in canzonette di facile apprendimento e che li portarono al successo. In special modo quelle scritte per i numerosi ‘musical’ che riempivano i cartelloni dei teatri popolari. Al punto che tutti indistintamente (dal più povero al più ricco), finirono per essere letteralmente catturati dalla ventata di freschezza che il Jazz portava con sé. In molti pensarono che il Jazz potesse durare per l’eternità. Una canzone più di altre dimostrava questa convinzione. “S’ Wonderful” che ben presto arrivò sulla bocca di tutti, accreditando un successo strepitoso all’allora giovanissimo George Gershwin autore delle musiche di “Lady be good” (1924), un musical che inoltre consacrò all’immortalità due fra i migliori ‘ballerini’ del momento, Adele e Fred Astaire. Alcune canzoni orecchiabili tratte dai ‘musical’ s’imposero all’attenzione del grande pubblico. È il caso di “They can’t take that away from me” tratto invece da “Shall we dance?”, che sarà cantata dai più grandi interpreti della canzone internazionale e ovviamente del Jazz. Iniziava così una nuova era per la musica e Scott - Fitzgerald non a caso coniò la ‘magica’ frase: “Tutto è stato come un sogno, peccato essere desti nella vita quotidiana..” – pronunciata dopo una notte passata a ballare, quando ubriachi fino alle ginocchia ci si lasciava andare sulle note di “Fascinating Rhythm”, (ancora da ‘Lady be good’). Sempre in quegli anni un altro ‘musical’ “Shall we dance?” (….), ancora una volta di George Gershwin insieme al fratello Ira Gershwin, portava al successo un’altra coppia composta da Ginger Roger e Fred Astaire. Era ed è tutt’ora uno spettacolo vederli ballare insieme sulle punte, a testa alta e sorridenti, quello che si chiamò il ‘Tip-Tap’, un ballo che durante i ‘Roaring Twenties’, vertiginosi, frenetici, funamboleschi, dai palcoscenici di Broadway e i teatri della fumosa Londra, fece il giro del mondo. Una vera e propria ‘febbre’ era scoppiata in America e non c’era luogo, dal teatrino borghese al cinema e casa privata dove non si ballasse il ‘Tip-Tap’, dalle nonne alle figlie, alle nipoti, senza possibilità di tregua. Ma non solo. Comunque va qui ricordato che il sodalizio artistico fra George e Ira Gershwin nel teatro leggero e nella canzone non impegnata era tuttavia già conosciuto dal grosso pubblico per una serie di ‘musical’ in cui più era sentita la contaminazione Jazz tipico degli agglomerati neri che abitavano i suburbi delle grandi città, sul vecchio Blues dei neri schiavi nelle piantagioni di cotone. Ripercorrendo questa scalata di successi troviamo “Oh Kay” (1925); “Funny Face” (1927); “Strike up the band” (1930); “Girl Crazy” (1930) con le canzoni “But not for me” e “Embraceable me”; “Let eme eat cake” (1933) con le canzoni “Mine” e “They hall laughed”. Ma il vero successo internazionale giunse successivamente con il cinema di Hollywood e la colonna sonora del film “Un americano a Parigi” (1929) diretto da Vincent Minnelli che portò sulla scena il versatile Gene Kelly accompagnato da un nugolo di bambini che balla e canta “I got rhythm”. Il primo tentativo di innesto Jazz nella struttura musicale classica da parte del giovane e geniale George Gershwin risale al 1924 con la sua “Rapsody in blue”, un inserimento di ritmi e timbri perfettamente in stile jazzistico che permise al Jazz il suo ingresso dignitoso fra la musica seria. Non si trattò tanto di adattare la nuova musica agli effetti di una nuova moda quanto di conquistare il severo mondo accademico dell’epoca. L'idea per una composizione del genere Gershwin l'aveva maturata mentre andava a Boston in treno per la prima di una sua commedia musicale. "In treno – ebbe a scrivere in seguito Gershwin – i ritmi metallici e il frastuono che in un compositore agiscono spesso come stimolo, mi suggerirono improvvisamente e in modo nitido la costruzione completa della Rapsodia, dall'inizio alla fine". George la consegnò a Whiteman senza averla ancora ultimata e mentre Ferde Grofé preparava l'orchestrazione l'autore provvedeva agli ultimi ritocchi. Avrebbe voluto ancora cambiare qualcosa ma Paul Whitman diede inizio alle prove; dopo la prima il direttore esclamò: "Diavolo, pensava di poterla migliorare ancora?". Tra i 26 brani che formavano il programma della serata organizzata all’Aeolian Hall, al momento di presentare al pubblico la “Rapsody in Blue”, Paul Whitman volle seduto al piano nella grande sala da concerto lo stesso George Gershwin. Fu quindi durante quel primo concerto avvenuto il 12 Febbraio 1924 che la critica musicale decretò George Gershwin la nuova stella nel cielo dei grandi compositori statunitensi, nell’affermazione e nel riconoscimento delle sue intuizioni musicali e del suo stile originale. La sua “Rapsody in Blue” rimane uno dei pezzi più eseguiti dalle orchestre di tutto il mondo, entrata anche nella colonna sonora del film animato della Disney, “Fantasia 2000”. Fecero seguito il “Concerto in fa”, la “Seconda Rapsodia”, oltre a numerose altre composizioni, tra le quali vanno senz’altro ricordate “Cuban Overture” e la suite “Catfish Row” che segnano i primi passi di Gershwin avviato verso la sua opera più importante:“Porgy and Bess”. Tuttavia, prima di parlare di quest’opera che segna una svolta decisiva nella storia dell’opera lirica americana, è utile ricordarne un’altra, meno fortunata, dal titolo “Blue Monday” (1922), una black-opera conosciuta anche col titolo “135th Street” su libretto di Buddy de Silva e classificata come la prima importante opera seria di Gershwin. La sua struttura musicale tuttavia permette di conoscere le mosse del musicista alle prove con l’opera più matura. Di essa sopravvivono oggi alcuni brani strumentali e alcune canzoni, come ad esempio la pur interessante “Blue Monday Blues”, e la delicatissima “Has anyyone seen may Joe?”. In questo periodo Gershwin cominciò a intrattenere una relazione piuttosto stabile con una compositrice dell'epoca, Kay Swift. Il musical “Oh, Kay!” (1926) di Gershwin infatti prendeva il suo nome. Si dice che George la consultasse spesso per chiederle pareri riguardo alle sue canzoni. Nel 1932 suona al pianoforte nella prima esecuzione assoluta nella Symphony Hall di Boston della Rapsodia n. 2 rinominata "Manhattan Rhapsody" per pianoforte e orchestra di sua composizione diretta da Serge Koussevitzky. Rilevante è il periodo cosiddetto ‘europeo’ di George Gershwin. Nel 1928 George e Ira, suo fratello, si stabilirono per un breve periodo a Parigi, dove George si dedicò principalmente allo studio della composizione. Numerosi compositori, tra i quali anche Maurice Ravel rifiutarono però di insegnare loro, temendo che il rigore della classicità potesse reprimere la sfumatura jazz di Gershwin. Anche l'influenza di Scott Joplin, compositore di colore e padre del Ragtime, appare netta in alcune sue composizioni. In particolare il “Concerto in F” di Gershwin fu fortemente criticato perché troppo simile alle opere di Debussy. Comunque, la sua principale innovazione sta proprio nella combinazione di questi elementi classici (perfezione nello stile, rigidezza dello schema, ecc.) e dei ritmi e delle melodie jazz che erano già fortemente radicate nella musica nera americana. “Perché volete diventare un Ravel di seconda mano, quando siete già un Gershwin di prim'ordine?” – avrebbe detto loro il grande maestro francese. L'opera di Gershwin tuttavia fu fortemente influenzata da altri compositori come Igor Stravinskij e Arnold Schoenberg, quasi contemporanei. A Schoenberg l'allora giovanissimo Gershwin chiese addirittura lezioni di composizione. Nel frattempo, mentre era in Europa Gershwin scrisse “Un americano a Parigi”, un'opera che inizialmente, alla sua prima esecuzione alla Carnegie Hall il 13 dicembre 1928, ottenne un successo non globale, ma che poi si trasformò in uno standard. In quel periodo Gershwin scrisse anche altri musical, e dopo poco tempo dopo si stancò della scena musicale europea e tornò negli Stati Uniti. Ma arriviamo a “Porgy and Bess” (1935) in cui George Gershwin ha voluto esprimere il dramma, l’umorismo, la superstizione, il fervore religioso, la danza e l’irrefrenabile allegria della razza negra. Scriveva lo stesso Gershwin in quei giorni: “La musica per essere autentica deve esprimere i pensieri e le aspirazioni del proprio popolo e del proprio tempo. il mio popolo è quello americano, il mio tempo è l’oggi. (..) Se nella realizzazione dei miei intenti musicali ho creato un nuovo genere che fonde in se elementi operistici ed elementi più spiccatamente teatrali, questo nuovo genere è nato nel modo più naturale e spontaneo del soggetto stesso”. “Porgy and Bess” è tuttora generalmente considerata la più grande opera americana del XX secolo, sia per la sua innovatività (i personaggi sono quasi tutti neri) che per la qualità delle canzoni che presenta. Il principale motivo per cui le composizioni di Gershwin sono ancora apprezzate è, infatti, la loro trasversalità: combinano elementi che dimostrano grandi conoscenze delle tecniche classiche, come una ‘fuga’ e vari cambi di tonalità, con le sonorità tipiche della musica popolare, e, in particolare, del Jazz. L’opera infatti è da considerarsi il culmine creativo dell’evoluzione stilistica di Gershwin che accoglie nella struttura del melodramma il ‘song’ e il ‘blues’ tipici dell’ambiente nero-americano rielaborato attraverso un linguaggio musicale espressivo e raffinato. Alla sua prima rappresentazione operistica fece seguito la versione in chiave spettacolare del ‘musical’ e solo successivamente è stata ripresa nella versione lirica dalla Houston Grand Opera House (1976) e premiata con il Tony Award. Nel 1959 Samuel Goldwin ne trasse un film musicale con lo stesso titolo e interpretato da soli interpreti di colore che rimane comunque l’unica versione cinematografica esistente. Prodotto da Samuel Goldwyn e Rouben Mamoulian, che avendo allestito la produzione originale nel 1935 a Broadway, fu proposto come regista, ma a causa di disaccordi che riguardavano le location e altro, fu licenziato. Otto Preminger prese il posto di Mamoulian, sebbene parte del lavoro di Mamoulian si può vedere e sentire in "Good Morning, Sistuh" numero cantato all’inizio della scena finale. Sebbene il film vinse un Oscar e un Golden Globe, e la sua colonna sonora vinse un Grammy, esso fu un insuccesso sia commerciale che di critica. Fu trasmesso dalla televisione americana solo una volta, nella notte del 5 marzo 1967, dalla ABC-TV. Ira Gershwin e il patrimonio Gershwin furono scontenti del film e revocarono i diritti da esso nel 1970. Come risultato, il film non venne mai distribuito e poche proiezioni pubbliche sono state permesse. C’è da credere che il negativo originale sia in condizioni pessime e che necessiti di restauro. Nonostante Sidney Poitier e Dorothy Dandridge fossero le star del film, le loro voci furono doppiate nelle canzoni, come per “Carmen Jones”. Robert McFerrin cantò per Poitier e Adele Addison per la Dandridge. Il film tagliò molta della musica, cambiando i recitativi del musical in dialoghi, rispetto allo show del 1942 a Broadway. Nel 2011 è stato scelto per essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. È ancora il mondo dei negri isolati che viene qui messo in risalto e molto si deve alla musica e alle canzoni di George Gershwin. Nell’opera infatti si condensano ritmi e melodie popolari tipici dei negro-spiritual, recuperati per un risultato formale ed espressivo di grande efficacia compositiva, come “It ain’t necessarily so” e la stupenda “Summertime” su testo di Ira Gershwin e DuBose Heyward: una ninna-nanna arrangiata ed eseguita dai più famosi musicisti e cantanti della storia del Jazz. La storia si svolge a Catfish Row a Charleston nel South Carolina e narra della faida scatenatasi nel cortile della fattoria: Porgy, un medico zoppo si prende cura di Bess, rimasta sola dopo che il suo uomo Crown è fuggito, abbandonandola. Fra loro nasce l’amore e Bess che sembra aver ritrovato la serenità esprime tutto il suo affetto con una canzone “I love you, Porgy”. Porgy a sua volta accusato di spaccio di coca viene arrestato dalla polizia. Bess rimasta ancora una volta sola, si lascia convincere da Sporting Life, uno spacciatore che la conduce con sé a New York. La giustizia fa luce sul fatto e l’innocenza di Porgy è confermata. Al suo ritorno però egli non trova l’amata Bess ad aspettarlo ed egli parte alla sua ricerca cantando “I’m on my way” a suggello dell’essere nel giusto in quello che fa. Un dramma dunque costruito sull’amore universale, la cui eco ripete le parole di una speranza antica: “..tutto è stato come un sogno, peccato essere desti nella vita quotidiana – è stato detto – proviamo quindi a inebriarci del nostro amore, finché dura, sarà un sostituto del favoloso mondo abbandonato. L’amore come droga non regge, ma la favola questo può ignorarlo … e il dramma trasformato in favola della speranza ritrovata si chiude”. Nel 1936 George Gershwin si trasferì a Hollywood per comporre colonne sonore, ma ricevette solo una nomination all'Oscar per una canzone che scrisse insieme al fratello Ira, “They Can't Take That Away from Me”, tratta dallo show “Voglio danzar con te “ (Shall We Dance?, 1937). La sua celebrità ormai toccava le vette del firmamento musicale, anche se fu costretto a dividerla con gli altri grandi musicisti del tempo, Cole Porter e Irving Berlin. Se si esamina dal punto di vista specificatamente compositivo, Gershwin ha influenzato enormemente tutti i compositori di musical venuti dopo di lui, e in particolare proprio Cole Porter, Irving Berlin e Jerome Kern. Ma già all'inizio del 1937 Gershwin cominciò ad avvertire i sintomi di quello che si rivelerà un tumore al cervello: mal di testa lancinanti e una costante impressione di emanare odore di gomma bruciata. E fu proprio sul set di “The Goldwyn Follies”, l'11 luglio 1937 Gershwin si accasciò al suolo e subito dopo morì al Cedars of Lebanon Hospital dopo un inutile intervento d'urgenza. Per ironia della sorte, anche il suo idolo Maurice Ravel morì pochi mesi dopo, durante un intervento simile al cervello. Ai solenni funerali tenutisi il 15 luglio 1937 presso la sinagoga Emanu-El di New York partecipò una folla di oltre 4500 persone, assieme al sindaco di New York Fiorello La Guardia e a numerose personalità della politica e della cultura newyorkese. Nel 2005 il Guardian stilò una stima dei guadagni accumulati da Gershwin e stabilì che George era il più ricco compositore di tutti i tempi. Nel 2006 G. Gershwin fu introdotto nella Long Island Music Hall of Fame. Il George Gershwin Theatre di Broadway oggi porta il suo nome e si riconosce a Gershwin la composizione di più di 700 brani, la maggior parte dei quali assieme a Ira suo fratello. L'eredità musicale che George Gershwin ha lasciato al mondo è incalcolabile: rimane tutt'oggi uno dei grandi preferiti, sia delle orchestre che dei cantanti; lo stile è molto sofisticato e può essere tranquillamente preso come modello per insegnamenti; i temi dei musical sono tra i più svariati; migliaia di artisti hanno cantato sue canzoni. Nel 1959 Ella Fitzgerald ha rilasciato l'album ‘Ella Fitzgerald Sing the George and Ira Gershwin Songbook’, composto solo dalle canzoni dei due fratelli. In quasi tutti gli album di Frank Sinatra possiamo trovare almeno una canzone di Gershwin, per non dire dell’album dedicato da Sarah Vaughan, e possiamo aggiungere le moltissime stupende versioni attuali incluse in “Great Jazz Vocalist Sing George Gershwin”. Nel 2007 la Library of Congress ha stabilito che il loro ‘Premio’ per la canzone popolare fosse intitolato a George e Ira Gershwin. Riconoscendo ad essi i profondi effetti della musica popolare sulla cultura, il premio è consegnato ogni anno a chi, nel corso della vita, si avvicini, raggiunga o superi gli standard di eccellenza in questo campo rappresentati dai fratelli Gershwin. Il premio è stato consegnato per la prima volta a Paul Simon, il 1º maggio 2007. Nel 1945 è stato girato negli Stati Uniti un film biografico su George Gershwin dal regista Irving Rapper, con il titolo ‘Rhapsody in Blue’. La parte del protagonista/compositore è stata interpretata dall'attore Robert Alda. A noi piace ricordarlo così, attraverso le sue innumerevoli ‘opere’ che in qualche modo hanno segnato la sua breve carriera artistica.
Quello qui di seguito riportato è un elenco ridotto della sua produzione (tratto da Wikipedia):
1919 - La La Lucille - (testi di Jackson, DeSylva, Caesar) 1920 - George White's Scandals of 1920 - (testi di Jackson) 1922 - Blue Monday - un'opera in un atto presentata al Globe Theatre, fu poi ripresa e rinominata per una rappresentazione alla Carnegie Hall nel 1925 1924 - Lady, Be Good! - (testi di I. Gershwin) 1924 - Rhapsody in Blue - la sua opera più famosa 1925 - Concerto in FA maggiore - tre movimenti, piano e orchestra 1926 - Oh, Kay! - (testi di I. Gershwin, Dietz) 1927 - Strike Up the Band - (testi di I. Gershwin) 1927 - Funny Face - (testi di Ira Gershwin) 1928 - Un americano a Parigi - poema sinfonico suonato per la prima volta dalla New York Philharmonic alla Carnegie Hall 1930 - Girl Crazy - (testi di I. Gershwin) 1931 - Second Rhapsody - per piano e orchestra 1931 - Of Thee I Sing; vincitore del Premio Pulitzer - (testi di I. Gershwin) 1932 - Cuban Overture - basata su ritmi cubani e originariamente intitolata Rumba 1933 - Pardon My English - (testi di I. Gershwin) 1933 - Let 'Em Eat Cake - (testi di I. Gershwin) 1934 - Variations on "I Got Rhythm" - una serie di variazioni sulla sua canzone I Got Rhythm, per pianoforte e orchestra 1935 - Porgy and Bess - (Opera lirica su testi di Ira Gershwin, Heyward) 1937 - Voglio danzar con te (Shall We Dance) di Mark Sandrich - (testi di I. Gershwin) 1937 - Una magnifica avventura (A Damsel in Distress) di George Stevens- (testi di I. Gershwin) 1938 - Follie di Hollywood (The Goldwyn Follies) di George Marshall. George Gershwin morì durante le riprese di questo film. 1947 - The Shocking Miss Pilgrim di George Seaton. Kay Swift prese alcuni inediti di Gershwin e li adattò al film - (testi di I. Gershwin) 1964 - Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid) di Billy Wilder; ancora altri inediti - (testi di Ira Gershwin).
Id: 1006 Data: 28/09/2024 07:09:51
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- Esobiologia
Yi : linee / segmenti / geometrie / illuminazioni
Yi : linee / segmenti / geometrie / illuminazioni
(un estetismo raffinatissimo racchiuso in una sola parola, dal cinese antico che indica l’emozione e i pensieri suscitati dalla contemplazione della perfezione).
Distese ininterrotte di geometrie grandiose la cui piccolezza suggerisce ampiezze infinite abolisce i limiti delle misure dove ogni linea interseca altre linee ogni segmento si apre nell’altro negli spazi conchiusi, definiti non già da aspri muri bensì da sentieri sinuosi laghetti e rocce, montagne artificiali e alberi nani fiori splendidi di un giardino in molti giardini poesia come affermazione del vivere: “dove la bellezza penetra a poco a poco”.
Architetture fantastiche di padiglioni edifici dalle colonne delicate studiati con la stessa meticolosa cura vitali come alberi e pietre componenti sublimi del giardino della vita empiriche guglie coi bordi rivolti verso l’alto e le “campane” appese a raccogliere il vento che scende dalle montagne “tutte le montagne del mondo in una sola pietra” come mondi che vorticano nello spazio l’enigma che materializza l’irreale: quasi a contemplare il proprio volto riflesso nell’acqua.
Paradigmi del possibile sostanza stessa dell’anima sublime tenuta tra le braccia come una tempesta entro la cinta vuota del giardino le cui rocce, di un colore rossastro rubate sul fondo di un lago lontano danno forma a una piana ove si contempla la luna e ancor tengono il tempo prigioniero dei capricci e dei colori dell’arcobaleno dove tutto diventa possibile un laghetto di ninfee a fioritura tardiva crisantemi e ginepri piantati nel disordine dell’ordine.
Geometrie di intarsi marmorei quasi spazi formati dagli spasimi della creazione nelle pietre screziate e striate ove si scorgono rupi rocciose, gole e cascate "e geni impegnati in epiche battaglie" d’una stagione infinita e accogliente due volti di ciò che è Uno solo l’esatto opposto di tutto ciò che all'apparenza siamo e che ci lega come sono legati il giorno e la notte di cui il tempo è prigioniero con la furia ardente di chi crea di chi ha scelto il tuono e lo splendore vorticoso dell’acqua . . . lo sgomento e la felicità della propria audacia di tutto ciò che in fondo siamo.
Tempio Zen (legni / corde / note / sabbia / roccia)
battito di legni cadenzati passaggi armonici di corde d’archi improvvisati lanciati nel sidereo vuoto . . . pizzicato di violini di pini all’orizzonte . . . fruscio di vento accordi di fiati di sonorità marine che sbattono contro il tempo riflessi di sabbie dorate . . . roccia che si espande dominio di sale seccura di miele . . . disegni di neve sulle cime montagne sospese sfrangiate contro il cielo note di colore blues e jazz di chitarre lamenti e bandoneon . . . passi di danza come di scrittura su un pentagramma ondoso di maree come di scoglio tracciato . . .
sopra la sabbia.
Id: 1005 Data: 14/09/2024 05:08:11
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- Poesia
Alessandro Villa … o del piacere di scrivere poesia.
Alessandro Villa … o del piacere di scrivere poesia. “Frammenti d’Estate, Versi in Viaggio” – Prometheus Editore 2024 «Dolce ti culla / nel magico viaggio / sull’onda (ogni nota un volo) / …il pensiero s’espande / oltre i confini del reale / ed eccoti / ad abbracciare i sogni / mentre la luna / ti sorride.» (La voce) Un’indagine sulla ‘forma’ e sul ‘senso’ dello scrivere contraddistingue e determina l’andamento evolutivo di questa ‘poesia’ nel rapporto costante con la natura antropica e ambientale che la determina nella sua estemporaneità verbale. Non ha caso un noto filosofo quale è Gaston Bachelard in proposito scrive: “Ciò che può sperare la filosofia è di rendere la poesia e la scienza complementari, di unirle come due contrari ben fatti”, avallando così un ipotetico quanto possibile luogo dove la poesia è chiamata a coabitare, cioè nel “futuro sostenibile della comunicazione immateriale”, partecipata oggi da milioni di fruitori nel mondo, che pur ci dice del suo continuare ad essere malgrado le angherie subite nella scuola, dalla quale è stata pressoché abolita. La ritroviamo infatti negli spazi più insospettati come la pubblicità e gli scambi ‘social’ e/o negli sproloqui di logore citazioni di quanti forse neppure sanno di affondare le mani… «Gli occhi parlano / con la notte, / le palpebre col buio: / mio / il sogno / …tuo / il giorno.» (VRSAR) Che la ‘poesia’ rappresenti una delle migliori forme artistiche dell’umano esprimersi è alquanto assodato, malgrado qualche avventato ne abbia determinata la fine, di certo non sono estinti i poeti che imperturbabili continuano a raccogliere le loro dissertazioni, accresciute e maturate negli anni, che vengono pubblicate in antologie e sillogi più spesso in un ambito editoriale di nicchia che pure ne attestano la sua sopravvivenza nel tempo, affermando il prosieguo di una indiscussa ‘memoria lirica’ mai venuta meno… «Una danza di nubi / su rami d’abete / e fruste di sole / sull’acqua… / il giorno che muore / ha già l’eco / dell’alba.» (Cres…la sera) Ciò che inoltre alimenta la conservazione di una certa tradizione lirica del verso, assumendo più che mai un contesto di grande attualità; si pensi all’esercitazione canora costantemente innovativa della lingua, al suo dare una vertiginosa loquacità espressiva nel dire di tutti i giorni: «Parlo, guardo ascolto: il silenzio m’imprigiona.» Ecco, la ‘poesia’ al dunque, ha permesso tutto questo, l’espandersi della linfa che da sempre ispira i ‘poeti’ e che si riversa nel mondo contemporaneo nell’odierna ‘canzone popolare’ che, come dice un noto ritornello scrivono quelle che “non sono solo canzonette”, bensì autentiche romanze d’amore, inni alla gioia, esaltazioni del dolore e della solitudine dell’anima che, rispecchiando i sentimenti dei singoli, seppur tradotte nei diversi linguaggi, volgono in divenire a quell’intimo immateriale che è testimonianza di tutti noi indistintamente, prioritario del nostro esistere e della ‘storia universale’ che andiamo scrivendo… «Una nota / accende emozioni / mai sopite / …il passato, oggi… / il tempo, fermato… / “Senectute”? / No, voglio questi istanti / qui (ancora) / sorridere, gioire / di quell’attimo / d’infinito.» (Musica) «Nostalgiche note / indulgo, “serici sogni” / mi portano lontano. / Voci, volti, viaggi / veloci scorrono / ed eccomi (vagabondo) / nel tempo…» (Ascoltando Battiato). Ciò che nel contrasto con la filosofia in parte sfugge alla dimensione effimera che in genere si dà alla ‘poesia’, per fare qui ritorno, dopo tanti verticismi e barocchismi linguistici, a quella linearità auspicata da più parti, che ne determina la liricità più pura, in cui il verso recupera quella sua semplicità espressiva che da sempre ci accompagna… «Agita i fianchi / accenna una ruota, / le mani nell’aria / i passi in volo, /Fissa lo specchio / e ripete, ripete… / inseguendo / l’acerbo sogno / d’una scena.» (La piccola ballerina) Una linearità che ritroviamo in Alessandro Villa attraverso l’intero arco della sua produzione poetica, frutto di una lunga esperienza di vita con e nella poesia che lo ha visto protagonista di molteplici iniziative antologiche in Italia e all’estero con la creazione di Premi Internazionali, nonché del Centro Giovanile di Triuggio dedito alla formazione e allo studio della ‘poesia italiana’ che egli in parte riscatta dal definitivo oblio… «Rapide / saltellano / le dita, vibrano / le corde, / danzano / le mani / del bardo e le storie / prendono vita / (tutto è uno, l’uno è il tutto). / Dalle nebbie del tempo / ecco i lamenti / di Boadicea… / Rapide, rapide / s’intrecciano note, / rapide, rapide sfumano / (fatui fuochi d’una sera).» (Sogni) Ancor più in tutta la sua integrità in quest’ultima raccolta decennale, per l’appunto intitolata “Frammenti d’Estate” che ripercorre il sapore e la gioia di una lunga stagione assolata degli anni che si porta dietro non come rimembranza, si direbbe più come sogno svolto ad occhi aperti sulle intermittenze della vita, alla lettura mai stanca delle emozioni nel fluire dei giorni, degli incontri fatti e degli sguardi sui volti delle persone, dell’andirivieni dell’onde del mare, così come del movimento delle nuvole a nascondere il volto ‘poetico’ della luna, onde avvalorare contrasti e pacificazioni del rincorrersi delle stagioni… «Fluttua il pensiero / oltre gli scogli / in cerca di un filo / che ne leghi la trama. / Il vento scompone / logora e frantuma / emozioni che l’acqua / raccoglie e l’onda / raduna… / l’infinito le culla / sciogliendone i nodi / che un sole assopito / trastulla, tra sogni / ed attese di luna.» (Pensiero) Leggiamone dunque i passaggi più significativi della sua nuova raccolta, con lo sguardo rivolto a questa lunga assolata ‘estate’ in cui il poeta racconta se stesso non senza un pizzico di crepuscolare malinconia, in cui la sua voce si leva nel canto alla bellezza della vita. L’Autore. Alessandro Villa vive e opera a Triuggio (MB), fondatore del Centro Giovani e Poesia, ha promosso numerose iniziative e manifestazioni culturali, quali l’omonimo Premio Internazionale di Poesia; ha elaborato una metodologia di lavoro che ha trovato ampia applicazione nei “Laboratori di Poesia” organizzati dal Centro. È presente in numerose antologie poetiche, anche estere, tra cui YIP (Yale Italian Poetry), ha pubblicato nove raccolte di poesia e il saggio biografico “Il canto della gru”, tradotto e pubblicato in molti paesi di lingua slava. È autore del saggio: “Giovani e poesia contemporanea in Italia: un viaggio tra sogni, illusioni e tempeste…” (Poeti e Poesia). Dirige la collana di poesia “Camene” per Prometheus Editrice, rivolta a giovani autori emergenti. "Antologia del Premio Internazionale" 33esima edizione Triuggio. Email: centrogiovaniepoesia@gmail.com
Id: 1004 Data: 07/09/2024 17:27:49
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- Libri
Massimo Costa Storia di una Nazione - Rise-Press Editore
Massimo Costa 'Storia di una Nazione: Politica e Istituzioni siciliane nei secoli' – Rise&Press Editore 2024.
Si sa, col tempo le distanze si fanno più lontane e le assenze troppo prolungate spesso si dimenticano. Così, per contrastare questa verità, si dice che il passato prima o poi ritorna a rammentarci chi siamo. È allora che non si ci può dimenticare che esiste, che il passato è parte di noi, di quanti l’hanno vissuto in prima persona e anche di chi no ma che avverte di avercelo nel sangue, nel proprio attaccamento alla propria terra d’origine. Si dice anche che una terra possa entrarti nell’anima e diventare ‘madre adottiva’ di quanti la ‘vivono’ nelle proprie viscere o per simbiosi elettiva, e anche di chi ne respira l’afflato direttamente dalle antiche vestigia del tempo. Come appunto nel caso dell’autore di questo libro, Massimo Costa, professore e studioso di scienze storico-sociali all’Università di Palermo, travolto dalla ‘fascinazione’ talvolta disarmante quanto accomodante, della ‘storia’ narrata in questo copioso libro che “invita a una riflessione approfondita e rigorosa” del panorama storiografico, politico-economico e sociale della Sicilia nel corso dei secoli. Del resto così accade, e quando accade, non si può fare nient’altro che abbandonarsi ad essa, alla storia intendo, e di lasciarsi condurre nelle vicende speculari della vita di tutto un popolo, quello ‘Siculo-Siceliota’, e di una ‘nazione’ che ha visto, nei millenni vissuti tra avvicendamenti e sconvolgimenti di tale portata che ne hanno cambiato i lineamenti originali: dagli ‘archetipi dell’inconscio collettivo’ a ‘le ricerche sul simbolismo’ (Jung), agli antichi riti propedeutici propri delle credenze popolari (De Martino); dalle forme di religiosità autoctone relegate ai misteri ctoni riferiti alla ‘Grande Madre’ (Pitré), proprio dell’evoluzione del potere socio-politico-economico attraverso i secoli, che hanno segnato l’evoluzione siciliana (Sciascia, Tommasi di Lampedusa), solo per citarne alcuni. Una ‘storia’ dunque, ma soprattutto un ‘viaggio’ attraverso i diversi linguaggi socio-culturali-artistici che hanno dato luogo all’odierno sviluppo dell’evoluzione culturale delle popolazioni autoctone, un tutt’uno con quelle migratorie derivate dalla colonizzazione dei ‘poteri regnanti’ che si sono succeduti, e che hanno permesso la formazione e l’interazione delle popolazioni rurali ‘arcaiche’, con quelle più emancipate che hanno trasformato lo status isolano in confederazioni provinciali, quelle ‘poleis’ nate sul dichiarato diritto alla libertà dovuto alla antropica popolazione, stanziale sul territorio. Ma non è tutto. Scorrendo i titoli riportati nell’indice, suddiviso in capitoli di riferimento ai diversi periodi storici, troviamo ben altre argomentazioni relative alle colonizzazioni, alle conquiste e le dominazioni succedutesi, le conversioni religiose, i Vespri, le ascese regnanti, le ‘dinastie’, fino alla Costituzione del Parlamento autonomo del Regno delle Due Sicilie, l’ammissione della Regione Sicilia al Regno d’Italia, e successivamente nella Repubblica Italiana e nell’Unione Europea ecc. ecc. Quanto basta a fare di questo libro un vero e proprio ‘vademecum’ verso la conoscenza che nei fatti non si limita a ‘raccontare’ composti e accadimenti della storia dell’isola quanto a ripercorrere le tappe della storia di noi tutti, intrisa sì di sicilianità quanto di italianità, che irrompe nell’avvicendamento della nazione italiana verso quella che è oggi, nell’odierna modernità dei suoi connotati democratici e repubblicani, “arricchendo il panorama storiografico con nuove prospettive”, che vanno dall’accoglienza all’integrazione dei popoli confinanti, dall’apprendimento delle nuove tecnologie evolutive, all’evoluzione socio-politica-economica antropica e solidale del nostro tempo. Con ciò mi rivolgo a quelle ‘nuove generazioni’ che nate negli anni ’60/’90, hanno conosciuto l’arretratezza, se non proprio l’abbandono del Sud, attraverso le molteplici e sporadiche, quanto faziose, promesse di un riscatto che non è mai arrivato, i cui tentativi, più o meno riusciti della provvidenza, per quanto aprissero a forme di contaminazione sociale, in realtà hanno lasciate le ‘cose’ preesistenti sul territorio, così com’erano: nella separazione di partenza, con impropri interventi che davano il cambio a iniziative che messe in campo, non venivano portate a termine, e che restavano le stesse, in contrasto coi neo-riti metropolitani, che si consumavano sul continente. Ciò nell’intento più che mai falso – così si diceva allora e si è sempre ripetuto – di preservare identità, tradizione e radici di una presunta purezza e originalità incontaminata, in quanto bagaglio della propria cultura formativa, per quanto nel corso dei secoli, la cultura popolare della regione avesse subito a più riprese l’influsso di credenze e ideologie d’origini diverse, altrettanto solide, argomentate e diffuse in altre regioni limitrofe, tipiche di altri popoli: medio-orientali greci, turchi, albanesi, bizantini e islamici che gli isolani dell’antica Trinacria, da sempre è andata ospitando. Una prima constatazione infatti, fu che i cosiddetti ‘portatori’ della tradizione, a differenza dei protagonisti della scena avanguardistica metropolitana, si mostrarono più disponibili e adattabili a ogni nuova situazione e per nulla inibiti dalla questione identitaria. Per quanto, sul piano storico-teorico e sociale, prevalentemente in quegli stessi anni, si era approdati alla conclusione accademica di ridimensionamento della sfera elettiva, per cui: ’la tradizione è un’invenzione’, e l’ ‘identità è un mito’. Nulla di più essenziale del ‘mito’ e niente più affascinante dell’invenzione della ‘tradizione’ per introdurre questo nuovo libro di Massimo Costa in cui, seppure sulla scia di una ricerca che inizialmente s’avvale di testimonianze sul campo, per l’appunto – il mito; tende a ricreare situazioni verosimilmente attendibili di un certo passato, direi alquanto suggestivo, dacché la ‘re-invenzione’ poetico-narrativa ormai diventata latente, che si rianima per l’occasione in queste pagine stracolme della ‘vita vissuta’ di tutto un popolo, quello siciliano di oggi. Viene da chiedersi quale migliore forma di seduzione avvolge il lettore, se non quella di sentirsi protagonista di una storia che in qualche modo gli appartiene? Quale onesta sollecitudine l’assale, allorché superato lo scoglio della memoria (che può non avere presente), si ritrova a camminare sulle impronte dei padri e magari dei nonni, o di quei trisavoli che hanno segnato la storia di quella che oggi riscopriamo essere d’appartenenza della nostra civiltà? Non a queste domande risponde l’autore di questo libro redatto con linguaggio ‘schietto e verace’ al pari di un gioco di carte che si ripropone a quanti, seduti intorno al tavolino, magari (anzi certamente) davanti a una brocca di buon vino fatto alla vecchia maniera, si raccolgono a brindare ‘alla salute!’ e ‘alla vita!’, dopo una giornata passata con la schiena piegata nel duro lavoro della terra, alla raccolta delle olive o alla mietitura, e perché no, al dolce vendemmiare. Purché poi si vada tutti insieme a ballare sull’aia al suono della fisarmonica e del tamburello, sulle canzoni-a-storno che s’incastrano nel tema della ‘tarantella siciliana’ intonata sul friscalettu, tamburello, marranzano e fisarmonica, insieme al canto apotropaico del ‘ciuri, ciuri’, imprecazione, preghiera ed esaltazione, rito magico e divinazione, sullo sfondo di una religiosità sommersa che s’aggira ancora oggi sotto altre sembianze, e che entrata nella cultura musicale contemporanea, funge da ‘suggestivo’ richiamo d’innumerevoli masse. Quella stessa suggestione che ha infatuato lo scrittore Massimo Costa andando alla ricerca delle proprie origini ‘siculo siceliote’, il cui contributo “rappresenta un punto di riferimento per gli studiosi e gli appassionati di storia siciliana, e non solo, con un’analisi critica che invita alla riflessione approfondita sulla situazione attuale”. È così che questo libro rientra in quest’ottica fatta propria dallo scrittore nelle tante “storie” che lo compongono e nei suoi molteplici personaggi, che a volte assume aspetti propri della ‘fantasmata’, in cui i fantasmi del passato fanno ritorno a chiedere laggio o, a rivendicare l’affronto della ‘morte’, i cui destini hanno lasciato il segno sull’isola e hanno segnato grandemente gli isolani. Così come i nuovi ‘cittadini’ dell’odierna Sicilia che in qualche modo invito a seguire quanto suggerito da Federico De Roberto (siciliano a tutti gli effetti) di “…dire al popolo quanto è giusto e santo parlargli dei suoi diritti, ma quanto è necessario e doveroso rammentargli anche i suoi doveri” (dal romanzo «L’Imperio»), ma anche quello de “I Viceré” per intenderci. Fandonie d’altri tempi, direte voi, ma che certe cose siano davvero accadute, è di fatto innegabile. Ed eccoci così arrivati al punto, per cui tanto vale lasciarci prendere dal rapimento della ‘storia’ qui narrata e, poiché più delle parole contano i fatti, godiamo nel rileggerci com’eravamo, non senza una certa complessità d’intenti. Fatto è che questo libro va a colmare un vuoto editoriale non indifferente, se pensiamo che ogni nostra regione ‘italiota’ dovrebbe di per sé conoscere le proprie origini e le cronache del suo e del nostro tempo.
L’Autore: Massimo Costa è professore ordinario di Economia Aziendale all’Università di Palermo, attento studioso di scienze storico-sociali, con particolare attenzione alle istituzioni siciliane. La sua ricerca approfondita dello Statuto della Regione Sicilia e i rapporti finanziari con lo stato centrale ha contribuito a illuminare la complessa storia della regione, anche attraverso il libro “Autonomia tradita?” pubblicato da Rise&Press.
Id: 1002 Data: 12/08/2024 18:32:04
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- Arte
Basquiat - Autoriferimento e denuncia sociale
3)Basquiat: ritratto dell’artista di strada.
‘Autoriferimento’ e denuncia sociale.
Quando, si era nel 1976, Basquiat comincia a entrare nel mondo dell’arte con i graffiti, le sue opere riportavano la firma di un fantomatico SAMO (1). “Poesie di strada”, come furono definite dal Soho News, richiamavano veri e propri rebus, ma al tempo stesso si presentavano come proteste contro la società contemporanea e contro le forme classiche della rappresentazione del “fare arte”. Talvolta si trattava di vere e proprie dichiarazioni esistenziali, derivanti da un flusso di pensiero continuo, quasi filosofico, di una specie di guru, o nuovo predicatore che dir si voglia, anonimo in quanto sconosciuto. Era facile che in un distretto newyorkese come la Manhattan di allora, il cronista si spingesse a cercare qualcosa cui fare riferimento e che fosse di attualità. Soprattutto che rispondesse alle tante domande della gente comune su chi erano i componenti di “quella risma di imbrattatori” che armati di bombolette spray sporcavano i muri cittadini. Dapprima odiati o mal sopportati dalla società, a seconda dei casi, finirono per essere accettati al suo interno, come portatori ‘insani’ di una nuova forma d’arte espressamente gratuita che, in qualche caso, copriva lo sporco e quanto di più triste appariva sui muri delle città. Chi avrebbe mai pensato che ritrovarsi una saracinesca del proprio fatiscente negozio o una semplice firma (e più d’una) fra quelle che circolavano, avrebbe attirato un pubblico maggiore, se non addirittura i turisti che ne apprezzavano il contenuto? Per molti divenne una forma di visibilità che la pubblicità avrebbe reso ancor più fonte espositiva d’immagine. E c’era pure chi vi prendeva spunto per sollevare una ‘critica alla democrazia’, alla ‘politica inconcludente’, alla ‘falsa ideologia’, alla ‘religione che ti lava il cervello’, o addirittura come soluzione ‘alternativa al fare arte’, quella stessa arte che faceva tanto trendy fra i “radical-chic”, quando a farla era il finanziamento dei dollari di papà. Magari, senza neppure accorgersi che intanto il ‘graffitismo’, almeno quello firmato Al Diaz (2), o Basquiat, alias SAMO acronimo di “SAMe Old Shit” (la solita vecchia m***a), e altre frasi criptiche e di protesta che apparivano al mattino sui muri o sulle lamiere dei vagoni metropolitani, si preparava a valicare i confini dell’arte detta ‘nuova avanguardia americana’ (3). In quel tempo Basquiat iniziava a vendere magliette dipinte e cartoline che egli stesso produceva con la tecnica del collage. In un ristorante di Soho, Andy Warhol (4) acquistò una delle sue cartoline. In quello stesso anno il “Village voice” pubblicò un articolo su SAMO. Basquiat per una ricompensa in denaro, rivelò l’identità del misterioso predicatore, tra l’incredulità generale. Nessuno infatti aveva sospettato che dietro quel nome ci fossero due diciassettenni. E fu proprio a causa di quella rivelazione che il sodalizio con Al Diaz si sciolse e sui muri di Manhattan apparve l’annuncio “SAMO IS DEAD”. Da allora Basquiat non firmò mai più come ‘Samo’ le sue opere. Successivamente, l’incontro con Diego Cortez avvenuto nel 1979 al “Mudd Club”, che divenne uno dei primi commercianti delle sue opere e che lo introdusse sulla scena dell’East Village, permise a Basquiat di entrare in contatto con l’influente critico d’arte Henry Geldzahler. L’anno dopo Jean-Michel partecipò al Time Square Show, una retrospettiva organizzata da un gruppo di artisti, alla quale parteciperà anche Keith Haring (5). Da questo evento presero forma le due ‘nuove avanguardie’ di quegli anni: la ‘downtown’ (neopop) e la ‘uptown’ (rap e graffiti) che spopolarono nella Grande Mela negli anni ’80, in cui Glenn O’Brian girò il film-documentario “New York Beat”, che uscì nelle sale solo nel 2001 con il nome di “Downtown 81”, dove Basquiat interpretava se stesso. Nel 1981 Basquiat che non era più un artista sconosciuto, o come si diceva allora ‘di nicchia’, partecipò alla retrospettiva ‘New York/New Wave’, insieme agli artisti Keith Haring e Andy Warhol. Sempre quell’anno "Artforum" pubblicò un entusiastico articolo su Basquiat dal titolo "Radiant Child", a firma del poeta artista Renè Ricard. Cominciò così la sua ascesa nell’empireo degli artisti di successo: nel marzo del 1982 Basquiat è in Italia per la prima volta esposto in una personale a Modena (6) e, contemporaneamente, a New York nella galleria di Annina Nosei, raccogliendo commenti entusiastici di pubblico e critica. Nel giro di poco tempo, prima la Galerie Bischofberger in Svizzera, poi la Delta di Rotterdam ospitarono una sua retrospettiva. L'anno successivo produsse un disco Hip-hop (7). Il resto è storia. Pochi, in realtà, compresero la portata teorica ed ermeneutica della proposta dei ‘graffitari’ che dagli States si diffuse sui muri di tutta l’America e poi nel resto del mondo, spesso sconvolgendone l’immagine urbana. I muri delle strade, i vagoni delle metropolitane, gli edifici abbandonati, i ponti e i cavalcavia, ovunque ci fosse un superficie libera fu caricata di immagini e colori, graffiti e scritte d’ogni genere, talvolta anche volgari o inquietanti, quando pure inneggianti e diffamatorie, o razziste contro i ‘neri’ o i ‘bianchi’, i ‘normali’ e i ‘diversi’, e non solo. Ancor meno furono quelli che intuirono la portata della complessa rete dei richiami, l’affinamento per certi aspetti straordinario, di quella che possiamo definire una ‘rivoluzione’ dell’immagine e dell’immaginario, solo apparentemente utilizzata come subdola arma d’aggressione. Tuttavia quello che più scosse una forte critica fu, certamente, la scelta fatta da Basquiat dell’utilizzo di un segno semplice, quasi primitivo, fuori da qualunque regola compositiva, come ad esempio l'assenza di prospettiva e la visione frontale, che l’aveva accompagnato fino a quel momento, e che molti vissero come una sfida intellettuale. E che produsse in Basquiat una sorta di ribellione che lo indusse ad affermare: “Non sopporto paletti, i quadri io li disegno come quando ero bambino”, che si può ascoltare nel documentario “Shooting Star”. E ancora "Io non penso all'arte quando lavoro. Io tento di pensare alla vita". (8) Occorrerà cercare ancora, andare a rileggere a distanza di tempo le sue opere, valutare il suo spessore artistico, ripercorrere il cammino successivo a quegli anni, per ‘comprendere’ chi è Basquiat e interpretare i momenti decisivi della sua alienazione. O forse no, basta quanto detto fin qui, per avere accesso infine alle sue ‘magnifiche presenze’, benché fantasmi, per comprendere, infine, il percorso enigmatico della sua denuncia sociale, allegorica e problematica quanto si vuole, ma che pure rimane sfuggevole, quando si accosta frontalmente alle tematiche della riflessione e del ruolo che Basquiat ha interpretato nell’arte contemporanea. Ed è proprio su questa linea ‘On the road’ che Basquiat ancor più mette in gioco se stesso chiamando implicitamente in causa i suoi ‘archetipi’, i suoi ‘miti’, i suoi molteplici ‘ruoli’, e lo fa al di fuori del reticolo di sensi che compone e muove il suo essere specchio di una società in cui egli si riflette, quanto consciamente o inconsciamente non ci è dato sapere. Tuttavia è possibile affermare che Basquiat non sembra ricorrere all’arte come sterile testimone della sua creatività eclettica da utilizzare strumentalmente quale portatrice di informazioni e indicazioni conoscitive. Bensì come ‘stato di fusione’ esterna all’oltre-sé-stesso, piuttosto che nel senso lato del termine ‘artista’ ammesso dalla critica e dai criticismi moderni. C’è in Basquiat una profonda passione narcisistica che adombra il suo senso artistico, lasciandosi spesso andare a un ‘oscuro enigmatico’, a uno stato di assoluta soggezione nei confronti d’ogni sua opera che, egli stesso trasforma da cosa inerte a oggetto vigoroso, facendosi così mediatore di un ‘messaggio’ che non può subire alcuna alterazione esterna, né limiti. Anche per questo le opere in mostra a Parigi, indistintamente l’una dall’altra, presentano caratteri ‘intimistici’ che sono propri della sua personalità. La sua forza, la sua permanenza nell’integra realtà che gli è propria, garantiscono la sua ‘contiguità’ e la sua ‘fragilità’ infinite. Anche questa distanza, questa differenza tra il primo e l’ultimo Basquiat contribuiscono a delineare la dimensione ‘soggettiva’ dell’impianto pittorico lasciando che l’intenzione e l’eventuale interrogazione si raddoppino nel duplicarsi del soggetto, mai completamente uguale a un altro seppure nella mancanza d’essere che si lega alla natura illusoria dell’arte. Dovremmo stupirci per il fatto che la spontanea elaborazione pittorica delle sue opere, sebbene possano risultare per qualche verso naif, sembrano cercare una fonte di rinnovata energia nella ‘primitività’ che, lungi dall’essersi esaurita, pure attende di poter risorgere a condizione che noi impariamo a comprenderne il significato e a riconoscerne il valore. Come è stato detto in precedenza, la linea, o meglio la ‘cifra’ di tendenza di Basquiat si traduce così in un richiamo alle profondità dell’inconscio, in cui non il sogno, bensì l’allucinazione si offre per un ritorno a quel ‘primitivismo’ inconfessato, impossibile da raggiungere, e che pure offre uno spettacolo singolare – non c’è che dire – delle reazioni del pubblico giovane che affolla le sale espositive della Mostra di Parigi, il cui vociare si sovrappone alla musica che verosimilmente si sprigiona dai quadri dedicati ai grandi interpreti del Jazz e altro. Il gioco di Basquiat dunque, non è affatto fortuito, bisogna coglierlo qua e là nei commenti, ed è come lo svelamento di un linguaggio segreto, un rito sussurrato, tra loro (i giovani) che Basquiat sembra mimare nell’incontenibile momento sorgivo della loro intesa, come di sollecitazione di creatività, o forse magia. Improvvisamente le sale espositive non sono più ‘un luogo dell’arte’, bensì una soglia tra la terra e il cielo per certi versi temibile, che si espande sotto lo sguardo inscrutabile tra la finzione e la realtà che, tuttavia non incolpa, né giudica, perché in ognuno di loro, (i giovani), in fondo si nasconde un possibile Basquiat. Perché si attribuiscono un’identità illusoria, che s’annuncia come un ritorno all’unità cosmica, lì dove i contrari infine tendono a conciliarsi in un sincretismo mitico per cui l’artista Basquiat è assolutamente quella di un salvatore/diavolo come loro, al contrario si sentono angeli in attesa di cadere. Sono incline a riconoscere un analogo valore simbolico a tutta l’opera di Basquiat, sebbene in essa si riscontri un’apparente barriera da valicare per riemergere al di là, in una nuova regione dell’essere, dove le interpretazioni simboliche potrebbero moltiplicarsi all’infinito, come accade per le ultime visioni dell’arte che non oso qui ulteriormente indagare. Anche per questo credo che bisogna guardarsi dagli stereotipi della modernità, e scegliere fra l’assenza di significato e la funzione stabilita di senso. Tuttavia da quanto fin qui emerso affiora un’altra verità, cioè che il non-senso espresso da Basquiat ha valore di ‘messa in dubbio’, come dire, di sfida costante delle certezze. Non ci si affretti troppo, quindi, ad assegnare alle sue opere un ruolo, una funzione, un senso. Hanno bisogno di quella libertà, che già l’artista reclamava per sé, di “essere se stesse”, o “fini a se stesse”, libere di proseguire in un gioco che ai nostri occhi può anche sembrare insensato, vuoto: “esse hanno bisogno di un’immensa riserva di non-senso per poter trovare il loro senso” (9) per poter attraversare il reticolo fitto delle ‘relazioni significanti’.
Una contraddizione in termini? Forse.
Id: 1001 Data: 09/08/2024 18:21:42
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- Arte
Basquiat... Una sola lingua tanti linguaggi.
Basquiat ... Una sola lingua tanti linguaggi.
Con l’avvento di una maggiore presenza tecnologica nell’informazione, attraverso la comunicazione informatica e telematica, si è vista maturare l’attenzione per il fenomeno comunicativo nel suo complesso e nella varietà delle sue applicazioni. In molti casi, all’idea di una educazione precostituita (concettuale) dell’arte, si è venuta sostituendo una maggiore unità informativa (conoscenza del web) che, se vogliamo, rientra nella gamma dei ‘linguaggi non verbali’(1), diversificati dall’idea educazionale storico-linguistica (e quindi filosofica) cui si fa riferimento nei libri di storia dell’arte. Nel concetto innovativo dell’odierna ‘comunicazione visiva’ (2), sia nell’ambito della ricerca applicata allo studio dell’arte, sia nello specifico della ‘conoscenza evolutiva’ cui dobbiamo tendere, un tale ampliamento e spostamento di interessi non è certo casuale, bensì deriva, in massima parte, dalla presa di coscienza critica dei dati di una realtà socioculturale che è andata sempre più evolvendosi in misura consistente e a un ritmo così veloce di cui oggi non possiamo non tenerne conto. Anche per questo, un nuovo approccio al fenomeno comunicativo enunciato in precedenza si rende qui necessario. Ancor più per dare risposte plausibili alle domande: “dove sta andando l’arte?”; “dove ci stiamo conducendo?”, alle quali se ne aggiunge un’altra: “quali altri muri ci restano da abbattere?”. Lì dove ‘muri’ sta per tabù o altri impedimenti (o esperienze), o anche nuove idee suggerite dal mercato che tutta l’arte si trova ad affrontare. Indubbiamente il carattere innovativo delle tecniche utilizzate, la considerazione dei diversi linguaggi non ‘figurativi’, i materiali denaturalizzati dell’industria recuperati e ‘riciclati’, è innegabile che spesso creino disorientamento sia nell’interlocutore, sia nel fruitore delle nuove tendenze dell’arte, a cominciare da quella cosiddetta ‘concettuale’. Acciò contribuiscono molti artisti dell’ ‘Iperrealismo’ (2) e della ‘Pop-art’ (3) che hanno assunto come contrassegno della loro produzione, la ‘cifra’ del messaggio metaforico, decodificato, non ‘verbale’ perché antiartistico, non ‘estetico’ perché fin troppo estetizzante, usato per lo più come ‘strumento’ non finalizzato all’arte. Basquiat s’inserisce in questo contesto in modo critico, lì dove, pur utilizzando gli arnesi dell’ ‘Action-painting’ (4), cioè la pittura in funzione del supporto che utilizza, appropriandosi così di linguaggi preesistenti facendoli suoi, li trasferisce in quel ‘nuovo linguaggio’, personalistico, che si riflette in tutta la sua produzione. È in questa trovata dimensione che l’artista, finisce con lo scegliere una sua ‘maniera di esprimersi’ linguisticamente ed espressivamente che sarà la sua ‘cifra’ artistica. Pur con quelle variazioni di ‘registro’, connesse ai singoli elementi comunicativi, che bene dicono chi è il destinatario del suo linguaggio, qual è il suo scopo e quale la circostanza creativa di ogni suo quadro. In tal modo, la risposta al nostro quesito, sarebbe significativa se fosse differenziata per ogni singola domanda, mentre invece è univoca: “l’arte di Basquiat serve a Basquiat”, maturata e contenuta nella più completa mancanza di un progetto fattivo, di un percorso culturale o, come si usa dire, di un intento artistico ‘concettuale’. Per ovviare alle incomprensioni possibili di questa tesi, ho ritenuto più che mai necessaria, analizzare direttamente alcune sue opere significative: 1) “Untitled 1981” (n.30 del catalogo francese) (vedi immagine) Le grandi dimensioni di questo quadro, ancor più che in altri, è rappresentato una sorta di ‘labirinto’ che Basquiat immagina dentro la sua testa (teschio), come di un ostacolo da superare o quanto meno da affrontare in senso iniziatico. Luogo il cui possesso richiede un percorso ‘tortuoso’ che si snoda attraverso linee grafiche come rotaie su cui si intersecano i molti treni di una stazione, il cui centro (il riquadro occipitale) è la sua fine. Tuttavia sono le campiture di colore a dare tridimensionalità al quadro, lì dove l’ocra, il giallo, il blu, il nero, il rosso danno luogo a quel ‘passaggio interiore’ irraggiungibile, che richiama alla morte prima ancora che alla rinascita. 2) “Felix The Cat” (n.151) (vedi immagine) Siamo a New York, Ottobre del 1985, Jean-Michel Basquiat partecipa con Andy Warhol all’inaugurazione della mostra alla Tony Shafrazi Gallery dove vengono esposte per la prima volta le opere pittoriche frutto della loro collaborazione. Come questa qui raffigurata in cui gli elementi essenziali di entrambi gli artisti si annodano come per l’annodarsi di un ‘papillon’, quasi a dare il senso compiuto di una avvenuta fusione. In realtà gli elementi restano comunque distinti e – a mio parere – lontani. C’è però un elemento da non sottovalutare ed è l’abbinamento del volto sorridente di Felix the Cat sopra la testa/maschera del Griot africano che mostra i denti, a significare la convivenza possibile della commedia e della tragedia sulla stessa scena. 3) “Riding with Death” (n.167) (vedi immagine) In questo quadro è rappresentata una scena fortemente drammatica che richiede una lettura psicologica che apre strade inattese, così come nella mente dell’autore che in quella dell’osservatore. Solitamente, siamo abituati a vedere la scheletrica morte che cavalca un destriero nel mezzo di una bufera; qui l’evento è ribaltato, un cavaliere nudo (Basquiat?) cavalca con coraggio la morte come “cominciamento” di una riscossa, quasi attraversando le svolte e i viluppi di un mistero, ripercorrendone le stesse sinuosità. Come un volersi lanciare in avanti in un progetto che lo porti a trovare l’uscita del ‘labirinto’ (della droga) in cui si è cacciato, per riemergere un giorno dalle sue oscure spirali. Opere queste, da cui si evidenzia il suo collocamento attorno a un asse temporale di periodi diversi e che serve a chiarire un’importante tipologia di base, per cui Basquiat è egli stesso ‘corpo’ figurativo, strumento comunicativo che si fa partecipe dell’opera pittorica, conosce l’immanenza del fare. La sua tecnica è quella di operare in modo diretto, dipingendo senza progetto, immagini e simboli grafici e lessicali sul supporto prescelto, sul quale questi vanno ad ancorarsi in modi e forme concrete. Dopo di ché l’opera così detta, ma nel caso di Basquiat possiamo dire l’esperienza creativa, si esaurisce, decade dal suo interesse per ragioni infinitamente semplici: il creativo che è in lui è pronto per un’altra esperienza. Ecco che allora, lascia scolare i colori, li sporca, li calpesta, quasi li distrugge e, passa ad altro. Non si spiega altrimenti la sua super produzione in pochissimi anni di attività, le diverse esperienze messe in atto, il confronto sistematico (questo sì consapevole) con altre esperienze alternative di comunicazione, come punto di partenza di linguaggi ‘altri’ cui fare riferimento. È questo il caso delle ‘partiture’ scritte, in cui la scelta delle singole parole e delle frasi, sembra essere la più adatta a esprimere una qualche ‘sua’ concettualità, e ci permette una lettura comparativa dei codici figurativi che in esse si compongono, come negli esempi qui sotto elencati:
1)“Zydeco” (n.144) (vedi immagine)
Cambio di registro, siamo su un campo da tennis, o forse sul piano verde di un biliardo, ove Basquiat dispone le sue ‘visioni infantili’ nel suo modo naif di rappresentare le ‘cose’ utili, le ‘attività’ cui vorrebbe dedicarsi. Il quadro in realtà non espone un ‘concetto’ finito, se non nell’insieme delle attività: dal musicista al cineoperatore, al fotografo, per ognuna delle quali immagina un possibile titolo, un nome, e ‘Zydeco’ in questo caso è probabilmente l’etichetta sotto la quale vorrebbe accumularle. È interessante notare, a differenza di tantissimi altri, come la suddivisione degli spazi è simile a quella di un album di figurine in cui ogni attività ha un suo riquadro delimitato, quasi ogni singola attività sia tenuta separata dall’altra. Inquietante è la presenza ripetitiva di maschere nere, ormai ridotte a simbolo o forse a feticcio, che qui Basquiat incorona, quasi per una ossessione che non lo abbandona.
2) “Tuxedo” (n.121) (vedi immagine)
Retaggio dei suoi inizi da ‘graffitaro’, Basquiat cominciò a dedicarsi intensivamente al mezzo della serigrafia, nella quale egli combinava simboli e grafici su un fondo completamente nero, come a voler dar forma a un vocabolario di elementi diversi. Un web di parole in parte criptiche che riflettono di un coinvolgimento dell'artista con problemi politici, economici, storici, e culturali suggeritigli dalla sua esposizione nel sociale. Lo rivela la stessa scrittura, combinata con segnali e simboli che avrebbero un ruolo prominente se fossero inerenti a una istituzione (manifesto, dichiarazione, lapide ecc.) e, soprattutto se facessero riferimento a prese di posizione reali. Cosa questa che non risulta nelle cronache che lo riguardano. Come già in altre opere, qui il simbolo più frequente è la ‘corona’ che sempre più spesso simboleggerà la sua "icona". Esempi, supposizioni, niente di più, dove però le parole e la scrittura concorrono a formulare ‘linguaggi’ tutt’uno con il ‘supporto’ dell’arte, a dimostrazione del fatto che Basquiat non concepisce la ‘parola’ come l’unico strumento di comunicazione. E lo fa conciliando non soltanto la concisione dell’esposizione e la relativa brevità richiesta, anzi con la forza interpretativa di alcune importanti scelte: a partire da quella iniziale che gli fa considerare il linguaggio scritto una facoltà aleatoria e tuttavia universale. C’è in questo una certa ricchezza argomentativa capace di condurre l’osservatore lungo un itinerario essenziale ricco di suggestioni, pur se attraverso l’imprescindibile influenza esercitata dalla scrittura pubblicitaria e non, e la programmazione d’immagini che gli è propria; nonché, il ruolo cruciale nella società consumistica, e i possibili rapporti tra linguaggio parlato e lingua scritta (sul web), “come futuro indicativo di possibile linguaggio dell’arte contemporanea e dell’evoluzione della società futura”. (5) Dal confronto tra i diversi linguaggi utilizzati, quello verbale e quello figurato è possibile cogliere le diverse e stimolanti possibilità dei due codici. Esperienza quest’ultima che mostra la volontà di Basquiat di utilizzare ‘una sola lingua per tanti linguaggi diversi’ che lo vedranno barcamenarsi dal ‘fare' arte al ‘fare' musica, al suo vivere costantemente ogni esperienza come ‘in sospensione’, in bilico sul ciglio di una catastrofe che sentiva arrivare, e che arriverà quando dal crinale i suoi stessi ‘fantasmi’ lo spingeranno nell’abisso profondo della droga, in un eccesso di colori che ben presto inghiotte la sua giovane vita.
Id: 1000 Data: 10/07/2024 04:36:21
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- Libri
Tango è... Interpretando il Tango argentino. Il Libro.
TANGO, è... Interpretando il tango argentino. …virilità, femminilità e mascolinità insieme, fascino estetica ed eleganza, passione e sensualità, partecipazione di corpi, mani e piedi che si cercano, si trovano, si incrociano, si distanziano e si ritrovano, raccontandosi con impressionante compiacimento, storie appassionate di abbandoni, di nostalgia, d'amore e palpitazione; ed anche del loro opposto di quanto s'accorda con l'inganno, l'infedeltà, l'adulterio, cui il sentimento di amante domanda solo uno scambio di sguardi, un abbraccio che seduce, che duri un istante oppure il tempo di emozioni infinite, che si trasformano in liriche ispirate e poesie in versi che si compongono e scompongono attorno a un sentimento puro, nell'enigmatico mistero della sensualità vissuta. …due corpi che si allacciano stretti l'uno all'altro per un contatto ravvicinato in una milonga oscura e fumosa, come l'anima che domanda a se stessa l'espiazione di una colpa che non ha commesso ancora, che nell'intenzione sta per commettere, e che forse commetterà. Come un'ansietà che si esaurisce all'interno di un teatro vuoto d'ogni inutile finzione, senza maschera; dove lo sguardo lascivo dell'erotismo finalmente s'abbandona per un incontro con la vita, quella più vera, che si consuma tra un uomo e una donna davanti a un sipario alzato sullo scenario dell'eterno sacrificio dell'amore, senza ambiguità, e che rifugge dalla fortuita ebbrezza della vita, per gettarsi 'nuda' nel fuoco della passione pura. …strumento di musica graffiata, canto disperato, emozione e sensazione come espressioni della danza, "non solo del momento, ma della potenzialità del momento"; avviluppata di centinaia di segreti, migliaia di ombre, milioni di misteri, che si levano dalle pampas polverose dei gaucho alle bulerias periferiche delle città dove si confondono, nella nebbia azzurrata delle mode, nella luci riflesse dei lampioni, sui mosaici di pietra delle strade nella dura realtà dei quartieri malfamati, come un "pensiero triste che si balla" protagonista assoluto della musica che l'attraversa; musica porteña, che fa vibrare le corde degli affetti partecipi di un veritiero affiorare di sentimenti coinvolgente. …l'essenza di un'intimità invisibile che implica e seduce, che cresce vorticosamente fino a sbocciare in passi veloci e ingarbugliati, nella pulsione di corpi che trovano nella danza il loro fulgido abbraccio, l'istante conclusivo di una storia "forte e trascinante" che talvolta, pur nel ripetere dei gesti, abbina all'orgoglio e alla passione, sentimenti di antagonismo e rivalità, di solitudine e disperazione, di sentimentale consolazione che si spegne, infine, in una fase quasi riflessiva, nelle concavità di nuove emozioni, nella ricerca reciproca dei protagonisti di altrettante sensazioni, nell'impressionante forza della sua calma profonda, che la musica caratterizza di lucidità introspettiva, mai pienamente manifesta. …un uomo e una donna volti alla ricerca di un amante ideale che gli regali un'emozione nuova, un evocare di sensazioni molteplici, tra seduzione carnale, mistero e dramma passionale; sebbene, come qualcuno ha scritto: "..non vi sono battaglie né mari in tempesta da evocare, né scene di caccia con scalpitare di cavalli o cinguettii di uccelli in una cornice bucolica, o ancora fanfare che annunciano l'imminente entrata in scena di un personaggio", vi è piuttosto sottintesa, suggerita quasi, una notevole fisiologica, un gesto, un agire nello spazio, quasi come "un sussurro in una cattedrale silenziosa che improvvisamente migliaia di voci di un coro invisibile dominano per poi, di colpo, tacere, e cedere al silenzio della sua potenzialità". Tango, è… Tango, e basta.
Tango …fin dentro il silenzio. Noi due come foglie nel vento trascinate lontano siamo quelli che siamo. Siamo uno scroscio di pioggia un andante leggero un tango che avanza nel silenzio della sera. Eppure noi così vicini e così lontani siamo quelli che siamo anime senza domani. Siamo l’intimità assoluta una semplice sequenza un tango che avanza in questa stupida bellissima esistenza. Ora so che verrai, lo sento aprirai quella porta in questo preciso e unico momento. Per riscoprire in noi quel tango che avanza intorno al nostro letto come al limite del mondo. E nel buio della notte ci ameremo ancora come angeli che s’amano una volta sola. A piedi scalzi e senza far rumore danzeremo abbracciati l’arcana danza che suggerisce amore. Un tango che avanza fin dentro del silenzio fino a fermare il battito del nostro folle cuore.
Tango ...hasta dentro del silencio. Nosotros dos hojas en el viento arrastráis lejano somos los que somos. Somos un estruendo de lluvia un continuo ligero un tango que avanza en el silencio de la tarde. Sin embargo nosotros así cercanos y así lejanos somos los que somos almas sin mañana. Somos la intimidad absoluta una simple secuencia un tango que avanza en esta estúpida guapísima existencia. Ahora sé que vendrás, lo siento abrirás aquel lleva en este preciso y único momento. Para redescubrir junto un tango que avanza a los límites del mundo alrededor de nuestra cama. Está en la oscuridad de la noche todavía nos queremos cómo ángeles que se quieren una sola vez. Y descalzo sin hacer ruido bailaremos abrazados la secreta danza del amor. Un tango que avanza hasta dentro del silencio hasta parar el latido de nuestro corazón loco.
Id: 999 Data: 08/07/2024 17:07:14
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- Arte
Basquiat: dentro il ‘labirinto’ raffigurativo.
Basquiat: o il ‘disordine invisibile’: Dentro il ‘labirinto’ raffigurativo.
Scrive Achille Bonito Oliva (1): “L’idea dell’arte alla fine degli anni Settanta è quella di ritrovare dentro di sé il piacere e il pericolo di tenere le mani in pasta, rigorosamente, nella materia dell’immaginario, fatta di derive sgominate, di approssimazioni e mai approdi definitivi. L’opera diventa una mappa del nomadismo, dello spostamento progressivo praticato fuori da ogni direzione precostituita da parte di artisti che sono dei ciechi - vedenti, che ruotano la coda intorno al piacere di un’arte che non si reprime davanti a niente, nemmeno davanti alla storia”. Detta così, sembrerebbe un’arte ‘irrispettosa’ o quanto meno ‘scorretta’ perché fuggevole da una precedente connotazione esteticamente corretta e universalmente accettata. Di non poco conto se si pensa alla linea di lavoro messa in opera, successivamente, dal movimento della ‘Transavanguardia’ (2), che vuole l’arte liberata da tutti gli ‘schemi’ che l’avevano tenuta prigioniera di se stessa e finalmente scevra da ogni intenzione moralistica in cui sul finire degli anni Sessanta era sfociata, anche quella precedente altresì detta ‘Avanguardia’: “al limite di un possesso messo continuamente in discussione dal naturale movimento dell’opera e dell’artista, che è di spossessamento e di superamento” (3). Pur tuttavia l’assunto iniziale sembra annunciare una vera e propria catastrofe o quanto meno di disordine, di una discontinuità che rompe gli equilibri dell’estetica e del linguaggio pittorico e non solo: “..a favore di una precipitazione nella materia dell’immaginario, che va inteso non come ritorno nostalgico (al fiabesco, al sacrale, al reale); né come riflusso (dagli schemi impressionistici e cubisti), bensì come flusso che trascina dentro di sé la sedimentazione di molte cose, che scavalcano il semplice ritorno al privato e al simbolico” (4). Ma seguire il critico è talvolta arduo, soprattutto quando egli si appresta a incorniciare (è il suo lavoro) non la singola opera d’arte ma tutta l’arte in un più ampio quadro artistico – storico/antropologico/sociale – nell’ambito della produzione, economica e di mercato. Ben venga, quindi chi, come Bonito Oliva, ci tiene al corrente delle problematiche dell’arte, talvolta pur preoccupanti ma che, al tempo stesso, riesce (e lo fa con tenacia) a farci comprendere le dinamiche dell’attuale proiezione dell’arte contemporanea. O almeno per tutti quanti reclamano di sapere, o si domandano: “dove sta andando l’arte?”, cioè in quale evoluzione e dimensione della nostra esistenza artistica “ci stiamo conducendo?”. In passato, va ricordato, si era nel 1979, Gianni Vattimo (5),in un suo scritto rimasto famoso, riaffermava il vecchio concetto hegeliano della “morte dell’arte”, ponendosi una domanda (ennesima) spregiudicata quanto profetica: “Non è forse vero che l’universalizzazione del dominio dell’informazione può essere interpretato come una realizzazione pervertita del trionfo dello spirito assoluto?”. Analizzando le ultime espressioni dell’arte, ci accorgiamo che esse portano a una possibilità conclusiva espressa non solo come utopia teorica, bensì – scrive ancora Vattimo – “La pratica delle arti a cominciare dalle avanguardie storiche primo-novecentesche, mostra un fenomeno generale di ‘esplosione’ dell’estetico fuori dai limiti istituzionali che gli erano fissati dalla tradizione. (..) Questa ‘esplosione’ diventa, per esempio, negazione dei luoghi tradizionalmente deputati all’esperienza estetica: la sala da concerto, il teatro, la galleria, il museo, il libro; si attuano così una serie di operazioni – come la land-art, la body-art, il teatro di strada, il lavoro teatrale come lavoro di quartiere – che, rispetto alle ambizioni metafisiche o rivoluzionarie, delle avanguardie storiche appaiono più limitate, ma anche alla portata più concreta dell’esperienza attuale” (6). Giovanni Vecchi (7) riprese in seguito questo discorso nel suo articolo: “Il tramonto dell’arte”, come constatazione di una situazione storica dell’oggi, in cui, il rapporto tra l’ontologia e una filosofia dell’arte, avrebbe portato a soluzione l’inestricabile questione dell’unione-separazione tra estetica e critica, (tra marketing e filosofia del mercato), in cui la letteratura tutt’oggi gioca un ruolo di primaria importanza, gettando un ponte per una possibile applicazione della ‘filosofia’ alla storia dell’arte. I tentativi linguistici, sul piano teorico, apparentemente sembrerebbero funzionali, mentre su quello empirico, senza il supporto (grandissimo) dei media, la trattazione filosofica non risponderebbe altrettanto bene come si pensava, perché destinata a dibattersi in una fittissima rete di confronti e valutazioni contrastanti, in ragione del fatto che l’opera d’arte oggi ha ceduto il fianco alla riproducibilità, alla facilità della copia d’autore, alla dismissione di quelli che sono i valori portanti della materia pittorica, in primis, dei materiali poveri o di scarto che vengono riutilizzati. Se al dunque il problema storico di una possibile filosofia dell’arte va ad annoverare anche l’ ‘oggettivismo’ che oggi comprende l’arte contemporanea, l’atmosfera negativa che l’avvolge induce a un’attesa imprevedibile e apparentemente catastrofica. Tuttavia il problema sembra per il momento risolto se con la ‘Transavanguardia’ Bonito Oliva è qui a dirci che: “L’arte, finalmente, ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il ‘labirinto’, inteso come ‘lavoro dentro’, come escavo continuo dentro la sostanza della pittura” (8). E soprattutto che, per crisi dell’arte, dobbiamo intendere, secondo l’etimo – punto di rottura – e anche – di verifica, che va vista: “...come angolazione permanente per verificare il vero tessuto dell’arte. (..) Oggi per crisi dell’arte in senso stretto s’intende invece la crisi nell’evoluzione dei linguaggi artistici. (..) Ciò che la teorizzazione della ‘Transavanguardia” come momento di criticità ha ribaltato in termini di nuova operatività. (..) Con essa si è smascherata la valenza progressiva dell’arte, dimostrando come di fronte all’immodificabilità del mondo, l’arte non è progressista bensì ‘progressiva’, rispetto alla coscienza della propria e circoscritta evoluzione interna” (9). Non ci rimane che vedere dove inserire Basquiat in questo ‘inprevedibile’ quanto ‘insospettato’ contesto. In quale ‘labirinto’ egli è finito? Ce lo riferisce Gianni Mercurio (10) autore di un art-dossier su Basquiat, per il quale: “Il giovane Jean-Michel sembra avere già le idee chiare a diciassette anni, quando al suo rientro in famiglia dopo l’ennesima fuga da casa, dice al padre: «Un giorno diventerò molto, molto famoso» – e che poi aggiunge: «È Cool avere vent’anni ed essere arrivati mentre centinaia di giovani artisti vanno lasciando le diapositive dei loro lavori qua e là (..) ma la crassa volubilità del mercato degli speculatori può avere un effetto deleterio sulla futura carriera dell’artista. (..) Qui non si tratta più di collezionare arte, ma di comprare individui” – aprendo così una parentesi su arte e mercato, su giovani promesse e devastazioni artistiche. Entrando forzatamente nel ‘labirinto transfigurativo’ (11), ‘la più straordinaria e luminosa metafora della riflessione e della ricerca’ sta di fatto che, a un certo punto, non troviamo più Basquiat, bensì dipinti sulla tela vediamo figure scheletriche eviscerate, autopsie di corpi, volti come maschere che esprimono la sua ossessione per la morte. E sono angeli sgomenti, eroi allucinati e Dei dai nomi astrusi, come: ‘Loin’, ‘Vndrz’, ‘Profit I’, ‘Black Pope’ (nick-name di amici e altri personaggi da lui inventati); ‘Natchez’ (nome tribale di un gruppo di nativi americani); ‘Zydeco’, ‘Exu’ (divinità afro-brasiliana preso dal ‘candomblé’, i cui colori sono il rosso e il nero, i suoi cibi preferiti la ‘faroffa’, la ‘cachassa’, l’alcol e i sigari), custode della soglia che segna il passaggio tra la vita e la morte. Scelta indicativa quindi e forse obbligatoria per un Basquiat perso nel ‘labirinto del vissuto’ in cui mescola spazio reale e spazio simbolico, e talmente impressionato e autodistruttivo che assiste alla trasformazione del suo linguaggio artistico in quell’ ‘immaginario collettivo’ che è motivazione del suo errare, tuttavia riconoscibile negli spazi convenzionali tipici della ‘body-art’ (12) e della ‘etnic -art’, seppure non sempre ‘accessibili’ in senso stretto. Cosa significano allora questi fantasmi dipinti, questi redivivi proscritti che provvedono di dare un senso all’arte di Basquiat, se non ‘simboli’ irrinunciabili d’una esistenza dissociata, scollegata dalla realtà che l’artista si trovava a vivere, proprio nel momento in cui sembrava trascinato dall’onda del successo? Non trovo altro di meglio per dare una risposta che rifarmi a quanto scritto da Carl G. Jung (13) in “L’uomo e i suoi simboli”: “Ciò che noi chiamiamo simbolo è un termine, un nome o anche una rappresentazione che può essere familiare nella vita di tutti i giorni e che tuttavia possiede connotati specifici oltre al suo significato ovvio e convenzionale. Esso implica qualcosa di vago, di sconosciuto o di inaccessibile per noi. (..) perciò una parola o un’immagine può dirsi simbolica quando implica qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato. Essa possiede un aspetto più ampio, “inconscio”, che non è mai definito con precisione o compiutamente spiegato. Né si può sperare di definirlo o spiegarlo. Quando la mente esplora il simbolo, essa viene portata a contatto con idee che stanno al di là delle capacità razionali. (..) Tuttavia questo uso conoscitivo dei simboli è soltanto un aspetto di un fatto psicologico di grande importanza: la mente produce simboli inconsciamente e spontaneamente”. A conferma di questo processo interpretativo dei simboli, proviamo ad analizzare quanto espresso da Andy Warhol (14) che, a proposito delle sue “Collaborations” con Basquiat, così scrive: “Penso che i dipinti che stiamo facendo insieme siano migliori quando non riesci a distinguere ‘chi ha fatto cosa’”, probabilmente riferito ai ‘ritratti simbolici’ eseguiti da Basquiat, lì dove questi confluiscono nel ‘segno moderatore’ di Warhol. Viceversa Warhol consegna a Basquiat una visione ‘altra’ del mondo comunemente condivisa, sia negli ‘untitled’, sia negli ‘autoritratti’, attraverso i quali Basquiat vuole lasciare una qualche traccia di sé, una sua immagine che egli vuole sopravviva alla sua arte, alla sua corporeità. In “La solitudine dell’anima”, Eugenio Borgna (15) docente di psichiatria, scrive che: “...la coscienza di un reale diverso (altro da quello che sta abitualmente davanti a noi) non è, in fondo, se non la coscienza che ‘nel reale’ i significati si trasformano vertiginosamente”, onde per cui possiamo considerare che, il susseguirsi di esperienze trasfigurative in Basquiat, incide sulla configurazione della propria identità personale. Il quale, all’apice dello strepitoso ‘successo’ conseguito: “..raffigura se stesso nel dipinto “To Repel Ghosts” (1985) con una croce al collo, seduto e con un bastone da sciamano in mano, in cui esorcizza l’idea e riafferma, con le armi della pittura e con i simboli, la propria presenza attingendo ancora una volta alle sue radici afroamericane e a quel sincretismo religioso cui allude mediante una citazione esplicita di figure bibliche” (16). Ma respingere i ‘fantasmi’ non implica necessariamente la conclusione del dramma in atto (lì dove il successo può essere la causa del suo dramma), e Basquiat si trova costretto a dover rivedere l’impostazione della sua vita tra passato e presente, tra l’ambiguità e la risolutezza di vivere in un mondo che deve ancora scoprire. Straordinariamente i ‘fantasmi’ della sua infanzia non lo mollano neppure quando il ‘successo’ lo porta ad avere tutto ciò che ha desiderato dalla vita. E lo tormentano per quello che possono, allo stesso modo che farebbe ‘Exu’ (fantasma del proprio inconscio quotidiano), signore delle strade, della materia, della fisicità, della sessualità, delle droghe, del denaro e del potere, col quale si trova costantemente a vivere. Essi (i suoi fantasmi) vivono là, annichiliti nei dipinti che aspettano d’essere contemplati, fuori da ogni immaginabile arco di tempo, fuori da questo mondo che in parallelo col passato chiede di entrare nella storia. Mentre noi, osservatori disattenti di ciò che ci riguarda, che dovremmo restituirli alla dimensione del presente, per essere noi davvero presenti a noi stessi, non ne siamo capaci. Saremo mai in grado di farlo? Forse sì, è la risposta. Ma prima dobbiamo accettare questi suoi ‘fantasmi’, amarli, come ‘magnifiche presenze’ della sua arte.
Id: 985 Data: 01/07/2024 07:46:24
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- Società
Bla, bla, bla ... Si dice...
Bla…bla…bla …Si dice…
“Quando il gatto non c’è i topi ballano”, è quando accade nel nostro Parlamento sempre meno parlamentare, anzi piuttosto silente, quando non finisce a bagarre o rissa da osteria, mancano solo i coltelli di rusticana memoria. Non che ci volesse una così grande intuizione per capire che lasciato alla mercé di pavidi costrutti i protagonisti dell’attuale politica si sarebbero ben accomodati, per meglio dire ‘sbragati’ sulle poltrone nel modo medo consono a rappresentare dignitosamente un popolo e un paese. Non oso dire di una ‘nazione’ perché a furia di svendere i gioielli di famiglia, dell’Italia che fu resta ben poco, se non che qualche briciola economica del saldo che dovremo pagare prima o poi. Ma il peggio non si è ancora visto, dopo ‘finita la pacchia!’ gridata a gran voce i ‘topi’ stanno rosicchiando quel che poco rimane di un pasto ben scarno dalla restaurazione dell’ultima guerra che ci ha visti perdenti e massacrati a più non posso dagli stessi italiani che non hanno accettata la sconfitta. Sì che con l’astio per la perdita, l’avida sete di vendetta protratta, è subentrata negli animi l’avveduta riscossione del laggio impagato del proprio ego, e che proprio nei nostri giorni sale alla ribalta in ogni ambito, che va dal riscatto culturale all’arsura di potere, dal volere appropriarsi di ogni cosa a non lasciare niente per dopo, come se i loro stessi figli non debbano poi pagarne le conseguenze. Siamo alle solite, si dice… “Culo che non ha mai visto camicia la sporca di merda” e mai detto popolare corrisponde perfettamente al vero, onde per cui l’analfabeta non potrà mai fare un discorso sensato, la volgare eloquenza dell’illetterato seguire una logica costruttiva, così come viceversa, il popolo ‘affamato’ non mancherà, prima o poi, di dare l’assalto alla panetteria e/o mettere alla gogna quanti sostengono l’ipocrisia di un falso Parlamento, onde riappropriarsi dei propri diritti. È quanto meno inutile enunciare a spron battuto falsità sui conti pubblici quando poi, ogni giorno, si devono fare ‘i conti della serva’; un brillante resoconto non riempie gli stomaci vuoti di quanti vanno a fare la spesa e/o consegnano la propria dignità di onesti cittadini, alla Caritas, alla CRI ecc. ecc.. Qualcuno dovrebbe dire, anzi gridare ancora più forte, che lì dove ‘finisce la pacchia’ per qualcuno, non ce n’è neppure per gli altri (quelli che in primis hanno gridato), che insieme alla dignità andranno perduti molti degli altri valori costruttivi, come la voglia d’impegnarsi in un lavoro, di mettere al mondo dei figli, di riconoscersi in una civiltà, di adempiere a quei doveri di convivenza reciproca ecc. ecc. Davvero vogliamo che tutto questo avvenga solo per uno stupido ‘bla…bla…bla’ di qualcuno che, solo perché deve aver vissuto in cattività, non riconosce un valore propedeutico alla sopravvivenza? Davvero vogliamo dare quel che rimane in pasto ai signori della guerra e a quanti li sostengono? Beh, se è questo quel che vogliamo, accomodiamoci pure e prepariamoci a scavare con le nostre mani le fosse che ci accoglieranno. Di certo ‘non in pace’ ma piuttosto avvelenati, perché il pane tolto ai nostri figli, ci peserà sulla coscienza anche dopo morti, perché le generazioni che seguiranno, non conosceranno altro che il male, odiando tutto e tutti senza rimedio e senza riscatto, perché non sapranno a quale Dio rivolgersi. Dopo l’irreversibile ‘caduta degli antichi dei’ quanti ne rimangono sui piedistalli, che siano cristiani, musulmani, indiani o altri, le diverse confessioni non hanno saputo trovare una congiunzione teologica che accomuni gli spiriti ancestrali in un unico linguaggio significativo di pace e di sostegno a questa umanità sempre più disastrata su tutti i fronti. Né potranno consegnarsi alle macchine, perché presto anche quelle finiranno dismesse nelle discariche delle rottamazioni e negli scaffali polverosi della storia. Sempre che quest’ultima dimensione tecnologica AI non comprima l’umanità tutta negli effetti intravisti da Fritz Lang in “Metropolis” nel lontano 1926, dove l’umanità è tutta compressa nel ‘profondo’ di una regressione di civiltà sotterranea, da dove infine, almeno così sembra, l’umanità sia un giorno fuoriuscita. “Il profondo è ciò che si nasconde, è ciò che si tace”, scrive Gaston Bachelard in “La psicoanalisi del fuoco”, a cui aggiunge “Si ha sempre il diritto di pensarci” e/o di ripensarci. Sebbene al contrario di ciò, una spiegazione razionale e oggettiva va data, un’altra spiegazione, per avventata che sembri, va fatta, avvalendosi della psicoanalisi, per cui “se il fuoco, in quanto figlio dell’uomo faber, è l’esperienza che illumina e riscalda, allora il fuoco è l’amore che ci ha visti nascere e ci ha condotti fin qui, un fuoco da trasmettere e che ancora può sorprendere”. È dunque l’amore che ci salverà e che salverà il mondo, basterà che lo vogliamo. Per quanto l’Apocalisse sembra ancora essere lontana, non resta che affrontare il prossimo temporale, sperando che si trasformi in un altro diluvio.
Id: 982 Data: 15/06/2024 07:20:46
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- Arte
Basquiat...o la libertà di essere se stesso.
Basquiat...o la libertà di essere se stesso.
Nel solco di quanto fin qui affermato, viene da chiedersi se la rivelazione ‘artistica’ di Basquiat abbia avuto luogo nella tradizione o fuori della tradizione storicistica dell’arte? O se l’impatto dei mass-media con l’evolversi dell’arte contemporanea, può aver prodotto una sorta di ‘finzione’ mediatica, di cui Basquiat è soltanto un interlocutore più o meno pregiudicato /compromesso?
Ma queste non sono che domande cui si sta ancora cercando di dare delle risposte concrete. Seppure – come già ho avuto modo di esprimere – sia convinta del fatto che l’arte contemporanea possa essere il frutto della ‘futilità’ di un ‘presente storico’, provvisorio e deteriorato, che noi tutti stiamo vivendo, e al quale comunque, sto cercando di dare un senso. Le sale espositive, i grandi spazi semivuoti della Mostra alla Fondazione Memmo di Roma, non facevano che aumentare in me quelle sensazioni che ho appena descritte e, solo dopo attenta riflessione, rammento di essermi chiesta, se si trattava di ‘finzione’, o se le ‘immagini’, che pure avevo di fronte e tutte le altre che le sue opere mi suscitavano, fossero autentiche, oppure simulazioni tuttavia non vere, cioè allucinazioni dovute alla costante esposizione della droga cui Basquiat, almeno stando al suo biografo (*) più accreditato, sembra facesse ricorso. Indubbiamente la pressione che le sue opere esercitano su di me, prova che l’artista probabilmente deve averle sentite sulla propria pelle, e che certamente riflettono di una proiezione ‘olistica’ (*) della realtà. È come se egli volesse far sparire il mondo (o almeno quel mondo riduttivo che lui interpreta) dentro il ‘testo’ delle sue opere, in contrapposizione alla concretezza della realtà (dura perché amara) che pur si è trovato a vivere. Non mi è però capitato di trovare nelle sue opere quella ‘spiritualità’ creativa cui gli artisti fanno spesso riferimento (anche se non lo ammettono). Come pure non mi è sembrato vi fosse la trattazione di un’idea particolarmente geniale, o la tensione idealistica di un’artista votato all’arte per l’arte. Piuttosto ciò che più salta all’occhio, è l’utilizzo di ‘stereotipi’ presi qua e là che, in qualche modo, raccontano il mutare emotivo della sua sensibilità artistica nella scelta dei colori e nelle forme.
Tuttavia, ancora oggi, di fronte alle sue opere, mi trovo a condividere la mia idea su Basquiat con quanti hanno tessuto il suo profilo artistico e che, paradossalmente, lo pongono al di fuori degli schemi dell’arte. Affermazione questa, scaturita dalla dedizione dello stesso Basquiat, di una libertà priva di vincoli oggettivi con la concretezza del ‘tempo’ in cui egli si trova ad operare. Cioè all’interno di quell’ontologia storica dell’arte contemporanea’ che dagli anni ’50/60 arriva fino a quest’oggi, e che, con Basquiat, sembra avviata a “concludersi con uno scacco matto per chi ha aperto la partita”.
Da questo punto di vista, nel quadro convenzionale in cui si svolge la partita sull’ l’opera di Basquiat, hanno ben voglia i critici e gli estimatori d’arte a sproloquiarsi sul “assomiglia a questo o a quello...; ha raccolto l’eredita di...”, quando Basquiat (spirito soggettivo), dimostra ampliamente e con tenacia, che non c’è partita che si giochi, o si possa dire giocata, per il semplice fatto che egli, non essendo artista sedimentato nelle spire dell’arte, fuoriesce dal discorso prettamente ontologico da impedire qualsiasi sua classificazione, e l’unico rapporto oggettivo in cui è possibile inserirlo è quello dell’intuizione (geniale o meno), e comunque, esclusiva manifestazione del presente.
Dacché possiamo intuire come in tutto ciò giochino un ruolo importante non soltanto le opere esposte (in mostra), ma anche lo stato emotivo di chi le osserva, e che, usando una espressione metaforica di Umberto Galimberti (*), possiamo interpretare come connubio di un “sentimento nel sentimento”, com’egli dice, non essere sconsolato abbandono, bensì forza: “La forza d’essere se stessi al di là di tutte le convenienze, di tutti i calcoli, di tutte le opportunità”. Ovviamente applicabile all’artista autore delle opere quanto a chi le osserva emotivamente, scomponendo e anatomizzando i colori, i segni e le forme dei quadri esposti, di cui l’artista nel suo operare creativo, inconsciamente emotivo, talvolta neppure si rende conto.
Nella sua “teoria delle emozioni”, Keith Oatley (*), associa l’emotività a un avvenimento causato dal mondo esterno che, grazie alla percezione riusciamo a comprendere e risalire alla causa che l’ha prodotto, a conferma della capacità (e della possibilità) di adattamento e un significativo controllo di sé (autoaffermazione), capacità di esprimere e dominare (o inibire) i propri affetti, i propri desideri e le pulsioni. Cioè tutto quanto contribuisce all’affermazione di se stessi rispetto agli altri, quindi anche rispetto alle cose, alla luce, ai colori, al tempo meteorologico che, nell’insieme interagiscono e s’influenzano a vicenda, conseguentemente a un’esperienza emotiva multiforme, anche ambiguamente conflittuale, spesa nell’acquisizione di un certo ‘prestigio’ personale, di una maggiore conoscenza, e di un accresciuto ‘potere’, come – ad esempio – di poter disporre di più mezzi critici.
Ma se le emozioni rappresentano una realtà complessa e in gran parte ancora misteriosa, l’essere critici (o acritici) è sempre un’esperienza soggettiva che assume valenza se la si esplicita (o non) mettendola in relazione con gli altri, i quali, interagiscono con la nostra emotività attraverso le suggestioni e i sentimenti (le emozioni) che siamo stati in grado di suggerire loro. In ogni caso c’è una spinta che deriva dalla conoscenza (propria del sapere) che, se proficuamente usata, ci permette di ottenere risultati congrui alle nostre e alle altrui aspettative. Altrimenti ci si dovrebbe chiedere perché visitare una mostra d’arte pittorica, cinematografica o avveniristica che sia (?). Devo ammettere che in occasione della Mostra su Basquiat alla Fondazione Memmo, da me visitata a più riprese, in ottemperanza alla stesura di questa mia tesi, ho riscontrato un certo afflusso di gruppi di giovani e giovanissimi che, insperatamente, sembravano subire una sorta di richiamo ‘antropologico’ nell’arte di Basquiat che, elevato a protagonista della scena pubblica, al pari di un idolo ‘rapper’ o di ‘parkour’, s’infervoravano nei commenti (lazzi e risa) ed eccitazioni da rave tribale, come per un possibile ritorno alle origini.
Divagazione a parte, Basquiat, ha richiamato attorno a sé uno stuolo di ragazzi e ragazze in cerca di un qualche riconoscimento personale, sebbene influenzato da dinamiche di ‘gruppo di coesione sociale’ (*) e fattori di facile divulgazione, grazie anche al lavoro talvolta fuorviante dei mass-media conseguentemente elaborata: “Secondo alcune teorie relative alla ‘Social cognition’ – infatti – esistono varie motivazioni in base alle quali si percepisce la propria appartenenza ad un gruppo. (..) Non si intende necessariamente la somiglianza fisica, ma affinità di pensiero, interesse e stile di vita che equivalgono ad appartenere ad un gruppo anche quando non c’è somiglianza nelle idee o nei bisogni, ma con motivazione per lo più inconscia di identificazione all’altro”. (*)
Tale forma di ‘riconoscimento’, secondo una nota teoria sviluppata da Mario Manfredi (*), è determinata da fattori non esclusivamente emotivi che portano alla coesione, al di là di voler essere una ricerca del significato della vita intesa come recupero dell’immaginazione mitica, tende a creare una sorta di ‘mitologia personale’ che, a lungo andare, influenza la coscienza di noi moderni. E questo perché gli individui si comportano in modo diverso in situazioni analoghe a causa delle proprie diversità, ma che tuttavia attuano comportamenti che sono complementari gli uni agli altri secondo un modello elaborato e complesso, la cui comprensione, scrive Jo Brunas-Wagstaff (*): “...non può prescindere dai contributi della psicologia cognitiva e della psicologia sociale” (delle quali, per ovvie ragioni, non ci occuperemo in questa sede).
Puntiamo invece su Basquiat come ‘esempio di omologazione dell’interiorità conoscitiva’ per cui “essere riconosciuto” è per lui sinonimo di quel ‘successo’ che desidera fortemente e che sappiamo, determinato per un possibile riscatto di se stesso. Da cui si evince la presenza di un problema non più riservato che lo ha portato a una crescente consapevolezza della propria esistenza e dei molteplici ruoli che lo porteranno a misurarsi con le diverse discipline artistiche cui rivolgerà i suoi interessi: dai graffiti metropolitani, all’entusiasmo per la pittura, all’esaltazione ‘rave’ della musica, allo ‘sballo’ del cinema e tant’altro. Per cui ‘essere riconosciuto’ accresce il proprio status sociale, cui si contrappone la patologia di ‘misconosciuto’, che apre la porta a patologie di negazione e di conflitto.
Ma c’è un’altro aspetto nell’opera e nella vita di Basquiat che non abbiamo ancora analizzato, o meglio, dovrei dire, osservato da vicino, ed è il suo rapporto con la musica. E subito sorge una domanda alla quale mi è possibile dare solo una risposta circoscritta a quello che si rintraccia nelle sue opere pittoriche. Per il resto non conosco Basquiat nei panni di musicista, ma solo quello del ragazzo ‘nero’ che abbiamo visto tante volte al cinema e alla TV, che gira per la strada con a tracollo un grande stereo tenuto ad alto volume, che sembra portasse sempre con sé e che teneva acceso mentre ‘lavorava’ alle sue opere. Ma come vive Basquiat la musica? Apparentemente come un ‘luogo’ dove abitare la notte insieme ai suoi ‘fantasmi’, vissuto come una zona franca, libera da regole, dai ritmi diurni: “...come uno spazio fisico e mentale sottraibile alle cadenze e alle norme imposte da modelli di organizzazione sociale, uno spazio finalmente di libertà dove - egli - può temporaneamente svestirsi dei ruoli sociali, per indossare gli abiti dell’evasione e le maschere del gioco”. (*) Molte sono le opere, eseguite con la tecnica dello ‘spray-paint’ oppure con colori ‘oil-paintstick’ su ‘metal panel’, che Basquiat dedica alla musica, ai suoi “grandi” favoriti del Jazz e non solo, come: “Blue Gyp Stock” (*), acrylic, oil paintstick e collage on canvas, dove è indicativo l’anagramma del titolo dove “Gyp Stock”, è l’equivalente di un nome dato dagli zingari a una squadra di baseball, e “Blue chip stock” erano i fondi capitalistici che ricordano il crack degli anni ’30. Interessante è analizzare le parti che compongono quest’opera in cui la tela ha una superficie quasi completamente bianca, con in alto sette volti bianchi con la scritta “testimoni”. Al centro un unico viso e tronco di una persona di colore, con sopra la scritta “Negro”, con in testa un cappellino da baseball. Di fronte delle note escono da uno strumento, una cassa di sintetizzatore , forse, con la scritta “frustation”, cancellata. A sinistra un accalappiacani bianco con la rete, a destra un battitore bianco che al massimo della gioia colpisce una palla. Poi però la freccia rossa trasforma la mazza in un bastone che picchia un cane madido di sudore, che cerca inutilmente la fuga. Il nero, proprio come il cane , è in trappola tra battitore e ricevitore, in un mondo dominato da bianchi. Forse la musica è la sua unica via di salvezza. A ben guardare si vede però che lo strumento potrebbe in realtà essere un utensile meccanico, una sega, forse simbolo dello sfruttamento delle minoranze, ma il manico assomiglia molto all’impugnatura di una pistola. Che sia un incitamento alla rivolta?
“Non so come descrivere il mio lavoro, perché non è mai la stessa cosa, sarebbe come chiedere a Miles Davis: com’è il suono della tua tromba?”, ha detto una volta Basquiat intervistato in occasione di una sua mostra. Pur tuttavia, la scelta di interpreti e strumentisti tutti rigorosamente ‘di colore’, la dice lunga sul proprio “orgoglio nero” e il suo “amore per la musica”. “Hornplayers” (*) del 1983, acrylic and oil paintstick on three canvas panels, e “Charles the first” (*) del ..... è un omaggio a Charlie Parker dove ‘ornitology’ fa riferimento a una sua composizione dal titolo ‘ear e alchemy’, con preciso richiamo alle qualità di ‘fusione’ e ‘improvvisazione’ tipiche della musica jazz. Sulla tela si trova inoltre il nome di un altro musicista straordinario: Dizzy Gillespie, Molte altre opere sono dedicate alla musica o ai musicisti neri: “King of the Zulus” del 1986, è dedicato invece a Loius Amstrong; “Zydeco” del 1984, si rifà invece a un genere musicale dei francofoni della Lousiana, dove si suona la fisarmonica: fusione di rhytm’n blues, rock’n’roll, valzer, musica caraibica cantata sia in inglese che in francese. "Jimmy Best” (*) del 1981, che rappresenta il suo momento di passaggio dall'esperienza di graffitista a quella di pittore, è costituito da una frase che emblematicamente recita: "Jimmy Best sulla sua schiena per i colpi bassi presi nella sua infanzia” o, in un’altra traduzione, “Jimmy mandato a tappeto da un pugno imprevisto dei suoi ricordi d’infanzia”, e dedicato ad un giovane pugile di colore segnato per sempre dall’esperienza del riformatorio. Una volta, Renè Ricard critico d’arte, commentò così questo dipinto: "Come può dirti chiunque abbia passato un po' di tempo nel penitenziario di Rivehead, gli uomini neri e latini più alti forti, ambiziosi e intelligenti vengono sistematicamente demotivati e discreditati. Jimmy non potrà mai dimenticare la sua incarcerazione come giovane delinquente, né la sua vita distrutta dal sistema carcerario. Questa è l'esperienza che l'uomo di colore fa della giustizia bianca". Ben venga dunque, anche la musica, attraverso la quale Basquiat da sfogo a una diversa maschera di sé, perché la musica ignora la separazione tra soggetto e oggetto (forse anche quella tra individuo solista e gruppo), e si rapporta direttamente col corpo che, si fa “immagine” ancor prima dell’essere suscitata dalla “parola” e, a ritroso, “suono”, che viene prima dell’immagine e che utilizza il linguaggio evocativo delle sonorità per ‘comunicare’ (ancora una volta ritorna) sensazioni ed emozioni. La musica non racconta storie, non propone percorsi narrativi da seguire, alla sollecitazione degli allucinogeni si muove sulle onde della ‘visual-art’, della ‘electronic-art’, come un diverso modo di vedere e di rappresentare. È libera di diffondersi nell’aria come i pensieri, fa presa sul flusso sonoro delle preoccupazioni e le cancella, in brevi frammenti musicali senza inizio né fine, ripetuti indistintamente all’infinito, consumati nel presente senza lasciare nulla al dopo.
Id: 981 Data: 13/06/2024 10:20:30
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- Poesia
“Giorgio Moio ...Haiku, vuoti d’ombre e sprazzi di luce.
Giorgio Moio - Haiku del giorno dopo – Bertoni 2024
“ascolta voce canto d’onda marina – : il silenzio va”
“onda tenace nel silenzio di sera – : cambia stagione”
“Vuoti d’ombre e sprazzi di luce” che si susseguono in versi liberi espressivi di uno stato d’animo, quale misura /metafora di emozioni esistenziali che, per una sorta di ‘vacuità’ temporale che l’autore ha colto nell’intuizione dell’istante sospeso cui, ancor prima della mano, il pensiero ermetico ha trascritto nello spazio lasciato appositamente in bianco della pagina che lo accoglie …
“si aprono gemme germinando le attese – : raccoglie sogni”
“annotazioni margine dell’estate – : devastazioni”
Il segno grafico ‘more’ così impresso si ravviva nella trasparenza della sospensione ‘in levare’ che, trasferita in musica dà al ruolo caratterizzante della nota il suo necessario divenire, per cui ogni singolo haiku, pur contenendo il medesimo afflato, non è mai fine a se stesso e non può esserlo, in ragione del suo farsi trascrizione letteraria di un vissuto esistenziale che gli è proprio, attraverso il quale tenta di raggiungere la sua completezza onirica…
“salace fiamma nella oscura sera – : spazio in levare”
“meraviglioso strenuamente tracciato – : segno dilaga”
Quel che in natura, parimenti al volo dell’uccello è il volare della foglia che, servendosi dell’aria, descrive nella trasparenza del cielo, il suo volo onirico distaccandosi dall’albero che l’ha generata, abbandonandosi all’ipotetico di una possibile realizzazione. Niente più di quanto accade nel sogno il cui significato non riusciamo ad afferrare, da cui però scaturiscono e ne sono ‘condizionate’ tutte le nostre azioni che l’associazione libera del pensiero riversa in quella già annunciata ‘vacuità’ inconscia e/o meditativa, nel labirinto della nostra mente conoscitiva…
“segno nel vento graffiate le foglie – : placido fiume”
“nei fiori il tempo come una porta aperta – : fino alla luce”
Si è qui alle prese con l’immaterialità che conduce ai molti perché dell’esistenza, ai numerosi interrogativi della psiche cui non abbiamo data ancora una risposta congrua, ancorché in presenza delle crepe sul muro restiamo immobili in un esitare vacuo davanti al compiersi delle azioni, dove finanche un singolo haiku, talvolta, s’apre alla meditativa incongruenza giudicante che mettiamo in atto, senza dircelo, nel profondo di noi stessi, soli nell’antropico rigenerarsi della natura…
“per germinali voci che il senso strozza – : braccato è il timo”
“per arenarie si alza quasi commossa – : un’alta marea”
Allorché “colorandosi / di polvere purpurea - / : l’occhio non schiude”, è all’amore che l’haiku rivolge lo sguardo strenuo di follia per una messa a fuoco del proprio sentimento d’autore, quando “languida luce / sulla vigna matura – / : si spande uno iato”. Ma le parole null’altro senso hanno che delle parole, altro è il profumo cosparso nel vento “come suono di canne” il cui richiamo del sole “quando lecca - / : la terra nativa. Quando “corre fantasia / sul filare dell’uva - / : il negare è ozio”, o quando “una melodia ondosa - / …/ “ semina sorte” /…/ “rimano foglie / sulla sponda del fiume - / : rosse farfalle”… “amare come marea un’onda sommerge - : dagli accenti”
“ferito il suono solca i cieli in silenzio – : poi l’uragano”
“Haiku del giorno dopo” è detto, col quale l’autore, Giorgio Moio, lancia il suo prospicente invito su cui riflettere e meditare, è allora che nel biancore della pagina è possibile intraprendere que percorso grafico-scrittorio-onirico in cui, ognuno a suo modo, consegua la propria visione corrispondente; e se non al sogno e/o alla sua volontà, che s’intenda almeno germinativa, non meno grave o profonda, dell’unica risposta indecidibile di cui da sempre siamo alla ricerca costante: chi siamo? …
“nella quieta / incertezza del tempo - : false dicerie”
Nota: Tutti i virgolettati sono di Giorgio Moio, al quale rivolgo i personali ringraziamenti e i grati auspici di lettore.
L’Autore. Saggista e scrittore, redattore e direttore editoriale, critico letterario, collabora a diverse riviste e giornali del settore di cui è anche fondatore, partecipa a rassegne, festival poetici e mostre collettive di rilievo. Ha all’attivo numerose pubblicazioni di vario genere. "Testo al fronte" è il quarto volume della collana "Contrappunti" (poesia verbovisuale) che Giorgio Moio cura per la Bertoni Editori. Inoltre a “Venti haih-ku extravaganti”, apparso in Frequenze poetiche n.3 – Bertoni Editore 2022. Altrettanto forbito è il suo curriculum come autore che è possibile consultare su tutte le piattaforme Web.
Id: 980 Data: 12/06/2024 11:49:34
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- Arte
Basquiat: Omologazione e riconoscimento sociale.
Basquiat: Omologazione e riconoscimento sociale.
Nel solco di quanto fin qui affermato, viene da chiedersi se la rivelazione ‘artistica’ di Basquiat abbia avuto luogo nella tradizione o fuori della tradizione storicistica dell’arte? O se l’impatto dei mass-media con l’evolversi dell’arte contemporanea, può aver prodotto una sorta di ‘finzione’ mediatica, di cui Basquiat è soltanto un interlocutore più o meno pregiudicato. Ma queste non sono che domande cui si sta ancora cercando di dare delle risposte concrete. Seppure – come già ho avuto modo di esprimere – sia convinta del fatto che l’arte contemporanea possa essere frutto della ‘futilità’ di un ‘presente storico’, provvisorio e deteriorato che noi tutti stiamo vivendo e, al quale, comunque, sto cercando di dare un senso. Le sale espositive, i grandi spazi semivuoti della Mostra di Roma – rammento – non facevano che aumentare in me sensazioni contrastanti che, solo dopo attenta riflessione, mi hanno fatto chiedere se si trattava di ‘finzione’. Qui nel senso più esteso di ‘dubbio’ che, quelle ‘figurazioni’, che pure avevo di fronte, e le molte altre ‘immagini ’ che le sue opere suscitavano in me, non fossero autentiche, bensì simulazioni tuttavia non vere. Cioè allucinazioni dovute a quella sorta di ‘immaginario’ cui Basquiat faceva spesso riferimento durante la sua costante esposizione alla droga, almeno stando al suo biografo più accreditato Phoebe Hoban (1), cui sembra l’artista facesse ricorso, e che eccitava la sua creatività. Indubbiamente la pressione che le sue opere esercitavano su di me, era la riprova che l’artista probabilmente doveva averle sentite sulla propria pelle, e verosimilmente si riflettevano nei suoi dipinti al pari di una proiezione ‘olistica’ (2) della realtà. È come se egli avesse voluto far sparire il mondo, o almeno quel mondo riduttivo che lui interpretava, in quello che era il ‘testo’ delle sue opere, in contrapposizione alla concretezza della realtà, dura perché amara, che si trovava a vivere. Non mi è però capitato di trovare nelle sue opere quella ‘spiritualità’ che è alla base della funzione creativa dell’arte, cui gran parte degli artisti spesso fanno riferimento, anche se non lo ammetterebbero mai. Come pure non mi è sembrato vi fosse la trattazione di un’idea particolarmente geniale; piuttosto la tensione idealizzata di un’artista votato all’arte per l’arte. Ciò che più saltava all’occhio, era l’utilizzo di ‘stereotipi’ presi qua e là che, in qualche modo, raccontavano il mutare emotivo della sua sensibilità nella scelta dei colori e nelle forme. Ancora oggi, di fronte alle sue opere, mi trovo a condividere su Basquiat la stessa idea di quanti hanno tessuto il suo profilo artistico e che, paradossalmente, lo pongono al di fuori degli schemi dell’arte. Affermazione scaturita dalla dedizione che Basquiat riservava a quella libertà priva di vincoli oggettivi specifica dell’ “arte contemporanea” in cui si trovò ad operare, e che dagli ormai lontani anni ’50/’60 è poi arrivata a noi, attraverso la teorizzazione e la sistematizzazione di un possibile ritorno alla manualità, alla materia e al colore. Infine contestualizzata come una delle correnti del ‘postmodernismo’ (3), e ascrivibile a quel passato che proprio con Basquiat, sembrava avviato a “concludersi con uno scacco matto per chi ha aperto la partita”. Da questo punto di vista, nel quadro convenzionale in cui Basquiat si attesta, hanno ben voglia i critici e gli estimatori d’arte a sproloquiarsi sul “assomiglia a questo o a quello...” o che ha “raccolto l’eredita di...”, quando al contrario, egli dimostra con tenacia, che non c’è partita che si giochi, o si possa dire giocata. Ciò, per il semplice fatto che egli, non essendo artista sedimentato nelle spire dell’arte, fuoriesce dal discorso prettamente ontologico da impedire qualsiasi sua classificazione, e l’unico rapporto oggettivo in cui è possibile inserirlo è quello dell’intuizione (geniale o meno), e comunque, esclusiva manifestazione del presente. Dacché possiamo intuire come in tutto ciò giochino un ruolo importante non soltanto le opere esposte, ma anche lo stato emotivo di chi le osserva. Usando un’espressione metaforica di Umberto Galimberti (4), possiamo interpretare le sue opere come connubio di “sentimento nel sentimento”, e non sconsolato abbandono; bensì forza: “... La forza d’essere se stessi al di là di tutte le convenienze, di tutti i calcoli, di tutte le opportunità”. Ed ovviamente, applicabile all’autore delle opere esposte quanto a chi le osserva emotivamente, scomponendo e anatomizzando i colori, i segni e le forme, di cui l’artista nel suo operare inconsciamente emotivo, talvolta sembra non rendersi conto. Nella sua “teoria delle emozioni”, Keith Oatley (5), associa l’emotività a un avvenimento causato dal mondo esterno che, grazie alla percezione riusciamo a comprendere e risalire così, alla causa che l’ha prodotto. Cioè di tutto quanto contribuisce all’ ‘autoaffermazione’ (6) rispetto agli altri, quindi anche rispetto alle cose, alla luce, ai colori, al tempo meteorologico che interagiscono e s’influenzano a vicenda, conseguentemente a un’esperienza emotiva ambiguamente conflittuale. Ma se le emozioni rappresentano una realtà complessa e in gran parte ancora misteriosa, l’essere critici, o acritici, è sempre un’esperienza soggettiva che assume valenza se la si esplicita (o non) mettendola in relazione con gli ‘altri’, i quali, interagiscono con la nostra emotività, attraverso le suggestioni e i sentimenti che siamo stati in grado di suggerire loro. In ogni caso c’è una spinta che deriva dalla conoscenza, precipua del sapere, che se proficuamente usata ci permette di ottenere risultati congrui alle nostre e alle altrui aspettative. Altrimenti viene da chiedersi perché visitare una mostra d’arte contemporanea, pittorica, cinematografica o avveniristica che sia? Devo ammettere che in occasione della Mostra su Basquiat alla Fondazione Memmo, da me visitata a più riprese durante la stesura di questa mia tesi, ho riscontrato un certo afflusso di gruppi di giovani e giovanissimi che, insperatamente, sembravano subire una sorta di richiamo ‘antropologico’ proveniente a loro dall’arte di Basquiat, improvvisamente elevato a protagonista della scena pubblica, al pari di un idolo ‘rapper’ o della ‘break dance’, e che s’infervoravano nei commenti, oltre ai lazzi e alle risa, ad eccitazioni da ‘rave’ tribale, come per un possibile ritorno alle origini. Divagazioni a parte, Basquiat – secondo me – ha richiamato attorno a sé uno stuolo di ragazzi e ragazze indubbiamente alla ricerca di un qualche riconoscimento personale, suggerito loro da dinamiche di ‘gruppo di coesione sociale’ (7) e altri fattori di facile divulgazione, per lo più dovuti al lavoro, talvolta fuorviante, dei mass-media conseguentemente elaborati: “Secondo alcune teorie relative alla ‘Social cognition’ (8) – infatti – esistono varie motivazioni in base alle quali si percepisce la propria appartenenza ad un gruppo. (..) Non si intende necessariamente la somiglianza fisica, ma affinità di pensiero, interesse e stile di vita che equivalgono ad appartenere ad un gruppo anche quando non c’è somiglianza nelle idee o nei bisogni, ma con motivazione per lo più inconscia di identificazione all’altro”. Tale forma di ‘riconoscimento’, secondo una teoria sviluppata da Mario Manfredi (9), è determinata da fattori non esclusivamente emotivi che portano alla coesione. Al di là di voler essere una ricerca del significato della vita intesa come recupero di quella che è stata individuata come ‘immaginazione mitica’ (10), tendente a creare una sorta di ‘mitologia personale’ che, a lungo andare, influenza la coscienza. E questo perché “...gli individui si comportano in modo diverso in situazioni analoghe a causa delle proprie diversità, ma che tuttavia attuano comportamenti che sono complementari gli uni agli altri, secondo un modello elaborato e complesso” (11). Puntiamo invece su Basquiat come ‘esempio di omologazione dell’interiorità conoscitiva’ per cui “essere riconosciuto” è per lui sinonimo di quel ‘successo’ che desidera fortemente e che sappiamo, determinato al riscatto di se stesso davanti alla società. Da cui si evince la presenza di un problema non più riservato che lo ha portato a una crescente consapevolezza della propria esistenza e dei molteplici ruoli che lo hanno visto misurarsi con le diverse discipline artistiche cui lo hanno portato i suoi interessi: dai ‘graffiti’ metropolitani, all’entusiasmo per la pittura, all’esaltazione ‘rave’ della musica, allo ‘sballo’ del cinema e tant’altro, per cui nell’‘essere riconosciuto’ accresceva il proprio ‘status sociale’. Ma c’è un’altro aspetto nell’opera e nella vita di Basquiat che non è stato ancora analizzato, o meglio dovrei dire, osservato da vicino, ed è il suo rapporto con la musica. E subito sorge una domanda alla quale mi è possibile dare solo una risposta circoscritta a quello che si rintraccia nelle sue opere pittoriche. Per il resto non conosco Basquiat nei panni di musicista, ma solo quello del ragazzo ‘nero’ che abbiamo visto al cinema e alla TV, che gira per la strada con a tracolla un grande stereo tenuto ad alto volume che sembra portare sempre con sé, e che tiene acceso mentre ‘lavora’ alle sue opere. Ma come vive Basquiat la musica? Apparentemente come un ‘luogo’ dove abitare la notte insieme ai suoi ‘fantasmi’, vissuto come una zona franca, libera da regole, dai ritmi diurni: “...come uno spazio fisico e mentale sottraibile alle cadenze e alle norme imposte da modelli di organizzazione sociale, uno spazio finalmente di libertà dove - egli - può temporaneamente svestirsi dei ruoli sociali, per indossare gli abiti dell’evasione e le maschere del gioco” (12). Molte sono le opere, eseguite con la tecnica dello ‘spray-paint’ oppure con colori ‘oil-paintstick’ su ‘metal panel’, che Basquiat dedica alla musica, ai suoi “grandi” favoriti del Jazz e non solo, come: “Blue Gyp Stock” del ....., misto di acrilico, olio e collage su tela, dove è indicativo l’anagramma del titolo, in cui “Gyp Stock”, è l’equivalente di un nome dato dagli Rom zingari a una squadra di baseball, e “Blue chip stock” erano i fondi capitalistici che ricordano il crack degli anni ’30. Interessante è analizzare le parti che compongono quest’opera in cui la tela ha una superficie quasi completamente bianca, presenta in alto sette volti bianchi con la scritta ‘testimoni’. Al centro, un volto e il tronco di una persona di colore, con sopra la scritta “Negro” con in testa un cappellino da baseball. Di fronte alcune note escono dalla cassa di un sintetizzatore con la scritta “frustration”, in parte cancellata. A sinistra un accalappiacani bianco con la rete, a destra un battitore bianco che al massimo della gioia colpisce una palla. Poi però la freccia rossa trasforma la mazza in un bastone che picchia un cane madido di sudore. Il ‘negro’, proprio come il cane, è in trappola tra battitore e ricevitore, cerca inutilmente la fuga in un mondo dominato dai ‘bianchi’. Lì dove forse la musica rappresenta la sua unica via di salvezza. A ben guardare però si nota che lo strumento potrebbe in realtà essere un utensile meccanico, una sega, forse simbolo dello sfruttamento delle minoranze, ma il manico assomiglia molto all’impugnatura di una pistola. Che sia un incitamento alla rivolta? “Non so come descrivere il mio lavoro, perché non è mai la stessa cosa, sarebbe come chiedere a Miles Davis: com’è il suono della tua tromba?”, ha detto una volta Basquiat intervistato in occasione di una sua mostra. Pur tuttavia, la scelta di interpreti e strumentisti tutti rigorosamente ‘di colore’, la dice lunga sul proprio “orgoglio nero” e il suo “amore per la musica”. “Horn-players” del 1983, su tre pannelli telati, e “Charles the first” del ..... vuole essere un omaggio a Charlie Parker dove ‘Ornitology’ fa riferimento a una sua composizione dal titolo ‘Ear and alchemy’, con preciso richiamo alle qualità di ‘fusione’ e ‘improvvisazione’ tipiche della musica jazz. Sulla tela si trova inoltre il nome di un altro musicista straordinario: Dizzy Gillespie. Molte altre opere sono dedicate alla musica o ai musicisti neri: “King of the Zulus” del 1986, è dedicato invece a Louis Amstrong; “Zydeco” del 1984, si rifà invece a un genere musicale dei francofoni della Louisiana, dove si suona la fisarmonica: fusione di ‘rhytm’n blues’, ‘rock’n’roll’, ‘valzer’, musica ‘caraibica’ cantata sia in inglese che in francese. "Jimmy Best” del 1981, rappresenta invece il suo momento di passaggio dall'esperienza di ‘graffitista’ a quella di pittore vero e proprio. L’opera è dedicata a un giovane pugile di colore segnato dall’esperienza del riformatorio. La tela contiene una frase emblematica che recita: "Jimmy Best sulla sua schiena per i colpi bassi presi nella sua infanzia” o, in un’altra traduzione, “Jimmy mandato a tappeto da un pugno imprevisto dei suoi ricordi d’infanzia”. Una volta Renè Ricard (13), noto critico d’arte di quegli anni, così commentò questo dipinto: "Come può dirti chiunque abbia passato un po' di tempo nel penitenziario di Rivehead, gli uomini neri e latini più alti forti, ambiziosi e intelligenti vengono sistematicamente demotivati e discreditati. Jimmy non potrà mai dimenticare la sua incarcerazione come giovane delinquente, né la sua vita distrutta dal sistema carcerario. Questa è l'esperienza che l'uomo di colore fa della giustizia bianca". Ben venga dunque, anche la musica, attraverso la quale Basquiat da sfogo a una diversa ‘maschera’ di sé, perché la musica ignora la separazione tra soggetto e oggetto (forse anche quella tra individuo solista e gruppo), e si rapporta direttamente col corpo che si fa “immagine” ancor prima dall’essere suscitata dalla “parola” e, a ritroso, “suono”, che viene prima dell’immagine e utilizza il linguaggio evocativo delle sonorità per ‘comunicare’ sensazioni ed emozioni. Per Basquiat la musica non racconta storie, non propone percorsi narrativi da seguire, alla sollecitazione degli allucinogeni si muove sulle onde della ‘visual-arts’ e dell’ ‘electronic-arts’ (14), come un diverso modo di vedere e di rappresentare. È libera di diffondersi nell’aria come i pensieri, fa presa sul flusso sonoro delle preoccupazioni e le cancella, in brevi frammenti musicali senza inizio né fine, ripetuti indistintamente all’infinito, consumati nel presente senza lasciare nulla al dopo.
(continua)
Id: 978 Data: 04/06/2024 18:13:13
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- Arte
Basquiat - Training e sperimentazione.
Basquiat: Training e sperimentazione.
A fronte delle problematicità rilevate, si vuole capire se la forma espressiva di Basquiat sia frutto del ‘paradosso’ della sua giovane età, del diverso colore della sua pelle, o soltanto un modo di comunicare agli altri qualcosa che riguarda il proprio disagio, visto attraverso lo specchio sviante, di un sé proiettato alla ricerca di altri esempi di essere o in funzione di esplorare trame di vita diverse. Problema che porta a quell’inquietudine che le sue opere trasmettono, e di cui, solitamente, non si parla, se non in forma di trasgressione e divaricazione della ‘normalità’ (1). Come scrive Alasdair McIntyre (2) in “Animali razionali dipendenti” a proposito di queste problematiche attive nei diversi soggetti : “che hanno prodotto una qualche criticità, introdotta e/o causata da forze esterne travolgenti e ingovernabili”, e comunque difficile da arginare perché più spesso messi in atto nel tentativo di assecondare atteggiamenti autodistruttivi, al limite dell’ ‘autolesionismo’ (3) cui Basquiat fa ricorso in diversi momenti della sua giovane vita. Aspetti questi, che riconducono il fenomeno sul terreno della ‘performance’ elaborata a suo tempo da Victor Turner (4), relativa al concetto di ‘struttura’ e ‘anti-struttura’ utilizzata nei processi sociali che, ancora oggi, permette di rilevare quelle che sono le forme portanti e le successive trasformazioni dell’esperienza umana. Così come di: “riconoscere, in certo qual modo, la vulnerabilità individuale – ma anche sociale – nel compiere determinate scelte, come condizione essenziale per comprendere le ragioni e le modalità che le rendono necessarie; sostanziale per capire fin dove l’individuo arriva a scegliere in piena autonomia (libero arbitrio), il proprio ruolo nella vita e nel mondo”. Resta il fatto che un fenomeno come quello che si sta analizzando preclude da tutto quanto fin qui detto, per aprire invece connessioni parallele che vanno nei soggetti ‘giovani’, dalla superficialità nel valutare i rischi, alla irresponsabilità di fronte ai pericoli e alla mancanza di consapevolezza del valore intrinseco della propria vita e di quella altrui. Ed è proprio in questo il problema o, se vogliamo, il paradosso che l’opera di Basquiat nel suo insieme solleva, per appunto nel trovare accesso autonomamente nel mondo dell’arte attraverso le sue origini di artista di strada, in quella costante e inasprita denuncia sociale, fatta propria dai giovani ‘graffitari’ (5) e non solo. Ciò che fa la differenza, nel dire di molti giovani, Basquiat compreso, è di “non comprendere quale sia il problema” dal momento che operano scelte che apparentemente sembrano futili o diversamente pericolose, quali: vivere senza regole, interruzione degli studi, guardare un programma piuttosto che un altro, scegliere l’anarchia anziché impegnarsi in politica, visitare una mostra piuttosto che andare allo stadio, darsi allo sballo del sabato sera, agli sport estremi, alle corse folli in auto, all’uso di droghe ecc. che, semmai – dicono – si tratta di una sorta di plus-valore della raggiunta autonomia, il cui conseguimento, secondo certe loro necessità, concorre alla piena realizzazione del proprio essere. Nella breve vita di Basquiat sono molteplici gli aspetti trasformativi della personalità che rendono difficile ogni tentativo di classificazione. Diverse sono infatti le cause che portano a questa difficoltà, ma è interessante esaminarle, seppure in parte, in modo da favorire la comprensione dell’individuo e dell’artista in chiave psicologica e che si basa su un principio fondamentale ben definito da Roberto Assagioli (6), per cui: “l’individuo tende a correggere gli eccessi e le deviazioni, risvegliando quegli elementi che sono opposti o complementari a quelli dominanti” del proprio sé. In cui egli ravvisa un certo potere di auto-regolazione sia della vita fisica, che di quella psicologica. In alcuni particolari casi, tuttavia – egli aggiunge – “talvolta opera all’eccesso, producendo reazioni esagerate, o ciò che potrebbe essere chiamata iper-compensazione, per cui l’individuo ha la tendenza a sopravvalutare proprio le qualità che gli mancano”. È forse questa la ragione per cui davanti alle opere di Basquiat viene il dubbio se definirlo ‘genio’ o ‘barbone’, o ammettere che si è di fronte all’incapacità di percepire. In poche parole non si arriva a essere certi di ciò che l’opera di Basquiat ci sta comunicando. E ciò per una defiance di comunicazione che a distanza di tempo non arriva più, o piuttosto da mettere in relazione con una certa avvenuta assuefazione, in quanto l’opera di Basquiat sembrerebbe ormai superata. Di certo non lo è per quei milioni di giovani di tutto il mondo che lo copiano o si rifanno alle sue opere ‘profetiche’, entrate nel costume e nella moda, grazie anche alla solidarietà artistica di certi critici e galleristi che hanno intravisto in lui il “genio” nascente dell’arte, procurando un punto di rottura nel sodalizio degli artisti così detti ufficiali che videro in Basquiat “lo spettro spaventoso dell’inadeguatezza”. Ciò per quanto si preferisca leggere nelle sue opere una qualche forma d’amore per i colori e non in ultimo per la vita che, fino a prova contraria, è stata fondamentale per la sopravvivenza non solo degli artisti più o meno affermati, quanto per gli esteti dell’arte indistintamente. In ogni caso si tratta qui di voler trovare una ‘dimensione’, o forse dare un ‘senso’, a un genere d’arte, quella di Basquiat, che riconduce all’emotività, alla condizione ‘sine qua non’ di quell’ ‘auto-riconoscimento’ individuale, necessario a chiunque intraprenda l’esperienza dell’arte. Per completare il quadro, destinato per il momento a restare senza cornice, serve stabilire una relazione più estesa, la più ampia possibile, che dalla tradizione artigianale porta all’esperienza estetica tout court dell’arte, e che consente una comunicazione più aperta e libera possibile. Ne va sottovalutata l’attuale ‘rete delle immagini’ alla cui diffusione propria dei mass-media, si accompagna generalmente l’imperativo consumistico che assegna il primato all’apparire piuttosto che all’essere, per cui: “l’individuo vale più per ciò che ha che per ciò che è”, tipico sia delle tendenze della moda e del mercato dell’auto, che dell’arte. Ancora una volta non si tratta di uno slogan coniato per l’occasione, quanto di una constatazione di fatto sulla quale almeno si dovrebbe meditare, a sostegno di un dialogo franco con il futuro dell’arte. Il riferimento a Basquiat è evidentemente di tipo relazionale - sperimentale, lì dove l’artista va all’inseguimento di una identificazione pregnante, giocata sulla notorietà di “quelli che contano” ai quali egli si rifà, verosimilmente per combattere l’insignificanza cui può andare soggetto, con la pretesa un giorno, di divenire protagonista o restare semplice spettatore di se stesso. Una scelta questa non poi così insolita tra gli artisti che tendono a mettere in mostra una compiaciuta rappresentazione narcisistica di sé. Di contro si ha l’abbandonarsi a una esteriorità edonistica di natura mutevole, quella adolescenziale, di per se ibrida: “... che oscilla tra la ricerca della propria identità e la proiezione di un futuro ancora incerto, mentre vive il proprio tempo presente nel segno della precarietà e della drammaticità” (7). Il paradosso non è affatto nuovo, se già negli anni ’50 il filosofo tedesco Martin Heidegger (8) rilevava che: “Nessuna epoca ha avuto, come quella attuale, nozioni così numerose e svariate sull’uomo. Ed è anche vero, che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Mai l’uomo ha assunto un aspetto così problematico come ai nostri giorni”, quando già il virus della postmodernità aveva infettato gli animi delle generazioni più giovani; quando cioè: “...la situazione emotiva apriva l’uomo al nudo fatto del suo ‘essere gettato’ nel mondo, mentre la comprensione era la proiezione attiva e ‘progetto’ e ‘interpretazione’ di qualcosa in quanto tale”. Due facce di una stessa medaglia attribuibili da una parte alla mancanza di volontà di crescita, quindi di maturazione artistica che in Basquiat non viene mai meno dal primo dei suoi graffiti fino all’ultimo dipinto. Mentre, dall’altra, il rifiuto di una presa di coscienza di un sé che oscilla tra l’appartenere alla collettività o lo svincolarsi da essa e tornare ‘alla strada’, tra brame di ribellione e desiderio di libertà, che talvolta, come nel suo caso, degenera e si trasforma in occasione di scontro violento con la propria esistenza. Non si può certo affermare che oggi le cose siano cambiate di molto, se non forse peggiorate, se un altro cambiamento di tipo radicale nel panorama dell’arte è alle porte. Colpa della globalizzazione? Qualche critico grida sì, per il fatto che con essa è arrivata l’assuefazione e la noia a tutto. Come dire, è venuto meno l’interesse per l’arte in generale, anche a causa delle condizioni economiche contingenti, che hanno compromesso il processo creativo da cui si delinea un cambiamento esperienziale che diede avvio ai ‘collettivi’ (9). I quali, trovavano nelle giovani generazioni il piglio di nuove esperienze creative che furono rigenerative della voglia di sperimentare e di conoscere nel suo insieme. Date certe condizioni e le difficoltà del vivere, artisticamente parlando, delle nuove generazioni, sempre più inclini al consumismo sfrenato del “tutto subito o niente”, delle “corse contromano”, degli “inseguimenti rocamboleschi per le vie cittadine”, delle “notti sfrenate del sabato sera” e “dell’uso costante di alcol e droghe pesanti”, ecco il verificarsi di manifestazioni di profondo disagio che in certi casi tocca gli strati più nascosti dell’animo umano, giacché il rifiuto del ‘precostituito’ e del ‘preconfezionato’ equivale sempre a una mancata accettazione di se stessi, a una mancanza di rapporti adeguati con la società e con gli altri. È lo stesso di quando si è incapaci di percepire un pericolo o quando ci si adopera, consciamente o inconsciamente ad andare oltre, nella dimensione fluttuante dove il tutto e il niente si equivalgono: “la paura della morte e la sua negazione”, chi può dirlo? Basquiat sembra aver provato già tutto, quando ancora la ‘Transavanguardia’ (10) incominciava a mostrare le sue crepe, i segni di una erosione annunciata che, dopo di lui sopraggiungerà: “...nel momento esperienziale della ragione e in quello riflessivo della critica”, con la forza di uno tsunami che sconvolse la scena artistica degli anni ‘80. Va qui ricordato che la ‘Transavanguardia’, grazie alla sua natura anticipatoria, è stata forse l’unico movimento tutto italiano riconosciuto all'estero, proprio a partire dalla sezione “Aperto ‘80” della Biennale di Venezia (11), appunto del 1980, che vide protagonisti un quintetto di artisti: Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, ai quali si aggiunsero Mimmo Germanà ed Ernesto Tatafiore. Una Biennale per certi aspetti degna di nota, per la partecipazione di tanti artisti qualificati. Tra i quali cito qui, Francesco Clemente (12), l’unico italiano che in quegli anni è stato protagonista di una ‘Collaboration’ pittorica con Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat.
(continua)
Id: 976 Data: 31/05/2024 07:23:54
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- Libri
Gio Ferri, dall’esperienza sensoriale al decostruzionismo.
Gio Ferri … dall’esperienza sensoriale al concettuale decostruzionista. “Poesie Scelte. Un’autoantologia 1964-2014” – Anterem Edizioni 2024, con saggi propedeutici di eminenti autori.
Una lettura quanto più necessaria a colmare il vuoto editoriale di questa nostra contemporaneità conoscitiva in ambito poetico-letterario, che si pone quale ‘chiave di volta’ tra l’espressione statica d’inizio ‘900 e la dinamica nichilista post-moderna degli anni 2000, prendendo spunto dalla sensazione tattile delle forme come percezione spaziale, per giungere al disconoscimento programmatico del visibile all’ “indecidibile” derridiano: “…come ciò che all’opera del senso, fa del dire, della lingua, della scrittura, qualcosa di più ampio di quello che la presenza, l’intenzione o la semplice percezione potrebbero esprimere sulla ricerca di senso”. (Jacques Derrida). Per quanto concerne il ‘visibile’, per Gio Ferri infatti, si tratta pur sempre dell’ ‘indecidibile’ derridiano, anche se in modalità differenti riguardo all’ arte e rispetto alla scrittura, un’esplicita disomogeneità dal significato primario della traccia, del tratto, del fatto stesso di esistere che, per l’ appunto, trova della decostruzione un’occasione assai feconda di esplicitare, di mettere alla prova e sperimentare la portata dei suoi concetti in proposito. Quanto l’autore abbia maturato una propria concettualità decostruttiva e/o che ciò sia frutto di autentica intuizione non è dato sapere, tuttavia possiamo dire che Gio Ferri la utilizza benissimo, allorché ne avalla e ne utilizza l’opportunità nella poesia di ricerca, dando vita a un pensiero dell’interdipendenza, promovendo: “…audaci connessioni e concatenamenti tra generi letterari, tendenze artistiche, settori editoriali, coniugando unità e differenze tra poesia e grafica, poesia e prosa, narrazione e saggistica, poesia sonora e poesia concreta, scrittura ed editoria, traduzione letterale e infedeltà al testo, riflessione poetica e critica militante, colta nei suoi sterminati potenziali di sovversione.” (Flavio Ermini) Relativamente alla ‘decostruzione’ menzionata, l’autore discopre un singolare quanto espressivo segno poetico-grafico che nell’estensione del libro si rivela antitetico alla premessa, in quanto, partendo dalla sua stessa definizione di ‘autoantologia’ si pone al servizio dell’ideologia prammatica, nell’interfaccia con la “Brevissima Storia della mia ‘scrittura’ raccontata da me stesso”, operando al tempo stesso una sorta di ‘autocritica’ tuttavia congeniale all’economia dei testi qui presentati e che, recupera una certa volontà dell’autore. Come Gio Ferri stesso, dopo un breve excursus annuario riferisce: «Dal 2000 si fa strada, coerentemente (?), con le prove degli ultimi vent’anni, una più estremistica e nichilista (conferma) visione del ‘nulla prammatico della storia’, a fronte del ‘puro nulla della poesia e del segno artistico’.» Indubbiamente si sta parlando di una certa ‘coerenza’ che pur nell’introversione relativa alle varie fasi della sua produzione, lo mostra quale ‘artefice di se stesso’, mettendo in primo piano: “l’incessante e affascinante sperimentalismo e la stupefacente attualità […] da costituire una traccia per i giovani che vogliano dedicarsi all’attività creativa e letteraria” (Paola Ferrari), che ne procrastina il ruolo antropico di autentica originalità in quello di geniale influencer in grado di determinare i comportamenti e le scelte delle attuali generazioni. Nulla di meglio per dare seguito all’intemperanza che siffatta ‘autoantologia’ rivela del personaggio Gio Ferri, scaraventandolo sulla ribalta dell’odierna kermesse faunistica di ‘de-costruttori’ tout court. Vale quanto egli stesso dice in apertura della sua ‘auto-storia’ al servizio dell’ideologia prammatica: “Pretende d’essere poetico (ma lo è? O piuttosto è antipoetico?) in quanto illude di farsi carico della sintesi di una visione totalizzante del riscatto, anche, e soprattutto, linguistico. I suoi spazi sono: i murali, i manifesti, le fabbriche, gli incontri politico-sindacali, le feste popolari, i ciclostilati ecc. Ma questa, ovviamente, non è altro che la piccola personalissima parte della gran parte della storia di quel tempo. […] È la fine dei sentimentalismi ideologici (non certo di una idea testuale personalissima del materialismo.” Sì che viene da chiedersi a quale tempo/epoca egli fa riferimento? Siamo ai postumi del ‘Futurismo’ marinettiano, benché mai elaborato del tutto, oppure di fronte a un certo eclettismo di ritorno post-war? Vogliamo tornare a esaltare il movimento aggressivo dei facinorosi risorgimentali, l’insonnia febbrile dei poeti maledetti, il passo dell’oca, il salto mortale dei rappers, lo schiaffo e il pugno dei compagni, o la mano levata delle camicie nere? Meglio pensare alla manzoniana ‘ai posteri l’ardua sentenza’. Ops, ma i posteri siamo noi, quindi tocca a noi emettere la sentenza, ma no, in certi casi ancor più vale l’agire e lasciarsi condurre dalla corrente rivoluzionaria che vuole che tutto abbia una fine, onde ‘de-costruire’ implica necessariamente ‘ricostruire’, ancorché per il dopo, o quel che resterà delle future generazioni. “Gio Ferri ha denunciato la metamorfosi della critica, diventata oggi affermazione di sé. Tanto che il pensiero è mutato in merce e la lingua si è fatta imbonimento. Lo spirito non può che dileguarsi, ripeteva, quando è ridotto a industria culturale e distribuito a fini di consumo, di manipolazione, di costruzione di consenso. Il mondo appare più inospitale che mai. Appare inconoscibile e ostile, atto a ferire e a sfregiare la dignità della persona umana […] dimostrando che l’arte di piacere era a lui sconosciuta, convinto com’era che la parola che vuole piacere è una parola che vuole soggiogare” (Flavio Ermini). Tutto questo non è forse inquietante? – mi chiedo – ma ancor più inquietante è trovarsi “…di fronte al dolore delle persone, specialmente quando è dolore provocato dallo sfruttamento sociale ed economico, dolore provocato dalle speranze recise e dalla caduta delle illusioni, ancora più lancinanti per chi giunga da continenti lontani. Gio Ferri ci ha insegnato l’importanza di denunciare quanto inumana sia la nostra indifferenza nei confronti delle ferite strazianti che noi stessi con la nostra indolenza e la nostra ignavia procuriamo agli altri esseri viventi.” (Flavio Ermini). L’autore: Gio Ferri, giornalista, poeta, scrittore visivo, grafico, critico d’arte e di letteratura, esperto di comunicazione e marketing, per l’editoria, fondatore e direttore di riviste letterarie, critico analitico e interdisciplinare ha caratterizzato il prodursi evolutivo delle poetiche contemporanee. Presente nelle più importanti esposizioni internazionali di poesia visiva e grafica scritturale, e di numerose mostre personali. Organizzatore di convegni e festival di poesia e di teatro, mostre d’arte e seminari sulla comunicazione.
L’estensione della sua biografia occupa da sola pagine su pagine da riempire un tomo a parte, accoglie testi di narrativa e teatro, sillogi poetiche e poesia visiva, saggistica e critica della poesia ‘testuale’ contemporanea. Di lui hanno scritto saggi ‘introduttivi’ presenti in questa raccolta: Flavio Ermini, Giovanni Fontana, Francesco Muzzioli, Chiara Portesine, Marilina Ciaco; inoltre a saggi ‘conclusivi’ di Adam Vaccaro, Vincenzo Guarracino. Si ringrazia infine la redazione di Anterem Edizioni per la completezza dell’opera portata a termine con dedizione e filantropia in rappresentanza di una ‘eccellenza’ in ambito editoria nel dare voce costante alla ‘poesia contemporanea’.
Id: 974 Data: 23/05/2024 18:17:32
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- Arte
Basquiat...ovvero la vita come opera darte.
BASQUIAT...ovvero la ‘vita’ come opera d’arte.
Introduzione /Prologo
Basquiat? Un incontro casuale con l’arte, come casuale era che quel giorno d’inizio ottobre mi trovassi a passare per Via del Corso a Roma, davanti alla Fondazione Memmo (1) viso a viso con un artista che non conoscevo. Una ‘maschera’ completamente ‘nera’ e per certi aspetti inquietante, capelli ‘rasta’ alla Bob Marley, taglio d’occhi obliqui alla Jimmy Hendrix che guardavano nel vuoto, come fossero in cerca di un supporto umano sul quale fermare lo sguardo. Ne fui letteralmente catturato. L’invito, che al dunque mi spinse ad entrare, recitava: “Basquiat: fantasmi da scacciare”, e sebbene, sul momento, non compresi se fossero ‘i miei’ o ‘i suoi’ fantasmi, entrai. Lo feci così, d’impulso, mentre riflettevo sul fatto che, in fondo, si trattava pur sempre di una mostra d’arte, e i fantasmi che vi avrei incontrato, dopo non mi avrebbero seguito per la strada e non si sarebbero insinuati nelle mie notti. Non che mi aspettassi di vedere una mostra d’arte figurativa, quanto di confrontarmi con i perché di un rifiuto che tutta l’arte cosiddetta ‘contemporanea’ da sempre esercita su di me, lasciandomi perplesso riguardo al ‘senso’ o al ‘messaggio’ che esprime, o meglio, che attraverso di essa, tanti straordinari artisti cercano di comunicare. Che siano i loro fantasmi ad aggirarsi per le gallerie e le mostre d’arte di tutto il mondo? Oppure dipende da me voler attraversare il presente con spirito imperturbabile davanti a tanta esposizione di creatività? E' innegabile che l’operato di certi artisti è condizione intrigante di un comunicare che, a loro modo, cercano di imporre all’attenzione di un pubblico più vasto, attraverso le rispettive tendenze, cosa che in questo Basquiat non fa alcuna eccezione. Spetta quindi a me, in qualità di osservatore curioso, rendermi disponibile a incontrare quell’artista che non conoscevo e che verosimilmente mi invitava ad entrare. In fondo, perché non conoscerlo di persona, cercando, in qualche modo, di comprendere quello che ha di tanto originale da comunicare, visto che gli hanno dedicato una mostra tutta sua, e che – addirittura – si propone come una “retrospettiva di grande interesse per la cultura nera metropolitana e per la storia afro-americana”? Chi è Basquiat? – mi sono chiesto e ancora oggi mi chiedo davanti alle sue opere – oltre ad essere: “uno dei più importanti esponenti del graffitismo americano che, insieme a Keith Haring, è riuscito a portare quel movimento dalle strade metropolitane alle gallerie d’arte”, stando almeno a quanto scrive Olivier Berggruen (2) nella introduzione al ‘Catalogo della Mostra’ che sfoglio mentre mi approccio ad entrare. Perché è diventato improvvisamente così ‘importante’ da promuovere collaborazioni di prestatori internazionali e collezionisti, per mostre itineranti che dall’America raggiungono l’Europa e il Giappone e chissà quali altri continenti? Voglio capire che cosa c’è dietro a tutto questo che ancora sfugge alla mia comprensione dilettantesca, quando si dice: “Basquiat deve essere valutato e capito attraverso le sue opere, che racchiudono tutta la forza, le sue inquietudini, la sua visione del mondo e rappresentano un eccellente strumento per avvicinarsi alla conoscenza dell’essere umano e, non in ultimo, per comprendere la vita”? (3). Quando si pretende da me uno sforzo per collocarlo dentro questa o quella esperienza dell’arte, oppure fuori da ogni convenzionale tendenza? Una ipotesi non trascurabile questa, che lascia intravedere una certa possibilità di indagine su come il pubblico oggi si relaziona con l’arte contemporanea. E questo di là del fatto che, ‘prima’ e ‘dopo’ Basquiat, ci sia stato qualcosa, o forse qualcuno, che quest’arte ce l’ha fatta amare nella sua pur diversa espressione. E mi riferisco a un certo "fare arte" innovativa, sebbene siano in molti i critici che oggi la tacciono di ’eccedenza’ e conseguentemente come ‘non necessaria’. Che Basquiat risponda a un’esigenza esclusivamente di mercato? – il dubbio è lecito, almeno per quanto c’è di controverso in tutta l’arte contemporanea e alle strepitose battute all’asta delle sue opere. Un controsenso, se vogliamo, che si aggira tra i ‘fantasmi’ dell’arte degli anni in cui Basquiat lavora freneticamente. Se si dice che l’arte sopravviva all’artista che l’ha prodotta, di contro, l’arte deve avere necessariamente una qualche valenza fintanto che non è superata, dopodiché il ‘genio’ rimane tale se è stato in grado di trasmettere ‘emotivamente’ ciò che era il contenuto della sua ispirazione. All’opposto di questa affermazione Basquiat è riconoscibile per la sua capacità di realizzazione, di esecuzione ed evoluzione all’interno di una determinata espressione che lo contraddistingue, ma che non necessariamente lo trasforma in talento creativo, pur riconoscendogliene le potenzialità. Più interessante – a mio avviso – è l’approfondimento, rilevato nel suddetto catalogo, degli aspetti relativi all’ ‘antropologia culturale’ (4) e al ‘relativismo culturale’ (5) consoni a dare a Basquiat maggiore spessore e profondità artistica, lì dove egli va alla ricerca di quella identità referenziale che in seguito ne ha decretato la sua forma espressiva. A fronte di questa mia ‘personale’ esposizione, rilevo invece e con un certo interesse, che il ‘fantasma’ Basquiat non nasce dal nulla. Davanti ai suo lavori ammetto di provare la ‘sensazione’ di un artista che, si muove in un ‘labirinto’ mille volte percorso, fino a divenire per lui ‘autoriferimento’ (6), denuncia sociale, ‘auto-riduzionismo’ (7) che lo vede riappropriarsi dei segni e dei simboli connessi alla naturale espressività delle ‘origini’ cosiddetta del ‘multiculturalismo’ (8). Si rende qui necessario il riferimento all’aspetto antropologico di un’arte che ricorda molto da vicino quella dei popoli cosiddetti ‘primitivi’ (9). Ancor più di quegli aspetti della ‘produzione artistica’ che, ad un certo momento dell’evoluzione umana, abbiamo messo in disparte perché legata a ‘culti animisti’ (10) di provenienze diverse: dall’Africa all’America Centrale, dall’India all’Estremo Oriente. Culti questi, in cui si tende a considerare ogni cosa della natura come sede di un principio vitale (anima); nonché alla conseguente credenza negli spiriti ancestrali, ‘esseri’ superiori all’uomo che, in qualche modo, ne condizionano l’esistenza, ai quali pure si deve la grande produzione di ‘maschere’ (11), spesso orrende, legate al misticismo religioso e a riti oscuri che per ragioni inerenti questa tesi, è solo possibile citare ma che non è lecito approfondire. Il riferimento tuttavia non è casuale, e certi ‘fantasmi’ che vagavano sciolti, e che incontro nelle opere in Mostra a Roma, sì da poter anche essere autentici, se visti nell’ottica artistica di Basquiat che, pur non essendo vissuto in certi luoghi, mi è sembrato ‘viverli’ o forse ‘riviverli’ a livello inconscio, vuoi per il "colore della sua pelle" nera, vuoi per quella sorta di ‘imprinting’ (12), non necessariamente inconscio, a cui la sua discendenza vissuta con orgoglio – e voglio sperare che sia così – lo ha relegato. Un altro aspetto che invero mi ha fatto apprezzare le sue opere è un certo segno ‘calligrafico’ che le distingue da altre, prima ancora del ‘graffitaro’ che si vuole sia il suo peculiare contrassegno. E qui mi riferisco alle pezzature di colore che fanno da sfondo ai suoi numerosi ‘messaggi graffiti’ a margine di alcuni quadri, le scritte fumettistiche, le maschere ‘naif’ e i mascheramenti tipici della ‘tribal-art’ (13), la reinterpretazione pubblicitaria, le contaminazioni della ‘visual-art’ (14), e i ‘tag & crew’ (15) della computeristica, tutto efficacemente espressivo. Meno interessante ho trovato invece l’utilizzo che Basquiat fa della ‘tecnica mista’ di mettere assieme ritagli di giornali, frammenti di fotografie e altri oggetti di rinvenimento, che sono alla base del ‘collage’ (16) – si pensi alle straordinarie applicazioni che ne hanno fatto Georges Braque e Pablo Picasso all'inizio del XX secolo – quando questa tecnica divenne parte distintiva dell'arte moderna. A mio parere – e di questo sono più che mai convinto – in Basquiat credo abbia giocato un ruolo decisivo, vivere l’esperienza dell’artista di strada, quel vivere ‘on the road’, con le sue nefandezze giovanili, sfidando una città come la New York degli anni ’80 e i rischi che comportava. Il forte richiamo del ‘successo per il successo’ che ha fruttato a Basquiat quella parziale ricchezza che sperperava a piene mani; il suo giocare in diversi ruoli sociali, che lo hanno portato alla ribalta dell’arte; per non dire della sua tragica fine, pur non avendo egli mai rinunciato a quella “libertà di essere se stesso”, con il medesimo disincanto di qualsiasi artista provato. Non in ultimo, il suo rifarsi costante alla musica. Sono noti certi suoi nepotismi musicali, a cominciare da Louis Armstrong in poi, quando rompe con la tradizione per abbracciare il ‘Be-bop’ di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, e l’avanguardia ‘Jazz’ di Miles Davis e John Coltrane. Così come, successivamente, maturerà un’infatuazione per la musica ‘Reggae’ di Bob Marley, il ‘Rock’ sofisticato di Jimmy Hendrix o quello edonistico di David Bowie, e comunque tutti artisti di grande pregio che, in qualche modo, hanno contrassegnato la ‘musica contemporanea’. Ma al di là delle critiche che è pleonastico sollevare, ciò che mi ha portato a formalizzare la mia tesi sul personaggio Basquiat, è stato indubbiamente l’aspetto socio-psicologico dell’artista e il poter avvicinarmi, il più possibile, a quella ‘conoscenza’ che Olivier Berggruen abilmente auspica, nelle pagine del citato Catalogo delle sue opere, alla cui frase mi sento di aggiungere: “per comprendere infine, in quale ‘abisso’ o ‘sommità’ l’arte intende ancora condurci”. Quanto fin qui approntato o, che mi sono dubbiosamente domandato, vuole essere solo un punto di partenza per questa mia ricerca sul-campo nell’ordine di mostre, cataloghi, articoli di giornali, opuscoli, opinioni e valutazioni critiche, ecc. che sono riuscita a raccogliere, attraverso la quale, intendo qui rispondere alla domanda iniziale: “Chi è Basquiat?”, il che implica la sua partecipazione, al pari di tutti noi, di quella che parafrasando Zygmunt Bauman, possiamo definire, la ‘paura liquida’ di una "società sotto assedio" in cui ormai, chi più chi meno, ci sentiamo tutti prigionieri. Davvero l’arte contemporanea rispecchia tutto questo, oppure Basquiat ci sta comunicando qualcosa di diverso che va ‘oltre’ questa paura spesso inconfessata? È quanto mi propongo di scoprire de-visu, andando alla ricerca di un artista ‘inconsueto’ che ho appena incontrato, aggirandomi nelle sale espositive di questa e altre mostre che spero di poter visitare lungo il cammino. Per ora lancio un ‘ciao!’ a Basquiat con la consapevolezza che si tratta di un: ‘arrivederci ad un nostro prossimo incontro!’. In fondo, le ore passate in compagnia dei ‘tuoi fantasmi’ sono state preziose nel farmi conoscere la “cifra” della tua arte e comprendere l’importanza riposta nel tuo ‘vivere per un’idea’, in opposizione o col consenso degli altri che più non importa, e davvero spero di non liberarmene mai. Come del resto anche tu hai sempre fatto. Non è forse così Basquiat?
Id: 973 Data: 20/05/2024 06:21:51
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- Poesia
Del Piacere di scrivere poesie.
“DEL PIACERE DI SCRIVERE POESIE”
Una indagine sulla ‘forma’ e sul ‘senso’ dello scrivere che contraddistingue e determina l’andamento evolutivo della ‘poesia’ nel rapporto costante con la natura che la determina, antropica e ambientale, onde avallare un ipotetico quanto possibile ‘futuro sostenibile’ nella comunicazione immateriale, partecipata da milioni di fruitori oggi nel mondo, malgrado nella scuola sia stata pressoché abolita, e che continua a vivere nonostante tutto sui social dove la si incontra negli spazi più insospettati come la pubblicità, e negli sproloqui di logore citazioni, di quanti forse neppure sanno di affondare le mani nella sua tradizione verbale benché estemporanea.
Che la ‘poesia’ rappresenti una delle migliori forme artistiche dell’umano esprimersi è alquanto assodato, per quanto qualche avventato ne abbia determinata la fine, di certo non sono estinti i poeti che imperturbabili continuano a raccogliere le loro dissertazioni, accresciute e maturate negli anni, che vengono pubblicate in antologie e sillogi più spesso in un ambito editoriale di nicchia, che pure ne attestano la sua sopravvivenza. Ne è di riferimento il proliferare di molteplici ‘premi dedicati’ distribuiti a destra e a manca che pur nel lasciare il tempo di una breve stagione, tuttavia affermano il prosieguo di una indiscussa ‘memoria’ mai venuta meno.
Ciò che inoltre alla conservazione di una certa espressiva liricità del verso, assume più che mai oggi un contesto di grande attualità; si pensi alla canzone popolare, all’esercitazione innovativa della lingua, al dare la vertiginosa loquacità espressiva nel dire che tutti conosciamo.
Ecco, la ‘poesia’, a partire dalla ‘rima baciata’, al dunque a permesso tutto questo, all’espandersi della linfa che da sempre ispira i ‘poeti’ e che si riversa nel mondo contemporaneo negli odierni ‘cantautori’ che, come dice un noto ritornello scrivono quelle che “non sono solo canzonette”, bensì autentiche romanze d’amore, inni alla gioia, esaltazioni del dolore e della solitudine dell’anima, che pur rispecchiando i sentimenti dei singoli, tradotte nei diversi linguaggi popolari, volgono in divenire a quell’intimo immateriale che è testimonianza di tutti noi indistintamente, prioritario del nostro esistere e della ‘storia’ che andiamo scrivendo ...
sdoppiamento... se il grido dell’essere frantuma la materia cerebrale resto nel letto delle mie notti insonni come affogato in un mare di scontento che urla che s’agita
se nelle mani stringo la nebbia dei pensieri n’escono lacrime vive dagli occhi stanchi che vorrebbero chiudersi per non assistere all’esplosione dell’anima
per questo quando mi levo lascio nel letto le spoglie del guerriero forse vittorioso morto di niente i pensieri sotto al cuscino
le sue grida scritte sulla carta
Id: 972 Data: 18/05/2024 07:19:57
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- Fede
Pacem in Terris - Papa Giovanni XXIII
P.P. GIOVANNI XXIII°, Enciclica “Pacem in Terris”, 1963.
“Ogni essere umano ha diritto alla libertà di movimento e di dimora all’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consigliano, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi con esse. Per il fatto di essere cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale”.
Id: 964 Data: 29/03/2024 17:07:37
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- Poesia
Enrico De Lea … o il tempo del ritorno.
Enrico De Lea … o il tempo del ritorno. “Cacciavento”, silloge poetica – Nuova Limina / Anterem Edizioni 2023 È così che funziona, allorché l’eco del gemito che abbiamo emesso all’origine del (nostro) tempo, viaggia col vento di ritorno che spacca la roccia e fa rotolare il sasso giù dalla montagna; quello stesso che scompiglia la solitudine degli anfratti in cui ci rifugiamo alla ricerca di un’identità che uguagli ciò che siamo, polvere che s’invola al guardo dell’irraggiungibile orizzonte, oltre i tetti delle case, le strade dell’ignota città in cui viviamo, i marciapiedi, i lampioni, il suolo che i piedi hanno calpestato, in cui la gente (come noi) s’ammassa nelle piazze, nelle chiese, dimentica del cipresso silente cui il ‘cacciavento’ smuove la cima che ispira il dialogo delle nuvole che fluttuano sopra e sotto il cielo di quel Dio che si vuole assente… “…di cui non si rammenta / volto figura voce, solamente / l’aria smossa il soffio i luoghi il passo, / cui ricordare […] per quanto è lungo ed infinito a guardarlo […] nell’utopia delle armacìe paterne.” Ma se niente passa, allora tutto ritorna nella trascendenza che ci illude del nostro vivere nel presente, che solleva il diaframma al necessario respiro del tempo, onde per cui sentiamo “il segname della terra-scorza” come d’una malìa che tutto accresce della materia che ci compone, molecole di entità nascoste in cui tutto si ravvisa dei naturali elementi; dacché la sensibile umanità che ci portiamo dentro, la pressione sanguigna che nondimeno ci rende vivi, il cospicuo patrimonio strutturale che ci vuole unici nella elegiaca espressione dei sentimenti e che ci vede proiettati nello spazio avvolti della poetica intuizione dell’istante… “Ergo, ima spina abbrusca il cacciavento, / lo impedisce e spinge, scialle e solerzia, / l’aria di uguale furia, valletta del momento, / luccichio che domina la pietra, / pertanto esso trascende l’aria in forza, / che lo rialza, lo preme e lo sostiene, / (ma) ignorano le frequenze dell’ascensione e del rischio, / allo sguardo sul volo, che sanno del cacciavento?”. Niente e tutto è la risposta, nel tentativo di cancellare un sapere postulato, onde restituirlo all’imprevedibilità della parola, a quell’immaginifico metafisico di cui fa qui uso l’autore Enrico De Lea, proiettato com’è nel format ontologico-filosofico della poesia contemporanea, situandosi, come avrebbe detto Gaston Bachelard, “sempre un poco al di sopra del linguaggio significante” (*), nel voler sostenere la validità delle proprie suggestive immagini letterarie. Da cui l’ascesa, quel ‘sognare di volare’ come d’uccello che si leva nel vento, e la successiva ‘caduta libera’ verso la realtà, (in essere del presente), dalla quale pur restando dov’è, si distanzia dentro l’immagine olistica del suo inconscio e/o nascosto volere… “A figurare il volo / del cacciavento, che non cunta e punta / e sospende, a spiritosanto, / l’aria che frolla sotto l’ala e scende, poi, / in picchiata, vuoi o non vuoi, / finché non si scorga non si veda / carne della necessità / nudo cuore del mondo, della preda.” Con l’affrontare il tema in “cacciavento” l’autore, di fatto delinea il suo costante guardare verso un orizzonte non condiviso con la sua attuale esistenza, e che pure segna, a mio avviso, il tempo del suo (possibile) ritorno e/o la volontà di concludere la sua ricerca introspettiva nella “immaginazione materiale” in cui si conduce, come ossimoro attivo della coscienza a contatto con la materia, in questo caso il ‘cacciavento’, che l’ha plasmato-scolpito nella forma a sé irrefutabile… “Serve un inferno assicurato, confortevole, / Sicché il cacciavento scaccia da sé demoni, da umano, / Si limita nel volo, scorge aspre nuvole, / Sale alle Rocche, ridiventa lontano. […] Ignorandoci, reciproci imputati, / Il volo è ignoto, l’albero e il morto ramo.” Ma l’‘aria’ (il vento) non è il tutto, è solo uno degli elementi non ignaro della convergenza degli altri, per cui se restituiamo alla ‘luce dell’intelligenza’ il suo pur ambiguo progetto di indicarci la ‘soglia’ o forse la ‘meta’ leopardiana di un possibile raggiungimento dell’ ‘infinito’, noi materia finita che ci aspetta oltre l’albale dell’orizzonte, potremmo pensare alla volontà dell’autore di un sorprendente ‘volo’ che irrompe dalla sua contemplazione e che segna, di là dal suo divenire, l'essere giunto il tempo del suo ritorno… “Eppure questo subitaneo volo / Consacra ignaro il secco e l’umore / Della terra, e una striscia senza colore / È il mare al cacciavento, aria attratta al suolo.” È nella ‘trascendenza’ di quel che siamo, che l’aria contraffatta dalle parole, dalle frasi disgiunte dal contesto di una liricità rifratta che scolora fin dall’abbrivio, che viene a mancare il mittente nonché l’indirizzo della ricerca, che non va letto come un tratto negativo nella scrittura qui utilizzata, piuttosto in quanto frutto di un’azione decisamente affermativa di un legame fisico con la terra d’origine alla quale De Lea fa costantemente riferimento, quella Sicilia sospesa tra cielo e mare, fucina di validissime voci letterarie, battuta a tratti dal ‘cacciavento’ che s’impone riportando all’attualità l’antico sapere, nel riconoscimento dei tratti originali che la distinguono… “Nel volo, tra bestiale e celestiale / Il cacciavento invero rassicura, inganna, / Per dire a memoria futura bene e male, / A cespo, a troffa, a ghiotta di vita che si gode e danna.” Enrico De Lea infatti non contraddice l’influenza che la Sicilia inculca nell’afflato della sua personale poetica, vivida di innovazione culturale, altresì trova in ‘cacciavento’, l’aver plasmato la sua onomatopeica trascendenza linguistica … “…una costante invenzione dell’eterno […] Alle anime-pietre, alle anime-piante, nel loro raggio, […] più di quanto ci dirà forse / Un infinito padre jonico, / Ci dirà una madre d’amore senza pietà, / Una carne un nulla un tempio laconico […] ‘ntinni, ntinni’ … …il sempre nell’aria delle ali.” Note: (*) Gaston Bachelard, "Psicanalisi dell'aria" - Red Edizioni 1992 (") tutti i corsivi sono dell'autore dalla silloge "Cacciavento" Anterem Edizioni 2023 L’Autore. Enrico De Lea, avvocato messinese molto legato ai suoi luoghi d’origine per motivi di lavoro vie a Milano. Molto attivo nell’ambito della poesia ha pubblicato diverse sillogi poetiche, è stato finalista al Premio Montano 2016, con l’opera “La furia refurtiva”. Successivamente “Giardini in occidente” 2022 - Seri Editore. Suoi testi sono presenti inoltre in vari siti e riviste on-line.
Id: 963 Data: 21/03/2024 18:39:41
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- Letteratura
“La Distanza” …o dell’incomunicabilità - di Ermanno Guantini
“La Distanza” …o dell’incomunicabilità. Una raccolta di Ermanno Guantini - Anterem Edizioni 2023
Una parola o un’altra non avrebbe fatto la differenza, le parole non avrebbero potuto eludere “la distanza” cui neppure gli anni sarebbero riusciti a colmare e che in queste pagine non sembra conoscere rassegnazione, ma che potrebbe ben essere l’incipit di questo ennesimo excursus sull’ “incomunicabilità” del nostro vivere quotidiano culturale e formativo. Una realtà diminutiva e disgregante che abbonda sui social subdolamente acculturati, pur facendo uso di un vociare assordante che avvertiamo come ‘solitudine’ estrema, incolmabile dal punto di vista umano e sociale…
“…nella distanza della notte […] lei fissa la catasta […] lui osserva la catasta […] rincasa la notte” “lui osserva schermo […] lei osserva ad ombra parete […] lui mano chiude […] lei osserva lo lascia […] lei osserva il silenzio”
Incolmabilità di distanze, al punto che neppure una certa psicologia analitica del profondo applicata al testo, riconosce come autentica quanto determinata di un cercato ‘distacco’ che nel voler farne poesia subisce l’allontanamento dalle reali intenzioni e la temuta cancellazione di tutte le emozioni che pure “la distanza” concerne. ] Voluta o involuta si è davanti a una storia personale fermata sulla carta, causa una ricercata scrittura creativa de-costruita, affine a una reiterata incapacità di esternazione che pure, se diluita, ad esempio, in forma di romanzo, vedrebbe raggiunta una più ampia quanto necessaria espressività cogente…
“fuori sincrono la casa […] sulle pareti segnali / scheletri di polvere / condividono stallo […] senso di claustrofobia […] la contaminazione non esiti” “lui sfiora il pavimento / la bracciata in lentezza / carneficina di ombre […] lei scivola in casa / sviano le stanze […] franano ebbri / ripudiano la carne”
L’eccezionale, presumibile di un non-dire che l’autore Ermanno Guantini si riserva di colmare di senso, impone una domanda al lettore attento: a che pubblico rivolge la propria distante appartenenza; al poeta introverso mistificatore d’una realtà indicibile che lo attanaglia (?) e/o al mancato artista della parola in cerca di una qualche affermazione che ne riscatti in qualche modo l’esistenza (?)…
“pavida preghiera / da nuda ferita […] non afferrano parole / lei solleva gli occhi / a oltrepassare la notte […] cielo disfatto da luci […] non sa che muore / nel vuoto del cuore […] si confessano aspri / vigliacchi sontuosi / in asprezze ricade” “sono giorni che è dentro / e non riesce a parlare / ai sogni origami / ricuce un viaggio […] o se tutto rimane / manca prospettiva / fuoco di mare / ancora cammino / in crosta di riva / lei osserva il vento […] …a paura /in fondo annegano / le nuvole in cielo”
Non ciò che le parole dicono confermano la veridicità dello stare sulla cresta dell’onda, se così fosse ma così non è, rispecchierebbero lo specchio d’acqua limpida; o anche fosse, della profondità torbida dell’anima in bolgia. O, forse, le parole che mancano, non mancanza d’idee, andrebbero cercate in quel che si è, in ciò che non si è capaci di dare, nella più cinica e spietata indifferenza della ‘distanza’ che separa…
“in lontananza il rumore / lui segue il pensiero […] lei osserva i respiri / la gioia fragile / non soccombe / poi osserva la luna […] denuda i pensieri […] squallori di luci” “gli dice divenire / una parte del buio / rassicura tornerai […] possa il perdono / a volte ritornano / fluttua la notte […] almeno un’ora almeno / segno nel piacere […] i piedi in graniglia / al mattino fuoco / del loro stralcio / contumacia di cuori”
È allora che ‘la distanza’ assume il senso dell’incomunicabilità cui si è connaturati, o magari perché portati al silenzio, contro il vociare della moltitudine, da cui non si è capaci di prendere le distanze e/o ci si lascia sommergere. Un modo come un altro per sentirsi vivi nel ‘vuoto’ che tutto attornia, nel giusto e nell’errato; o forse solo per voler mantenere una certa ‘distanza’ a volte necessaria, dal bene come dal male, ma che pure permette di sopravvivere alle continue sfide della vita…
“lui segue l’orma / nel cielo crolli / contro campo luna […] nelle parole il fondo / nostalgia di colori / di nuvole crepitano / creste illune […] il silenzio il senso / di colpa la solitudine / aspra di mare” “cielo su contrasti / grigi su distese / innamoramento […] carezza di silenzio / sassi di cielo / in scuri di bianco […] immagini nella coloritura […]la voglia di dirimere / le parole disseccano / poi lei siede sovrasta”
Sedimentazione di ‘vuoti’ le parole inusuali, i connubi azzardati nell’ipocrisia dei sentimenti, le assonanze sempre fuori sincrono, non permettono quella lettura fluida cui l’ostentata verbosità del linguaggio autorale si concede. Per quanto l’esperienza ‘poetica’, ovunque la si voglia cercare, non è nell’ineluttabilità della forma che gli è data, ma appartiene all’aere pregne di vita, alla testimonianza conoscitiva, al test sperimentale che di volta in volta si riveste della luce del giorno e/o anche volendo del buio della notte per avallare qualcosa che non c’è ma che pure, a sentore dell’autore, s’avverte da sempre come pre-esistente…
“concessione della notte / contaminazione di cielo / fuochi lungo la spiaggia / l’infanzia si riprende la notte […] in controluce la casa […] solo scalfitture […] disintegra una felicità / una distanza d’acque / la contaminazione / il trapasso dei sogni” “lui rivede piano / si sente braccato / sa di non avere / speranze ricaccia […] si determina un fallimento […] la scelta della depressione [...] era solo allora / ascoltava le parole / sparigliava / la spirale della veglia” “lei osserva il grattacielo / filigrana oppressione […] osserva la pioggia / la città la distanza […] la nebbia sopra gli alberi […] la colpa del senso […] ancora un’esplosione […] ci sono risultati / trasmissioni la solitudine / il cielo la collisione / niente trasalimenti”
Dov’è finita la poesia? È nell’intimo afflato di esistere che si conduce nei lidi edulcorati della ‘distanza’ dall’amore? Dalla musica esuberante e scontrosa dei nostri giorni? Nelle profondità degli abissali buchi neri di cui non si ha conoscenza? O nella “situazione di teatro” in cui l’autore fa muovere un “burattino che balbetta” e che “non assapora parola / in preda ad un rantolo”? Chi mai saprà dare risposte a questa nuova parola “incomunicabile” che chiamiamo poesia se si avalla una ‘distanza’ che sa di lirica performance senza costrutto, di compromesso generazionale? Di fatto la ‘poesia’ s’avvalora delle ali di farfalle libere di volare, non accalappiate nel retino e messe nella bacheca di collezionisti che, per quanto siano belle da vedere nei loro colori smaglianti, restano comunque cose morte…
“…uno assapora parola / attesa che sia / interpretata”, ed è già “nostalgia di parole” – scrive Giorgio Bonacini nella sua pur feconda post-fazione.
Rendiamo viva la poesia, che non finisca sulla bacheca dei soli ricordi.
L’autore: Ermanno Guantini, scrittore, ha pubblicato raccolte di versi “Variazioni” Cierre Grafica 2003; “Aperto a inverni” 2004 e “Nocturama” 2012 per l’Edizioni d’if - Napoli
Nota: Tutti i virgolettati “-” sono una sintesi dei testi di Ermanno Guantini.
Id: 954 Data: 18/02/2024 16:46:49
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- Libri
Alessandra Greco...o la ricerca interstiziale. - Anterem Ed.
Alessandra Greco…o della ricerca interstiziale. Collana Nuova Limina – Anterem Edizioni 2023 Andare alla ricerca di una qualche risultanza poetica alquanto marginale attraverso gli spazi ‘a vuoto’ dell’esperienza quotidiana, su cui raramente la scienza sociologica ha potuto mettere un punto fermo sul quale impostare un valore qualitativo presumibile e/o quantomeno prevedibile, e quindi spiccare quel volo pindarico che permette di proiettarsi nel mondo 'reale' di cui gli ‘interstizi’ sono parte integrante dell’arte scrittoria, potrebbe sembrare arduo. Proviamoci, se non altro per il gusto (leggi piacere) di superare con un salto a piedi pari la ‘soglia’ che ci separa dall’essere quotidiani lettori di parole, a immaginari cultori dell’avanzata tecnologica che ci permette di re-interpretare la cultura letteraria e grafomane, e sperimentare contenuti coinvolgenti che catturino l'attenzione, magari alla luce di una piattaforma A.I. ultimo avamposto della comunicazione social e non solo. Ed anche, per così dire di una presa coscienza del mondo virtuale verso cui siamo proiettati qui ben rappresentata nell’intenzionalità dell’autrice, Alessandra Greco, sia graficamente: con la scrittura e le immagini ad essa relative; sia con il linguaggio fluido (leggi liquido secondo l’elocuzione di Zygmunt Bauman), che prosegue ininterrotto dai segni ̶̶ ̶ ̶ specifici dell’interpunzione, in quanto simboli ‘interstiziali’ di un dialogare verbalizzato… “--- nettando – acqua che sottrae all’informazione --- disfacendo” Ma spingiamoci in una ricerca più avanzata in campo emotivo quanto creativo, il cui accesso, perduto o forse dimenticato non so, va situato al di là del concetto di un mondo solo in apparenza pauroso e pericoloso già superato dalle culture antiche, come quella vedica e taoista… “- il suo essere immerso – emissioni – appena –e/sondazione --- del gioco -- -- acqua che si corrompe ---- ---- acque albule --- territoriali --- corrosivi inintelligibili acque -- -- in cui si nasconde – dove l’onda fa un rimbocco --- - au niveau du plateau”. Si pensi ad esempio al potere apparentemente effimero della ‘resilienza’ che individua e permette di sviluppare la capacità di affrontare i cambiamenti della vita; e/o la saggezza di Jalal al-Din Rumi il poeta mistico persiano che «Al di là dei concetti di ‘azione’ ed ‘effetto’, nell’intervallo fra un un’ispirazione e un’espirazione, individua ‘campi’ di emozioni e riflessioni», dove sono ammessi anche i ricordi, i ripensamenti, le meditazioni che hanno accompagnato la crescita dell’umanità… “principi di sovrapposizione chiamati strati | lamie constricti | fino quadriglie schegge blocchi a livello dell’oggetto chiaro sulla macula | brecce ossifere | scomparti superstiti del retablo del Giudizio Universale” . Sono questi ‘campi’ in cui la fisica quantistica oggi sostiene ci fanno percepire in qual misura, nella corsa affannata della modernità, andiamo perdendo negli ‘interstizi’: «Analogamente al modo in cui molti fotogrammi in sequenza fanno apparire un film così reale, anche la vita si manifesta in base a brevi e minuscole esplosioni di luce, denominate ‘quanti’.» (*) La ‘poesia’ stessa, che da sempre rischiara il mondo, in fondo cos’è, se non una luce che il poeta individua attraverso i siderei ‘campi albali’ delle stelle epifaniche di eventi inspiegabili… “oblique verso cielo, chinandosi in albore da luminosità distesa.” Quella stessa luce che Massimo Recalcati in un’esplosione di fluorescenza equipara a “La luce delle stelle morte” (**) che arriva dal passato, in cui cita Freud «…più o meno quello che accade anche con la nostra memoria, […] tracce di un insieme aperte alla possibilità di produrre sempre di nuove.» Siamo all’apoteosi della ‘poesia degli interstizi’… “coquille. carré. demi-raisin. raisin. jésus. soleil. colombier. petit aigle. grand aigle. grand monde. univers.” Siamo all’elevazione della potenza del ‘close-up’; si va verso l’avvicinamento demiurgico della figura del poeta rapito dal… “lisciare il flusso sopra un-non-so-che maternale nascosto --- (space/storage) contrasto umbratile di intensa durata - (air/exhaust) - non fatto da mano/intride le cose”; “al reciproco pensare per - fratture - allo stesso modo un singhiozzo ---”. Siamo alla ‘parafrasi’ della parola, alla riformulazione lirica del canto per antonomasia, che decostruisce la frase, il registro del testo, pur mantenendone la riconoscibilità, l’assonanza con l’originalità del linguaggio, al controcanto e al discanto per quanto uniformi e paralleli al canto stesso, al di sopra del canto, fuori del pentagramma. Per dirlo nel confronto con l’arte pittorica, di ciò che si spinge oltre il muro di fondo, alla sinopia, e/o dentro la trama della tela, oltre la cornice, come per la light-art o l’affissione pubblicitaria in movimento… “il tutto - volendola così - intorno”, “non è mai ferma - un secondo inizio - ‘Untitled’ vs cominciamento”, “quando si riesce a sperimentare l’immaginazione delle immagini si avvicina l’invisibilità che riflessivamente fonda il passaggio”, “i sensi si ritirano progressivamente uno dentro l’altro - la possibilità di condividere/far svanire”. Dacché la ‘ricerca interstiziale’ di Alessandra Greco si afferma in questo pamphlet di parole e immagini che non necessariamente danno forma a un unicum compiuto, quanto a una provocazione d’intenti, alla ricerca affannosa (leggi dolorosa) della memoria ancestrale che mai come adesso spinge verso una spazialità cosmica universale… Ad maiora! L’autrice. Alessandra Greco, studiosa antologizzata in “Continuo - Repertorio di Scritture Complesse”, indaga attraverso la scrittura i vari aspetti della processualità del pensiero come flusso e in relazione alle immagini, attraverso la tecnica del montaggio. È fra gli autori di BAU Contenitore di Cultura Contemporanea - Viareggio 2023. Ha realizzato performance e letture apparse su numerose riviste e lit-blog, suoi testi sono tradotti in “Babel, Stati di alterazione”, Antologia plurilingue a cura di Enzo Campi – Bertoni Editore 2022. Note: (*) Max Planck “Sui quanti elementari della materia e…” - Convegno Internazionale, Roma - Accademia dei Lincei 2001. (**) Massimo Recalcati, “La luce delle stelle morte” - Feltrinelli 2022.
Id: 953 Data: 15/02/2024 02:02:04
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- Musica
La Musica di Dio 2 - ricerca etnomusicologica.
LA MUSICA DI DIO / 2 Sacro e profano nella Liturgia della Messa – Ricerca etnomusicologica.
Allorché la Liturgia Cristiana delle origini s’annunciava salvifica e sostanzialmente comunicativa di pace e di fratellanza, fin da allora era costume lo scambio e l’offerta dei doni della natura durante la “Messa” che, trasformati in cibo, venivano distribuiti ai più bisognosi in segno di solidarietà, affinché tutti potessero godere della ‘gloria’ per la ‘Resurrezione di Cristo’ con l’animo colmo di gioia, a voler significare che alla ‘nera fame del tempo’ andava corrisposta un’adeguata dose di sostentamento per il corpo e per lo spirito. Sostentamento che, dopo i necessari ‘pianti quaresimali’ e le ‘processioni di espiazione’, ben si prestava ai proponimenti di ringraziamento per il ritorno al quotidiano ‘vivere’ della comunità tutta, raccolta in preghiera per l’arrivo della Pasqua. Questo il senso intrinseco alla spiritualità religiosa della “Messa Pasquale” delle origini, affermatasi nella concretezza definitiva agli albori del Medioevo per tutto il XV secolo, allorquando Santa Romana Chiesa giunse ad esercitare il suo pieno potere in Europa nella Spagna dei Re Cattolici. Successivamente, con l’instaurazione del Tribunale Ecclesiastico, più conosciuto come Santa Inquisizione, l’aspetto quaresimale della ‘festa’ si tramutò ben presto in patimento popolare a causa delle truculenti “Processioni per la Settimana Santa” a scopo penitenziale, in cui si videro alzare i ‘roghi’ contro il paganesimo e la stregoneria, con la cacciata dei giudei-sefarditi, degli zingari e quant’altri fossero diversi, nel modo in cui abbiamo appreso a conoscere attraverso le insanguinate pagine della storia.
Ma una così ferrea disciplina di tipo aconfessionale, fortemente imposta dall’allora potere regnante, e forzatamente accettata dalle frange dei vecchi cristiani, trovò il disaccordo dei Mozarabi presenti sul territorio fin dall’Anno Mille, sorti in difesa dell’uso della lingua ‘mozarabica’, che dava atto di un ‘continuum’ dialettale romanzo conservato nella penisola iberica da parte dei Cristiani nell'XI secolo e nel XII secolo, ancorché cancellato dalla loro secolare liturgia avallata in comunione con la Chiesa cattolica, dopo l’abolizione del rito liturgico ‘Mozarabe’ da parte di Papa Gregorio VII. Molto si deve all’operato di quei padri missionari che, giunti nei primi secoli della cristianizzazione della Spagna, incoraggiarono le popolazioni autoctone, inclusi i mozarabi e i nomadi zingaro-gitanos, a misurarsi con la liturgia della “Messa” cristiana, durante le funzioni imposte loro allo scopo di convertirli al cattolicesimo.
* La celebrazione della “Messa Mozarabe” (LP Philips), nell’interpretazione dei cristiani che verosimilmente ce l’hanno trasmessa nella forma orale, è caratterizzata dal connubio di elementi ispano-gotici con elementi di origine spagnola, quale retaggio di una sua probabile cristallizazione avvenuta nel periodo della calata dei Visigoti in Spagna. In ogni caso è ritenuta la liturgia toledana per eccellenza, essendo Toledo all’epoca il centro di magior forza e vitalità della sua diffusione. Ma mentre nella Cattedrale veniva imposto il ‘rito romano’ di Santa Madre Chiesa, un saggio compromesso permise di conservare il ‘rito mozarabico’ nelle altre chiese territoriali dove la popolazioni si erano insediate.
Gli esperti sono tutti d’accordo sul fatto che lo schema della liturgia morarabe è romano, quantunque essa presenti, come tutte le liturgie occidentali, elementi affini a liturgie orientali (bizantine). Alla liturgia Mozarabe è attribuita la più antica versione del “Pater Noster” nell’uso proprio della ‘cantillazione’, una sorta di recitazione quasi intonata (derivata dalla maniera ebraica di cantare in prosa i passi della Bibbia), eseguita con voce nasale, nel modo usato dai cristiani orientali nella lettura dei testi liturgici. Ancor prima quindi della riforma gregoriana, il ‘testo’ veniva eseguito nelle chiese spagnole durante l’occupazione dei Mori, facendo in modo che questi non ne comprendessero il senso. Una certa eleganza formale proviene da un altro esempio ripreso dall’antifona “In pace” come preludio corale al Salmo successivo:
«Lumen ad revelationem gentium: et gloriam plebis tuae Istrael. Nunc dimittis servum tuum, Domine, secundum verbum tuum in pace. Quia viderunt oculi mei salutare tuum. Quod parastiante faciem omnium populorum. Gloria Patri et Filio, et Spiritui sancto. Sicut era in principio, et nunc, et semper, et in saecula saeculorum. Amen.»
Quella contenuta in questa registrazione dal vivo della “Messa Mozarabe” (*), fu eseguita dal Coro del Seminario di Toledo e del Collegio de Infantes diretto da P. Alfonso Frechel con una orchestra di strumenti antichi, diretta da José Torregrosa. Degna di nota è l’affermazione di un cardinale presente nella Sala Conciliare del Vaticano II il 15 Ottobre 1963, il quale, dopo aver assistito all’esecuzione dellla “Messa Mozarabe”, disse che era il rito più bello che fosse mai stato celebrato nella Basilica di San Pietro.
* La “Misa Flamenca” (presente su LP Philips lato opposto alla “Messa Mozarabe”): costituisce una chiave di lettura di particolare interesse etnico e musicologico all’interno della tradizione liturgica Gitano-Andalusa ‘musicalmente compiuta’, così come è entrata nella religiosità cristiana, eseguita da gruppi ‘gitanos’ che hanno partecipato a questa registrazione ‘dal vivo’, entrata successivamente nella grande tradizione liturgica della cattolica Spagna. Si è spesso detto delle possibili influenze indiane, ebree, arabe e bizantine che avrebbero concorso alla formazione del topos ‘flamenco’, ma va qui considerata la profonda trasformazione che la “Misa” ha subito nel corso dei secoli, allorché i Gitanos anziché lasciare il paese, trovarono riparo nelle ‘cuevas’, le grotte nascoste fra le montagne più interne della penisola spagnola.
Ciò, che non avvenne con gli Ebrei-sefarditi, i quali, dopo aver tentato inutilmente di sottrarsi al terrore dell’Inquisizione di convertirli al cattolicesimo imperante, affiancando le migliaia di maestranze che giungevano in pellegrinaggio da tutta Europa per lavorare alla costruzione dei grandi santuari di Montserrat, Barcellona, Toledo e di Santiago de Compostela, furono in parte costretti a lasciare il territorio e a trovare rifugio nel resto d’Europa e oltreoceano, a seguito della colonizzazione del Nuovo Mondo. In quell’epoca, la religiosità consolidata sul territorio, successiva ai primi canti sacri improntati sul gregoriano ed entrati in uso durante le grandi festività stabilite dalla Chiesa Cattolica Romana, fecero la loro apparizione nei primi ‘villancicos’ cantati per la Natività di Nostro Signore e ricreati sulle popolari ‘canciones de cuna’ (ninne nanne popolari), verosimilmente in contrapposizione lineare con le ‘lamentazioni funebri’ legate alla celebrazione della Settimana Santa che veniva officiata un po’ dovunque in Spagna con grande solennità, a cui partecipavano le masse popolari con tanto di devozione più o meno sentita.
A Siviglia, considerata epicentro della tradizione araba e moresca nonché gitana e quindi in parte miscredente, la “Misa Flamenca” si adeguò lentamente e straordinariamente nell’alta espressione liturgica, forse la più alta in assoluto, conosciuta come la ‘Saeta’, una sorta di canto religioso fortemente espressivo che in seguito fu accolto nel corpus del ‘Cante grande’, e che possiamo definire una ‘specificazione‘ dell’animo profondo del “Cante jondo”, a sua volta elaborata nelle scuole di Jerez e di Siviglia sulle salmodie corali dei fedeli cattolici nelle processioni liturgiche. Le più antiche e forse le più belle ‘saetas’ rimangono quelle lanciate, anzi scagliate appunto come una saetta, in onore della Vergine Maria o del ‘Cristo Morto’talvolta anche come vere e proprie frecce contro le istituzioni durante il sostare della processione, allorché, all’interrompersi della banda musicale che l’accompagna, si creava un spazio liturgico espressamente dedicato al ‘Cante’. L’ambiente è dunque quello trecentesco del Medioevo che troverà il suo completamento alla fine del Cinquecento, coè al ‘tempo’ in cui le celebrazioni per la Settimana Santa conobbero il loro apice nelle rappresentazioni della ‘Passione’.
Trascritto da una ‘cronaca’ che ben ricrea l’ambientazione recente dello svolgersi di una ‘Processione per la Settimana Santa’, leggiamo insieme questo racconto:
“Nella mattina degli ultimi giorni stazionano nella Cattedrale (di Siviglia), varie Confraternite e Congregazioni recanti in solenne processione i rispettivi e meravigliosi ‘pasos’. Le Confraternite presenti sono in tutto 49 con complessivi 91 ‘pasos’, distribuite nei 6 giorni che compongono la Settimana Santa. I confratelli indossano ampie cappe e alti cappucci a punta con rispettivo stemma (di appartenenza) sulle spalle e sul petto. Impugnano lunghi ceri o pertiche con lo stesso stemma in cime. I gruppi statuari, montati su enormi palchi sorretti a spalla dai fedeli e stupendamente addobbati, rappresentano le vicende dell’agonia e della morte di Cristo, come è narrata nei Vangeli. L’accompagna la Vergine Maria lussuosamente vestita come persona viva, stringente nelle mani il fazzoletto o la corona, il petto trafitto da una o più spade. Il Venerdì mattina è il turno della Cofradia de los Gitanos con due ‘pasos’ entrati nella tradizione popolare.»
Quello che segue è il ‘Pasos’ che Antonio Machado (**) ha incluso in una sua raccolta poetica:
“Oh la saeta, el cantar al Cristo de los gitanos, siempre con sangre en las manos, siempre por desenclavar! Cantar de la tierra mia, que echa flores al Jesùs de la agonia, y es la fe de mis mayores! Oh, no eres tù mi cantar! No puedo cantar, nì quiero a ese Jesùs del madero, sino al que anduvo en el mar!”
“Oh la saeta, il cantare / al Cristo dei gitani, / sempre con il sangue nelle mani, / sempre per dischiodare! / Il cantare del popolo andaluso, / che tutte le primavere / va chiedendo scale / per salire alla croce! / Cantare della terra mia, che lancia fiori ( al Gesù dell’agonia, / ed è la fede dei miei padri! / Oh, non eri tu il mio cantare! / Non posso cantare, né lo voglio / a questo Gesù sulla croce / se non a quello che camminò sul mare.”
Lo studioso Manuel Martinez Torner tuttavia non include la ‘saeta’ nel genere ‘flamenco’ e la considera a parte come di un genere decisamente religioso per la sua caratteristica spirituale tipicamente occidentale. In pieno accordo con quanto riferisce padre Diego da Valencina che fa risalire la ‘saeta’ alla ‘lauda’ francescana, si tratta qui di un autentico ‘grido’ pari a una frecciata che si leva improvviso e quindi inaspettato sopra la processione ad invocare il mistero che la liturgia contiene:
“Vienes de los remotos paises de la pena”. “Viene dal remoti paesi della pena.”
Recita con accorato pianto chi effettua il lancio della ‘saeta’, riportando alla mente il “Pianto della Madonna” di Jacopone da Todi, per quanto non manchino attribuzioni a più antichi riti pagani. Su questo stesso terreno fortemente impregnato di religiosità si è formata nei primi anni ’60 l’idea di una “Misa flamenca” moderna in stile ‘flamenco’ che rispondesse alle esigenze del popolo andaluso. La sua celebrazione, in quanto avvenimento rituale che esprime un ‘mistero’ ha riscaldato gli animi dei Gitanos che infine ne hanno cristianizzato il senso in una performance di intensa drammaticità.
La ‘Misa’ qui trasposta nell’uso interpretativo del ‘flamenco’ è : “..evocazione di un atto storico unico e manifestazione di un fatto che permane nell’eternità al di là dell’umana capacità di comprendere e rappresentare”, che trova la sua originalità nell’utilizzo di elementi d’ispirazione gregoriana e reminiscenze della più antica polifonia spagnola, connessi con temi gitano-andalusi, e trascritti per l’occasione da solisti impegnati alla chitarra e cori misti. Ma è infine il ricorso fatto alla ‘saeta’ che nel momento più alto dell’ ‘Eucarestia’ l’ha accesa di interiorità carnale, quasi da ricondurla alla trascendenza pagano-naturalista (e umana) delle origini.
“Non è stato facile adattare la Messa in spagnolo alla metrica fisica del canto flamenco – scrive Antonio Mairena co-autore di questa suggestiva ‘Misa Flamenca‘ – in quell’occasione: non v’è espressione drammatica più graffiante della seguiriya; non c’è alcun cantico che eguagli la serenità della malagueña; né alcuna spiritualità potrà mai essere comparata a quella della soleà. In questo lavoro di trasposizione della prosa in versi, noi abbiamo cercato di rispettare alla lettera le parole sacre. Il rimanente è venuto da solo e molto è dovuto all’esperienza e alla tradizione del Cante.”
Non è un caso che all’interno della “Misa flamenca” ritroviamo alcuni dei canti che hanno dato forma al corpus del ‘Cante gitano-andaluso’. Ed è ancora e soprattutto la struttura austera e ieratica del ‘Cante jondo’ a sovrastare l’intera partitura della “Misa” pur rispettando l’ordine della sequenza ufficiale: Introito, Gloria, Kirye, Credo, Sanctus, Agnus Dei. In quanto frutto di un’autentica espressione artistico-musicale la “Misa flamenca” trova la sua affermazione nell’ambito della moderna religiosità spagnola la cui salda continuità l’ha accolta nella tradizione, in quanto sintesi di una perfetta fusione del fatto religioso con la tensione drammatica espressiva del ‘Cante’.
Esattamente come l’hanno vissuta in prima persona i suoi esecutori e tutti coloro che assistettero al rito, e registrata dal vivo il 29 Giugno 1968 nella Chiesa del Barrio ‘A’ del poligono di San Paolo a Siviglia: «La piazzetta di Santa Ana era il cuore del flamenco di Triana. Giungeva fin lì il suono metallico del martello sopra l’incudine, e si univa al rintocco della campana che chiamava al tempio. Un gitano, Manuel Cagancho, creò al ritmo di questo suono un canto per seguiryas che ora figura nella Misa Flamenca. Nella preghiera e supplica del Kirye, l’eco profondo della malaguena imprime la sua andatura con reminescenze del canto gregoriano. Il Gloria, cantico di esaltazione e allegria per la presenza di Dio sulla terra, si fa solenne e rispettoso sull’eco del romance gitano. L’andatura grave nel lamento della petenera serve a introdurre il Credo, mentre per il Sanctus è usata la soleà; l’accordo della chitarra introduce la tonà, la debla e il martinete che si fanno preghiera. L’unione sublime del Padre Nostro con il sangue e la carne del Figlio di Dio medesimo nell’atto solenne dell’Agnus Dei è invece affidato alla seguirya gitana nello stile più puro del Cante jondo: ..se ha puesto de rodillas y vibra y reza canta y llora.»
L’eco profondo della ‘malaguena’ tradizionale è qui trasposta nella forma del ‘Kyrie’ è intonata sulla reminiscenza del canto gregoriano:
«Dime donde ba allegar. / Este querce tuyo y mio. / Dime donde ba allegar. (..) / Yo cada dia te quiero mas. / Que Dios me mande la muerte.»
“Dimmi dove ci porterà. / Questo amore tuo e mio. / Dimmi dove ci porterà. (..) / Mentre io t’amo ogni giorno di più. / Spero che Dio mi mandi la morte.”
Un tema, questo della morte, che ritorna spesso nella letteratura e nel canto ispirato dei Gitanos, ma qui siamo di fronte a un fatto musicale che esula dalla semplice operazione colta sul folklore, che possiamo facilmente abbinare all’impatto della tradizione spagnola, l’espressione singolare dei Gitanos che hanno fatto del ‘flamenco’, e in particolare della “Misa Flamenca”, un momento trainante dello spirito che li accomuna alle altre eppur diverse culture presenti sul territorio: indiana, ebraica, araba e bizantina, ma, soprattutto cristiana, qui confluite come per un ‘encuentro’ fattivo fra il popolo gitano-andaluso e il resto del mondo.
* Composta da Ariel Ramirez negli anni che vanno dal ‘50 al ‘63 come un’opera per solisti, coro e orchestra, accompagnati da strumenti tipici delle popolazioni latino-americane, la “Misa Criolla” (CD Philips), denota con estrema originalità una simbiosi di intenti musicali diversi, realizzati grazie alla perfetta combinazione di temi religiosi ed elementi folkloristici ripresi da ritmi e forme musicali proprie della sua terra di appartenenza: l’Argentina. Forme che riprendono diverse forme musicali tuttavia tipiche proprie molte popolari, come ad esempio il ‘carnavalito’, qui utilizzato come forma di esaltazione del fatto liturgico.
Acciò la ‘Misa’ è a tutti gli effetti una Messa cristiana come la interpretiamo oggi, seppure con inserimenti popolari legati alla tradizione ispano-americana in cui Ariel Ramirez ha saputo conciliare il fervore religioso con l’elemento folklorico dando ad ogni sequenza della messa un elemento di originalità: Il ‘Kyrie’ apre la messa con i ritmi della vidala e della baguala, due forme espressive rappresentative della musica tradizionale creola argentina; il ‘Gloria’ è accompagnato dalla danza argentina del carnavalito, segnato dalle note del charango; il ‘Credo’ invece, è scandito dal ritmo andino della chacarera trunca; mentre il Carnaval de Cochahamba, tipico della tradizione boliviana, fa da cornice al ‘Sanctus’, e infine, l’ ‘Agnus Dei’ che conclude la Messa, è improntato sullo stile strumentale tipico della Pampa argentina.
Bella e gradevole all’ascolto la ‘Misa Criolla’ raccoglie in se il pacato ‘spirito del tempo’, stranamente dimesso, quasi sussurrato, che potremmo attribuire al vento, se non fosse che è proprio quest’ultimo a trasportarlo attraverso la Cordigliera che attraversa tutta l’America Latina fino agli estremi della Patagonia. Quello stesso ‘spirito’ che fa vibrare le corde degli strumenti e ottunde le pelli delle percussioni, così come risveglia i semi contenuti nelle zucche sonore utilizzate per i ritmi-a-ballo durante le numerose feste che si tengono un po’ ovunque, nei piccoli pueblo arrampicati sugli altipiani alle grandi ciudad delle vallate, fino ai villaggi dei pescatori che coronano le coste. Uno ‘spirito’ allegro, espressione di forme musicali puramente folkloristiche caratterizzate dalla presenza di strumenti e ritmi tipici della tradizione popolare latino-americana che s’intrecciano con i temi della tradizionale Messa religiosa.
Trovo davvero molto interessante conoscere come il compositore Ariel Ramirez, è giunto al concepimento della “Misa Criolla” in questo racconto del lontano 1964 qui di seguito proposto in essai:
«Nel 1950 presi una nave che, dal porto di Buenos Aires mi avrebbe portato nel continente europeo. Genova fu il luogo in cui, per la prima volta, posi i piedi su quelle terre. Il mio proposito era quello di lasciare un messaggio sulla nostra musica per mezzo del mio piano e aspiravo a porre al centro di quella illusione la città di Parigi. Però un invito da parte di un amico di infanzia, Fernando Birri, mi deviò a Roma nell’ottobre dello stesso anno. Da qui iniziò una serie interminabile di avventure con diversi pianoforti… diversi nuovi amici ed un’infinità di nuovo pubblico. Nei quattro anni in cui restai a quelle latitudini il mio domicilio fu Via della Lungara 229, nel cuore trasteverino di Roma. In quel periodo, con la mia musica, percorsi in lungo e in largo l'Italia, l'Austria, la Svizzera, la Germania, l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia, la Spagna, in dignitosa povertà, alloggiando in alberghetti, collegi religiosi, conventi, ospedali, case di amici, Università, in un costante andare e venire, che mi riportava comunque e sempre a Roma dove cento mani cattoliche si tendevano per aiutarmi. […]
Ripetutamente tornai in molte di queste città come Londra, dove stipulai contratti con la BBC, interessata affinché un mio programma radiofonico si diffondesse nel Latino america. Alla stessa maniera stipulai contratti con Università come quella di Cambridge, di Utrecht, di Delf, di Santander oltra a società concertistiche e di teatro. A poco a poco stavo convertendomi a questo mondo che lentamente si andava ricostruendo dopo la guerra. Tutti i miei profitti furono resi possibili grazie all'aiuto ricevuto da esseri umani straordinari che contribuirono non solo alla mia formazione culturale, ma anche alla mia crescita spirituale. Sapevo di dover trovare una forma di ringraziamento per tutto questo. Fin quando, un giorno del 1954, non potendo resistere alla tentazione di prendere un’altra nave, quella del ritorno alla volta di Buenos Aires dove mi attendeva mia figlia di cinque anni ed i miei genitori che superavano ormai la settantina. Mi commuoveva pensare che quello che avevo ricevuto era esclusivamente dovuto all’amore di queste persone per la mia musica e la mia persona, finché compresi che l'unico modo che avevo per ricambiare quelle persone era quello di scrivere in omaggio a loro un opera religiosa benché non sapessi come realizzarla. […]
All'arrivo in Argentina tutto era mutato: mentre la mia carriera si andava affermando e le mie canzoni diventavano molto popolari; cominciai a cercare e raccogliere poemi di carattere religioso del Nord dell’Argentina che iniziai a pensare alla realizzazione di una ‘messa’ con ritmi e forme musicali della mia terra. In quegli anni Padre Catena, Presidente della Comisión Episcopal Para Sudamerica, fu incaricato di realizzare la traduzione in spagnolo del testo latino della ‘messa’, secondo le direttive del Concilio Vaticano II presieduto da SS Paolo VI. Il quale nel 1963 mi presento a chi, con straordinaria erudizione avrebbe realizzato gli arrangiamenti corali dell'opera: Padre Jesú Gabriel Segade. Dacché la sua composizione fu conclusa ci sentimmo di dedicarla a tutti quegli amici che mi avevano aiutato così generosamente durante quegli anni cruciali della mia gioventù.»
Con questo sentimento torniamo oggi ad ascoltarla valorizzando l’entusiasmo di un giovane ‘migrante’ che come i tanti che in ogni parte del mondo vengono accolti, portano con sé qualcosa del loro retaggio culturale che forse dobbiamo imparare a conoscere, contribuendo con un entusiasmo e umiltà, a riconoscere negli altri qualcosa della nostra missione fortemente intrisa di misticismo religioso e di sentimento umano, così come Ariel Ramirez a suo tempo, ha contribuito a diffondere la sua e ormai nostra “Misa Criolla"»
Ma un'opera musicale richiede - per essere conosciuta - una trasposizione concreta, cui dare la giusta dimensione che merita, nello spirito in ‘lengua’ con il quale mi piace concludere questa ricerca, col proporre una ‘sequenza’ del poeta spagnolo Pedro Salinas (***):
«Los cielos son iguales. Azules, grises, negros, Se repiten encima del naranjo o la piedra: nos acerca mirarlos. Las estrellas suprimen, de lejanas que son, las distancia del mundo. Si queremos juntarnos, nunca mires delante: todo lleno de abismos, de fechas y de leguas. Déjate bien flotar sobre el mar o la hierba, inmóvil, cara al cielo. Te sentirás hundir despacio, hacia lo alto, en la vida del aire. Y nos encontraremos sobre las diferencias invencibles, arenas, rocas, años, ya solos, nadadores celestes, naufragos de los cielos.»
Note: (*)“Messa Mozarabe” eseguita dal Coro del Seminario di Toledo - Collegio de Infantes diretto da P. Alfonso Frechel e l’Orchestra diretta da José Torregrosa. (**) Antonio Machado, “Poesìas Compoletas”, Espasa-Calpe 1981. (***)Pedro Salinas, ‘La voce a te dovuta’ – Einaudi 1979.
BUON NATALE E BUONA VITA A TUTTI VOI.
Id: 944 Data: 14/12/2023 07:56:15
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- Musica
‘La Musica di Dio’ La liturgia della Messa - Ricerca Etno
‘LA MUSICA DI DIO’ La liturgia della Messa – Ricerca etnomusicologica.
«..Sono di nuovo con me Spiriti del vento oltre il riparo delle mani degli dei vanno al nord ed est e ovest guidati dall’istinto. Ma per volere degli dei ancestrali seduto su questa rupe li osservo andare e venire dall’alba al tramonto con lo spirito che urge di dentro.»
Con questa ‘essai’ da una poesia di Gabriel Okara , eccoci proiettati nel cuore della Nigeria, nella cui spiritualità è rintracciabile una sorta di liturgia arcaica che il cantore esprime in presenza della divinità ancestrale, la sua appartenenza, rintracciabile nel contesto d’una realtà culturale antropologica di tipo religioso, non poi così diversa nella forma e nell’intensità, all’afflato espresso nella liturgia ufficiale della religiosità cattolico-cristiana. Se non per il suo rivolgersi a più entità distinte e tuttavia identificabili nella natura in cui esse si sono formate e hanno trovato una loro ragione di sviluppo culturale. Proiettati nel periodo quaresimale che annualmente contrassegna il calendario liturgico della Pasqua, non possiamo non tener conto di certe ‘verità’ intrinseche alla religiosità nostrana, in cui l’entità ‘una e trina’ presuppone la salvaguardia ortodossa della nostra preghiera, di quel ‘Credo’ levato a salvaguardia di un equilibrio ‘ideale’ e ‘psicologico’ che vede il bene opposto al male, esattamente sovrapponibile alla religiosità antropologica delle popolazioni più arcaiche (non pagane), pur in mezzo a tanti contrasti e nello scontro in atto nelle diverse culture, e che ha finito per determinare nella preghiera comune una ‘verità’ conciliante di pace. Nell’avvicinarsi della ricorrenza religiosa della Pasqua, propongo qui di seguito l’ascolto di alcune composizioni estemporanee alla liturgia ufficiale della Chiesa cattolica, ciò nondimeno raccolte nell’intento di testimoniare un ‘sentire religioso’ quanto mai vivo che accomuna i diversi popoli da un capo all’altro del mondo. Quegli stessi che trovano nella comunanza cristiana un’autentica fonte di religiosità unificatrice che li accompagna nella loro vocazione spirituale. Vocazione che, in occasione della Pasqua, assume una dimensione pressoché sentita negli altri popoli e che, a proprio modo e nella lingua d’origine, hanno voluto testimoniare con lodi e inni penitenziali nella ‘Messa’, desunti dalle loro più aderenti tradizioni popolari in fatto di musica. Evoluta sulle direttrici conformi all’insegnamento dei ‘canoni’ costitutivi la tradizione liturgica cristiano-cattolica, la ‘Messa’ in-primis e l’orazione dei ‘Salmi’ poi, si impone all’interesse etnomusicologico per l’alto contenuto spirituale; quello stesso che ‘in illo tempore’ deve aver forgiato le singole culture gruppi di alcune popolazioni isolate che, pur conoscendo poco o niente una qualche forma di scrittura, hanno saputo mantenere un equilibrio, quasi perfetto, con la natura circostante, nelle difformi aree del bacino Mediterraneo e non solo. Nel modo qui di seguito contestualizzato, a incominciare proprio dalla tradizione etnica africana, per proseguire nella tradizione spagnola, trasferite oltreoceano nel folklore latinoamericano. In ognuna delle quali si avverte il confluire di ‘forme’ culturali tardive, credibilmente diverse, che, in qualche modo, hanno sostenuto un processo di evangelizzazione persistente nei secoli e che, in campo musicale, ha dato vita a simbiosi di suoni e ritmi distinti, qua e là caratterizzato da influssi linguistici e dialetti gergali destinati all’uso quotidiano, quale riflesso di una struttura tribale articolata che ha permesso la conservazione e il riconoscimento di idoli arcaici, il cui ‘spirito’, ereditato dagli antenati, è ancora oggi comune a molte popolazioni sia africane che latinoamericane, benché svuotate del loro contenuto sapienziale. Eredità che le popolazioni del continente africano delle origini, di seguito prese ad esempio, hanno articolato la propria struttura tribale-religiosa sull’uso di ‘maschere’ e ‘mascheramenti del corpo’, ancora attiva tra le etnie più interne del continente, tenuta in vita dal desiderio antropico, mai venuto meno, della ricerca di un ‘dio’ (divinità), sia esso cristiano e/o d’appartenenza ad altra confessione, in grado di garantire loro una qualche forma di sopravvivenza. La stessa che è possibile riscontrare nella forma prevalsa nella liturgia cristiana della ‘Messa’, dove il ‘fatto’ religioso non annulla, né sovrasta la ritualità della tradizione arcaica, sovraccaricandola di vigore , onde è l’Africa con i suoi strumenti, i suoi ritmi, le sue voci, i suoi battimani e le sue grida in primo piano, a regalarci un ‘evento’ rigoglioso di ancestrale brio. * Lo testimonia questo “African Sanctus” elaborato da David Fanshawe (CD Philips 1089), in cui è riscontrabile una forte contaminazione di suoni arricchita dal timbro imitativo dei tamburi sulle percussioni rock, in aggiunta a registrazioni sul-campo di ‘cori’ africani e di ‘voci’ soliste, su brani liturgici cristiani; come appunto nel “Sanctus” elaborato su una danza Bwala tipica dell’Uganda; cui segue il “Kyrie”, ‘chiamata alla preghiera’, e il “Gloria” ripresi dalla musica per il matrimonio di tradizione islamico-egiziana. Così come per il “Credo” si è utilizzato un tema proprio del Sudan, mentre per i “Crucifixus” ripreso dal “Chant sul Qui tuum est regnum”, si è utilizzata una ‘ninna-nanna’ Masai di sicuro effetto onomatopeico. In fine l’ “Agnus Dei”, elaborato sulla musica d’accompagnamento di una ‘danza di guerra’ dei beduini del deserto del Sahara. * Così avviene in “Missa Kongo” abbinata (sul disco Philips 1970) alla “Missa N’Kaandu”, comunemente cantate durante le funzioni religiose nella regione del Kisanto nell’attuale Zaire, in cui il sacro e il profano presenti nella liturgia africana è testimoniata dall’avvenuta interazione musicale zairota a contatto con l’espressione intimistica cristiana. le due ‘Messe’, relativamente diverse fra loro, utilizzano i toni ritmici di strumenti tipici e il necessario impeto delle danze tribali, così come nei canti si rileva una certa improvvisazione popolare disgiunta dal contesto prettamente religioso. In particolare nella “Missa Kongo” , l’uso prorompente delle percussioni tipiche delle popolazioni Bantu, fa da contrappunto alle grida spontanee delle donne Biyeki-yeki sostenute da colpi simili a spari d’arma da fuoco, che suscitano una sensazione di ‘paura’, verosimilmente derivata dal ‘fatto’ magico-trascendentale, e comunque trasgressivo, sostenuto dall’intervento di ‘seconde voci’ in alternanza alla ‘voce solista’ Diversamente nella “Missa N’Kaandu” troviamo un effetto melodico di maggiore spessore innestato su di una eccellente ritmica che esercita un richiamo alla drammaticità cerimoniale del “Prière Universelle”, in una sorta di "canto piano" davvero apprezzabile e molto gradevole all’ascolto. Come recita una poesia di Leopold Sédar Senghor, noto poeta senegalese:
«L’uragano sradica tutto intorno a me, e l’uragano sradica da me fogli e parole inutili. Vortici di passione sibilano in silenzio. Sia pace nel turbine secco, sulla fuga delle bufere! Tu Vento ardente, Vento puro, Vento di bella stagione, brucia ogni fiore, ogni pensiero vano. quando ricade la sabbia sulle dune del cuore. Donna, sospendi il tuo gesto di statua, e voi bimbi, i vostri giuochi e le vostre risa d’avorio. Tu, distrugga la tua voce col tuo corpo, secchi il profumo della tua carne. La fiamma che illumina la mia notte come una colonna, come una palma. Avvampa le mie labbra di sangue, Spirito, Soffia sulle corde della mia ‘kora’. S’alzi il mio canto, puro come l’oro di Galam.»
* Altresì la “Messa a Youndé” raccoglie documenti sonori del Camerun, detto anche ‘il riassunto dell’Africa’, per il semplice fatto che in questa regione coabitano numerosi gruppi etnici, circa 200, verosimilmente emigrati, provenienti da altre regioni del ‘continente nero’, che hanno conservato le proprie realtà tribali culturali e religiose, come l’islamismo, l’animismo e in bassa percentuale anche caratteristiche Cristiane, professate in diverse lingue, tutte ufficiali, quali l’arabo-musulmano, il francese e l’inglese, insieme a vari linguaggi autoctoni. Sul piano musicale le forme praticate sono molto vicine alla ‘monodia gregoriana’, almeno per quanto riguarda l’accostamento con la liturgia cristiana raccolta nel disco (Universo del Folklore - Arion 1975). Ciò, sebbene sul piano melodico la musica europea mal corrisponde alle rigorose esigenze toniche, per esempio, del dialetto Ewondo, o alla vitalità più ritmica tipica africana. Diversamente accade per le influenze orientali portate senza dubbio dalle frange musulmane del Nord e di gran lunga superiori di quella cattolico-cristiana. fatto questo che già negli anni ’60, alcuni studiosi tra sociologi, folkloristi e musicologi del Camerun si sono posti il problema dell’africanizzazione della liturgia cattolica in seno al continente nero. In fine, ispirandosi ai testi biblici è stato l’operato l’Abate Pie-Claude Ngumu, già maestro di cappella della cattedrane di Notre Dame a Youndé a spuntarla sulle altre proposte, passando dalla teoria alla pratica, trascrivendo quelli che oggi sono detti i “Cantici di Ewondo”, utilizzando una delle principali lingue vernacolari del Sud del paese, dove era più influente il cattolicesimo.
In quanto fondatore della Scuola Cantori della Croce d’Ebano, Padre Ngumu ha utilizzato strumenti originari tipici della regione, come il ‘balafon’, una sorta di xilofono, per la composizione dei canti corrispettivi al canone liturgico dei così detti ‘canti d’ingresso’ e nella lettura cantata della ‘Epistola’ basandosi per entrambi sulla cadenza ritmica di una delle molte danze tradizionali. Impostando inoltre, nella conseguente lettura del ‘Vangelo’ inclusiva della relativa predica pastorale, sul suono dell’arpa ‘mvet’ tipica del Camerun, spesso mimata dal pubblico presente alla cerimonia, per facilitare la comprensione del messaggio evangelico. Lo stesso accade durante il “Credo”, in cui l’officiante apre al dialogo ‘a responsorio’ con il Coro, a cui partecipa l’intera comunità festante al suono dei tamburi e del ‘tam-tam’. Interessante è anche la partecipazione più composta in occasione del “Kyrie” e dell’ “Offertorio” durante i quali il Coro si snoda in processione attorno allo spiazzo richiamando a raccolta i fedeli con il tipico clangore di ‘campane’ di metallo, recando offerte di prodotti della natura raccolti in ceste che portano sulla testa e che infine depongono ai piedi dell’altare per la benedizione rituale. Successivamente sono le donne che, piegate su se stesse, lanciano l’oyenga’, un urlo stridente che nell’esaltazione generale riveste significati esoterici, ma che per l’occorrenza riveste un esplicito segno della devozione popolare. Ovazione che trova il suo fulcro nei rispettivi “Alleluia” e “Canto finale” improntati sullo schema latino ma che qui acquisiscono maggiore forza evocativa, quella stessa che si ritrova nel ‘gospel’ che scaturisce in uno stato di ‘ebbrezza mistica’ che vede l’officiante unirsi cantando ai musicisti e al pubblico presente in una coreografia assai eloquente.
* Salutata come «...il più significativo inno che le generazioni africane abbiano mai elevato al Dio non soltanto e necessariamente cristiano: un prezioso documento storico da sottolineare e da prendere come esempio, che ravviva la forza mistica di cui è dotata la musica sacra.», la “Missa Luba” è indubbiamente la più rappresentativa di tutta la produzione ‘liturgica’ africana. Più volte riproposta da gruppi africani diversi, trova il suo originale nell’esecuzione dei Les Trobadours du roi Baudouin che ne furono i primi interpreti nel lontano 1958 (disco Philips BL 7592). Frutto dell’intuizione del missionario belga padre Guido Haazen, fondatore e arrangiatore del Coro formato da 45 bambini tra i 9 e i 14 anni insieme a 15 insegnati del Kamina School che accompagnò in una lunga tournée iniziata nella Sala Nervi nella Città del Vaticano e prosegita nel resto d’Europa. Trattasi di una ‘Messa latina’ basata su ‘native songs’ in puro stile congolese (ex Congo-Belga), costruita su ritmi percussivi e armonie (ninne-nanna, weddings, ecc.) rituali delle regioni Kasai e Kiluba, da cui il nome. “Missa Luba” va dunque considerata un piccolo capolavoro che ben riproduce l’alto livello di interazione raggiunta tra i diversi popoli e le diverse religioni: tradizione-etnica e cristiano-cattolica. Musicalmente parlando si ritrova in essa il senso d’influenza reciproca, raggiunto nell’eliquilibrio perfetto che tutto sublima in ognuna ‘delle parti’ che la compongono: ‘Kyrie’, ‘Gloria’ e ‘Credo’ infatti, si svolgono secondo l’andatura inalterata dei canti ‘kasala’ della regione Ngandanjika (Kasai) da cui provengono. Mentre il ‘Sanctus’ e il ‘Gloria’ sono costruiti su ‘canti di addio e/o arrivederci’ tradizionali ‘Kiluba’. Mentre nell’ ‘Hosanna’ riprende il tempo di danza ritmica propria del Kasai, l’ ‘Agnus Dei’ si basa su un canto popolare di Luluabourg. Va inoltre sottolineato che nessuno di questi canti è stato fin’ora trascritto nelle lingue originali, pertanto la bellezza intrinseca a questa versione della “Missa Luba” sta anche nel fatto che certi ritmi, armonie e abbellimenti scaturiscono dall’improvvisazione spontanea dei suoi esecutori di fronte ad una proliferazione simbolico-spirituale che investe ogni elemento della “Messa” cosiddetta attraverso una complessa strategia della tensione: scenografia, colore, musica, recitazione, in cui tutto è sovraccarico di senso.
Se quelli qui appena toccati possono essere considerati incredibili esempi di religiosità attiva nel mondo; sottolineare quanta strada si è fatta nel campo della trasmissione e della conoscenza, ciò non di meno possiamo sentirci forti di un sentimento di maggiore adesione al ‘fatto’ religioso e di viverlo intensamente. Ed è forse proprio grazie alla spinta della ricerca etnologica che possiamo intraprendere la strada della concertazione e di uno stesso ‘modus vivendi’ con le altre culture, attuando quel recupero distinto delle tradizioni popolari che pure malgrado i contrasti inevitabili, non hanno mai smesso di far sentire il loro altissimo ‘grido’, levato in difesa di una unica identità da salvare, la nostra e quella di tutti quei popoli che giustamente riscattano nella parola di Dio la propria esistenza. È così, come abbiamo avuto modo di leggere, che la liturgia cristiana, nell’aprirsi queste diverse espressioni non subisce variazioni di sorta, ma ne esce indubbiamente vivificata, proiettata in un ‘Credo’ che nella comunanza traslitterale della musica, ritrova il proprio tempo edenico.
Recita una poesia di E:E:G.Armattoe, poeta del Ghana.
«Il nostro Dio è nero. Nero di eterna bellezza, con grandi labbra voluttuose, capelli arruffati e scuri occhi liquidi. Forma d’armonioso aspetto Egli è, poiché a Sua immagine siamo fatti, il nostro Dio è nero.»
Note: Le poesie qui trascritte sono riprese da “Nuova Poesia Negra” – Guanda 1961.
(continua)
prevede l’offerta dei doni della natura durante la Messa, così come prevede anche la suddivisione dei prodotti della natura, trasformati in cibo, ai più bisognosi affinché possano godere della ‘gloria’ di Cristo con lo spirito colmo di quella gioia che nutre la fame. Questo per dire che alla ‘fame’ va corrisposta un’adeguata dose di sostentamento rigenerante per il corpo e per lo spirito. Allora ben venga la Pasqua che dopo i necessari ‘pianti rituali’ di espiazione, si presta a proponimenti di gioia per la festa di ‘Resurrezione’ e di ritorno alla vita. Questo in vero il senso della spiritualità religiosa proprio dello spirito comunitario della Pasqua affermatasi in Spagna agli albori del Medievo e che verrà ripresa solo al tempo dei Re cattolici avvenuta durante il XV secolo, allorquando Santa Romana Chiesa esercitò il suo pieno potere con l’instaurazione del Tribunale Ecclesiastico, più conosciuto come la Santa Inquisizione. Prima quindi che la religiosità popolare si trasformasse nelle tribolazioni edificanti delle Sacre Rappresentazioni a scopo esclusivamente penitenziale e nelle truculente Processioni per Settimana Santa, ed incendiasse i ‘roghi’ contro la stregoneria, i giudei-sefarditi, gli zingari, i diversi e quant’altri che abbiamo appreso ad elencare dalle insanguinate pagine della storia.
Pagine dalle quali abbiamo anche appreso che una tale ferrea disciplina, per quanto dovesse essere accettata forzatamente da tutti, ciò che avvenne nel lungo termine non senza trovare sul suo cammino molti ostacoli di carattere aconfessionale e quindi laico, riscontrò un certo disaccordo con l’allora potere regnante, di quelle frange dei vecchi cristiani che andavano soto il nome di Mozarabi, grazie ai quali già attorno all’Anno Mille dopo l’abolizione del rito da parte di Papa Gregorio VII nell’ XI secolo, avevano conservato la propria lingua ‘mozarabica’, (un continuum dialettale romanzo parlata nella penisola iberica da parte dei Cristiani nell'XI secolo e nel XII secolo), all’interno della loro secolare liturgia in comunione con lòa chiesa cattolica. In verità non poco si deve a quei a quei padri missionari che, giunti nei primi secoli della cristianizzazione della Spagna, incoraggiarono le popolazioni autoctone, compresi i nomadi zingari e zingaro-gitanos, a misurarsi con i canti cristiano-mozarabici durante le nuove funzioni liturgiche imposte loro.
Id: 943 Data: 13/12/2023 06:36:00
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- Sociologia
Laltro come scelta - il riconoscimento di genere’
“L’ALTRO COME SCELTA” La costruzione sociologica nel ‘riconoscimento di genere’ – Sociologia – by Giorgio Mancinelli
Prima parte: Le ‘pari opportunità’ per una più concreta ‘interrelazione sociale’. Alla luce dei mutamenti sopravvenuti nella società attuale e delle nuove realtà ideologiche, la costruzione sociologica del ‘riconoscimento di genere’ (*), impostata su basi antropologiche quali, la tradizione, la cultura, la religiosità, la sacralità degli affetti, le usanze e i ‘riti di riferimento’ (*), da qualche anno a questa parte, si è rivelata inaspettatamente anacronistica, mostrando le sue crepe profonde. Segni questi di una millenaria erosione che non l’hanno risparmiata da risentimenti diffusi e critiche per certi aspetti discordanti quanto inevitabili. È così che l’ ‘essere umano’, in qualità di soggetto di ‘genere’, è divenuto, quasi improvvisamente, un fenomeno sociale e antropologico planetario, cui un certo ‘liberalismo’ (*), aprioristico e metodologico, attribuisce forme di ‘società’ e di ‘economia’, migliori di sempre; neppure fossero di per sé ‘archetipi’ (*) di una fantomatica modernità. Nel tempo, questi comportamenti, individuati come ‘differenze di genere’ (*), e successivamente a una distinzione delle problematiche legate al sesso, sono state gradualmente introdotte nella società, secondo le ripartizioni attuate nella psicologia individuale e in quella collettiva di ‘gruppo’. Per la ‘donna’ erano la sessualità legittimata, la genitalità e, differentemente, per il ‘maschio’, il potere sessista e la riproduttività genitoriale; successivamente trasformate in, voglia di supremazia nei rapporti relazionali, crescita di autogestione nell’uno e nell’altro sesso, non più riconducibili al solo fattore biologico. Tant’è che l’esperienza esistenziale e sociale dell’essere ‘uomo’ e quella dell’essere ‘donna’, nella loro identificazione individuale e complessità, sono tutt’altro che scontate. Onde per cui, riconoscere l’influenza dei fattori sociali nelle ‘differenze di genere’, è il primo passo per il superamento delle diversità e la definitiva attuazione delle ‘pari opportunità’ (*) nell’ambito della riorganizzazione sociale, nella scuola e nel lavoro. Non solo, quindi, andando verso una comprensione significativa delle varianti problematiche insite nel termine ‘gender’ o ‘genere’ che dir si voglia, ma anche di quelle che prendendo spunto dalla diversità dei sessi, delimitano il ‘riconoscimento’ della personalità individuale all’interno dei ‘ruoli’ (*) contraddistinti gli uni dagli altri, in famigliari, educazionali, configurativi delle diverse tipologie sociali che, nel rispetto delle parti, mettono a nudo le precarietà e i fattori di rischio, di pari passo con l’individuazione di possibili strategie di cambiamento che la società odierna tende a evidenziare come problematiche, per scopi non sempre o del tutto chiari, da sembrare incomprensibili se osservati nell’ottica della risoluzione delle ‘differenze di genere’ a scopo individualistico, ancor più evasivo se visti dalla parte del pragmatismo politico comunitario europeo e non solo. Se vogliamo, è a partire da tale ‘riconoscimento’, che la ricerca dinamica delle ‘pari opportunità’ trova giustificazione, nell’individuare quei fattori relativi, intrinsechi della sfera della ‘personalità’ (*) e della ‘identità’ (*), contrapposti al rifiuto e alla revoca dell’approvazione tout-court, che hanno portato al misconoscimento della figura ‘donna’, alla quale, invece, ineriscono esperienze di rifiuto di legittimazione e dei diritti negati. “Il riconoscimento dunque – scrive Mario Manfredi (*) – va preso come obiettivo di un processo di piena responsabilità radicale verso i soggetti di ‘genere’ (umani e non), specialmente quando si confrontano posizioni di potere da una parte, e di vulnerabilità dall’altra. Anche perché la responsabilità che ne deriva, si fa carico anche di realtà remote nello spazio (uomini e territori lontani) e, nel tempo (l’umanità futura)”. Certamente la modernizzazione dei costumi e delle idee non è approdata ad un risultato integrale ed esaustivo in ragione del fatto che si è dovuta misurare con fattori limitanti, con istanze individuali e sociali di tipo politico, economico, imprenditoriali. Non a caso Zygmunt Bauman (*) ha molto insistito nel ricercare instancabile di quell’ ‘identità’, che egli dice “divenuta precaria come tutto nella nostra vita”, essendo venuto meno il vincolo temporale nei rapporti interpersonali a causa di dialoghi preferibilmente a distanza, pause troppo lunghe di riflessione, richieste di chiarimenti mai espletate e sconfinamenti in territori diversi. A cui hanno dato seguito: senso di smarrimento, incapacità di introspezione, inconsapevolezza dell’attenzione, che hanno posto l’individuo davanti a un processo di sterilizzazione dell’immagine sedimentata di “ciò che è stato” (assenza di memoria storica), e di poter approntare una domanda del tipo: “chi sono io oggi?” (mancanza di identità futura), che l’ha portato all’individuazione di quella “paura liquida” individuale e collettiva che in sé non comporta una risposta propositiva. E che il sociologo evidenzia nel sorgere di un ‘problema’ nuovo che va ad aggiungersi ai tanti che una ‘società liquida’ si porta dietro, per quanto all’apparenza sembra impossibile contestualizzare, se non andando a “...cercare un modello ‘ultimo’, migliore di tutti gli altri, perfetto, da non poter essere ulteriormente migliorato, perché niente di meglio esiste né è immaginabile”, in quanto – egli dice – “...non basta ‘concettualizzare’ una identità qualsiasi, bisogna puntare sulla ‘identità sociale’, radicale e irreversibile, che coinvolga gli ordinamenti statali, la condizione lavorativa, i rapporti interstatali, le soggettività collettive, il rapporto tra l’io e l’altro, la produzione culturale e la vita quotidiana di uomini e donne” (*). Di là dal sembrare contraddittorio, la difficoltà del sociologo di formulare una risposta propositiva, rientra nella contrapposizione delle due diverse individualità messe a confronto: quella ‘maschile’ e quella ‘femminile’, storicamente in contrasto tra loro e che, pur riproponendo sé medesime in molteplici e differenti soluzioni, vagano alla ricerca di un ‘riconoscimento’ incondizionato, che le riconduca all’interno della ‘realtà sociale’, di cui ‘di fatto’ sono parti integranti. Il problema, volendo qui generalizzare, si pone allorquando all’interno della suddivisione di ‘genere’ avviene la separazione dei rispettivi ‘ruoli’, e quindi delle diverse ‘identità’. Questo fa sì che tutto l’impianto concettuale sopra evidenziato, risente di una forte opposizione a causa di forze esterne ingovernabili che ne determinano il ribaltamento. Forze di diversa natura, quali: la caducità dell’una o dell’altra soggettività individuale, l’idea dominante del benessere famigliare, la preminenza sul posto di lavoro, la produttività che tende a emarginare chi non è fattivo o, anche, l’avanzamento ingiustificato dell’uomo in rapporto alla stessa funzione svolta dalla donna, l’insorgere di drammatiche regressioni nei rapporti coniugali ecc.., riscontrabili negli accadimenti che producono forme di ‘criticità’ che stravolgono l’assetto del rapporto comunicativo “nel momento esperienziale della ragione e nel momento riflessivo della critica” (*), perché perturbanti l’ordine del quotidiano e devianti dalle regole di normalità vigenti. “L’annichilimento delle diversità in un mondo uniforme e massificato, la produzione di comportamenti sociali sempre più auto-referenziali, la deculturazione e l’acculturazione di massa secondo schemi economistici, l’accumulazione di tecnologie e di risorse nel contesto sociale sempre più disunito e frammentario, la distruzione di tutti i modelli di valore in nome di un pragmatismo povero di senso; sono alcuni dei paradossi evidenti cui ha condotto la modernizzazione contemporanea sulla base del suo nucleo fondante: l’assolutezza dell’individuo e della sua razionalità esclusivamente soggettiva” – scrive Giulio de Martino (*) da parer suo, quasi si fosse davanti a una possibile catastrofe annunciata e dallo stesso storico considerata quasi inevitabile. Conforme cioè alla ‘natura umana’, in prospettiva di una alterata convivenza democratica e dalla mancanza di un comportamento ‘etico’ austero, che non lascia comprendere e non giustifica le proprie e le altrui convinzioni. In questo nuovo modello di società individualistica ed astrattamente egualitaria, si assiste al perseguimento di sommovimenti sociali ed economici (ipertecnologica, globalizzazione, squilibri geografici, nazionalismo, razzismo, fondamentalismo), che segnano il punto di svolta retrospettiva del paradigma iniziale e i limiti del presente. Fatto salvo, ovviamente, lo ‘status quo’ secolarizzato, accettato e difeso, dal capitalismo imperante che ieri consentiva una sicurezza interiore che più non appaga, perché andata smarrita; oggi, promette una comunicazione più libera e aperta, la più ampia possibile, in cui “la propria autonomia e la rottura della coazione, sono le condizioni per sostenere un dialogo franco” con il futuro, che di per sé non è garanzia di ‘autonomia’ certa. Premessa questa che Antony Giddens (*) afferma, essere: “condizione sine qua non per stabilire una relazione più estesa”, che aiuta a definire i limiti personali necessari per gestire con successo le relazioni con gli ‘altri’, (diversi dall’ambito genitoriale, parentale e amicale), alla base della promessa di ‘globalizzazione’ (*) e, in senso lato, estesa oltre l’area che gli è propria, alla sfera dei rapporti interazionali cui le ‘pari opportunità’ sono di riferimento, principio-cardine del comportamento razionale e motore di ogni relazione sociale, del vero benessere e dello sviluppo della società. Sarebbe davvero auspicabile che il dialogo tra le parti sia inteso come fattivo di possibili sviluppi interazionali che infine mettano insieme condizioni e prerogative utili per il futuro degli individui, lontane da distinzioni di ‘genere’; sia nell’organizzazione della quotidianità familiare e comunitaria, sia in quella socialitaria, al fine di conseguire quel ‘riconoscimento’ incondizionato, necessario alla legittimazione paritaria. Ma cosa hanno in comune le diverse esperienze acquisite, ereditate dal passato antropologico della ‘specie’ con le distinzioni di ‘genere’ che si vogliono qui rappresentare? Si potrebbe dire niente e il contrario di niente, eppure nulla mi è sembrato più valido quanto rispolverare il ‘concetto di performatività’ teorizzato da Victor Turner (*), relativo a ‘struttura/anti-struttura’, allo scopo di argomentare i processi sociali inerenti alla realtà lavorativa che qui si prospetta. Una chiave di investigazione che, se vogliamo, anche a distanza di tempo, mi consente di riconsiderare, seppure su base teorica, la ‘trasformazione del presente’ a cui volenti o nolenti assistiamo, in quanto “costruzione di senso attraverso l’agire”. Ciò a fronte di nuove aggregazioni dell’esperienza fenomenologica, per una “ridefinizione critica del reale”. Tuttavia, se si vuole dare una risposta soddisfacente a una ‘non-domanda’, tanto meglio comprendere come, talvolta, pur nell’incongruenza, sia possibile delineare una qualche ‘esperienza sociale’ da riconsiderare. Potrebbe qui essere sufficiente osservare quelle che sono le ‘carenze’ implicite in una qualsiasi struttura lavorativa, riguardanti, nello specifico, l’organizzazione del lavoro e il comparto economico-amministrativo, e ci si accorgerà quanto di più contraddittorio sussiste nella pratica ‘tra il dire e il fare’ dell’esperienza individuale riferita alle ‘pari opportunità’. Soprattutto in relazione alle ‘strutture’ non sempre adeguate alla tipologia del ruolo svolto, rispetto alla ‘qualità’ e alla ‘quantità’ produttiva, sempre maggiore, che viene richiesta. E non solo in ambito lavorativo a fronte degli orari (turnazioni, straordinari, riposi settimanali, ferie ecc.); bensì in tutto quanto attiene alla sicurezza, ai rischi per la salute e, non in ultimo, a quelle che sono le normative nazionali ed europee che spesso vengono disattese. Sono comunque del parere che un approccio ‘qualitativo’ o, per meglio dire, più qualificato, faciliti l’efficacia della ‘legittimazione paritaria’ all’interno delle singole realtà, siano esse produttive pubbliche che nelle aziende private, sia nelle istituzioni riguardanti la famiglia, la scuola, ecc.. Non c’è dubbio che una maggiore ‘consapevolezza’ basata sulla ‘conoscenza’, sia che riguardi la ‘giustizia sociale’ che il rispetto dei ‘diritti umani’, non può che promuovere una maggiore ‘empatia’ (*) e un migliore approccio con gli altri, a fronte di una sicura ‘crescita’ che guardi al ‘futuro’. Tematiche queste che Umberto Galimberti (*) ritiene di primaria importanza, sulle quali confrontarsi quotidianamente, nella consapevolezza di una ritrovata ‘azione collettiva’ basata sull’ ‘identità’ e il ‘mutamento culturale’, capaci di agevolare le ‘interazioni sociali’ (*) nella vita e sul lavoro. Argomenti sempre attuali che molto hanno appassionato Alberto Melucci (*), definito il ‘sociologo dell’ascolto’, aperto ai temi della pace, delle mobilitazioni giovanili, dei movimenti delle donne, delle questioni ecologiche, delle forme di solidarietà e del lavoro psicoterapeutico, il quale, in anticipo sui tempi, ha esplorato il mutamento culturale dell’ ‘identità’, in funzione della domanda di cambiamento che viene proprio dalla sfera socio-lavorativa, affrontando i temi dell’esperienza individuale e dell’azione collettiva, studiando la loro ricaduta sulla vita quotidiana e sulle relazioni di gruppo che hanno confermato la validità dell’interazione scientifica tra le diverse discipline, e apportato innovativi contributi alla ricerca sociologica. Così egli scrive: “Io sono convinto che il mondo contemporaneo abbia bisogno di una sociologia dell’ascolto. Non una conoscenza fredda, che si ferma al livello delle facoltà razionali, ma una conoscenza che considera gli altri dei soggetti. Non una conoscenza che crea una distanza, una separazione fra osservatore e osservato, bensì una conoscenza capace di ascoltare, che riesce a riconoscere i bisogni, le domande e gli interrogativi di chi osserva, ma anche capace, allo stesso tempo, di mettersi davvero in contatto, con gli altri. Gli altri che non sono solo degli oggetti, ma sono dei soggetti, delle persone come noi, che hanno spesso i nostri stessi interrogativi, si pongono le stesse domande e hanno le stesse debolezze, e le stesse paure” (*). Si può ben comprendere quindi, quanto il ‘riconoscimento di legittimità giuridica’ (*), influisca nelle relazioni interpersonali, al punto che l’‘essere donna’, trasferito sul piano sociale, sia poi sfociato nella estenuante difesa di un ‘io persona’ alla ricerca di quella giustizia sociale che, al contrario, dovrebbe essere determinato da una corretta gestione all’interno di qualsiasi rapporto. Ciò che va riferito ovviamente anche a l’ ‘essere uomo’, dove ‘persona’ (*), nella concezione moderna, è potenzialmente ‘persona giuridica’ e, dunque, ‘soggetto di diritto’. Cioè: “...titolare di diritti e obblighi, investito all’uopo della necessaria capacità giuridica, e del quale è regolata la possibilità di circolazione tra ordinamenti diversi”; onde per cui va considerato: “essere dotato di coscienza di sé e in possesso di una propria identità, riconosciuta alla persona umana”. Lo afferma Jo Brunas-Wagstaff, studioso della ‘personalità’ individuale che, inoltre scrive: “Tuttavia, anche se sembra plausibile che le persone effettivamente organizzino e controllino il (proprio) comportamento in un certo modo, secondo alcuni psicologi (Carver, Scheier), il modello è troppo semplice, vista la complessità e la necessaria flessibilità del comportamento umano”; la cui comprensione, in margine a situazioni antropologico-culturali predefinite, non può prescindere dai contributi della psicologia cognitiva e dell’apprendimento sociale, atti a misurare le differenze individuali di ‘genere’. Dobbiamo, infatti, a questi moderni metodi psicologici, se oggi possiamo tracciare i ‘rapporti’ e le ‘dissonanze’ esistenti fra tratti di personalità e stili cognitivi, caratteri personali e influenze sociali, nel tentativo di prevedere e risolvere all’origine i diverbi conflittuali all’interno della società e nell’organizzazione socio-culturale a tutti i livelli. Così come anche dovremmo ispezionare quelle zone sperimentali di riscrittura dei codici culturali, dette ‘liminali’ (*) e ‘interstiziali’ (*), potenzialmente feconde, in cui operano gli strumenti mediatici (analogici e digitali) a disposizione, oggi al centro della riflessione sociologica. Se è vero che le aggregazioni sociali ed economiche sorgono per resistere alla competizione ed alla concorrenza, a maggior ragione esse danno vita a nuove specificità forse più complesse, ma anche più salde, che ripropongono a un più alto livello la massima libertà individuale. Come infatti ha evidenziato in “Sociologia degli interstizi” G. Gasparini (*): “...la possibilità di coercizione che mette in gioco tra l’altro i rapporti tra i cittadini e lo stato”, in quanto espressione di scelte operate nell’ambito di valutazioni morali (virtuose e non solo), le cui ricadute influiscono in modo catartico sulla cosiddetta ‘sfera del sociale’. Non necessariamente o in modo assoluto come marca del sistema utilitaristico di scambio o di mercato, tipici della logica economica, bensì come fenomeno di ‘prossimità’ (*), per meglio comprendere fin dove l’individuo sceglie in autonomia il proprio ‘ruolo’ nella società e nel mondo. In tal senso, non limitarsi semplicemente a riconoscere la vulnerabilità dell’‘identità sociale’ nel compiere scelte determinate, rappresenta – a mio avviso – la condizione essenziale per comprendere le modalità e le ragioni che le rendono necessarie. Nella storia sociale (e politica) si sono proposte anche importanti istanze progressive di ‘giustizia ed equità’ improntate alla ‘reciprocità equilibrata’ (*), vale a dire, ad esempio, ‘dare qualcosa ad un altro in cambio del giusto e dell’equivalente’. Non v’è dubbio, un comportamento che in origine doveva essere stato creativo della socialità, e che andrebbe riaffermato, o almeno in parte, come base nelle forme di interazione e scambio interpersonale. Si tratta qui dello svilupparsi di progetti (di vita) di tipo ‘altruistico’, volti a realizzare il ‘bene’ (inteso come gratificazione) e al raggiungimento della ‘felicità’ (come soddisfazione e ricompensa), che si avvalgono dell’ ‘interazione sociale’ per concorrere, insieme con gli ‘altri’, alla propria realizzazione dinamica, relativa a progettualità pedagogiche, psicologiche, assistenziali, e improntate ai principi dell’ “insieme è meglio”. “Sono queste virtù – scrive A. MacIntyre (*) – che garantiscono un agire razionale indipendente, ma che hanno bisogno di essere accompagnate da opere (fatti) che rispondano a tali interrogativi (..) e che né la figura dello stato nazionale moderno, né il tipo di associazione sociale e politica di cui ci sarebbe bisogno, possono rappresentare”. Tuttavia, se non in sporadici casi, le nuove spinte sociali di cui l’ ‘associazionismo’ (*) è fautore, non ha fatto delle ‘pari opportunità’ quella panacea che ci si aspettava per risolvere le problematiche discriminatorie nei confronti dell’uno e/o dell’altra nell’attuale società, né lo hanno potuto i movimenti femministi che non rientrano in questa mia tesi. Benché, è appurato, che qualcosa è sopravvenuto a stravolgere il nucleo più duro da sempre presente nell’ ‘inconscio collettivo’ di tipo maschilista. La sempre più ampia e infinita discussione, sui limiti della politica nel voler dare una svolta al ‘problema conflittuale’ delle disparità ‘donna-uomo/uomo-donna’, rientra in quello che in psicologia, è definito ‘metodo del consenso’ (*). Basato sulla ‘cooperazione’ e non sulla ‘coercizione’, sebbene ciò richieda qualche sforzo in più per essere unitamente compreso e praticato. Se non c’è l’onesta volontà di venirsi incontro (legittimazione paritaria), il metodo non funziona, in special modo quando ci si trova di fronte a gruppi eterogenei che intendono mantenere esclusive posizioni di ruolo (potere), che non possono o non vogliono cooperare. L’applicazione del ‘metodo del consenso’, dunque, inteso come processo democratico che conferisce agli individui il poter prendere decisioni e, al tempo stesso, richiede a ciascuno di assumersi la responsabilità di tali decisioni. Ciò che non è rinuncia al potere, bensì ‘potere-insieme’, che non chiede di trasferire responsabilità sugli ‘altri’, ma domanda agli ‘altri’ di rispondere personalmente e completamente delle proprie azioni, al di là delle ‘differenze di genere’ o di coperture coartate. Se non si comprende e si accetta questo, le politiche per le ‘pari opportunità’ hanno davvero ben poca possibilità di successo. Nella pur strenua possibilità di affermazione, il ‘metodo del consenso’, porta alla prevenzione dei conflitti nelle relazioni interpersonali, lì dove questi maggiormente si verificano o, come in alcuni casi, compromettono lo svolgimento del lavoro. Nello specifico quando, e soprattutto, si fa riferimento a procedure etico-deontologiche, che regolano i rapporti introitati. Presupposto necessario per la risoluzione delle contrapposizioni e dei conflitti psicologici che rientrano in una dimensione di legalità e di giustizia sociale. Ovviamente i metodi di risoluzione dei conflitti - ad esempio – sul posto di lavoro, dovrebbero andare ben oltre gli intenti di pacificazione convenzionali, spesso animati da logiche economiche preferenziali, che per lo più gratificano l’uomo e penalizzano la donna. Stando a recenti esperienze maturate, tendenti ad affidare la gestione dei conflitti a figure esterne (conflict management, sindacati, assistenti sociali, giudici di pace ecc.), siamo di fronte a un fatto nuovo, in cui l’applicazione delle ‘pari opportunità’, (ancora pur sempre in via del tutto teorica), dimostra una certa volontà di gestione delle dinamiche atte a regolamentare i parametri di partecipazione della ‘donna’ nel mondo del lavoro. Prevedendo la sua compresenza nei quadri ‘dirigenziali’ delle imprese (statali e private), da affiancare e/o integrare la presenza dell’uomo, tutto lascia ben sperare in una futura riorganizzazione in ambito lavorativo che includa la ‘donna’, a fronte di una ‘legittimazione paritaria’ (*) significativa, all’interno delle pianificazioni occupazionali del lavoro. Ciò che davvero credo possa contribuire all’ ‘autoregolamentazione’ (*) dei comportamenti e all’attivazione di ‘processi di autocontrollo’ (*) come, ad esempio l’ ‘autostima’ (*) e di una certa realizzazione di sé a favore di una maggiore ‘autoaffermazione’ (*). Processi certamente idonei ad offrire agli individui uomo/donna una maggiore ‘sicurezza interiore’, e quelle sinergie necessarie, come l’assistenza psicologica in tutte le possibili emergenze: (malori improvvisi, demotivazioni da ansia sociale, difficoltà di relazione con gli altri, senso di insicurezza, che condizionano negativamente la qualità del rapporto della vita, rendendo difficile e doloroso proporsi nel mondo del lavoro), utilissime anche, in occasione di disastri dovuti a rappresaglie e calamità naturali ecc., dove più si sente la necessità di interventi capaci e risolutivi.
Bibliografia di consultazione:
(*)S. Piccone Stella – C. Saraceno, “Genere: la costruzione sociale del femminile e del maschile”; voce in ‘riconoscimento di genere’ (gender) – in ed in Vivien Burr “Psicologia delle differenze di genere” – Il Mulino 1996. (*) Van Gennep, Mircea Eliade, J. G. Frazer, in ‘riti di riferimento o di passaggio’ (*) Mario Manfredi, “Teoria del riconoscimento”, (*) Zygmunt Bauman, “Intervista sull’identità” (*) Antony Giddens, “La trasformazione dell’intimità” (*)Victor Turner, “Concetto di performance” e di ‘performatività’ (*) G. Gasparini, “Sociologia degli interstizi”, (*) M. D’Avenia in MacIntyre, “Animali razionali dipendenti” (*) Maria Menditto “Autostima al femminile” (*) www.utopie.it/nonviolenza/metodo_del_consenso.htm ) (*) M. Menditto “Realizzazione di sé e sicurezza”
Id: 934 Data: 21/11/2023 09:26:01
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- Cultura
Venerdì 17 Novembre - Giornata mondiale del Gatto Nero
LUPÉN THE CAT Il mio stupendo gatto nero, ladro.
Pre-saggio.
Avverte Paul Hindemith che: “La musica sotto qualsivoglia suono o struttura si presenti, non è altro che rumore senza significato finché non raggiunge una mente capace a riceverla”…
MIA – A – U MI- I- I –AU MIAU MI- I- I –AU MIAU MIA-U MIA – A –A –U MI-a-U, MI-a-U, MI-A-U, MI – AU- AU- AU- AU MI –I-I-I- A aaU MIAU MI-a-U, MI-a-U, MI-A-U, MI – AU- AU- AU- AU-AU- AU-AU-AU MI –AU MIA-A-A-A-aaU Mi-i-i-i-i-i-i–au Mia-aaaaaA-U Mia-A-A-U Mi-iiiiiiiiiiiiii-AU MIA-A-A-A-aaU Mi-i-i-i-i-i-i- au MIA-A-A-A-aaU Mi-i-i-i-i-i-i –au MIA-aaaaaaaaaaaaaaaaaaa-U MI-I-I-AU !! MIAU … (G. Rossini - “Duetto buffo di due gatti”).
Ed eccoci qua, disposti ad ascoltare la voce del nostro gatto trasformata in un linguaggio ruvido che lascia ‘pres-agire’ una certa insolenza. È quella del mio Super-Gatto Nero che adesso si aggira altezzoso attorno alla mia scrivania mentre vi sto scrivendo, sebbene non sia proprio certo che ignori del tutto che stia parlandovi di lui. Sì proprio così, Arsenio Lupén, che a ragione ho chiamato come il famigerato ‘ladro gentiluomo’ dei romanzi di Maurice Leblanc, solo perché come quello ruba per un ‘vizio di forma’, che non stento a definire ‘verosimile’ quanto ‘straordinario’, per quanto definirlo un gentiluomo, avrei qualcosa da ridire. Sempre che ciò non vi procuri alcun ripensamento sull’identità del vostro ‘adorabile’ compagno di vita, colui o colei cui riservate coccole affettuose più che a vostro marito e/o all’amate di turno, senza considerare che lui, il vostro gatto, come tutti i gatti che si rispettino, impiega l’arte della seduzione tipica del cicisbeo, per farvi intendere che in qualche modo vi appartiene, dissimulando una individualità pressoché egoista, potenzialmente dispotica, da lasciare all’occorrenza il segno. E che siate un amabile mentore o un asociale ossimoro, che apparteniate alla categoria antropologica degli umani e non a quella felina del suo entourage, sappiate che è inutile, con lui non si fanno carte, e che sia un graffio o una zampata collerica, statene certi, prima o poi arriva eccome. Come pure se non intende rispondere di proposito ad ogni vostra interlocuzione, non lo fa e basta, e non perché gli manca la parola, ma perché preferisce comunicare proponendosi con lo sguardo fisso nel vuoto, indifferentemente. Del resto lo sapete bene, ogni gatto ha la capacità straordinaria di starsene per proprio conto sfoderando un ozio altezzoso, che definirlo ‘da impunito’ è dir poco. Lui finge, vi spia, vi sorveglia, osserva ogni minimo movimento, sospetta di ogni rumore, di ogni minimo spostamento d’aria, avverte il vostro umore e ne fa uso, pronto a racimolare anche le briciole della vostra in-esistenza e che, all’occorrenza detiene come legittimità di appartenenza ‘regale’, impugnandola quale scettro della sua indole di despota. Solo allora vi accorgete di non avere più scampo, ammettetelo, da quel momento vi ha in pugno, comanda lui, siete soggetti ai suoi dettami. Proprio come il mio Lupén, anche il vostro ‘amore impossibile’, prima o poi approfitta della vostra subordinata, antropica moralità, per sottomettervi definitivamente e che, a lungo andare…
… vi addomesticherà.
Id: 933 Data: 17/11/2023 15:57:08
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- Libri
Massimo Recalcati La luce delle stelle morte recensione .
Massimo Recalcati - La luce delle stelle morte – Saggio sul lutto e la nostalgia – Feltrinelli 2022
“Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi …” – poeticava Leopardi che le rimirava “scintillanti”, quando nella realtà del firmamento non sono che tremule fiammelle lontanissime e che, a dire di Massimo Recalcati, sembrano “anime” ormai prossime a spegnersi. “Pensiamo allo strano fenomeno astrofisico della luce delle stelle che osserviamo fare la sua apparizione nei nostri cieli, come spiegano gli scienziati, che arriva a noi con molti anni di ritardo (probabilmente milioni) da una stella già morta, scomparsa nel grande buio dell’universo (…) che, quindi (noi oggi) ammiriamo una ‘presenza che è fatta di assenza’ o una ‘assenza che si rende presente’, (…) raggiungendoci come una visitazione inattesa.” Invero non è passato che un secolo, poco più poco meno, in cui una nuova generazione di poeti e scrittori sperimentavano una visione diversa dello stesso soggetto come le stelle, pur essendo più lontane che mai. In realtà, grazie al rinnovarsi di sofisticati telescopi, sono ormai meno distanti di allora, ancorché fredde, vuote e disabitate. Malgrado ciò sia da sempre nella natura umana guardare alle stelle con la nostalgia di un qualcosa che forse non è mai stato, come del ricordo di un’esistenza avita che si è logorata nel tempo della ricordanza, di un’assenza implicita in quanto parafrasi dell’Eden perduto o, forse, solo di una qualche felicità pregressa che sappiamo non poter tornare, se non sostituita da una nuova felicità. Il cui raggiungimento, per quanto si cerchi, rasenta l’impossibile, per effetto dell’esegesi archetipica profonda che tutto investe all’interno d’ogni esistenza vissuta, poiché concomitante con la solitudine primordiale, “…come di un mondo in sé compiuto” – risponde Roberto Calasso – che giunge a noi che siamo fin dentro il nostro presente, “…a contrastare il divenire del tempo”. “Panta rei”… recita l’antico aforisma – attribuito ad Eraclito – in cui ‘tutto scorre’ nel continuo alternarsi degli opposti, dentro la realtà apparente dell’inconoscibile e inesorabile divenire, nel perpetuo mutamento di cui si riveste l’amore degli umani. Vale dunque chiedersi ‘quale felicità’ rincorriamo?, se ciò che ruota al centro della nostra conoscenza si contrappone a noi, per un eccesso dinamico che scaturisce in energia sottile, come di vortice invisibile, nella nostalgia di ciò che non è e che non potrà mai più essere. “Può la luce arrivare dal passato?”– si chiede Massimo Recalcati autore di questo prezioso libro – nel “cercare l’emanazione luminosa del nome da dare all’oggetto e/o al soggetto perduto?” E inoltre, “Può esserci luce nella polvere?”; sebbene sappiamo a chi e a che cosa apparteneva quel dato ‘nome’ che si concreta con determinazione nel nostro pensiero virtuale, quasi per una metamorfosi del meraviglioso, nel malinconico effetto dell’ardore che ci portiamo dentro, allorché entriamo nel mondo estremo dell’incanto, nella “sottesa disponibilità a riconoscere un’immensità che tutto travolge e ovunque è avvertibile.” Ma gli interrogativi così posti reclamano risposte di assoluta verità, per un ritorno all’espressività “filologica e filosofica” sulle origini dell’umanità e dell’intero creato. Non a caso Sartre considerava effimero ogni costrutto in proposito: “Ogni desiderio di ritorno è precluso; non esiste possibilità di ritornare alla vita dopo la morte, non esiste possibilità di ritornare nel corpo della madre, non esiste possibilità di riappropriarci della nostra origine. L’esodo dell’esistenza esclude la chiusura del cerchio e impone un infinito senza totalità”. Dacché non resta che appellarsi a quell’ “…altrove cui ciascuno di noi può proiettare la sagoma del proprio desiderio impedendo alla realtà di sopprimere i nostri sogni”, come a voler carpire alla vita la linfa esperienziale che la fa grande, devoluta all’ ‘altro’ in quanto estensione di Sé; a quel Figlio spurio al quale, nel corpo effimero del reale si è donato, nel riscatto di quell’amore che ci ha insegnato l’esperienza traumatica del venire al mondo, e la perdita della vita che ne santifica il sacrificio costante, quel ‘finito’ proprio dell’avventura umana che pure contesta ‘ad infinitum’, nello scontro/incontro con l’esistenza stessa. Tuttavia qualcosa di più si nasconde fra le linee del testo, quel lavorio costante della memoria razionale che narra di un vissuto esperienziale, benché minimalista, di dolore pur nell’amore e dell’amore come nostalgia e rimpianto di una perdita che “La luce delle stelle morte” conduce inesorabilmente verso l’oblio senza possibilità di riscatto … “…ché d’aver dato l’aggio a Caronte, superata l’infernale sponda, consegna l’anima a quel Dio scontroso che di giudicar s’avvale, del bene e del male dell’umana vanità, del suo voler essere divino sopra ogni cosa, sulle miserie di questo mondo altero che di pianto ha gli occhi colmi di lacrime rapprese.” (GioMa) La fenomenologia cui accede l’autore proviene dalle fonti più eccelse in fatto di filosofia, di psicologia analitica del profondo, dell’inconscio individuale e collettivo, nomi quali: Arendt, Barthes, Benjamin, Freud, Derrida, Lacan, Sartre, Starobinski, Parmiggiani, Racalbuto e tantissimi altri. Qui ripresi da classici della letteratura antica e moderna, citati nella bibliografia di riferimento di ciascuna delle tematiche testate, relative al ‘lutto’ e alla ‘nostalgia’, per lo più afferenti ad argomenti consistenti la riflessione psicologica del lutto, la forma psicosomatica del dolore, la commozione, l’emozione, il pianto, il rimorso della perdita; così come il sogno, il desiderio, la visione dell’al di là, l’abbaglio di altri possibili mondi paralleli, il delirio schizofrenico dell’amore. Altrettanto valide risultano le considerazioni che riempiono le parole spese afferenti alla testimonianza di un qualcosa che è accaduto, dalla nostalgia dell’assenza alla separazione luttuosa, dalla perdita della persona cara, alla negazione della morte; dalla somatizzazione del dolore, all’oblio, al rimpianto, al sogno rivelatore di qualcosa che tuttavia persiste e ruota intorno a noi come rimembranza di una forzata ‘assenza’: “…vissuta come una perdita quando apre nella nostra vita una mancanza, quando si ripresenta presso di noi nella forma di un’assenza presente”. Il sogno, ad esempio, inquanto “riflesso di un’assenza da noi stessi” – scrive ancora Recalcati – riguarda tutti noi senza distinzione, relegato all’esperienza traumatologica del passato, che lo ha visto conferito alle divinazioni, alle visioni paranormali, ai miti cui è di riferimento e attribuibile alle premonizioni magiche, al lutto delle origini, alle disgrazie successive, come pure alla morte esistenziale e a quanto ne consegue. “Più che ambire a realizzare un effettivo compimento del lutto nel senso freudiano del termine, dovremmo piuttosto assumere che, se c’è un compimento del lutto, esso si realizza solo nel riconoscimento della sua impossibilità, ossia, detto in altre parole, che il solo modo di portare a compimento un lutto è quello di riconoscerne la strutturale incompiutezza.” Per quanto noi oggi ben sappiamo, ad esempio, che il “sonno della ragione genera mostri”, e che tutto questo è registrato nell’emotività e nella indeterminazione di certi soggetti psicolabili, all’interno dei sentimenti contrastanti che si riverberano nei ‘sogni oppressivi’ in cui i mostri generati s’affannano nella creazione di incubi angosciosi che ritornano assillanti a disturbare il riposo dei giusti, come anche quello dei morti e quindi al lutto esperienziale, così come la paura del vuoto e/o delle tenebre, del buio prossimo al dolore e alle privazioni annunciate come la pandemia e l’orrore per la distruzione finale, l’Armageddon, l’Apocalisse cristiana. Siamo qui messi di fronte a forme di culto apparentate con il folklore e studiate in antropologia, che nei millenni passati hanno determinato subculture talvolta violente, dispotiche e aggressive, insieme ad altre forme spaventose di credenze animiste credenti negli esseri spirituali che animano l’intera natura organica e inorganica cui vengono attribuite qualità divine o soprannaturali, presenti negli oggetti, in luoghi o esseri materiali, in parte inventati dalla creatività orrifica degli umani, e con effetti paranormali e talvolta paranoici che non sono presenti nel libro e che auspichiamo di trovare nel prossimo. Ovviamente non tutto è detto nelle pagine di questo libro chiarificatore quanto inquietante, né di quanto è detto nello spazio angusto di questa recensione parziale di un lavoro stracolmo di riferimenti e richiami letterari, con i limiti ovvi del lettore qual io sono. Per cui la scelta di una lettura siffatta, diventa ragione arbitrale di un percorso conoscitivo che va appunto “oltre”, ove la libertà di scelta diventa arbitrato di una motivazione, per una predilezione che posso definire ‘elettiva’ legata all’esperienza del lutto che tuttavia rimane una condizione dolorosa. Come pure scrive Roland Barthes, citato nel libro: “La sua morte potrebbe essere liberatrice nei confronti dei miei desideri. ma la sua morte mi ha cambiato , io non desidero più ciò che avevo desiderato. (…) Bisogna attendere che si formi un nuovo desiderio successivo alla sua morte”. Secondo Recalcati è questa: “… una condizione che colpisce chi resta e deve misurare la sua totale impotenza di fronte allo strapotere assoluto della morte. L’esperienza del lutto non riguarda però, come abbiamo visto, solo le morti fisiche di persone alle quali eravamo legati, ma accompagna necessariamente ogni separazione. Quanti addii, quanti abbandoni, quanti tradimenti, quante delusioni, quanti dolori si sono rivelati delle specie di morte che ci hanno imposto un tempo di lutto? Se seguiamo la lezione di Freud, dovremmo innanzitutto distinguere tra l’esperienza del lutto come risposta all’evento della separazione in quanto tale e quella del lutto inteso come … attraversamento sacrificale dell’esistenza. (…) L’esperienza del lutto come tale – prosegue l’autore – è una conseguenza diretta del trauma della perdita. Accade nei confronti della morte di una persona cara, ma anche di fronte alla fine di un amore, di un’amicizia importante, di un legame famigliare, di qualunque relazione sia stata per noi significativa.” Torniamo quindi a contemplare le “Vaghe stelle dell’Orsa” che pur s’accendono nel nostro cielo, ma questa volta lo facciamo in compagnia del nostro mentore Massimo Recalcati che nell’atto di sottrarsi all’apparenza, nel silenzio della solitudine avalla, sul filo del crinale, una remissione di colpe senza nemesi contro il giudizio inoppugnabile del passare del tempo, per una pace che ‘alla luce delle stelle morte’, altro non pare che l’equivalente indecidibile della perdita dell’anima a noi cara”.
L’autore. Massimo Recalcati psicoanalista lacaniano autore di saggistica, si è formato alla psicoanalisi a Parigi con Jacques-Alain Miller. Tra i più noti psicoanalisti in Italia, è membro analista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi e direttore dell’IRPA (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata). È stato direttore scientifico nazionale dell'ABA (Associazione per lo studio e la ricerca dell'anoressia e della bulimia) dal 1994 al 2002. Ha insegnato nelle Università di Milano, Padova, Urbino e Losanna. Oggi insegna Psicopatologia del comportamento alimentare presso l’Università degli Studi di Pavia e Psicoanalisi presso il Dipartimento di Scienze Umane dell'Università degli Studi di Verona.
Note: (“”) Tutte le virgolettature non sono di Massimo Recalcati, tranne quelle afferenti alle citazioni esplicite riportate nel testo.
Id: 915 Data: 20/05/2023 05:24:59
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- Libri
Gerd Gigerenzer - Perché l’intelligenza umana batte ...
Gerd Gigerenzer "Perché l’intelligenza umana batte ancora gli algoritmi". Raffaello Cortina Editore 2023 In ogni cultura, abbiamo bisogno di parlare del mondo futuro in cui noi e i nostri figli desideriamo vivere. Non vi sarà mai una sola risposta. C’è però un messaggio generale che si applica a tutte le prospettive: nonostante o a causa dell’innovazione tecnologica, abbiamo bisogno di usare più che mai i nostri cervelli. Iniziamo con un problema che ci sta a cuore, trovare il vero amore, e con algoritmi segreti talmente semplici che chiunque può comprenderli. “Il problema non è l’ascesa delle macchine “intelligenti”, ma l’istupidimento dell’umanità”. (Astra Taylor)
Id: 912 Data: 08/05/2023 14:45:05
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- Sociologia
Comunicare il futuro!? 6 Echi della comunicazione di massa
5 – Echi programmatici della comunicazione di massa. (Umberto Eco ‘affabulatore’ della comunicazione fantascientifica). L’attendibilità di quanto sopra enunciato trova un riscontro affascinante nel libro di U. Eco “La ricerca della lingua perfetta” (1963), sì da rasentare una vera e propria ‘avventura letteraria’ ai margini della Science-Fiction, all’interno del quale si fa riferimento a un ipotetico ‘Linguaggio spaziale’ che prende spunto dal progetto scientifico “Lincos”, una sorta di idioma elaborato dall’olandese H.A. Freudenthal (1960), afferente a “…poter interagire con eventuali abitanti di altre galassie”. Niente di più di una formula didattica commisurata a un codice matematico nel rispetto di regole date, per trarne una lettura a livello esclusivamente tecnologico.
Scrive Eco in proposito: “Lincos non è una lingua che aspiri a essere parlata, è piuttosto un progetto di come si possa inventare una lingua insegnandola nel contempo a esseri che presumibilmente avrebbero una storia (remotissima) e una biologia diversa dalla nostra. Progetto che H.A. Freudenthal presumeva di poter lanciare nello spazio in forma di ‘segnali elettromagnetici’ (per comodità si assume che siano onde radio di diversa durata e lunghezza), di cui non conta la sostanza, bensì la forma dell’espressione e del contenuto, […] fornendo così l’immagine di un linguaggio quasi esclusivamente “mentale” che porti a riflettere su un’altra discendenza, quella dell’antica ricerca sulle ‘lingue perfette’”.
“Sì che, cercando di comprendere la logica che guida la forma dell’espressione che viene trasmessa, gli alieni dovrebbero essere in grado di estrapolare una forma del contenuto che in qualche modo non dovrebbe essere loro estranea. […] Presumendo inoltre che gli spaziali abbiano una tecnologia che li renda capaci di ricevere e decodificare lunghezze d’onda, e che essi seguano alcuni criteri logici e matematici affini ai nostri. Dacché, passati a famigliarizzare gli alieni con una numerazione binaria che sostituisce la sequenza dei segnali, sarebbe possibile comunicare, sempre per ostensione e ripetizione, alcune delle principali operazioni matematiche”. (U. Eco op.cit.)
Presumibilmente il progetto “Lincos” risulta più interessante dal punto di vista antropologico-pedagogico che da quello glottogonico della ‘convergenza linguistica’, tuttavia, ce n’è qui per spingersi in un’avventura spazio-temporale sia scientifica che letteraria onde avallare ‘il sogno di una lingua perfetta’, in cui poter definire tutti i significati dei termini di un linguaggio naturale che consenta interazioni dialogiche ‘sensate’ tra uomo e macchina, e/o alle macchine di elaborare inferenze proprie dei linguaggi naturali che, non in ultimo, rientrano nell’interesse della ricerca contemporanea sulla ‘comunicazione’ e in quello specifico dell’Intelligenza Artificiale (I.A.).
“In I.A. per esempio – scrive ancora Eco – si cerca di fornire alla macchina regole di inferenza in base alle quali essa possa ‘giudicare’ della coerenza di una storia, e così via. […] La letteratura in proposito è assai vasta, divide i sistemi molteplici da quelli che presumono ancora la possibilità di una semantica a componenti elementari e/o primitivi, da quelli che forniscono alla macchina schemi di azione, o addirittura di situazioni (frames, scripts, goals). Tutti i progetti di I.A. ereditano in qualche modo la problematica delle lingue filosofiche a priori, e riescono a risolvere alcuni problemi solo con soluzioni ad hoc e per porzioni molto locali dell’intero spazio di azione di una lingua naturale.”
A leggere i suoi molti libri, si scopre che Eco, semiologo, filosofo, scrittore e saggista, era a sua volta un lettore appassionato di ‘Science-Fiction’, soprattutto di ‘fantascienza sociale’, quella che, tanto per dire, veniva pubblicata sulle riviste americane Galaxy e The Magazine of Fantasy and Science Fiction e che continua ad avere in molti scrittori contemporanei i suoi principali sostenitori. Eco infatti, attribuiva alla fantascienza un ruolo ben preciso, quello di trasmettere all'interno della “cultura di massa”, praticamente a tutti i fenomeni culturali (dai fumetti, alle canzoni, dalla radio alla televisione), con una sua visione progressista della società, di cui si era già occupato in “Apocalittici e integrati” (1964), fosse anche il più commerciale dei contenitori, come appunto l’informazione e la pubblicità, ingabbiate come sono in una formula edulcorante e d’intrattenimento.
È così che alla domanda se “una critica o una teoria della comunicazione di massa è (ancora) possibile? rispondeva: “Lo dicevo già nella prefazione del ’64: fare la teoria delle comunicazioni di massa è come fare la teoria di giovedì prossimo. […] È che il territorio si modifica, dal di dentro e dal di fuori. E se si scrivono libri – e si fanno teorie, aggiungeremo che – sulle comunicazioni di massa bisogna accettare che siano provvisorie. E che magari perdano e riacquistino d’attualità nello spazio di un mattino”. Allorché, a un’altra domanda su “che cosa s’intende per cultura di massa?”, rispondeva con riflessiva calma: “È un concetto generico e ambiguo con cui si finisce per indicare una cultura condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti ed elaborata sulla misura di tutti […] La cultura di massa è un mostruoso controsenso, è l’anticultura”.
Definizione quest’ultima che, se vogliamo, è autorevole quanto inaspettata, soprattutto per un semiologo a spasso coi tempi, attento alle variazioni linguistiche più sofisticate, che davvero non faceva sconti alla ‘fantascienza’ dai suoi esordi come scrittore di racconti. Vale qui la pena ricordare, ad esempio, che la sua prefazione al racconto “Le sirene di Titano” (1965) di K. Vonnegut Jr, uscito nella collana ‘Science Fiction Book Club’. Ne va dimenticato che nella sua raccolta di saggi “Apocalittici e integrati” (op.cit.), proponeva ai critici letterari suoi colleghi, una metodologia precisa per recensire i romanzi di questo genere, sostenendo che: "La fantascienza è letteratura di consumo, e quindi non va giudicata (se non per finzione snobistica) secondo i criteri applicabili alla letteratura sperimentale e di ricerca".
Ma chi erano, e tutt’ora lo sono, secondo Umberto Eco gli ‘apocalittici e gli integrati’?: “Sono quelli che a guardarli bene però sembrerebbero facce diverse della stessa medaglia”, aveva risposto precedentemente, durante una sua ‘Lectio Magistralis’ per il conferimento di una ennesima laurea honoris causa, con la sua solita faccia da gatto sornione. “Quelli che ci hanno abituato a teorie e analisi sociologiche che hanno la stessa volubilità e la stessa fretta con cui gli utenti danno vita a trend o codificano modi di stare sui social per poi dimenticarsene solo qualche giorno dopo, dimostrando intanto la natura teleonomica (finalismo insito nelle forme) degli ambienti digitali e, con loro, di qualsiasi prodotto dell’industria culturale”.
In un altro famoso saggio dal titolo significativo “I mondi della fantascienza”, apparso nella raccolta “Sugli Specchi” (1985), Eco scrive: "La buona fantascienza è scientificamente interessante non perché parla di prodigi tecnologici – e potrebbe anche non parlarne affatto – ma perché si propone come gioco narrativo sulla essenza stessa di ogni scienza, e cioè sulla sua ‘congetturalità’. La fantascienza è, in altri termini, narrativa dell'ipotesi, della congettura o dell'abduzione, e in tal senso è gioco scientifico per eccellenza, dato che ogni scienza funziona per congetture, ovvero per abduzioni." Lì dove ‘abduzione’, nell’accezione letteraria utilizzata dall’autore, sta per allontanamento da un prefisso o punto di riferimento della realtà.
Ma forse una breve delucidazione può essere d’aiuto per meglio definire la sua attività di ‘affabulatore’ della comunicazione fantascientifica, perché in realtà l’Eco scrittore non si è mai risolutivamente inoltrato nell’ambito della ‘Science Fiction’ tout-court, se mai, è stato piuttosto un encomiabile lodatore del genere ‘Fantasy’, (valga per tutti “L’isola del giorno prima” (1994), sebbene, in seguito, abbia cambiato la sua posizione, attribuendo alla fantascienza un più stretto legame con la ‘scienza’ vera e propria, limitandosi a riflessioni critiche, producendosi come scrittore confacente a questa materia. Invero il suo esordio narrativo è avvenuto proprio attraverso racconti di un certo rilievo via via raccolti in “Diario minimo” (1965), e in “Secondo Diario Minimo” (1992), che oggi rappresentano il segno della sua grandezza intellettuale capace di affrontare anche tematiche preminenti sulla “comunicazione di massa”.
La ‘comunicazione’, dunque, come trasferimento intenzionale dell’informazione culturale che Eco, nella lezione tenuta al Festival della Comunicazione di Camogli (2014), rapportava alla ‘semantica’ e alla ‘pragmatica’, attribuendone però la scarsa attendibilità, minata dall'uso della ‘rete’: “La funzione dei ‘gate keepers’ (influencer in marketing) è tramontata, non ci sono elementi di garanzia che vaglino le informazioni. Persino la funzione dei giornali si è ridotta; l'apparente libertà dell'utente coincide con il suo smarrimento. Comunicare oggi significa rendere potenzialmente noto a tutti ciò che si fa o ciò che ci si propone di fare. […] Per la prima volta nella storia dell'umanità, grazie ai ‘social network’, gli spiati collaborano con le spie. D'altra parte la comunicazione on-line ha sottratto grandi masse all'isolamento. Twitter ha aiutato i reclusi a far sentire il loro messaggio. Il chiacchiericcio di Facebook serve a mantenere solo il contatto, a prevalere è la funzione fatica del linguaggio”.
Linguaggio che già alla metà degli anni Sessanta Eco definiva ‘stanco’, le cui considerazioni, registrate nel suo articolo: “Cultura di massa e ‘livelli’ di cultura” (1965), richiamano ancor oggi al superamento dell’inefficace contrapposizione tra sostenitori e detrattori della cultura di massa, ponendo l’accento su una generale tendenza allo scadimento dell’intero “campo culturale” che, per rendersi sempre più accessibile al mercato, aderiva in misura crescente ai bisogni del ‘consumo culturale’. Ciò nonostante, pur criticandola, rammentava positivamente quanto affermato dal sociologo francese Edgar Morin in occasione dell’uscita del suo libro “L’ésprit du temps” (1962), in cui si valorizza la ‘cultura di massa’ per la sua “capacità di fungere da terreno di comunicazione tra classi sociali e culture diverse”.
Un’investigazione speculativa, se mi è concesso dire, su cui si è qui soffermata questa tesi, improntata sul preposto “Comunicare il futuro!?” – vale la pena ricordarlo – assumendo come punto basico le premesse scientifiche e le innovazioni tecnologiche (per lo più letterarie) che ne hanno permesso la realizzazione, per quanto le tematiche qui affrontate richiederebbero una più ampia analisi, proprio sul terreno specifico delle ‘divergenze’ e delle ‘confluenze’ tra la cultura di massa e le classi sociali, per una teoria generale delle ‘reti neurali’ (artificiali), che emulano le prestazioni cognitive operanti sullo sfondo del cambiamento in atto.
Come scrive Marica Tolomelli, storica contemporanea di cultura e società, nel suo eloquente saggio “Sfera pubblica e comunicazione di massa” (2006): “La storia della comunicazione è sempre stata animata dal ritmo della ricerca e dal contributo di tanti singoli studiosi che spesso lavorano in maniera del tutto individuale e indipendente, la cui opera non può essere colta se non quale contributo nel lungo e variegato processo di accumulazione del sapere. Così come i principali progressi nell’avanzamento di trasmissione della cultura di massa eminentemente rilevata dai preziosi momenti di dibattito e di confronto con la ‘comunità scientifica internazionale’, che da sempre funge da stimolo al progresso dell’umanità”.
Altro aspetto di grande interesse, non trattato in questa tesi, riguarda l’interattività dei processi informatici, i codici organizzativi delle informazioni, dei sistemi operativi e dei linguaggi di programmazione, l’elaborazione dati e i modelli di riferimento della ‘rete’ globalizzata, cui la ‘comunicazione’ fa da interfaccia nella distribuzione del sapere, ad uso e consumo della ‘cultura di massa’ per le sue capacità di raggiungere simultaneamente vasti pubblici nello spazio e nel tempo. Quella stessa che grazie alle scoperte della scienza e alle innovazioni tecnologiche, continua a trasformare l’opinione pubblica all’interno del dibattito socio-economico in conformità con i settori del commercio, dell’imprenditoria, della sanità, nonché nell’interesse dell’insegnamento culturale scolastico-universitario e delle arti applicate.
Scrive R. Piccolo in “Nuovi confini artistici” (2022): “È soprattutto l’intelligenza artificiale (I.A.) che si sta prendendo il futuro di tutto, anche le facoltà cognitive superiori finora considerate accessibili solo alla mente umana”. Ma l’I.A. potrà mai superare l’intelligenza umana?, ci si chiede tra l’incredulo e lo sbigottimento generale, come davanti a un’improvvisa opera di smisurata immaginazione, o di sconfinata follia.
Non c’è di che prendersela, l’I.A. non segnerà la fine della creatività umana, che pure rientra in questo specifico contesto. Tuttavia, per una possibile quanto imprevedibile lungaggine, preferisco sorvolare sull’argomento, che pure occupa un posto di tutto rilievo nella letteratura e nella storia delle art applicate: (cinema, TV, Design, ecc.). Vale comunque la pena di fare almeno un esempio. Arriviamo così al robot-killer di “Io, robot” (1982) dello scrittore di fantascienza Isaac Asimov. Né serve dire delle macchine che pensano da sole, o di quelle super intelligenti del tipo ‘Matrix’ o ‘Terminator’, benché in esse (incredibile ma vero) vengono descritte le “leggi della robotica che regolano il rapporto tra uomini e robot”, di cui la ‘scienza ufficiale’ (a ragione) non si è ancora occupata. Certi scenari vanno bene per quei programmi che possono essere chiamati ‘intelligenti’ solo nel senso molto ristretto algoritmicamente in grado di svolgere specifici problemi cognitivi, dando l’impressione di pensare realmente”. Ma se da un lato è improbabile che le simulazioni del nostro cervello, anche quelle più sofisticate in assoluto, siano in grado di produrre sensazioni coscienti; di fatto non è ancora del tutto chiaro se macchine del genere saranno effettivamente dotate di coscienza. Per quanto, macchine dotate di intelligenza di livello umano sono ormai all’orizzonte, pronte a sostituire l’essere antropico con le nostre ‘controfigure digitali’ in molte delle applicazioni manuali e tecniche virtuali, nonché alquanto creative con software di base molto sofisticati, cosiddetti TTI, (acronimo di Text-To-Image), considerate la vera avanguardia dell’arte digitale, ognuna con caratteristiche differenti dagli altri e addestrate per essere più performanti in certi generi di ‘machine learning’.
“In fatto di arte, ad esempio – scrive ancora R. Piccolo (op.cit.) – l’I.A, ha ‘creato’ nel vero senso della parola, qualcosa di radicalmente nuovo, passando dall’immaginazione individuale allo schermo del computer (pc) in un batter di ciglia. Si può non chiamarla arte, ma quello è il termine che per ora più ci si avvicina. A questo punto le potenzialità di sperimentazione sono letteralmente infinite, tanto più che è possibile addestrare le ‘machine’ con diversi database specifici e, in un certo senso, cambiare la ‘personalità’ al programma, affascinati da questa innovativa tecnologia digitale. Si è perso il monopolio della creatività, le ‘machine’ conquistano l’ultimo baluardo del cervello umano (?)”. La domanda che ci si pone è sempre la stessa dall’avvento della tecnologia che ha rivoluzionato il mondo e, come per l’arrivo di ogni tecnologia che soverchia i paradigmi che la precedono, non sembra sia giunta una sentenza che possa dirsi definitiva.
Possiamo pensare all’ascesa del TTI come per la nascita della fotografia meccanica, che un secolo fa, fu bersagliata da illustri critici che la consideravano ‘disumanizzante’. Allo stesso modo la fotografia digitale non ha estinto le illustrazioni umane, ma ha piuttosto ampliato i ‘luoghi’ in cui le immagini appaiono. Alla stregua dei generatori di immagini con I.A. si aprono possibilità tutt’ora incredibili, permettendo a tutti di dar sfogo alle proprie immaginazioni e crearne di nuove mai viste prima in una manciata di secondi. Va però detto che “non tutto fa il computer”, che l’I.A. non è nient’altro che uno strumento nelle mani dell’“homo faber” di ancestrale memoria, l’uomo che programma, elabora, predispone e che, secondo alcuni, andrebbe considerato addirittura co-autore di molta produzione che con qualche beneficio, si vuole chiamare ‘arte’.
F. D’Isa, artista, scrittore, giornalista e curatore d'arte (in R. Piccolo “Nuovi confini artistici” op.cit.), ravvisa in proposito: “Innanzitutto per padroneggiare l’uso dei software si dovrà avere buona dimestichezza col tutto il mondo visivo e iconografico del passato, perché i termini dell’algoritmo sono quelli legati a questo mondo. Per cui le competenze più importanti da considerare sono quelle che riguardano l’addestramento, quelle abilità più vicine all’ambito sociale o psicologico che in futuro dovrà riuscire a entrare in sintonia con la ‘macchina’ tramite competenze linguistiche e comunicative. L’intelligenza artificiale (I.A.) è la fine del mondo come lo conosciamo, non perché è davvero senziente nel senso che molti vorrebbero dargli, ma per il modo radicale di cambiare le regole del gioco, di spostare il modo in cui si crea (e/o ricrea) totalmente in un altro contesto”.
Come anche suggerisce G. Magini, programmatore e fondatore del progetto “Scrittura Industriale Collettiva” (2013): “In fondo potremmo pensare a questi programmi non più come delle ‘intelligenze artificiali’ che sfidano le capacità cognitive umane, ma come un alleato che espande i nostri confini cognitivi. Un potenziamento del nostro cervello. Una sorta di immaginazione aumentata che ci traghetterà al di là di noi stessi verso un nuovo, e ancora inesplorato, paradigma dell’intelligenza ibrida e della creatività artistica. In un luogo in cui uomo e macchina trovano una sintesi perfetta”.
Come in tutte le cose, anche osservando lo sviluppo di queste nuove tecnologie si può essere ottimisti o pessimisti, almeno stando all’insegnamento del campione di scacchi G. Kasparov – autore del saggio “Deep Thinking: Dove finisce l’intelligenza artificiale, comincia la creatività umana” (2019), ancor più che “…l’ideale è pensare al futuro con positività, auspicando una conciliazione tra il mondo dell’informatica e quello della creatività”.
Come dire che per raggiungere la dimensione auspicabile in principio di questa argomentazione bisogna almeno crederci, ed io, in quanto autore di questa tesi, fermamente ci credo.
Id: 908 Data: 27/03/2023 16:34:23
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- Sociologia
Comunicare il futuro!? - 5 Astropolitica
4 - L’informazione scientifica nella comunicazione dei nuovi media. (le conseguenze politiche della colonizzazione di altri pianeti in Harold Dwight Lasswell – “Astropolitica”)
Recita lo slogan: “La comunicazione al servizio della scienza, la scienza al servizio della comunicazione. (?)” Il punto interrogativo aggiunto a questa frase mi è subito sembrato d’uopo all’investigazione approntata in questa tesi, attinente – come vuole essere – alle finalità di una ricerca sulle Sciences Fiction (Sci-Fi). Un fenomeno più letterario che scientifico afferente al ‘metaverso’, qui inteso come spazio tridimensionale che altresì si rivela di una certa presa sull’“opinione pubblica”, la cui affermazione indeterminata, almeno nell’uso recente, sembra influenzare non poco le preferenze discrezionali in fatto di ‘informazione’ e di ‘comunicazione’, per una sorta di evasione necessaria dall’invadenza di una ‘globalizzazione’ che attanaglia.
Se si pensa alla creazione dei 'segni ideografici' che hanno distinto i popoli sumeri ed egizi all’inizio della loro civilizzazione o, allo sconvolgimento che vissero quei primi uomini analfabeti indagati da H.-C. Puech in “I popoli senza scrittura” (1978); e ancora, a quelle prime civiltà alle prese con l’avvento rivoluzionario della ‘stampa’, torna lecito pensare al messaggio esplicito e univoco che la semplice funzione del ‘comunicare’ può dare oggi, all’inizio del XXI secolo, col mettere in evidenza la rivelazione consolidata della nostra esistenza, alla certezza storica di quanto ha prodotto attraverso i millenni la memoria dell’intera umanità.
È quasi impossibile immaginare oggi un mondo senza scrittura, eppure è stato così finché, per una strana combinazione d’astri, gli agenti patogeni del ‘linguaggio’ hanno spinto l’essere antropico ad esprimersi proprio attraverso di essa. Chissà se in un prossimo futuro l’avviata costruzione di un ulteriore ‘medium’ che a noi sembra solo un’arida formulazione algebrica, non possa fornire l’unico linguaggio capace di accomunarci tutti in un solo idioma, riuscendo così a dare alle infinite forme della ‘comunicazione’ quell’univoca scintilla che la scoperta della particella di Dio ha dato alla moderna scienza?
“Ma chi erano questi antropici viventi dell’universo che di così avanzata scienza hanno fatto materia, rendendo reali gli allora inimmaginabili intelletti, dividendo l’ardore dal dolore e scegliendo per il tempo rimasto solo la bellezza? Avverrà mai quella che in un attimo si mostra come l’idea risolutiva, la combinazione perfetta e discriminante, rispetto a tutte quelle maggioritarie?” – si chiede per di più il matematico quantistico R. Maggiani (op.cit.), per poi affermare che “…dev’esserci pur stato un tempo in cui nel cosmo non c’erano cose umane, solo terra e l’inizio di un vasto oceano, ma che sotto il cielo della prima atmosfera ribolliva già una possibilità di vita tra le possibili combinazioni del reale”.
In quanto fonte di conoscenza che ha dato avvio alla capacità di trasmettere ‘informazioni’, l’attuale prerogativa della ‘comunicazione’ afferma l’universalità sorprendente dell’avventura umana, capace di diffondere inoltre alle ‘incognite’ terribili della guerra e alle brutture che ne conseguono (odio razziale, inimicizia sociale ecc.), inesauribili ‘messaggi’ di fondata positività (cooperazione, solidarietà, amicizia, pace), che pur si presentano alla nostra ragione come una sfida continua, alla quale non possiamo sottrarci. Ci sono tre condizioni essenziali all’origine della vita – come hanno evidenziato R. Shapiro e G. Feinberg in “La vita nel cosmo. Guida alle possibilità di vita al di fuori del nostro pianeta” (1985): “…disponibilità di energia (pura), capacità di usare la materia (massa cosmica), disporre di un sistema ordinato sulla misura del tempo (era geologica), abbastanza lungo da permetterci di realizzare la complessità del tutto”.
Ma se davvero abitiamo in uno ‘spazio espanso’ senza dimensione alcuna, dove il nostro essere si fa partecipe del presente, allora chissà se un giorno non lontano, saremo davvero partecipi di quel ‘futuro cibernetico’ che fin qui abbiamo solo sognato e che, seppure in parte, dovremo alla ‘quiescenza’ (inerzia, quiete), così come è stata tramandata dal vegliardo maestro cinese di scrittura Lu Ji che abbiamo appreso in “L’arte della scrittura” (2002) in cui si apprende, nel segno distensivo della 'pace quantica’, la forza in cui tutte le cose prendono forma: “Dal non essere nasce l’essere, dal silenzio, posto al centro dell’universo, lo scienziato poeta contempla l’enigma dell’esistenza” – egli scrive.
È dunque dal nostro attuale ‘non essere’ che estrapoliamo il nostro essere partecipi del presente? Forse sì, se vogliamo che esista davvero la possibilità (fiducia, aspettativa, desiderio) che un giorno, oltrepassata la soglia dell’esperienza del pensiero immaginativo sull’onda delle emozioni, potremo spingerci all’incontro con l’altro (abitante dello spazio alieno), e abbandonare definitivamente la ‘solitudine cosmica’ in cui finora abbiamo dimorato: “…acciò necessita costituire una sorta di ‘equivalente tecnologico dell’analisi matematica’, scrive V. Tosi in “Il linguaggio delle immagini in movimento” (2006), che ci aiuti ad attuare la trasformazione ‘dal quantitativo al qualitativo’, dall’ ‘analogico al digitale’, nel modo che più recentemente ha celebrato la ‘matematizzazione’ della scienza”.
Ciò che si individua è un approdo alla ‘comunicazione glocal’ (resilienza, slow-living, sostenibilità ambientale ecc.), verosimilmente realizzata in ‘rete’ dallo strapotere delle immagini ‘statiche e/o in movimento’: (carta stampata, cartellonistica, light-art, videogiochi, docu-film ecc.), che se da un lato condiziona in maniera determinante il mondo della comunicazione e dell’informazione, mettendo in seria difficoltà quelli che sono stati finora i processi pacati della ‘differenziazione’ e dell’‘integrazione’; dall’altro, con il moto vorticoso della dinamicità pubblicitaria, (successioni visive, aggressività grafica, affermazione invasiva del linguaggio) si verifica uno stravolgimento delle strategie di mercato preminenti che, in qualche modo, non lascia spazio al processo cognitivo della ‘mente’ (riflessivo), di assorbire l’insieme esorbitante delle notificazioni globalizzate con l’umana velocità intuitiva di apprendimento.
Dacché la percezione di un ‘vuoto conoscitivo’ (paura del nulla), ancora una volta generato – si è detto – dalla mancanza di una ‘governance’ che regoli la consistenza e l’affidabilità della ‘comunicazione scientifica’ sui media, altresì luogo di esplorazione e scoperta della scienza illuminata che la contempla (aeronautica, astronomica, cosmonautica ecc.). Ecco come una ‘convinzione mediatica’ strategica (status manageriale di profitto politico-economico), si trasforma in una ‘assenza totale di convinzione’ nel rapporto conoscitivo con il pensiero ‘astrofisico’ contemporaneo. Nondimeno, nell’immaginario collettivo, la prospettiva di una disciplina siffatta non riesce a stare al passo con le dinamiche più evolute, rilevate dai sistemi avanzati dell’integralismo scientifico (nichilismo?), in ragione del fatto che lo studio del cosmo è priorità della ‘scienza ufficiale’, per lo più riservata alle ‘entourage’ governative e finanziarie private.
Ne consegue che la ‘percezione visiva come attività conoscitiva’ del cosmo da parte della comunità quiescente, è pressoché rivolta verso quel surrogato scientifico più comunemente definito ‘fantascienza’, in cui le galassie sono considerate per lo più provincie dell’esclusiva investigazione letteraria e cinematografica. Ci si sofferma raramente a riflettere sul ruolo strategico dello spazio extra-atmosferico, ma si tratta di una sottovalutazione, ancor più che lo ‘spazio cosmico’ (Cyberspazio) ha assunto oggi un’importanza strategica cruciale, dal momento che la società umana è sempre più dipendente dai segnali che vengono trasmessi attraverso la complessa ‘rete dei satelliti’ che vorticano intorno al globo.
Sappiamo altresì che dallo spazio satellitare fluiscono i dati, le immagini e le informazioni che sorreggono l’impalcatura economico-finanziaria e sociopolitica del mondo, ed anche che esse possono offrire importanti vantaggi negli ambiti più disparati: dalle telecomunicazioni a distanza all’intelligence operativa, dal posizionamento astronomico alla navigazione di precisione, fino al comando e al controllo delle operazioni di difesa riservate all’uso esclusivo degli apparati militari. Anche qui la struttura giuridica che regola l’uso dello spazio entrato nel diritto internazionale è di fatto, ancora fondamentalmente ancorata al “Trattato sulle norme per l’esplorazione e l’utilizzazione da parte degli Stati, dello spazio extra-atmosferico, compresi la Luna e gli altri corpi celesti” – ratificato e depositato dall’Assemblea Federale Svizzera nel 1969, in presenza di un’alta rappresentanza di Stati sovrani.
Tuttavia, pur essendo stato dichiarato “patrimonio comune dell’umanità”, il Cyberspazio rimane uno ‘spazio franco’ (aperto, libero ma vago), navighiamo nel campo dell’immateriale, carente di norme specifiche che regolano i rapporti ufficiali tra gli Stati. Ma entriamo qui in un campo ‘altro’ che ha molto interessato il pensiero di H. D. Lasswell, teorico della comunicazione e ricercatore politico americano, membro della Scuola di Sociologia di Chicago, il quale in “Enciclopedia di Scienze Sociali” (1998), sostiene che: “Le democrazie hanno bisogno della propaganda per poter tenere i cittadini disinformati in accordo con ciò che la classe specializzata ha deciso essere nel loro miglior interesse”.
Ciò nonostante, il “Modello Lasswell” va ricordato per la definizione della teoria, ‘suggestionata sembra dalla filosofia freudiana’, apparsa in “Politics: Who Gets What, When, How” (1936), (“chi dice cosa a chi attraverso quale canale con quale effetto”). La cui ‘propaganda mediatica’, invero si sofferma sull’analisi della colonizzazione di altri pianeti e solo in seguito applicata alla politica americana dopo la seconda guerra mondiale, come modello di sviluppo del ‘behaviorismo’, poi divulgato in "Propaganda in the World War” (1927), un approccio sistematico al ‘comportamentismo cognitivo’ afferente alla comprensione del comportamento negli esseri umani e negli animali. Nondimeno il “Modello Lasswell” fornisce qui – in ispecie all’economia di questa tesi – un più ampio spettro della ‘comunicazione’ preposta a svolgere tre funzioni sociali della massima importanza, relative a: “ sorveglianza”, che offre ai ‘consumatori’ del dei media informazioni su ciò che sta accadendo intorno a loro (attualità); “correlazione”, riferita all'interpretazione e alla spiegazione da parte dei media di specifici eventi (cronaca, avvenimenti ecc.); “trasmissione” allorché i media trasmettono idee sociali e patrimonio culturale (eredità) alle generazioni successive di consumatori. Ciò al solo scopo di analizzare l’impatto e la credibilità che la ‘propaganda mediatica’, a fronte di una strategica ‘comunicazione di massa’ potrebbe avere sulle informazioni diffuse dalla tanto auspicata ‘governance’ di riferimento (imprese, aziende, governi e quant’altro), in cui l'entità comunicante sia intenzionata a influenzare il destinatario attraverso la messaggistica propagandistica, considerata ancor oggi un valido strumento di persuasione.
In termini generali, è quanto constatiamo oggigiorno nella formulata ‘comunicazione liminale’ (soglia di percezione) che possiamo anche definire ‘interstiziale’, cioè che si interpone tra gli elementi cellulari connettivi della comunicazione. Si tratta di un’esperienza ‘between’ (fra/ tra) che di solito si colloca in posizione marginale, o meglio ‘fra’ quegli interstizi della conoscenza, sintomatici e rivelatori, di cui raramente le scienze sociali hanno approfondito la ricerca. Un approccio se vogliamo inconsueto quanto innovativo che, paradossalmente riporta la ricerca sui valori dominanti e su quelli emergenti presenti oggi sui cosiddetti canali ‘social’ in evoluzione.
Ma veniamo alle possibili conseguenze della ‘colonizzazione’ elaborata da Lasswell, dove per ‘altri pianeti’ è ipotizzabile un riferimento più ampio di quello cui ci porta a pensare la nostra mente, bensì vista nella (impropria) ‘accezione’ di mondi possibili, dove il ‘metaverso’ apre alla frontiera del Cyberspazio e alle sue molteplici attività interattive, per offrire agli utenti un'esperienza immersiva in ambiente multidimensionale che combina virtualità e realtà insieme (interattività nei giochi, costruzione e ricostruzione di spazi, recupero dinamico di strutture ecc.). Quanto per l’appunto, accade nelle teorie di ultima generazione, come sostenuto da L. Paccagnella nel suo saggio “Sociologia della comunicazione nell’era digitale” (2020) in cui: “…il Cyberspazio rappresenta un elemento di novità forte e ben congegnato, utile a dare una dimensione più esaustiva a proposito della ‘rete’ in quanto luogo virtuale da vivere.
Mentre il ‘telefono’ e la ‘posta’ di stampo tradizionale permettevano un tempo di avere rapporti e contatti perlopiù tra persone che già si conoscevano, l’utilizzo di Internet permette di ‘conoscere’ una moltitudine di persone nuove. Diventa così possibile frequentare zone particolari della ‘rete’, dall’equivalente virtuale delle antiche ‘agora’, all’odierna piazza, con i suoi bar, i supermercati, e altri luoghi esclusivi, in cui è facilitato l’incontri che più corrisponde agli interessi personali, in fatto di gusto, di punti di vista, ragioni sociali e quant’altro. È forse questa una delle ragioni fondanti per cui il mondo del Web ha avuto così successo e fortuna, visto che forum, blog, social network e chat, consentono di mantenere vecchi legami e crearne di nuovi con persone che vivono e lavorano in luoghi distanti.
Ma il ‘fisico artificiale’ che si nasconde in ognuno di noi, non si è fermato all’apprendimento automatico delle opportunità offerte dal Web, si è spinto ‘oltre’. Viaggiando nel Cyberspazio ha misurato l’evoluzione degli strumenti di ‘comunicazione digitale’ (reti di computer, piattaforme virtuali) in senso marcatamente sociale e comunicativo, in grado di svolgere sia le funzioni normalmente attribuite ai mass-media tradizionali come la posta o il telefono, sia quelle dei mezzi di comunicazione più avanzati. La storia dei mezzi di comunicazione ci insegna che la televisione non ha sostituito la radio, così come l’ipertesto non ha fatto scomparire il libro stampato. Diciamo che si è creata una certa convivenza tra i differenti media, il più delle volte incestuosa e promiscua, ma non c’è stata una vera sostituzione, bensì un affiancamento che ha innescato vigorosi processi di trasformazione e di convergenza come quelli cui assistiamo.
Come anticipato dal sociologo M. McLuhan in “Il Medium è il messaggio” (1968), “…stiamo vivendo una ‘rimediazione’, cioè l’assunzione di un ‘medium’ come contenuto di un altro ‘medium’ applicato alle realtà virtuali odierne. Abbiamo visto come le caratteristiche elencate rendano il confine tra vecchi e nuovi media piuttosto sfumato e incerto. Essendo inoltre passato l’elemento di reale novità, si preferisce più spesso parlare genericamente di media digitali. È innegabile come oggi molti professionisti online siano diventati dei ‘creator’ digitali per continuare a promuovere il grande accrescimento di richieste per i vari ‘tutorial’, i corsi in video e contenuti di vario genere, incluso l’intrattenimento.
Tutto ciò sembra essere in linea a livello tecnologico con il resto d’Europa e con quanto avviene nel resto del mondo, cioè l’utilizzo di materiali audio-visivi con cui possiamo ribadire e sottolineare le nostre passioni e non solo. In prosieguo già si ravvisa l’ascesa dei ‘robot scienziati’ come “machine che pensano da sole, che forniscono assistenza matematica, che si sostituiscono all’operosità dei lavoratori in moltissimi campi di applicazione”. Il tutto volto a irrobustire e delineare le nostre competenze al fine di acquisirne di nuove, onde finora sembra sia valsa la pena l’aver valicata la ‘soglia’ del liminare, pur sempre riaffermando, se ce ne fosse bisogno, come tutto ciò risponde a una caratteristica consolidata e tuttavia ancora realizzabile del nostro vivere quotidiano.
La domanda sorge spontanea: Saremo mai in grado di fare dell’Intelligenza Artificiale una ‘macchina’ umana? “Un giorno avranno dei segreti, un giorno avranno dei sogni?” – si chiede I. Asimov in “Io Robot” (2004).
“Macchine dotate di intelligenza di livello umano sono ormai all’orizzonte – scrive Christof Koch in “Le Scienze” (2020). Tuttavia, non è ancora chiaro se macchine del genere saranno effettivamente dotate di coscienza. Perché è improbabile che siano in grado di produrre sensazioni coscienti come quelle in assoluto più sofisticate del nostro cervello”.
L’altra opzione è ‘desiderare’ di cambiare mondo, ove ‘sidera’ in astronomia prende luogo di stelle.
Id: 907 Data: 25/03/2023 16:44:04
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- Sociologia
Comunicare il futuro!? - gli effetti della comunicazione i
3 – La globalizzazione per un futuro sviluppo sostenibile della comunicazione. (problematiche e fabbisogni della comunicazione in rete)
Nello specifico, con quanto asserito nell’enunciato in calce, pur aderendo alle molte aspettative di una sterminata platea di utenti in costante crescita (editors, bloggers, divulgatori informatici, navigatori individuali, ecc.), si vogliono qui affrontare alcuni interrogativi che si identificano con la natura stessa della ‘rete’ che avvolge l’intero pianeta dei social network (Web, Internet, Twitter, Facebook, WhatsApp, Google, Instagram, Pinterest, ecc.) che, tuttavia, non rispondono alle numerose richieste pervenute da più parti, di dare forma ad una ‘governance istituzionale’ di controllo dei flussi informatici correnti tra l’emissione dei dati e la corretta circolazione dei traffici, nonché la veridicità scientifica delle info immesse e la possibile successiva alterità dei messaggi iniziali:
“Per cui l’illetterato dice allo scrivano cosa voglia dire, lo scrivano scrive cosa intende e cosa gli par meglio debba essere accaduto, il lettore del destinatario interpreta per conto proprio, e il destinatario illetterato a sua volta deforma, indotto a cercare criteri interpretativi nei fatti a sua conoscenza.” (U. Eco)…” Nonostante il mondo socio-economico-industriale presente sul mercato globalizzato interconnesso sembri operare all’interno di una ‘costituzione autoregolamentata’, in realtà non è così, non risulta a tutt’oggi aver colmato la mancanza di una seria normativa internazionale afferente a misure e consuetudini attuative disciplinate dal mercato stesso. Ancorché accompagnata da interminabili discussioni sul suo futuro sviluppo, considerato dai più come “un attentato alla natura libertaria della rete”, e piuttosto rivolta a “una contrapposta riduzione della sfera privata”, tutte le azioni fin qui svolte non hanno dato risposte concrete di attuazione, per cui “ogni ipotesi di arrivare a formulare regole di contenimento, vengono tutt’ora percepite come un inaccettabile vincolo”. A questo proposito, scrive S. Rodotà in “Il mondo nella rete” (2014): “Internet, il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto, è così divenuta la nuova dimora della mente”, cui abbiamo affidato l’intero scibile della conoscenza antropica, il nostro passato e il nostro presente, gettando le basi per un futuro sostenibile dell’informatica, improntata alla corretta gestione del sapere ineludibile della scienza in tutte le discipline che la compongono e la sua corrispettiva conduzione in rete, benché ripartita nei due aspetti costitutivi dell’ “informazione” e della “comunicazione”, contemporaneamente all’andamento di quella quotidianità estrinseca che ci permette di ‘guardare’ al nostro pianeta come il migliore dei mondi possibili. “D’altra parte - scrive ancora S. Rodotà - la progressiva crescita di Internet - vale a dire la sua sempre maggiore rilevanza sociale e politica - ha reso sempre più aggressiva la pretesa di alcuni Stati di far valere le loro antiche prerogative, considerando la rete come l’oggetto del desiderio delle sovranità esistenti. Ma nel mondo sconfinato della rete questa pretesa non ha ragione d’essere, in quanto gli Stati Nazionali (altri) cercano di far valere il potere, tutt’altro che residuale, di cui ancora dispongono, malgrado non possano stabilire una sovranità sul Cyberspazio. […] Questa distinzione tra una sovranità improponibile e un potere invadente mette in discussione una delle conseguenze che si ritenevano implicite nella negazione della sovranità – quella che potrebbe essere sintetizzata nell’affermazione della impossibilità, inutilità, illegittimità di qualsiasi regolazione di Internet. Un’impostazione che non conduce soltanto a una assoluta autoreferenzialità della rete, anzi alla conclusione che la rete non ha bisogno di stabilire relazioni perché essa comprende già tutte le relazioni possibili”. Si avverte qui la necessità – come si è detto precedentemente – di un ‘diritto inequivocabile’ che getti le basi per un “futuro sostenibile della globalizzazione” improntato sulla corretta comunicazione dei dati e dei riferimenti che la raggiunta dimensione individuata dalle innovazioni tecnologiche, aveva già ampiamente disvelato ed enfatizzato in maniera particolarmente evidente. Vale a dire, di affidare alle tecnologie informatiche il controllo delle reti sociali, con il compito di approntare nuove possibili azioni organizzative in grado di articolare le relazioni sociali collettive, comunitarie e transnazionali, sul modello più ampio della “comunicazione di massa” inteso da M. McLuhan come ‘Villaggio globale’ in “Gli strumenti del comunicare” (1964), onde ridefinire progressivamente l’uso della tecnologia nella redistribuzione del potere.
Quel potere, riservato in passato solo a grandi soggetti della società imperante (partiti, sindacati, chiesa, soggetti multinazionali), caratterizzato da una progressiva centralizzazione, cioè orientato al primario interesse di osservazione e finalizzazione di una visione soggettiva (privata, esclusiva ecc.), che oggi si vorrebbe spersonalizzato, ristretto, si fa per dire, alla dimensione di villaggio (pubblico-comunitario), quanto mai riduttivo della ‘visione globale’.
Che si tratti di un ossimoro (?), forse. Tuttavia rispondente a una visione che può sembrare una sopravvalutazione del ruolo della rete, ma che in realtà è successiva ad un uso massivo dei social che ha finito per destrutturare (Heidegger, Derrida) la scala valoriale – oramai obsoleta – della ‘comunicazione’ in essere, mettendone in luce i limiti, i vuoti e le discontinuità ideologiche, per aprire la strada a una sorta di ‘ontologia fenomenologica’ del linguaggio interattivo radicalmente rinnovato, strategicamente commisurato all’attuale interpretazione dei codici di autoregolazione della rete globalizzata, onde superare le clausole del ‘giudizio esperienziale’ precostituito e/o preordinato dal ‘sistema’ concettuale delle ‘teorie’ linguistiche preesistenti.
“Lo conferma l’avvento di una maggiore presenza tecnologica nell’informazione – scrive R. Maggiani, poeta e matematico quantistico, che, in “Spazio espanso” (2016) – in cui si vede accrescere una maggiore attenzione verso il fenomeno della comunicazione nel suo insieme e nella diversità delle sue applicazioni. In molti casi, alla conoscenza precostituita, definita ‘concettuale’ (radio, carta stampata, libro cartaceo, ecc.), si è andata sostituendo una nuova gamma di ‘linguaggi visivi’ (Visual Language, Visual Art ecc.), che hanno dato avvio a unità di riferimento più avanzate (Android, i-Pad ecc.) e che, in breve, stanno soppiantando tutta la conoscenza tradizionale”.
Sia delle prerogative che in passato erano state delle proposte socio-storico-linguistiche, quanto formative-educazionali di riferimento; sia inclusive di quei ‘linguaggi non verbali’ diversificati (gestualità corporea, tattoo, graffiti rupestri, geroglifici, sabbie colorate, ecc.), che delle forme di oralità (dal canto alla danza, dalla poesia alla narrativa). Sia dell’attuale scienza matematica (quantistica), che delle nuove tecnologie della ‘conoscenza’ (evolutiva) a cui tendono i più recenti linguaggi interpretativi dell’informazione che della comunicazione: “Fin dove la ‘ricerca’ applicata alla quantistica si avvale di formule algebriche, espressioni conformi, estrinsecazioni, come forme ‘altre’ di un linguaggio collettivo (nuovo archetipo) che diventa comunicazione divulgativa nel momento in cui ingloba e trasferisce quelli che sono i simboli della trasformazione in atto”.
Scrive ancora R. Maggiani: “La divisione tra mondo quantistico e mondo classico pur non sembrando essenziale, si rivela solo una questione di creatività sperimentale in-progress. Il tempo emerge dall’entanglement quantistico attraverso il processo di de-coerenza, ciò che nel vuoto quantistico oscilla a un passo dal reale. Se misurare con precisione aumenta un’incertezza, allora il mondo galleggia su un mare di probabilità, in quanto si propone come nuova forma geroglifica che va decifrata come possibile ‘archeologia’ che abbraccia ‘simboli’ e ‘fonemi’ in movimento, come note vaganti del loro divenire musica”. Per meglio dire che, nell’affrontare questa nuova sfida non sembri come avere davanti una scienza misteriosa fine a se stessa, che invece è frutto di una profonda ricerca scientifica che ha i suoi utilizzi in molte applicazioni nella didattica e nella divulgazione futura.
“Tra le possibili combinazioni del reale avverrà mai quella che in un attimo mostra l’idea risolutiva, la combinazione perfetta e discriminante rispetto a tutte quelle maggioritarie?” – ci si chiede di quel che più verosimilmente dev’essere stato il linguaggio parlato prima del suo divenire scrittura, cioè, ancor prima che l’archeologo J.F. Champollion mettesse insieme le ‘tecniche’, del tutto sconosciute, che lo portarono a decifrare la famosa ‘Stele di Rosetta’, con la quale si aprì una delle più importanti e fantastiche avventure della conoscenza umana. Sebbene i passaggi di una scoperta siffatta, sono oggi facilmente reperibili attraverso lo studio corrente della ‘linguistica’, la disciplina che per lungo tempo ha interrogato l’uso dell’‘orale’ fra le compagini umane, fonte di trasmissione attendibile che si serve delle parole (emissioni vocali diversificate), per carpire l’interesse di chi ascolta attraverso il (solo) senso dell’udito.
Dacché si denota lo scivolare in altre discipline che solo apparentemente sembrano disgiunte, per quanto una maggiore diffusione della ‘comunicazione interculturale’ le ha rese sorprendentemente connaturali. Come ad esempio quella sulla propagazione acustica: (studio dei suoni e dei rumori in versione stereo-mono e/o in quella della computazione digitale prodotta da fibre ottiche luminose) che, pur in ambiti diversi, stanno dando importanti risposte nelle applicazioni come la fisica, la medicina ecc., così come nelle telecomunicazioni (audiovisivi, messaggi in codice, traduzioni simultanee ecc.), correlative di una tecnologia avanzata che oggi permette di usufruire dell’‘alta velocità’, sia nella ‘trasmissione dati’ che nella navigazione in rete.
In particolare si è constatato che, facendo alcune comparazioni dei segnali linguistici (messaggi scritti e/o verbali) con altri suoni (segnali morfologici), si arriva alla forma ‘semantica’ allo stesso modo delle relazioni tra scienza del significato e lo sviluppo delle parole significanti; il cui studio, nella sua accezione corretta (degli effetti più o meno desiderati negli esseri umani), dà maggiore valenza al ‘comunicare’, in quanto convoglia in esso ‘un maggiore coinvolgimento di senso’. È così che, ad esempio, per ottenere una risposta adeguata, è necessario formulare in maniera corretta una debita domanda. Allo stesso modo che si palesa nel linguaggio attuale in uso sui ‘social’, un impiego diverso dello strumento della ‘semantica’, sì che varrebbe la pena riflettere sulla rivoluzione che ciò sta apportando nella ‘scrittura’ e nell’uso decurtato della ‘lingua’, così come nelle ‘comunicazioni’ in particolare e a quelle di massa più in generale”.
S. Rodotà nel suo “Il terribile diritto” (1981), mette sull’avviso che nel chiedere un ‘codice convenzionale’ che regoli la compilazione del messaggio veicolato attraverso il network WWW - World Wide Web e dai computer collegati, principio sul quale si basa questo tipo di allacciamento attraverso il mondo intero per l’appunto: “questo può essere letto a vari livelli interpretativi, specialmente alla luce dei rapporti interpersonali fra comunicatore e destinatario che sempre più spesso si trovano ad operare sulle piattaforme social, soggette talvolta ad interferenze (false info, fake-news, pubblicità ingannevole ecc.). È indubbio che la fallacia di una comunicazione diminuisce se si usano molteplici canali di informazione, leggendo e capendo il linguaggio utilizzato nella formulazione del messaggio perché scritto con parole difficili e/o visivamente artato e dalla provenienza dubitativa”.
Ma se le problematiche della comunicazione in rete non sono sempre individuabili e ancor meno superabili, la ‘globalizzazione’ in atto ha rivelato quali sono i fabbisogni per un suo futuro ‘sviluppo sostenibile’, non in ultimo quello di usare tutti i mezzi che il progresso tecnologico mette a disposizione. “La pervasività sulle reti sociali – scrive ancora S. Rodotà in “Privacy e Libertà” (2005 – attribuisce una dimensione nuova al rapporto tra democrazia (libertà di utilizzo, cittadinanza digitale), e diritti (diritto all’oblio, alla cancellazione dei dati personali), che rivela più che mai il bisogno di una tutela dell’anonimato e della neutralità; diritto alla riservatezza del singolo individuo di non essere fatto oggetto di pressioni, condizionamenti o limitazioni di sorta, e la garanzia di ‘non-dominio’ da parte delle ‘major’ che ne gestiscono il dominio”.
Altro aspetto molto avvertito sui blog, ad esempio, S. Rodotà insiste sulla rivendicazione del ‘diritto alla privacy’ fortemente legato al ‘diritto alla libertà’ come premessa necessaria per poter avvenire alle scelte sia individuali che collettive, di “…iscriversi a un partito politico, a un sindacato, frequentare una chiesa, adottare lo stile di vita e manifestare preferenze culturali senza che incorrere nel rischio di discriminazione o stigmatizzazione sociali, negando l’eguaglianza di cittadino in tutto identico agli altri, che si sia omosessuali, rifugiati politici, fedeli a un credo religioso, malati di Aids ecc., in quanto vi è un nucleo duro della sfera privata che deve essere rispettato”, in ottemperanza con quanto affermato dal sociologo per eccellenza Z. Bauman in “L’arte della vita” (2008): “La nostra vita è un’opera d’arte, che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no”, a cui mi piace aggiungere ‘che ci piaccia o no’.
Nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, accettata a livello internazionale, il ‘diritto alla privacy’ (data protection), occupa un posto ragguardevole nel sottolineare che non si tratta soltanto di restare chiusi nel proprio mondo privato, al riparo da occhi indiscreti, ma anche di potersi proiettare liberamente nel mondo attraverso le proprie informazioni, mantenendo però sempre il controllo sul mondo in cui queste circolano e vengono utilizzate da altri. Acciò bisogna piuttosto domandarsi quali sforzi facciano quei detentori della comunicazione della carta stampata (copywriter, redattori e giornalisti che ne fanno parte) e la controparte (autori e compilatori di una qualsiasi relazione scientifica), per essere compresi e stimolare la comprensione del ‘messaggio’ con un linguaggio più appropriato alla massa dei lettori.
Se oggi è difficoltoso interessare gli altri su certe argomentazioni, sarà sempre più difficile avvicinarli se non sapremo invogliarli a comprendere chi siamo, perché li stiamo intrattenendo, che cosa vogliamo da loro. Va qui ricordato che l’assenza di una diffusa sensibilità morale (deontologica) è ciò che fa crescere l’esigenza di un’etica più che mai legata ai nuovi linguaggi dell’informazione e della comunicazione. “Per sua natura, si è detto – scrive U. Eco in “Tra menzogna e ironia” (1998) – il lettore destinatario del messaggio, interpreta per conto proprio e sua volta deforma, indotto a cercare criteri interpretativi nei fatti di sua conoscenza. È una rappresentazione, efficacissima, di come per successive interpretazioni il messaggio venga decostruito e condotto a esprimere non solo ciò che l’emittente originale non voleva dire, ma forse anche quello che nel messaggio, come manifestazione lineare di un testo, commisurato a un codice, non dovrebbe forse dire”.
Quello che sembrerebbe un vademecum semplice ed essenziale per affrontare le sfide della società e della vita comunitaria che oggi strangola le economie nazionali con il cercare di sfruttare al massimo il potenziale creativo ed economico, come è pressoché detto: "Per offrire soluzioni ai problemi globali di oggi e migliorare domani la vita di tutti noi". Ma la crescita inarrestabile delle grandi metropoli, influenza e condiziona le nostre scelte di vita, sociali, comunitarie e globalizzate, trasformando le necessità in interminabili ‘blog’ sul futuro, in cui si tenta di spiegare a quanti, e sono moltissimi, pensano e scrivono come si possono trovare soluzioni ai problemi globali che noi stessi abbiamo creato (energetici, alimentari, economici ecc.). Anche se non si comprende con quali risorse potremo mai affrontarle, poiché “…l'umanità (tutta) si muove lungo una linea di confine tra l'anarchia della scelta e il mondo alla Disneyland”, scrive Christof Koch in “Il futuro delle Città” - Le Scienze: (2011).
Ma come ha lasciato scritto T. S. Eliot in “Four Quartets” (1943):
“Non finiremo mai di cercare E la fine della nostra ricerca Sarà l'arrivare al punto da cui siamo partiti E il conoscere quel luogo per la prima volta.”
Id: 906 Data: 24/03/2023 05:02:48
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- Sociologia
Comunicare il futuro!? - ricerca sociologica 3
Comunicare il Futuro!?
- Investigazione e cooperazione nella comunicazione: (l’organizzazione, gli strumenti e le tecniche)
La società globalizzata, caratterizzata com’è dal forte sviluppo delle nuove forme di aggregazione, si trova qui – pur nello spazio esiguo di questa tesi – ad occupare un posto di rilievo per le sue peculiarità sociali e culturali, proprie di un passato rivolto alla carta stampata che, in forma di libri, quotidiani, magazine, (forma scritta), si rivolgeva a un numero esiguo di popolazione. Ma è attraverso la Radio e la TV (forma dicta e visiva) che, successivamente, ha potuto espandere la sua diffusione alla portata di tutti, facendo quel salto di qualità che infine ha permesso di raggiungere quella visione amplificata dell’uso dell’“informazione” e della “comunicazione” che ci coinvolge tutti. Quella stessa società che si ritrova a utilizzare simultaneamente, inoltre a quegli stessi strumenti, le ultime tecnologie digitali a disposizione come: meta piattaforme, computer, cellulari, iPad, tablet, mezzi televisivi e radiofonici, emissioni satellitari e quant’altro, che hanno dischiuso (spalancato) ulteriori spazi di intervento alla ‘pubblica utilità’ e, contemporaneamente, in grado di mobilitare milioni di persone in ogni parte del mondo.
Ma in quello che potrebbe sembrare uno scontro tra fazioni, fra ‘detentori della conoscenza acquisita’ e ‘virtuali abitatori del cyberspazio’, si riscontra una certa equivalenza positiva di valori e meriti a sostegno di un ‘work in progress’ di un pubblico (utenza, consumatori) sempre più addentro alla ‘comunicazione’, sia nel trasferire ‘informazioni’ che nella ‘diffusione’ delle nuove tecnologie tra/fra le diverse piattaforme digitali; sia nel recepire e comprendere una moltitudine di ‘messaggi virtuali’, che stanno invadendo tutti i campi formativi ed educativi. Dando così luogo a un certo numero di problematiche fin qui inusuale, sia sul piano dell’utilità (temporanea) che su quello dell’efficacia (definita, stabile), in termini di ‘attendibilità’ nella comunicazione e ‘credibilità’ nell’informazione, in quanto surrogati delle forme di aggregazione più consuete, (movimenti, partiti politici, sindacati di riferimento, organizzazioni associative), che non riescono a trovare politiche economiche condivise.
Non in ultimo il problema inclusivo della strabordante affermazione pubblicitaria in tutta la sua multiforme varietà di applicazioni, (statica e tabellare, luminosa, in movimento ecc.) utilizzata per promuove prodotti di largo consumo e/o determinati ‘eventi’ che hanno una forte attrattiva sul pubblico, come mostre d’arte, spettacoli musicali e teatrali, sfilate di moda, avvenimenti sportivi, viaggi e turismo, ecc. che, all’occorrenza vengono offerti a milioni di consumatori, a loro volta suddivisi in differenti fasce di utenza, cui una distinta forma di ‘comunicazione’ si rivolge. Come, ad esempio, una maggiore offerta in fatto di prestazioni nei servizi pubblici, inoltre che a favorire la produzione e l’acquisto di vari beni di consumo, (mobili, immobili, auto, apparecchiature ed altri benefit), che ampliano le possibilità di innovazione di idee e favoriscono una maggiore occupazione al lavoro del capitale umano.
Si comprende pertanto come la gamma degli ‘strumenti di relazione’, peculiare della ‘comunicazione integrata’, sia tanto più ampia quanto è più esteso il campo di chi comunica (sponsor nazionali e transnazionali, provider finanziari, ecc.) che ripongono il loro interesse nel fare arrivare il proprio messaggio ‘in tempo reale’ alla più vasta utenza di consumatori, ma ed anche una più ampia conoscenza nella gestione tecnologica del futuro. Nonché l’efficacia del supporto tecnologico come opportunità a livello strategico, con altre forme di contatto (individuale e/o collettivo), derivata dall’attività coordinata dalla ‘ricerca di mercato’ (Marketing-mix); indipendentemente se indirizzata ad una fascia selezionata di servizi di qualche utilità pubblica, oppure di formalizzare un livello apprezzabile di utenza socialmente distinguibile nel suo insieme, efficace ed efficiente.
Di fatto con ‘comunicazione integrata’ si vuole qui intendere una sorta di ‘unicità nei comportamenti complessi e articolati’ che richiedono unitarietà dimostrativa verso l’informazione propedeutica alla cooperazione e alla collaborazione di quanti operano all’interno di essa: (enti pubblici, imprenditori aziendali, manager e appaltatori, impresari, ecc.), disponibili all’innovazione e al miglioramento di nuovi sistemi organizzativi, (nella scuola, nella sanità, nelle istituzioni più in generale, ecc.), affinché le molteplici iniziative messe in campo, trovino nella partecipazione, un’attiva quanto più necessaria corresponsabilità di consenso.
Va detto, che a una diversità organizzativa ‘globalizzata’ – scrive L. D’Abramo in “Mass-media e comunicazione” (2008), non può che corrispondere una ‘comunicazione’ sempre più interculturale, in ragione del fatto che deve necessariamente confrontarsi con la diversità formativa dei popoli e delle diverse culture educative: “Recenti studi hanno rilevato che tutte le culture devono confrontarsi con una serie di problematiche legate all’esistenza dell’uomo e al suo rapporto con la natura (proprio habitat), si trovano esempi di questi orientamenti sia nelle culture nazionali, sia in quelle proprie dei diversi gruppi etnici”, distribuiti su tutto il territorio geografico e raggiunti dalla ‘comunicazione satellitare’.
Spettano invero alla ‘comunicazione interculturale’ ruoli non secondari a supporto di una continua ridefinizione del proprio campo d’azione da parte delle organizzazioni, sia per favorire l’innovazione e il cambiamento nei diversi settori della gestione delle risorse, che nel rafforzamento dei percorsi trasversali, necessari ai ‘processi organizzativi’; sia per una maggiore integrazione della comunicazione interna verso l’esterno, che viceversa, a supporto della quale si è predisposta una rinnovata terminologia linguistica, largamente accettata, come base per lo scambio reciproco delle informazioni scientifiche e non solo; vieppiù ampiamente improntata a sostegno della cooperazione unificata (partnership), e della gestione delle risorse rinnovabili, a fronte di un futuro della ‘comunicazione’ più estesa e più sostenibile.
Nondimeno, inoltre a parlare di diversità organizzative in ambito sociale (ONLUS, ONG ecc.), vanno qui elencati anche quegli ‘orientamenti valoriali’ (patterns variable), che il fautore del ‘funzionalismo strutturale’ T. Parsons ha classificato esaustivamente, in “Il sistema sociale” (1965); cioè di quelle che comunemente chiamiamo ‘relazioni sociali di riferimento’ con “la gestione delle espressioni e delle emozioni, nell’interiorizzazione del modello sociale”. Un’alternativa di orientamento (e d’azione) in grado di aumentare la capacità di risposte adeguate alle preferenze date dalle esperienze in fase di costante cambiamento: “da ricercare nelle linee guida della ‘comunicazione interdisciplinare’, mirata a trarre vantaggi competitivi proprio dalle diversità (problem solving), che danno forma, attraverso un più ampio spettro di prospettiva di analisi, al processo cognitivo decisionale (decision making)”.
Un processo prioritario questo che, nel restituire fiducia a quanti operano nel settore (addetti, operatori, businessman), si rivolge alle aziende attive nei diversi settori industriali e a quei mercati (merceologici e non solo), che si misurano con le sfide del futuro, cui la “comunicazione interculturale” può dare un risvolto, economicamente valido, allo sviluppo dei rapporti interpersonali. Approfondire questo aspetto si è rivelato determinante nella riorganizzazione di diversi settori (aziendali, industriali, turistici, ecc.), con l’aver restituito ad essi quella vitalità ‘emozionale’ di cui avevano bisogno, come, ad esempio, negli scambi delle esperienze (utilità), alla partecipazione (consigli, istruzioni per l’uso, insegnamento), oltre a risvegliare la curiosità degli individui preposti, ossia il desiderio di sapere, di conoscere, come arricchimento del progresso sociale.
La ‘comunicazione’ dunque, come leva principale per lo sviluppo istituzionale (economico, sociale, professionale e culturale) d’ogni singolo paese e della comunità mondiale intera, con l’obiettivo di avviare un dialogo fattivo ‘in rete’ tra la folta community dirigenziale-imprenditoriale, tra:. top-manager, comunicatori, opinion leader, decision maker ed operatori delle strategie di mercato ecc., afferenti alle istituzioni, all’economia e al mondo dell’informazione sparsi per il mondo, al fine di elaborare, attraverso il confronto, incontri, convegni, workshop e quant’altro, onde ispirare iniziative socio-culturali e professionali nell’ambito di una imprenditoria sempre più eco-sostenibile.
Ma se l’adozione di specifiche applicazioni tecnologiche nella comunicazione intraorganizzativa ‘in rete’, in quanto frutto di un avanzato progetto che risponde a particolari esigenze organizzative tecnico-economiche, si presta ad una serena analisi sulla possibile convivenza tra specializzazione e integrazione nell’odierna organizzazione del lavoro imprenditoriale; ancor più la scelta di entrare nella ‘rete telematica’ diventa strategica, in quanto consente una più decisa penetrazione sul mercato (Internet), inoltre ad accrescere l’integrazione intraziendale (Intranet) e interaziendale (Extranet) tra le parti, quanto più offre la possibilità di estendere all’indotto quelle implicazioni informatiche che sono di supporto alle decisioni manageriali e alla formazione di tecnici specializzati in ogni ambito lavorativo; non in ultimo, di sviluppare la collaborazione e la cooperazione (groupware) tra i diversi settori dell’imprenditoria.
L’utilizzo di Intranet, ad esempio, permette agli appartenenti a una stessa organizzazione, l’integrazione con un ambiente più fattivo del lavoro, di conoscere, informare e interagire ‘in tempo reale’ con l’apparato manageriale addetto alla gestione del personale (house-organ, scambio di mail e newsletter, ecc.); nonché di migliorare i servizi rivolti agli utenti individuali (forza lavoro interna ed esterna); così come di ampliare le possibilità di collaborazione e lo scambio di conoscenze reciproche. Malgrado ‘entrare in rete’ comporti per un’azienda un ulteriore impegno economico e costi iniziali aggiuntivi, dovuti alla riorganizzazione e all’apprendimento del nuovo mezzo di comunicazione e di gestione delle rinnovate tecnologie acquisite, va considerato che ciò, nel medio-lungo termine, viene assorbito portando una maggiorazione dei benefici (benefit, welfare ecc.) da entrambe le parti interagenti.
“La ‘rete’ – suggerisce F. Maimone, professore di Marketing & Digital , nel suo “Dalla rete al silos” (2010), è il modello ideale cui le nuove organizzazioni dovrebbero tendere, per la rilevanza strategica nel management delle persone, delle relazioni, del capitale di conoscenza e, non in ultimo, per il successo delle nuove forme organizzative aziendali”, in quanto si offre possibilità di “innovazione, competitività, pro attività, che sono le “tre competenze distintive” dell’organizzazione imprenditoriale al tempo della globalizzazione. La base tecnologica degli algoritmi in cui prende forma la ‘rete’ (WWW) costituisce quindi la piattaforma virtuale su cui costruire i ‘linguaggi’ necessari al trasferimento del sapere formale in ogni organizzazione che guardi alla programmazione della produzione (manodopera) e all’uso della conoscenza (esperienziale) tra imprese che operano nello stesso ambito di lavoro, fondamentali nella condivisione di un sapere codificato.
Non di meno, permette all’azienda e/o all’impresa una forte riduzione dei costi nelle operazioni di ‘marketing commerciale’, oltremodo necessario per la condivisione della comunicazione e la cooperazione con altri enti e altri mercati. Infatti, grazie all’uso di Internet, i costi di ricerca delle informazioni e la scambio colloquiale (corrente e informale), si riduce in quanto procede attraverso uno strumento assai potente in grado di monitorare il proprio mercato sulla base della concorrenza e sul mercato globale. Inoltre, permette di ridurre i costi d’intermediazione eliminando alcuni passaggi interposti nella catena di distribuzione e/o di vendita (prodotti, servizi ecc.), come a fornire maggiore sicurezza nelle transazioni e nei pagamenti on-line operando più liberamente a livello nazionale che internazionale, senza dover stabilire interminabili e costose clausole contrattuali associate alle rispettive opportunità.
Con l’approdo all’Intelligenza Artificiale (I.A.), cui si è giunti grazie alle tecniche di programmazione integrata tra informatica e telecomunicazioni, siamo ‘di colpo’ proiettati “…al largo dei bastioni di Orione”, come è appunto detto nel monologo conclusivo di “Blade Runner” (1982), il film diretto da Ridley Scott, andiamo incontro allo spostamento della curva esponenziale dall’obiettivo ‘umano’ (influenza culturale), verso quello tecnologico del piano fisico (scientifico) rigorosamente matematico, a quello esclusivamente cognitivo della ‘fantascienza’, da non considerarsi più come un’astrazione della mente (passione), che pure in qualche modo sta cambiando il modo di concepire l’organizzazione sociale fin qui accertata, sia all’interno delle reti locali e/o private che all’esterno dalle reti geografiche extranazionali.
Lo sconvolgimento virtuale cui assistiamo con I.A. pertanto, è indicativo che qualcosa sta cambiando, che il prodotto accumulato di tutto il sistema informativo del sapere (comunicazione, linguaggio, messaggio) va ridefinito sull’esperienza del nuovo. Ciò che fin qui permetteva di ridurre la distanza, ad esempio, fra l’ ‘autore’ di un documento (non più idea, sviluppo, messaggio), e l’ ‘utente’ (lettore, ricettore, usufruente), sarà inevitabilmente multimediale e multidimensionale, fornirà principalmente un insieme di nuove ‘connessioni’ in fatto di collegamenti e nuove ‘relazioni’ a supporto dell’informazione, favorendo diversi gradi di libertà alla ‘comunicazione’ direttamente sul piano (desktop, lavagna luminosa, video olistico ecc.) dell’utente finale.
“Esiste uno spazio residuo per pensare a un possibile oltre?”, si chiede avvedutamente S. Mati nella riflessione critica a “Soglie: l’esperienza del pensiero” (2011) di F. Rella, per poi rispondere un secco ‘sì’, deciso e ultimo, quand’ecco che la volontà (di ricercatrice), mette in gioco lo spirito della sua avventura informatica e si appropria della sostanza creativa: “…la vita nell’apparenza come scopo, l’arte come unica attività metafisica dell’esistenza, la creazione che decide della verità, il mondo vero (reale) che diventa ambito leggibile del nostro futuro”.
(continua)
Id: 905 Data: 22/03/2023 15:30:52
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- Sociologia
Comunicare il futuro!? - ricerca sociologica / 2
Comunicare il futuro!? - ricerca sociologica / 2
1 - Un fenomeno sociale in costante evoluzione: (informazione e comunicazione nell’occhio dei mass-media).
“L’eccessiva quantità di informazioni può essere paragonata alla sua totale assenza.” L’affermazione alquanto emblematica è del teorico della comunicazione M. McLuhan apparsa in “Il medium è il messaggio” (1967), con la quale esprime una sua osservazione sull’influenza esercitata dai mass-media nella società a lui contemporanea. Quanto più valida oggi che la ricchezza delle informazioni (newspapers, magazine, agenzie di stampa ecc.); la varietà degli strumenti di comunicazione (radio, TV, social network, newsgroup, talk-show ecc.); gli innumerevoli dispositivi informatici (personal computer, installazioni multimediali, common, internet ecc.), se da un certo punto di vista rappresentano una piattaforma di scelte possibili (banche dati); dall’altro aumentano la problematicità di “accesso e dominio dello spazio virtuale” di competenza specifica dell’utenza che ne usufruisce.
Insieme indecidibile di una ‘visione ipotetica’ generalizzata, la ‘mente informatica’, in quanto non lascia spazio a un confronto adeguato alla velocità mimetizzante dell’intelligenza umana, assume sempre più spesso sembianza di “…complessità virtualmente filtrata del reale, in cui le interrogazioni si dispongono come la domanda le prevede e le sollecita ad essere”, scrive U. Galimberti in “I miti del nostro tempo” (2012), cioè sovrastata e destrutturata dalla sua stessa essenza. Dacché sorge la necessità di un ‘modello etico’ (protocollo) che regoli l’informazione, di pari passo alla comunicazione, per un uso più appropriato consono alle esigenze della massa utente.
Il problema, poiché di problema si tratta, è di tipo antropologico-conservativo, rispondente a quella stabilità organica psichico-fisiologica progressiva, cercata, raggiunta e accresciuta dal ‘consenso di omologazione’ (riconoscimento globalizzante) in atto, che trova fondamento nelle capacità umane di ‘intendere’ e di ‘volere’, per quanto queste vengano eluse dall’invasione spasmodica (inquietante) della tecnologia informatica. Ciò che, al tempo, rispecchia quanto affermato da J. Baudrillard autore di alcune riflessioni provocatorie sulla globalizzazione, apparse in “Società, politica e comunicazione” (2010): “Alla fine del processo (di integrazione) non si ha più la differenza tra il globale e l’universale scala dei valori. […] Anche l’universale viene globalizzato, la democrazia e i diritti dell’uomo circolano esattamente come qualsiasi prodotto globale, come il petrolio o come i capitali”. Affermazione con la quale si evidenzia il rischio di una latente inerzia di massa che i media dell’informazione e della comunicazione capitalizzano come ‘dominio precostituito’ all’interno della sfera pubblica.
Considerato il fatto che nella società tecnologica “informare” significa in primo luogo “comunicare”, oggetto di questa ricerca, di per sé non lascia spazio a dubbi o a recriminazioni di sorta sulla validità dello strumento utilizzato, in quanto il fine ultimo rimane l’utenza, ‘forza e sostanza virtuale dei mass-media’, indicativa di tutto quanto ad essa si rivolge; ancor più s’avverte la necessità di una maggiore ‘presa di coscienza intellettuale’ che corrisponda all’ “etica deontologica professionale” degli operatori del settore (giornalisti, pubblicitari, marketing-makers, producer ecc.), sia dell’informazione più in generale, sia della comunicazione privata (manageriale, aziendale, corporativa, ecc.), stante la pluralità di significati e campi di applicazione.
A tale scopo I. Montanelli, da quel comunicatore professionale che lo distingue, ha avallato una sua indubitabile persuasione, apparsa in “Il dover essere giornalista oggi” (1989), in cui riferisce le ragioni di una ‘deontologia necessaria’ che, pur non evitando gli errori che fanno parte del proprio lavoro, determina la validità della sua affermazione: “La deontologia professionale sta racchiusa in gran parte, se non per intero, in questa semplice e difficile parola: ‘onestà’, […] per cui si differenzia dall’etica perché accanto all’affermazione di principi affianca sanzioni per le eventuali violazioni. […] Ciò, per quanto gli onesti siano refrattari alle opinioni di schieramento – che prescindono da ogni valutazione personale – sia alle pressioni autorevoli che alle mobilitazioni ideologiche.”
Ma se l’assenza di una diffusa sensibilità morale, fa sorgere l’esigenza di una disciplina “Etica della Comunicazione” – come in effetti è richiesto dallo Statuto dell’Ordine dei Giornalisti – il format ‘Internet’, utilizzato, copre di fatto l’avvenuta globalizzazione in entrambi i settori dell’informazione e della comunicazione in generale, contribuendo a determinare (snaturandoli) quelli che sono i rapporti di potere (governi, banche, multinazionali), mai come oggi esigiti dalle politiche governative (sociali), dall’economia dominante (finanze) e dal mercato degli affari. Seppure – a mio parere – viaggia in netto contrasto con l’attuale manipolazione speculativa che se ne fa nel linguaggio quotidiano sui media.
Come quella, ad esempio, di monopolizzare la ‘comunicazione’ a un approccio surrettizio sia nella divulgazione dell’informazione pubblica, sia nelle forme della pubblicità falsamente differenziata, così come nell’uso smisurato della propaganda politica in fatto di ‘ambiente’ (eco-sostenibilità, bio-diversità ecc.). Valga per tutte, l’assistere incondizionato dello stravolgimento della terra, con cui, è bene ricordarlo, da sempre abbiamo instaurato un rapporto conflittuale (smottamento di montagne, deviazione di corsi fluviali, cancellazione di territori agricoli, boschivi ecc.), che ha segnato irreparabilmente il decorso degli equilibri ambientali naturali. Se ne constatano gli effetti nell’accadimento gravoso delle continue frane sismiche in molte aree geografiche del nostro paese e in quelle più recenti dell’area mediorientale, che richiedono l’intervento unito dei governi per soccorrere quanti sopravvissuti alle catastrofi.
Così come è accaduto in occasione della pandemia mondiale che ha colto le popolazioni impreparate ad affrontarla, e che ha richiesto alla scienza di misurarsi in una corsa folle, seppure coadiuvata da forti investimenti economici, a trovare soluzioni di tamponamento onde evitare una calamità progressiva di cui ancora non si conoscono gli effetti ultimi. Problematiche, queste, che si sommano alla caduta demografica (quantomeno prevedibile), causata dall’invecchiamento della popolazione che ha provocato un mancato incremento delle nascite. In aggiunta agli effetti della più grande emigrazione (pari solo a quella biblica) mai vista finora, di cui siamo prontamente aggiornati con reportage e immagini ‘in diretta’ e ‘on line’, anche grazie alle più recenti tecnologie satellitari messe al servizio della ‘comunicazione globalizzata’.
Tuttavia, superato lo scoglio delle criticità evidenziate, la ‘divulgazione informatica’ ha assunto importanza strategica nell’intero comparto dei sistemi informatici; così la ‘navigazione’ in Internet, unitamente alla quantità e alla velocità di diffusione ‘in tempo reale’ (email, posta elettronica, forum e community, siti e blog personalizzati ecc.), ha permesso, inoltre, di ottenere informazioni onnicomprensive un tempo inaccessibili, che hanno accelerato gli scambi interpersonali, favorito le politiche di cooperazione economica e sociale, procurato e convogliato risorse per la ricerca scientifica e la sostenibilità ambientale. Altresì di modificare e indirizzare significativamente le problematiche della solidarietà alle esigenze dello sviluppo sociale e, non in ultimo, la possibilità di attivare modelli economici di pianificazione degli interventi nazionali e sopranazionali delle politiche comunitarie; consentire l’interazione fra le strutture socio economiche degli stati globalizzati in fatto di politica estera, e la condivisione di soluzioni problematiche come – unico esempio – la conservazione delle specie viventi, umani compresi.
Tutto ciò richiede un’approfondita riflessione critica e quanto meno dubitativa sull’impatto provocato dalle nuove tecnologie sull’ “eco-sistema” dei gruppi sociali che, in quanto esseri umani, sono soggetti emotivi e quindi suggestionabili dagli eventi, di quanto accade inaspettato nella propria esistenza, piuttosto pronti a somatizzare psicologicamente in senso contrastante l’effettiva portata della tecnologia espansiva. Allo stesso modo rendendosi incapaci di elaborare nell’immediato risposte di prevedibilità fattiva che necessitano di un margine di tempo più dilatato. La difensiva contro il ‘nuovo che avanza’ vede in primo piano la difesa della ‘sopravvivenza’, ciò che pur rende l’umanità attiva e aliena nel soccombere alle incertezze della vita.
Come insegna Z. Bauman, il sociologo per eccellenza dei nostri tempi, in “La società dell’incertezza” (1999): “Se la società moderna esiste è perché ha ragione di esistere in logica della sua incessante attività d’individualizzazione, […] così come le attività degli individui consistono nella quotidiana (costante) riformulazione e rinegoziazione della rete degli obblighi reciproci. […] La società degli individui plasma l’individualità dei suoi membri e di quanti ne fanno parte, che danno forma alla società tramite le loro azioni vitali e il perseguimento di strategie plausibili e fattibili all’interno della rete socialmente costruita della loro dipendenza”.
Tale quindi la forza della ‘comunicazione’ sì da fare da tramite fra un’utenza sempre più attenta e la tecnologia più che mai innovativa, per quanto sia legata a un’indubbia ‘realtà sociale’ subalterna nella quale, abbandonati gli eventi e gli accadimenti che accompagnano il nostro vivere quotidiano, in effetti ci conduciamo. Tuttavia non trovo nulla di sconcertante, né di catastrofico nelle parole del grande sociologo, semmai una sorta di subalternità cosciente in contrapposizione con quanto in ‘realtà’ fluidifica nel nostro cosiddetto ‘libero arbitrio’, cui attribuiamo le nostre (dubitabili) scelte e/o la nostra (incerta) volontà individuale. Di fatto la metafora della ‘liquidità’ di tutto quanto concerne il vivere quotidiano coniata da Z. Bauman, ha verosimilmente marcato i nostri anni, entrando nel linguaggio comune per descrivere l’incertezza della società in cui viviamo. Tale anche, l’indagine conclusiva di “Modernità liquida” (2019), in cui l’autore mette l’accento sul ‘male oscuro’ che grava sulle future generazioni:
“Individualizzata, privatizzata, incerta, flessibile, vulnerabile, nella quale a una libertà senza precedenti fanno da contraltare una ‘gioia’ ambigua e un ‘desiderio’ impossibile da saziare”.
Desiderio che ha determinato “…una svolta apparentemente sconcertante d’una presunta ‘immortalità’ cui noi tutti tendiamo”; cioè la volontà all’autoaffermazione individuale, all’interno di una società resa ormai fluida, tendente ad uno ‘stile di vita’ che vorremmo più confacente al nostro tempo. E non solo, ma ed anche, propositiva di una ricercata solidarietà, nel rispetto di quella libertà che a volte pur ci distingue in quanto esseri umani, soprattutto quando opera in conformità con certi “...modelli standard imposti da forti pressioni sociali che - in ultima analisi – pure ci risparmiano da una tale agonia: grazie alla monotonia e alla regolarità di condotta raccomandati, imposti e inculcati dai mass-media”.
Ciò, per quanto come esseri umani arranchiamo nel “…procedere e ben di rado veniamo a trovarci privi di adeguate direttive, o che finiamo in situazioni in cui occorre prendere decisioni e assumersi la responsabilità senza conoscerne le conseguenze, rendendo così ogni passo, irto di rischi e difficile da calcolare”. […] Ne deriva un crescente sentimento di insicurezza sulla scena contemporanea – afferma inoltre Z. Bauman in “La solitudine del cittadino globale” (2008), per il quale “…l’identità è oggi come un vestito che si usa finché serve: sessuale o politica, religiosa o nazionale, precaria come tutto della nostra vita, di là dalla nostra intelligenza e immaginazione. [...] Il nostro mondo liquido-moderno è in continua trasformazione. Tutti noi – volenti o nolenti, consapevoli o no, che ci piaccia o meno – veniamo trascinati via senza posa, anche quando ci sforziamo di ‘calcolare l’incalcolabile’ o di rimanere immobili nel punto in cui ci troviamo”.
Si è qui di fronte a dover fare una scelta in termini etici e a valutare quali conseguenze aspettarci dall’informazione globalizzata, la cui pluralità di significati va oltre i termini posti dalle tecnologie avanzate, che richiede di continuare nella sperimentazione sia in ambito della ‘sfera pubblica’ che in quello della ‘comunicazione di massa’, al fine di riorganizzare il messaggio originale sociolinguistico e/o plurilinguistico dei ‘diritti’ e dei ‘vincoli’ che lo governano, e che va letto in funzione della didattica divulgativa integrata con le strutture avveniristiche socio-politiche, economico-tecnologiche con le quali si trova a interagire.
Il confronto coi sistemi comunicativi del passato, che a loro volta già avevano sollecitato una certa riflessione critica, è inevitabile; ancor più oggi che detti sistemi esercitano una grande influenza nei processi di formazione dell’“opinione pubblica”, parallelamente al configurarsi sociale delle nuove generazioni maggiormente sviluppate in tal senso. La percezione di tali mutamenti è riscontrabile nell’introduzione elaborata di assetti patogeni nei giovani con, come ad esempio nell’uso del linguaggio, nella gestualità ad esso legata, nei modi spesso impropri del dialogare, fortemente suggestionati dall’impiego sfrontatamente propagandistico d’una pubblicità fin troppo invasiva e dall’uso speculativo manipolato dalle più avanzate tecnologie.
Scrive Marica Tolomelli in “Mass media e opinione pubblica” (2006): “Sotto questo profilo i mezzi di comunicazione di massa assumono il carattere di stimolatori con cui distrarre, sviare dai propri autentici bisogni, facendosi strumenti di riproduzione dei rapporti sociali esistenti (reali non virtuali), vettori di un ‘ordine sociale’ (e/o disordine), inteso come normativo cui non è possibile sottrarsi. […] Il concetto di manipolazione non presuppone una dogmatica imposizione di valori, ma implica meccanismi (altri) di condizionamento indiretto sugli individui, sia rispetto agli orientamenti cognitivi, sia allo stile di vita, nei gusti che nelle preferenze, un condizionamento veicolato in primo luogo attraverso i mass-media”.
Sulle implicazioni sociali politiche e culturali che le nuove tecnologie stanno modificando nell’assetto della ‘sfera pubblica’ non è ancora possibile esprimere un giudizio complessivo attendibile, tantomeno di critica da parte di quanti s’improvvisano opinion-leader nell’affollamento programmatico dei talk-show televisivi, sulla carta stampata e nell’informazione sociale, benché assai numerosi risultano gli aspetti salienti riscontrabili nell’uso espansivo della “robotica” (cibernetica applicata), afferenti all’automazione industriale (medica, matematica, astronomica ecc.) ormai giunta a livelli stratosferici, su cui al giorno d'oggi la “comunicazione scientifica” ha esteso il proprio dominio.
(continua)
Id: 904 Data: 21/03/2023 17:16:27
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- Sociologia
Comunicare il futuro!? - ricerca sociologica
Introduzione / Abstract World Wide Web – “Comunicare il futuro!?”.
“… a voi che entrate nel mondo della modernità liquida”. Zigmunt Bauman
Nel modo d’essere concreti dell’odierno vivere sociale, si vuole qui investigare i legami teorico-virtuali che contraddistinguono e determinano l’andamento evolutivo del comparto dei sistemi informatici e delle incognite ad essi legate, prodotti dal rapporto costante con due miliardi e mezzo di fruitori che si avvalgono dell’utilizzo dei Social Network (World Wide Web), onde avallare un ipotetico quanto possibile “futuro sostenibile della comunicazione globale”, per lo più partecipe della Green Economy ambientale, sociale e ampiamente tecnologica, avallata oggi nel mondo.
Con la presente indagine si propone qui rilevare quelli che sono i rapporti tra ‘nuove tecnologie’ (digitali) e ‘future tendenze’ (virtuali) che più influenzano il mondo dell’informazione e i mutamenti vincolati ai sistemi di comunicazione, con uno sguardo rivolto alla transazione delle competenze relative, in fatto di ‘innovazione e opportunità lavorative’, ‘diritto di cittadinanza’ e ‘diritto individuale alla privacy’, ome sancito dalla European Union Charter of Fundamental Rights, in prospettiva d’una auspicata ‘governance transnazionale’ del Cyberspazio, includente inoltre, esempi diversi di ‘realtà virtuale’ che sussistono all’interno dei sistemi informatici. Ciò che – a mio modesto parere – reclama un necessario quanto tempestivo intervento nel riposizionamento equiparato della ‘comunicazione’ nella sua complessità integrata e globalizzata, che porti a un’adeguata produzione e diffusione della ‘conoscenza digitale’, corrispettiva della formazione multimediale in atto. Un “fare” questo, come scrive in “Il Contratto Sociale” (1762) J.J. Rousseau, padre nobile dei diritti dell’uomo e della politica moderna, che tra “grandi diritti e piccole libertà”, contrasti il sorgere di una possibile ‘disinformazione’ all’interno dell’informazione stessa e, viceversa, impedisca lo sconvolgimento della ‘comunicazione’ in essere, per lo più trasbordante di padronanze non sempre coadiuvate da approfondita conoscenza oggettiva.
Conseguentemente si ipotizza qui un’indagine (consultativa) di stampo antropologico prendendo spunto dallo studio di G. Giovannini “Dalla selce al silicio” (2000) che propongo come logistica d’insieme (ricerca di base), onde evidenziare l’intero ‘patrimonio conoscitivo ereditario’ (excursus antropico). Quindi facilitare la comprensione delle componenti configurative la ‘comunicazione’ in essere, per poi procedere attraverso i sistemi informatici di ultima generazione World Wide Web, e quindi finalizzare la Comunicazione Satellitare nell’ambito del più avanzato ‘concetto virtuale’ del Cyberspazio.
Sono fermamente convinto che la ‘cultura’ in quanto bene strutturale della società debba essere onnicomprensiva, effettuale del reciproco scambio linguistico avvenuto in illo-tempore che ha portato alla primaria ‘forma comunicativa’ all’origine della comunicazione, di per sé già ‘globalizzata’, in quanto afferente a quegli “Archetipi dell’inconscio collettivo” (1980) individuati da C.G. Jung, stanziali nelle diverse ‘rappresentazioni umane’ del passato e in tutte le attività di ‘trasformazione’ comunicativo-interpretative delle attuali società massificate.
“Comunicare il futuro!?” dunque, non solo come valore intrinseco di uno slogan, bensì premessa per riattivare lo spirito deontologico dell’ “informazione” in quanto ‘costitutivo di un diritto professionale’, onde attivarsi a un’adeguata “comunicazione di massa”, più che mai necessaria, nel rispetto di quei principi che ognuno (individuo, popolo, comunità, stato, nazione) ha assimilato nel corso della propria evoluzione culturale.
Che sia giunto il momento di pensare a un ‘sistema di diritti’ per il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto?, si domanda in “Il mondo nella rete” (2019) S. Rodotà, l’eminente promotore della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, alla quale, tuttavia, non è stata data fino ad ora una risposta applicativa. Per quanto, se vogliamo, è ancora possibile realizzare sostenendo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza, la Cultura e la Collaborazione fra le Nazioni (UNESCO), che sotto la dicitura “Patrimonio Culturale Immateriale” pur riconosce ad essa (Carta) un principio ispiratore fondamentale dello stare al mondo.
“È nello scoprire il fascino spontaneo dell’avventura comunicativa dei popoli che l’infinita ricerca di noi stessi si amplia di nuovi importanti capitoli che vanno ad aggiungersi alla macroscopica Storia Universale che noi tutti stiamo scrivendo.” L’Autore
(continua)
Id: 900 Data: 17/03/2023 17:01:42
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- Religione
Meditazioni di Don Luciano - Tempo di Quaresima
MEDITAZIONI DI DON LUCIANO DISSETARCI DI GESU’ III TEMPO DI QUARESIMA ANNO A
Dal Vangelo secondo Giovanni (4,5-42):
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samaria chiamata Sicar, vicino al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: “Dammi da bere”. I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: “Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?”. I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. Gli dice la donna: “Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande di nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?”. Gesù le risponde: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. “Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”. Le dice: “Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui”. Gli risponde la donna: “Io non ho marito”. Le disse Gesù: “Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”. Gli replica la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta!”… “So che deve venire il messia, chiamato Cristo: quando egli verrà ci annuncerà ogni cosa”. Le dice Gesù: “Sono io, che parlo con te”… La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. Uscirono dalla città e andavano da lui… Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: 2 “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”… Molti credettero per la sua parola e alla donna dicevano: “Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”.
1. In Gesù c’è la sete dell’incontro e della relazione. Gesù nell’incontro con la samaritana è uno splendido esempio di pedagogia. Intanto non si lascia condizionare da nessun pregiudizio. Di fronte alla samaritana, alla notizia dei cinque mariti, noi avremmo fatto solo discorsi moralistici. Gesù non gli dice: “Quest’acqua non è buona!”, “Gli amori umani sono solo cattivi”! Dice: “Se bevi quest’acqua, avrai ancora sete!”. La distanza tra la nostra sete profonda e i pozzi umani è incolmabile. Gesù non disprezza le gioie umane; dice solo che sono insufficienti. Non servono divieti e condanne. Bisogna aiutare le persone a passare da una piccola sete alla grande sete, da una piccola brocca abbandonata alla sorgente stessa. Solo l’incontro cambia la vita e non la legge. Gesù stabilisce con la samaritana un rapporto personale, è attento al suo vissuto, alla sua persona, al suo dramma, legge dentro la sua sete. Stabilisce con lei un rapporto nel modo più delicato possibile. Si presenta alla samaritana come un mendicante, come uno che ha bisogno. Si è fatto assetato per dissetarci. Si è fatto povero per arricchirci. “Colui che chiedeva da bere aveva sete della fede di quella donna” (S. Agostino). L’accoglienza di Gesù è già totale in partenza. La simpatia di Gesù è prima della conversione della donna. Questa simpatia previa dispone la donna all’ascolto. E’ pre-evangelizzazione. Ciò che colpisce in questo racconto è che Gesù stesso suscita e guida il cammino della donna, dall’inizio alla fine. Gesù prende la donna là dove si trova, prigioniera delle proprie attese, per condurla su un altro piano. Non è stato un incontro facile, perché la samaritana ha cercato in tutte le maniere di scansare Gesù, di svicolare. Intuisce la pericolosità di questo incontro. Poteva mettere in discussione tutta l’impostazione della sua vita. Finalmente le parole di Gesù sull’acqua viva, dopo vari fraintendimenti ed equivoci, suscitano nella donna la ricerca di quell’acqua. La tentazione di chi cerca Dio è sempre quella di rinchiudere il dono di Dio dentro le proprie attese. Ricerca in genere chiusa nel passato. Gesù la costringe invece a guardare al presente che tutto rinnova.
2. Il tema della sete e del desiderio è ricorrente in Giovanni: oltre all’incontro con la samaritana, ritorna nella festa delle Capanne (cfr. 3 Gv 7, 37-38) e sotto la croce: ‘Ho sete’ (Gv 19,28). “Il Signore ha sete della nostra sete. Ha sete che noi abbiamo sete di lui e desidera che noi abbiamo desiderio di lui” (S. Agostino). ‘Gesù ebbe una sete così ardente della sua fede, da accendere in lei la fiamma dell’amore’ (dal prefazio). Stanno di fronte due desideri! In ogni uomo c’è il desiderio di una vita piena. Gesù è venuto a ravvivare i desideri più profondi, spenti dalle delusioni e dalle paure. Spesso oggi abbiamo una sete ‘sedata’, anestetizzata. Si afferra il momento, l’attimo fuggente, il ‘frammento’, spremendo da esso il massimo godimento possibile, convinti che la sete vera tanto rimarrà inappagata. Consumismo fine a se stesso. Dobbiamo risvegliare la sete profonda, non anestetizzandola con l’illusione di non soffrire o con il pretesto di non far soffrire. Anestetizzando la sete soffriamo e facciamo soffrire molto di più. Gesù con la samaritana non ha fatto così. Non ha anestetizzato affatto la sua sete, anzi l’ha fatta venir fuori in tutta la sua drammaticità. Ciò che Gesù fa è suscitare un’attesa, perché lui possa colmarla.
3. Sete di vita. ‘Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna’. Come la samaritana, anche noi spesso viviamo una vita disordinata, confusa; portiamo nel cuore un grande vuoto che le tante esperienze della vita non hanno saputo colmare. Quanta insoddisfazione esistenziale, perché non troviamo ciò che cerchiamo e così veniamo puntualmente delusi! Spesso il nostro è un vivere ripetitivo e rassegnato. Ci accontentiamo della solita bevanda! Ci dissetiamo a ‘cisterne screpolate’ (cfr. Ger 2,13), che contengono solo acqua stagnante. Ma Cristo ci dona l’acqua viva, zampillante. Quest’acqua non solo disseta, ma purifica, libera dalla sporcizia e fa gioire. Solo Gesù spegne la nostra sete di vita più profonda. La sua è un’acqua di vita, fonte dell’eterna giovinezza. Se accogliamo Gesù e le sue parole, egli diventa per noi l’acqua che risana e rinfresca: ci porta a contatto con la vena interiore dell’acqua viva che zampilla nella nostra anima, ma da cui spesso siamo tagliati fuori. L’uomo è intasato, è separato dalla sua sorgente, in lui spesso non scorre più nulla, egli è come prosciugato. Se beviamo di quest’acqua interiore non ci seccheremo mai, non saremo mai vuoti ed esauriti. La sorgente che scorre in noi è inesauribile, perché è divina. E’ un’interiorità nuova donata dallo stesso Spirito di Dio. Questa sorgente è stata fatta scorrere su di noi dal Battesimo. Il fonte battesimale è il pozzo del nostro incontro con Gesù e del dono dell’acqua viva. La sorgente poi è acqua per la sete degli altri (persone-anfore, EG 86). Non è possesso, è fecondità. Non si placa la sete bevendo a sazietà, ma placando la sete degli altri. Quest’acqua disseta per la vita eterna, a cominciare da questa vita terrena. E’ un’acqua che ha sapore di eternità.
4. Sete d’amore. Una vita piena è una vita nell’amore. Nemmeno sei uomini riescono a soddisfare il desiderio d’amore di quella donna. Una vita irrequieta, una sete implacabile, che però non riesce a trovare la fonte giusta. La donna di Samaria – come noi – desidera un amore incondizionato. Nessun partner dà piena soddisfazione a questo anelito. Ha avuto tanti mariti, ma mai un vero sposo. A quella donna manca uno sposo e una compiuta relazione d’amore. Spesso sperimentiamo che il nostro amore è limitato, mischiato a esigenze di possesso, a gelosia, delusione, amarezza, o avvertiamo la limitatezza del nostro partner, e ne desideriamo uno che soddisfi davvero il nostro desiderio d’amore. Il nostro anelito infinito non può essere soddisfatto da uomini finiti. I sei mariti rimandano al settimo sposo, a Gesù, che ha un cuore per noi e che per noi sulla croce lascia trafiggere il suo cuore. Da questo cuore trafitto si riversa in noi il suo amore perfetto. Giovanni ci rimanda nel nostro desiderio di amore a quel Gesù che muore in croce per noi e che ci dimostra il suo amore fino alla perfezione (consummatum est). Sulla croce si fa visibile il soddisfacimento dell’amore che nelle nostre relazioni vicendevoli appare sempre e solo imperfetto. Gesù è lo sposo che compie in pienezza il nostro desiderio. 5. L’acqua viva è l’amore del Padre e del Figlio, che Gesù desidera donare a ogni uomo. La nostra sete è appagata solo se conosciamo l’amore del Padre per noi. ‘L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato’ (Rm 5,5). L’acqua che Gesù promette e che dona è lo Spirito, sorgente d’acqua viva che scaturisce dal cuore di ogni uomo. ‘Se tu conoscessi il dono di Dio!’... Se tu facessi esperienza di questo dono di Dio!.
“Essere cristiani è innanzitutto un dono, che però poi si sviluppa nella dinamica del vivere ed agire insieme con questo dono” (Benedetto XVI). Cristo è la Roccia da cui scaturisce l’acqua viva: ‘Bevevano a una roccia spirituale … e quella roccia era Cristo’ (1Cor 10,4). L’incontro con Gesù ha trasformato la samaritana in creatura nuova e l’ha abilitata a essere testimone ed evangelizzatrice. In Gesù ha trovato un di più, che fa impallidire la sua precedente ricerca. L’incontro con Cristo si fa contagioso, diventa testimonianza. Se il cristianesimo ha perso freschezza è solo perché noi siamo diventati dei recipienti vecchi, arrugginiti, incapaci di contenere acqua cristallina. “Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza!” (Is 12,3).
Id: 897 Data: 06/03/2023 06:37:06
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- Libri
Laura Caccia nuovo libro Book Editore
Laura Caccia … “fra la pagina e il suo doppio” in “La terza pagina” – Book Editore 2023.
“…straripa lungo i marciapiedi in un perimetro che ignora e sfiata sul vetro tra i fogliami fitti dei passanti […] la lingua svenduta / a stupire tra indirizzi in picchiata / non importa che ora dimori negli abiti in festa / nei suoi doppi / nei suoi retroscena / se continua a mentire e smentire”
L’ipotetico ‘incipit’ dell’autrice, va dicendo che è sempre possibile incontrare ciò che stupisce, se in presenza di un vuoto solo apparentemente incolmabile poniamo la soggettivazione di un’assenza che pure ci appartiene, abile nell’infliggere al candore luminoso della carta la grafia invisibile della nostra mente. È allora che il pensiero s’adagia inerte nel solco tracciato dello scrivere silenzioso, imponendo alla pagina il volere ‘altro’ dell’inquietudine che nell’imprevedibilità d’una esistenza artata, pur s’avanza nel dire l’indicibile che in noi trattiene il grido profondo dell’animo poetico, infinito come lo spazio tra la terra e il cielo, congiunto…
“fino a dove la parola / era caos che non ha finito di / scrivere il proprio / nome né provare a voltarsi / a specchio ustorio […] fuori c’è un mondo amato da cose / che non attendono i nostri nomi – soprusi di senso – abusi / o cura per ammansire il reale – mentre si esilia / puntuale la sciamatura in altra voce […] nel prima insondabile dei nomi – dove ogni pretesto /si inabissa – la pagina precipita in tale assenza sterminata” Ma se innegabile è l’operare che affronta la scrittura a illuminare le segrete profondità da cui emerge la creazione letteraria, è vero altresì che la parola diviene ascesi, forma privilegiata della condizione interiore di chi impone all’universo incommensurabile l’umana domanda sulla propria esistenza, il perché del qui e ora. Straripa al dunque la domanda nei “fuori pagina” sopraggiunta ‘anzi tempo’: se osare chiedere e/o pretendere, o forse solo reclamare quel diritto alla felicità che noi tutti vorremmo assaporare “tra la vitalità degli opposti e le connessioni casuali”, disgiunti come siamo dal bagliore inesausto della pagina bianca a nostra disposizione, e che riempiamo di “menzogne e smentite”…
“separa il foglio dai capitoli delle costellazioni – il / silenzio ai lembi – sui suoni in sospeso – vasti / improvvisi – per come si sbriciolano da un lato all’altro / dell’inizio […] andare a rotoli nell’indice sfatto – rovinando in aperto – con voce scarlatta – i riflessi a fuoco – la materia / estranea gli sfogli – fino a fare dei fogli il precipizio […] – farsi sangue del sangue cenere di cenere” Dacché il ‘grido’ della carta solcata si trasforma in un consenso di voci, in concettosità del verso stonato, in antivoce che si sprigiona alla ricerca di senso, “recto o verso”?, si appropria della mano che lo trascrive, da cui nascono pagine ‘altre’ che forse non volevamo, che ci parlano di etica e di spiritualità inconscia, forse egoistica di un sapere interiore che tenevamo nascosto a noi stessi. In questo ‘buio’ creativo l’animo poetico di Laura Caccia, intravede pagine su pagine su cui trascrive i suoi ‘perché’ i suoi ‘come’, i suoi ‘quando’, tralasciando i punti d’interrogazione in quanto contengono già le risposte che cercava nell’ambito di un vissuto che non poteva essere altrimenti, entrate di forza in quella “terza pagina” culturale che si vuole parli di conoscenza, o meglio di ‘bellezza’…
“manca poco – l’ombra non ha confini da qui – un / corpo estraneo – un altro udire e dire – tra le braccia / – per nulla e tutto – ovunque – ogni volta non detta […] nota a margine – spacca a metà il respiro – a tiro di / spasimo e scissione – lungo le fenditure che invoca – / il foglio tra poco – l’inatteso che muore a germoglio […] tutto l’altro in corpo – la minuta del sangue a parola / – tutto il caos preso sul serio – un desiderio ogni attrito / in gola – ogni detrito dentro la sua meraviglia”
Quella ‘terza pagina’ dove incontrare l’assenza del vuoto, dove la parola in trasparenza scolora, evapora nell’alito di vento che improvviso, insieme ai giorni negli anni, va sfogliando le pagine di un calendario strappandole dal muro, sollevate insieme alle foglie e alla polvere del tempo: “lungo i marciapiedi in un perimetro che ignora e sfiata tra i fogliami fitti dei passanti”, verosimilmente inconsci di dover scrivere, pagina dopo pagina, la storia; la loro come la nostra, che leggiamo increduli quanto meravigliati, di ritrovarci insieme, fra le righe ‘trascritte’ quale ‘visione poetica’, in questa “terza pagina” dai risvolti inusuali e concreti, onde proseguire a camminare, insieme…
“l’oscuro umano / scompone i corpi i sensi fradici i lutti / forse sangue alla terra / forse notte sottopelle / ancora strati di gioia come una città antica a memoria […] nei continenti che dormono negli altri che / ricondotti alla loro vertigine vegliano […] ora la pagina attende i suoi popoli insonni / i nostri nomi di strada / dirada a stenti / la sua apocalisse privata / negli strappi dal vivo / prove generali a bocconi / imboscate”
No, non aspettatevi di udire l’indicibile che nel secreto della mente si tramuta in pensiero, né di come la sintesi d’esso si trasforma in metamorfiche immagini visibili nel sogno; no “se non fosse per qualcosa / di incompiuto una / meraviglia vulnerabile / l’orma in bilico / sul corpo a diaspora […] la forma finita / sfinita […] la finità ci somiglia”. Laura Caccia ci invita a considerare ciò che siamo: siamo i nostri sogni, con le nostre paure, le nostre incomprensioni, con le nostre infinite domande rivolte a un’entità assente, che pure ci parla per assiomi inconfutabili…
È allora che “ostinandoci a scalfire parole – senza mettervi fine / scarnire l’incerto – tutto quello che resta aperto / incompleto – senza la sua parte migliore – è pagina adesso […] la cosa si ripete – ogni incompiuto parla con il fuoco / - il magma con il vuoto – la parte mancante rapina / l’occhio – trascina le labbra dove la pagina è muta”. Come muto è il silenzio, “la gratitudine del finito / l’inquietudine dei mondi”; muto è “l’occhio in ogni / brano di terra che ignora cosa resti incolume cosa / muoia; muta è “tutta la bellezza che riesce a sopportare […] un’impazienza di finitudine”. È forse questa la parola mancante che, al dunque, più impressa è nella nostra memoria inconscia che non vogliamo accettare, perché se apparentemente sembra a noi poco, sappiamo che nel suo ‘muto’ effluvio di competenza, ogni cosa si evolve nei mille volti-maschere “finite, non finite” che di volta in volta assumiamo all’occorrenza, senza distinzione, pur nella finzione di una rappresentazione degna di quel ‘gran teatro del mondo’ che svolgiamo costanti sulla scena, avidi di vita…
“così abbraccia il vuoto – sboccia copiosa – un istante / prima corrode avvelena – ricambia carnivoro il senso / - insiste insiste – migra musica in corpo – non esiste – esiste […] la pagina assenza ci divora – non c’è soglia né alcuna / desinenza – la scrittura imbarca luce al corpo – onora / il desiderio - il suono infine – tutto ha fine e tutto è nuovo”
Allora osare scrivere di felicità (?) non ha più ragione d’essere interrogata: “La pagina bianca dell’assenza indistinta ora sarà musica dal vivo. Sarà strappo e lacerazione. Terra fertile e sguardo sulle cose. Pronta a farsi abitare dal desiderio e disposta ad abitare il pensiero dell’abisso”, quello stesso desiderio che ci ha fatto incontrare l’autrice, Laura Caccia, nell’intimità segreta d’una verità indecidibile e per questo messa “fuori pagina” che invito a leggere per la sua forma inusitata, in quanto soggettivazione illuminata della sua presenza poetica. Una rivelazione dunque quella contenuta in quell’ultimo capitolo sulla felicità: “Osare…”, come per un ‘dono letterario’ che non è pensabile trascurare, dacché “parla dal limite. Dalla frontiera. […] come dal sentire di (quel)l’interezza” cui l’umanità tutta aspira, per una promessa che non c’è mai stata, ma che pure è là, “pronta a radicarsi nella vita, unirsi ad altre pagine e, al tempo stesso, disposta a sradicarsi, trovare radici…
…altrove”.
L’autrice: Laura Caccia, è nella Redazione della rivista “Anterem” e nel Consiglio editoriale di ‘Opera Prima’. Fa parte del Comitato di lettura di Anterem Edizioni e della Giuria del Premio “Lorenzo Montano” diretta da Ranieri Teti; è inoltre nella Redazione della rivista “Osiris” diretta da Andrea e Robert Moorhead – Greenfild, Massachuttes USA. Delle sue pubblicazioni vanno segnalate “D’altro canto” – Premio Lorenzo Montano Anterem Edizioni 2012; con “La terza pagina” è entrata nella terna dei finalisti al Premio “Elio Pagliarani” – Book Editore 2023
Note: “*” tutti i virgolettati sono dell’autrice Laura Caccia, tratti dalla silloge poetica “La terza pagina”.
Id: 896 Data: 25/02/2023 15:43:42
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- Cultura
Tempo di Carnevale - Maschere popolari.
Tempo di Carnevale: Maschere popolari. (Ricerca filologica di Giorgio Mancinelli tratto da ’Cantarballando’, un programma RAI Radio3 del 1982.
Storie di Cantastorie.
La tradizione più antica in Italia è indubbiamente quella cavalleresca che rivive nei testi degli spettacoli dei Burattini e del Teatro dei Pupi, nei dipinti dei carretti e nella recitazione dei poemi medievali, rappresentati in questi luoghi o sulla pubblica piazza dove il Cantastorie, seduto in mezzo a un cerchio di vecchi e bambini, gesticola con in mano una spada di legno e racconta le interminabili avventure o disavventure di questo o quell’eroe del tempo passato. Ma anche di altri relativamente più vicini a noi, come ad esempio le guerre di Carlo Magno, le cruente battaglie contro gli infedeli, le storie di Rolando e di Ruggero, di Astolfo sulla Luna ecc. che ha imparato a memoria e che sono, in parte, basate su poemi dell’Ariosto, del Boiardo, del Tassoni e molte di riferimento religioso desunte dalla Bibbia e dai Vangeli, e dalla vita di santi. Tutti, ma davvero tutti, attendono però con impazienza le scene di battaglia, nelle quali il Cantastorie, il viso distorto dalla furia del combattimento, taglia l’aria con la spada e spezza le parole in modo da accrescere l’interesse dello spettatore È fuor di dubbio che stiamo parlando di ‘leggende’ sorte dalla fantasia degli scrittori del tempo ma ancor più di una tradizione orale che più spesso era re-interpretata da cantastorie ambulanti e da quei cantori che talvolta le mettevano in musica con inserimenti di villanelle e strambotti, e gagliarde a ballo onde far divertire il pubblico che accorreva numeroso alle loro rappresentazioni. La fantasia popolare, in quanto essenza di credenze magico-religiose entrate nei costumi tradizionali, ha in origine contribuito all’affermarsi di un Teatro Popolare Regionale di cui le ‘maschere’ e i ‘mascheramenti’ rappresentavano la più espressiva delle forme d’arte. Ogni regione, almeno per quelle riferite all’Italia, ne possiede di proprie che mettono in risalto i caratteri dei suoi abitanti ed è rappresentativa dell’eredità di una più antica arte ludico-rituale. Molte delle ‘maschere’ qui di seguito presentate sono native di regioni diverse e relative a epoche più o meno recenti, tra il ‘500 e il ‘700. Addirittura alcune non nascono neppure come maschere a se stanti, quanto invece sono ‘caratterizzazioni’ di personaggi veramente esistiti, per così dire messi ‘alla berlina’, entrate in seguito nelle rappresentazioni di piazza e nel teatro dei saltimbanchi. Un teatro fatto di scherzi e lazzi, di burle salaci e di trovate in cui venivano presi di mira gli autori inconsapevoli di pettegolezzi cittadini; le deformazioni fisiche e i tic professionali di personaggi pubblici; come pure i rappresentanti di questo o quel mestiere e ovviamente i chierici e i prelati, tutti visti, neppure a dirlo, attraverso la lente caricaturale. Ma se il teatro o comunque la scena rappresenta il luogo deputato per la rappresentazione in maschera, la piazza (quella piazza universale di cui si è già parlato in altro articolo), e indubbiamente la stada cittadina comprensiva dell’intero ‘paese’, è al dunque il prototipo umano forgiato dalle chiacchiere della gente che vi abita. La tradizione, infatti, riconosce in questa o quella maschera il personaggio archetipo della singola regione. È così che con ‘Geppin e Nena’, due maschere contadine genovesi risalenti al XVI secolo, approdiamo In Liguria, terra di marinai ma anche di coltivazioni terriere di cui entrambi sono rappresentativi e che ritroviamo durante il Carnevale a passeggio per i paesini liguri accompagnati dal suono della ‘piva’ (sorta di zampogna) e che recitino filastrocche satiriche indirizzate ora a questo ora a quel cittadino più o meno noto. ‘Geppin’ indossa un corpetto scarlatto sotto la giacchetta di fustagno color nocciola o di velluto verde; calzoni corti di velluto nero, le uose (scarpe) alla contadinesca e in testa un cappello di feltro a falda larga. ‘Nena’ vestita secondo l’uso contadino ama adornarsi di molti monili d’oro e d’argento e, durante il Carnevale completa il suo abbigliamento con un parapioggia. D’origine ligure-piemontese è un ‘canto narrativo’ dal titolo ‘Ghe n’ea de tre fighette’ conosciuto anche come ‘La pesca dell’anello’ desunta da quella raccolta ben più lunga del Nigra:
«Ghe n’ea de tre fighette inscia riva du mar. / A ciù bella l’è a ciù picina s’è missa a navegà. / In to mentre ch’a navegava, gh’è cheitu l’anello in mà. / O pescator dell’onda, vegnilu in po’ a pescà. / Quando l’avrò pescato, che cosa lei mi darà?/ Darò trecento scudi, e una borsa ricamà.»
Con ‘Meneghino e Cecca’, due maschere milanesi del Seicento siamo invece in Lombardia. Per la tradizione Meneghino è ‘povero ma con il cuore in mano’. Si vuole che il suo nome derivi da Domenichino, nome dato alla servitù in servizio la domenica ma, più probabilmente, dal più antico Omeneghino. Indossa una casacca verde orlata di rosso, pantaloni e scarpe nere, calze a righe bianche e rosse, parrucca e tricorno. Secondo Amina Andreola studiosa del nostro teatro regionale: “La sua comicissima maschera un tempo indicava il contadino inurbato, ignorante, bonario e pieno di buon senso ma ancor prima il servitore devoto, prudente, con un pizzico di spavalderia.” Ma che, rivisitato al giorno d’oggi è riscontrabile nel franco e dinamico tipo del milanese ‘faço tuto mi’. L’affianca di solito la moglie ‘Cecca’ ,sorta di popolana irosa e linguacciuta che lo mette spesso in difficoltà davanti agli altri e, non in ultimo, lo rincorre spesso con il matterello da cucina per picchiarlo. Tuttavia Meneghino, con il suo buon carattere, in fine riesce a domare non senza qualche lamentela da parte di Cecca, finché la pace comune non è ristabilita. Con ‘La cansiun busiarda’ si intende qui dare un tipico esempio della popolarità di certe maschere che in realtà sono più ‘costumi’ che mascheramenti in quanto esse non indossano una vera e propria maschera facciale ma il loro lato comico sta nella frivolezza dei loro costumi multicolori, nei modi del loro parlare desunti dalgli usi dialettali, nella gestualità tipica del teatro della Commedia dell’Arte, in cui la ‘bugia’ era di rigore, all’origine di tutta la confusione proverbiale che ne derivava sulla scena:
«E chi vol sentì, canté, sentì canté / l’è la cansun busiarda / larilalalà, larilalalà / l’è la cansun busiarda. / Sun pasà ‘nt un pais ‘nt un pais / viviju a la gruséra / larilalalà, larilalalà. / J’éra ‘l fèn ent i butai ent i butai/ e ‘l vin su la finéra / larilalalà, larilalalà. / E le fje j’eru sel giuch / e le galine filavu / larilalalà, larilalalà. / L’àn butaje la ruca al béch / e ‘l fus en més le gambe / larilalalà, larilalalà. / J’éra ‘l prèivi ‘nt el pursil ‘nt el pursil / e ‘l crin cantava messa / larilalalà, larilalalà.»
In Piemonte troviamo i noti ‘Gianduia e Giacometta’ nativi di Caglianetto (Asti), inizialmente noti come burattini. Trasferiti nella cittadina Torino diventano maschere del Carnevale. Conosciuto nell’uso dialettale come ‘Givan d’la donja’ ovvero Giovanni del boccale è così detto perché gli piace il vino, e che qualcuno dice: ‘anche un po’ troppo’, per dire che è un ubriacone. Gianduia dal viso aperto, pienotto, ridanciano, col naso volto all’insù, veste il costume originale di Caglianetto consistente in un giubbino di panno marrone orlato di rosso, calzoni al polpaccio di panno verde e calze rosse. In testa ha la parrucca nera tirata all’indietro che finisce col codino, sotto al tricorno verde, il cappello indossato nel torinese alla fine del Settecento. Caratterizzazione del galantuomo tutto cuore, integerrimo ma generoso, difensore dei deboli e degli oppressi, talvolta un po’ stordito e linguacciuto ma bonario. Esempio tipico del robusto contadino piemontese, ingenuo quel tanto che basta, amante dello scherzo, dello scherno a fin di bene, come del buon vino e delle ragazzotte. È qui in Piemonte che si tramandano canzoni e filastrocche note fin dal secolo XV°, come quella riportata qui sotto dal titolo ‘La bergera’:
«A l’ombretta del bussòn bela bergera l’è andurmija, / j’è da lì passò ‘n très joll franssè / a l’ha dije: Bela bergera vòi l’eve la frev. / E se vòi la frev farai fè na cuvertura, / còn al mè mantel ch’a l’è còsì bel, / farai fè na cuvertura passerà le frev. / E la bela l’ha rispòndù:/ Gentil galant fè ‘l vostr viagi, / e lasseme ste còn al mè bergè, / con al sòn dla sòa viola ‘n farà danssè.»
Ed ecco giungiamo nella ridente Toscana dove incontriamo ‘Stenterello’ un po’ narciso un po’ giocherello di se stesso. Maschera del teatro popolare fiorentino conosciuta appena nel XIX° secolo, rappresenta il popolano piccolo borghese, tra il furbo e lo sciocco, ma buono e incredibilmente giusto. Sua principale caratteristica è l’agile e colorito uso della lingua fiorentina infiorata di frizzi e frasi boccaccesche. Così ad esempio egli definisce le donne:
«Donna ciarliera e bizzosa, è peggio d’ogni cosa./ Donna che parla poco, nasconde in seno il foco. / Donna che parla assai, non ti fidar giammai. / Donna muta e silente, peggio di un accidente.»
Stenterello ha fronte spaziosa, volto biaccato con sopracciglia allungate col nero di sughero bruciato che le rende arcuate e folte, al pari delle maschere più antiche. Indossa una zimarra di stoffa blu, un panciotto verde o giallo canarino, braghe nere e calze diverse, una turchina e una gialla, oppure una a tinta unita e una a righe, scarpe basse con grande fibbia e il tricorno sulla parrucca bianca. Alla Toscana è legata uno stornello amoroso dal titolo ‘La mamma ‘un vole’:
«Ho seminato un campo d’accidenti / se la stagione me gli tira avanti / ce n’è per te e per tutti li tu’ parenti. / La mamma ‘un vole, ‘un vole, ‘un vole / che io faccia l’amor con te / ma vieni amore quando la mamma ‘un c’è. / Ho seminato un campo di carciofi / giovanottino mi son bell’e nati / carciofi come te ‘un so venuti. / So’ nata per i baci e voglio quegli / come l’innamorati se gli danno / gli voglio sulla bocca e sui capelli / poi chiudo gli occhi, dove vanno, vanno. / E a me mi piace ‘l fischio del motore / perché il mio amore gli era macchinista / mi buggerava e ‘un me ne ero avvista. / E a me mi piaccion gli uomini biondini / perché biondino è l’amore mio / biondino lui moretta io / che bella coppia che ha creato Iddio. / E a me mi piaccion gli uomini fustini / perché fustino è l’amore mio / fustino lui piccina son io / che bella coppia che ha creato Iddio.»
Fra le maschere legate ai costumi popolari del Lazio spicca il romano ‘Rugantino’, una sorta di bravaccio di rione intelligente e coraggioso, sincero e patriottico, si vuole discendente da quel Miles Gloriousus di Plauto già entrato nella commedia antica, forse anche dal grottesco Manducus, a tratti sprovveduto e nullafacente, innamorato della popolana ‘Nina’ alla quale più spesso dedica la sua serenata. ‘Nina si voi dormite’ conosciuta come canzone d’autore è forse quella rimasta nel repertorio più a lungo di tutte le altre:
«'Nde 'sta serata piena de dorcezza / pare che nun esisteno dolori. / Un venticello come 'na carezza / smove le piante e fa' bacià li fiori. / Nina, si voi dormite, sognate che ve bacio, / ch'io v'addorcisco er sogno / cantanno adacio, adacio. / L'odore de li fiori che se confonne, / cor canto mio se sperde fra le fronne. / Chissà che ber sorriso appassionato, / state facenno mo' ch'ariposate. / Chissà, luccica mia, che v'insognate? / Forse, chi canta che v'ha innamorato. / Nina, si voi dormite, sognate che ve bacio, / ch'io v'addorcisco er sogno / cantanno adacio, adacio. / Però, si co' 'sto canto, io v'ho svejato, / m'aricommanno che me perdonate. / L'amore nun se frena, o Nina, amate, / che a vole' bene, no, nun è peccato. / Nina, si voi dormite, sognate che ve bacio, / ch'io v'addorcisco er sogno / cantanno adacio, adacio. / L'odore de li fiori che se confonne, / cor canto mio se sperde fra le fronne. »
Il costume di Rugantino ha però origini settecentesche, tipico dei carrettieri a vino, costituito da un farsetto rosso sulla camicia bianca, calzoni corti allacciati sotto il ginocchio, calze bianche a righe orizzontali, fascia ai fianchi e coltello alla cintola. Sua compagna è ‘Nina’ o anche Ninetta, una popolana orgogliosa di essere trasteverina e spendacciona; porta lo spadino fra i capelli che all’occorrenza usa contro i numerosi ammiratori che si rivelassero troppo arditi. Un po’ smargiasso e attaccabrighe ma schietto e simpatico ‘Rugantino’ rappresenta il romano più autentico, un po’ millantatore di bravate ma di buon cuore, sempre pronto quando si tratta di bevute in compagnia, sia che si tratti di una ‘morra’ giocata all’ ‘Osteria del tempo perso’; sia che si tratti di stornellate in comitiva con tanto di sberleffi e narrazioni salaci. In epoca moderna il duo Garinei e Giovannini ha potuto costruire sulla sua leggendaria maschera il noto musical dal titolo omonimo: ‘Rugantino’, che tanto successo ha riportato nel mondo e del quale bene lo rappresenta questa ‘Ballata di Rugantino’:
«Ma pensa che bellezza / nun c'ho niente da fa' / porcaccia la miseria / nientissimo da fa' / e rompo li stivali a tutta quanta la città / perché 'n c'ho niente da fa'. / Rugantinì... Rugantinà... nemmeno è giorno e già vòi ruga' Rugantinì... Rugantinà... tranquillo e bono non ce poi sta' Sto proprio come un Papa / anzi mejo, Santità / perché Lei, gira, gira, / quarche vorta ha da sgobba'. / Io, viceversa, sgobbo solamente si me va / perché 'n c'ho niente da fa'./ Rugantinì... Rugantinà... c'hai sempre voglia de sta' a scherza' Rugantinì... Rugantinà... ma non c'hai voja de lavora' Voja de lavora' sarteme addosso / ma famme lavora' meno che posso. / Non posso perde tempo / nun c'ho niente da fa' / levateve de mezzo / fate largo a Sua Maestà / ariva Rugantino che c'ha voja de ruga' / perché 'n c'ha niente da fa'. Rugantinà... Rugantiné... che vai cercando, se po' sapé? Rugantinì... Rugantinà... 'sta smania in corpo chi te la dà?»
Gli fa coro una lista incredibilmente variegata di personaggi: Marco Pepe, Meo Patacca, Mastro Titta, Cassandrino, Mezzetino, Sora Menica, Ghetanaccio il burattinaio e finanche la Befana, figura questa tra le più complesse della tradizione arcaica, tra il magico e il religioso, entrata di traverso sia nel teatro popolare che in quello più specifico dei burattini. Alla Befana è legata più d’una filastrocca e conta fanciullesca che bene ne illustrano il personaggio, come questa dal titolo significativo ‘La Befana’ ripresa dalla tradizione umbro-laziale:
«La Befana gli è arivata / di colore d’arcobaleno / e le porta le puppe in seno / che gli fanno balla balla. / Massaina e Capoccino sem venuti a casa vosra / ci darete del quattrino / se l’avete nella borsa. / Noi vogliamo delle ova / o mia cara Massaina / e per far bòna figura / ce ne date una dozzina. / Noi si piglia anche dell’agli / o cipolle o sian capretti / empiremo queste balle / di coniglioli o galletti. / Poi si da la bonanotte / a ‘i segnore benedette / questa vorta non si sorte / ci farete anche ‘l rinfresco. / Se vi avremo contentati / con la mia grande squadriglia / sémo meglio noi de’ frati / fora de la porta / benediciamo tutta la famiglia.»
Ma era la maschera facciale infine che più d’ogni altra cosa trasformava la fisionomia del personaggio ch’era preso di mira e che lo rendeva immediatamente riconoscibile al folto pubblico che presenziava a detti spettacoli popolari. Era la maschera infatti, più del travestimento, ad esporre nell’immediato il carattere tipico dell’incongruenza d’ogni personaggio che si affacciava sulla scena. Che fosse una risata subito trasformata in una smorfia sarcastica, oppure una lamentazione amorosa, o ona constatazione di morte, la maschera facciale determinava la conseguente gestualità dell’attore al quale era richiesta grande maestria d’improvvisazione; tale che già nell’antichità il termine ‘maschera’ si dava come sinonimo di ‘persona’. L’ambiguità e la varietà che il termine ha assunto sono esplicite in numerose citazioni di autori latini, nelle quali ricorre, oltre che con il principale significato di maschera teatrale, anche quello di attore o parte rappresentata sulla scena, ed ancora quello di carattere, personalità, che più si avvicina al valore che noi oggi gli attribuiamo. Il significato tradizionale rituale-magico e religioso della maschera trova una sua precisa spiegazione proprio in ambito teatrale in quanto le maschere venivano indossate dai partecipanti in primis nelle cerimonie religiose in cui la ‘persona’ letteralmente si travestiva da qualcosa d’altro: satiri, animali, uomini/donne divinità. L’uso della maschera dunque per assolvere a esigenze pratiche. Come i partecipanti del rito, attraverso la maschera che copriva il volto, gli attori venivano trasferiti in una diversa realtà che li possedeva completamente, annullando la reale individualità di ciascuno, così nella scena, l’attore si calava completamente nella situazione di cui era protagonista e la maschera era il mezzo essenziale per il trasferimento in una realtà ‘altra’ che si voleva rappresentare. Ed ecco che come per incanto o per magia sotto il ritratto un po’ burlone, un po’ grottesco delle maschere popolari troviamo infine quelle relegate a personaggi che pur facendo riferimento a questa o quella regione, indossano la ‘maschera facciale’ propria della Commedia dell’Arte. Figure queste forse più note al grande pubblico e per certi aspetti forse più care.
“Ogni regione – scrive Sergio Tofano – si è impadronita di una maschera venuta fuori non si sa bene da dove, ma vecchia quanto il mondo e destinata a non morire, che ha dato ad essa un’appropriata cittadinanza. Fatta sua, l’ha rifoggiata, l’ha ripulita, l’ha rimpastata, arricchendola di pregi e difetti, modellandola come un monumento vivo sui suoi vizi e sulle sue virtù”.
Bologna, ad esempio, città universitaria per eccellenza, sembra sia la più antica università al mondo, ha il ‘Dottore’, profondo e pedante come solo sa essere un dotto. La città lagunare di Venezia, sede di traffici e luogo di avventurieri ha il suo bel ‘Capitano’ che, stando a quanti sono gli attori che l’hanno interpretato ha spalancato i confini d’Europa.
Bergamo così detta ‘soprana e sottana’ per via dei molti baciapile religiosi, ha il suo ‘Arlecchino’ che, con ‘Brighella’ forma il duo comico più famoso e ‘scassato’ che si sia visto al mondo. A Milano troviamo invece ‘Beltrame e Scopone’ fratelli di Meneghino che li rappresenta bene entrambi. A Napoli … beh, a Napoli quella che è la maschera più complessa e straordinaria che si possa immaginare: ‘Pulcinella’, per quanto accompagnato da altre notevoli maschere come Scaramuccia e Tartaglia.
“Ciò che ne è venuta fuori - scrive ancora Tofano – una girandola, e che girandola! Dai colori più smaglianti, tutta nostra, che ha dato tanto spesso al nostro paese e ha fatto ridere il mondo intero”. Come in questa ‘Canzone di Niccolò’ d’epoca medievale, attribuita a Niccolò Macchiavelli ed entrata nell’uso popolare tosco-emiliano:
«Perché la vita è breve / e molte son le pene / che vivendo e stentando ognun sostiene / dietro alle nostre voglie / andiam passando e consumando gli anni / ché chi il piacer si toglie / per viver con angoscia e con affanni / non conosce gli inganni / del mondo, o da quei mali / o da che strani casi / oppressi quasi sian tutti i mortali. / Per fuggir questa noia / eletta solitaria vita abbiamo / e sempre in festa e in gioia / giovin leggiadri e liete ninfe stiamo. / Or qui venuti siamo / con la nostra armonia / sol per onorar questa / sì lieta e dolce compagnia.»
Il bergamasco ‘Arlecchino’ figura tra le maschere italiane più antiche e fa la sua apparizione già nelle composizioni improvvisate dei ‘mimi’ attori della cultura latina. Ricordata in un primo manoscritto di Bartolomeo Rossi risalente al 1584, successivamente passato dalla scena italiana ai teatri di tutta Europa grazie a Carlo Goldoni che lo scelse come protagonista di alcune sue commedie famose. È il tipico esempio del servitore, semplice, ignorante e credulone, al tempo stesso arguto e malizioso. La sua figura piena di grazia ma anche di sveltezza e agilità ha sempre destato simpatia fra gli spettatori di ogni età data, forse, dal suo vestito fatto di tanti pezzi ‘rombi’ di stoffe e colorazioni diverse che lo rendono molto gradevole allo sguardo, quasi una figura ‘sfuggevole’ alla presa.
Va qui ricordato inoltre uno dei più grandi esempi del teatro italiano allorché l’eclettico regista Giorgio Strehler che negli anni ’60 lo riportò in auge nella goldoniana commedia: ‘Arlecchino servitore di due padroni’ interpretato dal pur grande Ferruccio Soleri che ha fatto il giro del mondo. Per quanto vadano qui ricordati gli storici anni della prima esecuzione del 1947, Marcello Moretti, Franco Parenti e Checco Rissone. Non a caso ci troviamo a Venezia in casa di ‘Messer Pantalone’, un tempo chiamato ‘il Magnifico’ poi anche ‘de’ Bisognosi’, forse per il fatto che fosse così avaro e brontolone da rifiutare qualsiasi aiuto ad alcuno. Lo si vuole desunto dalle antiche Atellane del V° secolo a. C: farse romane caratterizzate da un linguaggio popolare e contadinesco e da maschere fisse il cui nome trae origini proprio dalla città di Atella, fra le popolazioni osche della Campania. Rappresenta un anziano mercante all’antica, tutto sommato un buon vecchio astuto e grave, onesto ed onorato, spesso ingannato dai suoi servitori dei quali ne paga sempre le spese. Padre incline a tiranneggiare le proprie ‘putele’ quali Rosaura e Colombina che vuole a tutti i costi maritare a chi vuole lui, ma anche senza spendere un baiocco. Vecchio e grasso con il naso adunco e la barba a punta, veste secondo la foggia dei veneziani benestanti del tempo antico, una zimarra lunga fino ai piedi che lo rende riconoscibile e figura di tutto rispetto. Carlo Goldoni lo ritrasse nella figura di Lunardo in ‘I Rusteghi’ nel più famoso ‘Contratto di matrimonio’.
Quella del ‘Capitano’ è un’altra figura assai comune in ogni tempo, nella cui maschera sono confluiti personaggi nativi di luoghi ed epoche diverse, finché – scrive Vittorio Gleijeses – con l’instaurazione del predominio spagnolo in Italia, il suo aspetto tipologico si identifica con il ‘soldato sbruffone’, fanfarone e brutale, feroce ma anche ridicolo, oggetto di avversione e di odio per le angherie e ruberie di cui è capace e che ne fanno l’oggetto di una pietà sprezzante a causa della sua miseria materiale e morale. Pur conservando in ogni sua rappresentazione la foggia militare del costume, la sua maschera seguì i tempi cambiando foggia. Una delle maschere indossate poi divenuta famosa soprattutto in Francia è certamente quella dello ‘Scaramuccia’ napoletano, amante delle belle donne e delle bottiglie di vino, divenuta celebre nel ‘600 grazie a un interprete d’eccezionale bravura, di uno : Tiberio Fiorilli, uno dei maestri di Molière, sempre agilissimo e spiritoso fino all’età di 83 anni. Nota anche in Calabria col nome di ‘Giangurgolo’ diventa un soldato ancora più fanfarone e allo stesso modo fifone degli altri più famosi di lui, quali ‘Capitan Fracassa’ o quel ‘Capitan Spaventa’ i cui nomignoli fanno già pensare ai soggetti che vanno a interpretare. Con Giangurgolo eccoci proiettati nell’estremo Sud della nostra penisola. Lo testimoniano le musiche e le canzoni narrative tipiche della tradizione, inserite in ogni Carnascialata, come questa dal titolo significativo ‘Zza Marianna’:
«Zza Marianna, zza Marianna / lu campaneddu vostru cu’ vi lu ‘ntinna? / Ca vi lu ‘ntinnu jeu: / Zza Marianna, cori meu …/ Ha d’èssiri di Patti la pignata, / pe’ fari la minestra sapurita! …/ Zza Marianna, ciuri di bellizzi / non vidi ca ti pennunu ‘ssi lazzi! .../ Ti dicu ‘mi t’i pettini e t’i ‘ntrizzi, / ca L’ò mini pè tia nèsciunu pazzi …/ Lu cori di la donna estì ‘na canna …/ ma l’omu è forti comu ‘na culonna! …/ Zza Marianna, zza Marianna ‘na vota …/ jeu fari non la pozzu cchiù ‘sta vita! …/ La testa mi firria comu a ‘na rota: / Zza Marianna, figghia sapurita ! …/ Mangia carni di pinna, e m’è corbacchia; / dormi cu’ ‘na signura , e puro vecchia! …»
Con ‘Peppe Nappa’ maschera del servo pigro e sbadato approdiamo in Sicilia in rappresentanza dei prototipo dei ‘citrulli’, cioè lo sciocco degli sciocchi di questo mondo, tale che tutti i citrulli di questo mondo messi assieme non potrebbero combinare i pasticci che questi combina, al punto che viene da chiedersi se il Nappa sia davvero stupido o finga di esserlo. Peppe Nappa non porta maschera né s’infarina o si trucca in volto, è agilissimo nella danza, maestro nell’eseguire le più comiche e burlesche piroette. È riconoscibile per le sue ‘nappe’, cioè le toppe che ha nei calzoni, da ricordare la figura del più moderno ‘pagliaccio’ da Circo che, pur prendendo calci e bastonate riesce infine a far ridere e a farsi amare. A Peppe Nappa dedichiamo questa ‘Terra ca nun senti’:
«Maledittu ddu mumento / ca raprivi l’occhi ‘nterra / ‘nta stu ‘nfernu / sti vint’anni di turmentu / cu lu cori sempre ‘nguerra / notti e juorno. / Terra ca nun senti / ca nun voi capiri / ca nun dici nenti / vidennumi muriri! / T / Terra ca nun teni / cu vole partiri, / e nenti ci duni / pi falli turnari. / E chianci, chianci / ninna oh! / E chianci, chianci / ninna oh! / maledittu ‘sta cunnanna, ca ti ‘nchiova / supra ‘a cruci d’a speranza! Maliditti cu t’inganna / prumittennuti la luci e fratillanza.»
Maschere di una certa rilevanza sono note in Sardegna, diverse se presenti al Nord o al Sud dell’isola dove rappresentano figure più o meno legate alla natura dei luoghi; come ad esempio quelle di sughero dell’Iglesiente e quelle invece di legno ‘più dure’ della Gallura. Ancora più arcaiche, forse d’origine pastorale magico-religiose risultano essere quelle dei ‘Mamuttones’ tipiche del Carnevale Barbaricino di Mamoiada. Ricco di atmosfere suggestive, impreziosito da eventi come la sfilata appunto dei Mamuttones, personaggi arcaici rivestiti di pellicce d’animale e maschere sul volto, cadenzata dal cupo suono ritmato dei campanacci, portati a spalla in gran numero dalle maschere che conferiscono ai danzatori un significato per niente casuale e tantomeno effimero:
«Le maschere cupe, le loro movenze, i suoni lugubri che ne fanno da contrappunto, incutono rispetto e, al tempo stesso, mettono a disagio. Assistendo a una loro esibizione non è difficile immedesimarsi in quel lembo di antiche tradizioni che le stesse intendono e riescono ad evocare. (..) Le maschere a loro volta sono attorniate dagli ‘Issokadores’, questi sfilano senza campanacci indossando il costume tradizionale sardo e recano in mano una fune detta ‘sa soca’, con la quale riescono a catturare gli spettatori che a un certo punto vengono tirati al cospetto ravvicinato delle maschere, tra lo spavento e talvolta la paura che incombono.» (F. S. Ruiu)
Recenti studi, coralmente recepiti, collocano l’origine delle maschere del Carnevale barbaricino nel tempo delle religioni misteriche e dei riti dionisiaci. Logico pensare che i rituali proposti siano quanto rimane di antiche manifestazioni propiziatorie sopravvissute nel tempo, legate alla fertilità e all’alternanza delle stagioni. Anche ‘Sa Sartiglia’ di Oristano, un tempo chiamata ‘sortija’, è la giostra equestre più affascinante della Sardegna tra cultura e tradizioni. Menzionata per la prima volta in documenti che risalgono al 1547, così come è giunta sino ai nostri giorni, è da considerarsi come un pubblico spettacolo, organizzato allo scopo di intrattenere e divertire gli spettatori che ogni anno vi prendono parte sempre più numerosi. La particolarità di questa ‘sfida’, che si differenzia da tutte le altre conosciute, è racchiusa nella vestizione e infine nell’indossare la ‘maschera’ bianca che nasconde il ‘vero’ volto di chi la indossa: ‘su Cumponidori’. L'espressione profonda di questa maschera trasforma ‘su Cumponidori’, lo rende inavvicinabile, inarrivabile. Da quel momento in poi, sino alla fine della corsa, il Cavaliere diventa un ‘semidio’ sceso tra i mortali per dare loro buona fortuna e mandare via gli spiriti maligni. Alla fine su Cumponidori, vestito con in capo un cilindro nero, la mantiglia, una camicia ricca di sbuffi e pizzi, il gilet e il cinturone di pelle, sale sul cavallo che è stato fatto entrare in una sala disposta a religioso silenzio per non innervosire la bestia, gli viene consegnata ‘sa pipia de maju’ e, completamente sdraiato sul cavallo, esegue ‘sa remada’ per passare sotto la porta ed uscire all'esterno, dove lo attendono gli altri cavalieri e una folla plaudente che subito inizia a benedire.
Con ‘Pulecenella’ si dovrebbe aprire qui un capitolo a parte per la sua complessità storico-sociologica e filosofica del popolo napoletano. Cosa questa che rimando ad altra occasione non solo per ragioni di lungaggine dell’articolo, soprattutto perché con essa si entra prepotentemente nella ‘storia del teatro popolare di piazza’ e non solo. Legata a origini più antiche la maschera di Pulecenella è un miscuglio di coraggio e cialtroneria, vanità e astuzia, all’occorrenza alterigia e ciarlataneria che ne fanno un esempio, o forse un ‘modello’ della complessità umana. Ghiotto e insolente, arguto e gioioso, piacevole e impertinente, pazzerello e ciarliero, Pulecenella accoglie in sé il sentimento più profondo e oscuro dell’allegria e della tristezza dell’animo partenopeo, misero e arguto al tempo stesso, che non conosce cattiveria infame e che pure, riesce a impietosire per un piatto di maccheroni:
«Pe tutte so nu principe / pe tutte no signore. / Solo per il mio pubblico / fedele servitore.»
Ed ecco infine abbiamo ritrovato il nostro buonumore, come per incanto o per magia sotto il ritratto un po’ grottesco e un po’ burlone delle maschere popolari della tradizione italiana, siamo giunti alla fine di questo ‘incontro’ con quei personaggi più o meno noti e per certi versi cari. Alla fine altro non mi rimane che ringraziare e come un Arlecchino … di fare a tutti voi (che mi avete seguito) l’inchino.
Id: 895 Data: 06/02/2023 06:12:46
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- Letteratura
Auguri Monsieur Proust per i suoi 100 anni insieme a noi.
Marcel Proust “Il Manoscritto Perduto”
A Parigi negli anni successivi al 1900.
Le luci sfavillanti dei lampioni accesi sui boulevard affollati di gente rendevano Parigi una città davvero incantevole quanto ‘...extraordinaire', come sulla scena di un vaudeville rumoroso e fin troppo movimentato. Allorché così meravigliosamene illuminata si lasciava ammirare nelle tiepide sere di primavera, in cui i giovani artisti bohemien, con le tele che la ritraevano sotto il braccio, s’affaccendavano non poco dall’una all’altra parte dei marciapiedi, alla ricerca affannosa di vendere uno dei propri quadri ai numerosi turisti in visita alla Ville Lumiere. Un continuo andirivieni di vendeurs de journaux, di gigolò nullatenenti e di garçons che invitavano i passanti a entrare nei bistrot e nei numerosi 'boites de nuit' a passare una notte di svago. A rendere ancora più spumeggiante l’atmosfera era il fiume di champagne che si riversava nei calici levati 'à la santé!' dalla bonne-societé, quella stessa che affollava i fouilleur dei teatri e le salle degli alberghi più in voga, dei locali notturni 'à la mode' come il Moulin Rouge e Pigalle e dei ristoranti prestigiosi come il Ritz e Maxim’s, nella cui luce specchiata tutta Parigi sembrava riscoprire la 'joie de vivre'. Una luce diafana e sublime che faceva della Belle Époque un’epoca originale e irripetibile, in cui l’artificio della moda diventava estetica di vita, e la parvenza ‘snob’ degli individui finiva per ridisegnare tutti gli spazi del vivere comune, nell'arte come nello spettacolo, nella musica come nella poesia e nella letteratura. Tuttavia, nulla sembrava scalfire la tranquilla vetustà della Maison de la Ville, immersa com’era nel suo bel parco ombroso di sempreverdi e le sue aiuole costantemente fiorite … «...quasi che in ogni mese dell’anno stia per sbocciare la primavera!», soggiunse Madame Rose, per quanto, essendo l'estate ormai sul finire, questa appariva sempre più lontana, ancorché in breve sarebbe arrivato l’autunno. Di certo non era la stagione o il passare del tempo a spegnere l’ardore che l’anziana tenutaria riservava ai suoi graditi ospiti che di volta in volta vi dimoravano per qualche breve periodo … «...dal giorno del loro arrivo a quello della loro dipartita, che sia da questo mondo o dall’altro in cui andranno a vivere, ah, ah, ah!», come le piaceva aggiungere salutandoli con sottile ironia alla loro dipartita. Come del resto nulla mai cambiava nelle affezioni appassionate che Madame Rose riservava agli amici più intimi, a meno che non finissero per scalfire la sua sensibilità emotiva, soprattutto nelle notti in cui maggiormente avvertiva un’apparente fragilità dei sensi che la teneva sveglia, e che amorevolmente occupava a smistare le carte dei Tarocchi, «gli 'Arcani Minori' delle pene e dei rancori, e quelli 'Maggiori' dei gaudi e degli eccessi che si consumano in tutti i sensi», come le piaceva appellare certi suoi peccati di gola che le battute divertite dei suoi ospiti le attribuivano, non senza un pizzico di sarcasmo. Così come pure accadeva nella computazione degli anni del suo fantasmatico ‘anniversario’ che ad ogni occasione i più intimi le conferivano, e da tutti annoverato come l’evento clou della loro permanenza alla Maison. E che fossero ottanta oppure cento, per lei … «...non hanno alcuna importanza», diceva sorridente nell’ammettere di averli superati, quand’anche confessasse … «...di averli finiti da tempo.» Nondimeno Madame Rose era una maitresse d’eccezionale vivacità, mentore e consigliera di magnati e ambasciatori, nonché di giovani scrittori e musicisti che nei giorni migliori, specialmente in occasione di convegni e anniversari, riempivano la Maison di musica e d’arie famose, di versi poetici e conversazioni letterarie, finanche di applausi e risa ben educate che ella reclamava di voler mantenere sommesse e quanto più garbate … «..per non disturbare il silenzio nelle ore più tarde dedicate alla meditazione ah, ah, ah!», diceva ridendo, omettendo di specificare a cosa facesse riferimento in ciò che chiamava ‘meditazione’. Di ben altra verve si rivelavano le arguzie messe in atto da Madame Rose nello scambio reciproco delle relazioni personali che imbastiva coi suoi ospiti più autorevoli in occasione del Simposio autunnale del Circolo Teosofico Internazionale, fondato da Madame Blawatsky nel lontano 1875, che si riuniva annualmente alla Maison de la Ville, ufficialmente per «...delineare le nuove prospettive iniziatiche in ambito esoterico-filosofico», affermava più che mai convinta. «Un contributo culturale alla conoscenza universale», aggiunse, mentre andava riordinando le idee organizzative in funzione del suo prossimo ‘anniversario’, come pure lo definiva, in sostituzione di quella brutta parola che a parità d'intenti dicasi ‘compleanno’. Anniversario che Madame Rose pensava di far coincidere con la chiusura del Simposio in corso offrendo un pranzo sontuoso agli ospiti intervenuti, in modo da lasciare un segno della sua prodigalità, insieme al rinnovato invito a tornare in futuro alla Maison de la Ville. Il tutto all’insegna del motto da lei stessa coniato per l’occasione … «La fin ce n'est que le commencement!» Una frase ‘emblematica’ che attribuiva al lessico segreto dei Tarocchi, il cui responso teneva in gran considerazione, allorché era chiamata a dissolvere un interrogativo persistente che l’aveva tenuta sveglia nottetempo. Al presente, l’interrogativo riguardava la partenza improvvisa di uno dei suoi ospiti prediletti, che nel tempo della sua permanenza alla Maison, aveva raccolto le sue personali confidenze e i suoi pettegolezzi più arditi, Marcel Proust. Un giovane scrittore che la inteneriva nel profondo; al quale riconosceva il pregio di una mente straordinaria, alle prese con il suo primo vero romanzo, di cui aveva molto apprezzato lo stile e la ‘verve’ della scrittura. «Una partenza alquanto strana la sua, e per di più improvvisa, che la si direbbe quasi una fuga», pensò tra sé, mentre esaminava con particolare attenzione la composizione d'insieme delle 'carte' disposte sul piccolo tavolo del suo boudoir … «Benché anch'egli, come tutti del resto, è succube delle debolezze umane», aggiunse riflessiva, ponendo agli 'Arcani Maggiori' un interrogativo inusuale, quasi si trattasse di un abbandono che solitamente non si poneva, considerando il fatto che alla Maison c’era sempre gente che andava e veniva in ogni momento dell'anno, «..come al Grand Hotel, ah, ah, ah!», rise infine, pur essendone rammaricata. «Oh no! Pouvre Marcel!», esclamò a fronte di una rivelazione che si ripresentava costante ad ogni volgere delle carte, una nota dolente che non gradiva affatto conoscere e che l’addolorava non poco; come per l'aggirarsi nel silenzio crepuscolare della stanza, di un male oscuro che presumibilmente affliggeva il suo amico e che ben presto avrebbe messo fine alla sua giovane vita. «Marcel Proust, un nome che sarà ricordato a lungo», si disse nella certezza palpabile che lo porterà, ne era certa, a «..scrivere qualcosa di grande, più ampio di quello che la presenza, l’intenzione e la semplice percezione del momento potrebbero esprimere», si disse. Dacché lasciò di scandagliare più a fondo in quell’assurdo interrogatorio, per abbandonarsi poi sul divano di velluto damascato con gli occhi rossi di pianto. «Suvvia, non c’è alcuna ragione perché Madame debba rammaricarsi in questo modo, su beva un po’ di questa tisana, l’aiuterà a contenere l’ansietà che gli addii talvolta creano negli animi più sensibili», la consolò Mimì, sua dama di compagnia che, entrata nella stanza con il suo solito garbo orientale, depositò sul piccolo tavolo ch'era lì accanto, il vassoio d'argento di pregevole fattura e la tazza di porcellana fine, da cui si sprigionava un intenso odore di gelsomino. «In fondo si parte, si arriva, si riparte, non è forse sempre stata così tutta la sua vita?», vedrà, monsieur Proust tornerà presto a farle visita, come ha sempre fatto. Se non altro per recuperare il manoscritto che nella fretta di partire ha dimenticato di prendere con sé.» «Che storia è questa Mimì, un manoscritto dimenticato da un nostro ospite di cui non mi si è detto nulla, di che si tratta?» «Oh mi dispiace, pensavo Madame l’avesse notato, monsieur Proust lo ha lasciato proprio qui, sul suo scrittoio, prima di salutarla da basso, ma solo ora mi accorgo che non c’è più.» «Se lo avesse lasciato lì, ci sarebbe ancora Mimì, non ti pare?» «Infatti, non capisco, chiederò, vedrà qualcuno della servitù lo avrà spostato nel riordinare la stanza.» «Non lo ritengo possibile, e poi cos’è questo manoscritto Mimì, perché non ne sono a conoscenza?» «Oh si, forse ora Madame non lo rammenta, quando monsieur Proust era qui, era solito scrivere sulle pagine di un taccuino che teneva sempre con sé, ma questa volta no, erano dei fogli sciolti, come un incarto.» «Un dossier?» «Non saprei dire.» «Spiegati meglio Mimì, quest'oggi mi sembri piuttosto evasiva, anzi direi restia ad aprirti con me. Cosa ti succede, adesso a mia insaputa ti allei con i nostri ospiti, arrivando finanche a nascondermi i loro segreti?» «Oh nessun segreto Madame mi creda, c’è che non ho mai considerato monsieur Proust un ospite, vista la cura che lei stessa ha sempre avuto nei suoi riguardi e delle sue cose, per cui ho lasciato che si sentisse a suo agio e disponesse della casa come avesse voluto, come del resto ha sempre fatto.» «Cerca quel manoscritto Mimì, potrebbe essere della massima importanza, non vorrei lo avesse dimenticato di proposito …» «Affinché Madame lo leggesse, voglio penare … ma certo, è possibile.» «Non ne dubito, sebbene recentemente mi è sembrato dibattersi tra passioni e desideri incontrollati... che abbia preso maggiore coscienza di sé nell’affrontare situazioni a lui sfavorevoli, chi può dirlo?» «Lei può Madame, sempre così lungimirante nello scrutare nei destini degli altri.» «Affatto Mimì, mi attribuisci facoltà che non ho, a nessuno è dato di scandagliare nell’animo umano, ancor meno in quello degli uomini. Rammenta, non si conoscono mai bene gli uomini, non fino in fondo, sanno essere imprevedibili in ragione della loro indifferenza alle problematiche femminili, ambigui come sono in tutto ciò che riguarda la profondità o l’altezza dei loro sentimenti. Sono lupi Mimì, sempre affamati di nuove prede da sbranare, assetati di sangue come vampiri che badano alla sola fonte dei loro istinti …» «Per carità Madame, sa bene che mi spaventa sentire parlare di certe cose. Davvero non avrei mai pensato da parte sua una così nera considerazione degli uomini. Lei che da sempre ripone una strenua fiducia nelle passioni umane.» «È vero Mimì, anche se me lo chiedo solo adesso, ma che non sia proprio l’esperienza che mi porta a pensare questo degli uomini? Tuttavia mi accorgo io stessa di non trovare una risposta da darmi.» «Che cosa le succede Madame, qualcosa l’ha delusa?» «La vita Mimì, la vita! Ma adesso cerca quel manoscritto sil vous plaît, sento un’improvvisa urgenza di volerne leggere il contenuto», aggiunse dubbiosa Madame Rose, nel lasciar riaffiorare alla sua mente un segreto inconfessato del quale, da sempre, si attribuiva una responsabilità irrevocabile, che la toccava nel profondo … «Vado», aggiunse Mimì. Dacché Madame fu colta da un improvviso risentimento verso Marcel, nel dubbio atroce ch’egli potesse aver svelato nel suo manoscritto una qualche confidenza che lei stessa, sua mentore e ispiratrice, riteneva inenarrabile, riguardanti certi sentimenti che a suo tempo l’avevano travolta e che «...tornavano a rendere amara la sua esistenza», aggiunse riflessiva, tuttavia cercando di allontanare quell'incombente dubbio dalla sua mente. Perché ogni cosa che in passato pur fosse accaduta, riguardava soltanto lei ... «...ormai non era più di nessuna importanza», si disse. Quel che più contava adesso era sapere se Marcel avesse o no violato il suo segreto in quel manoscritto che aveva dimenticato e che poteva aver suscitato la curiosità altrui. Proprio non le riusciva di concepire una tale leggerezza da parte di Marcel, che arrivasse a sacrificare la sua intima affettuosità con l’inconciliabile irrealtà di qualunque personaggio del suo romanzo che non fosse lei, fatto era che quanto accaduto le sembrava alquanto irriguardoso. «No, Marcel non si sarebbe mai lasciato andare in uno sdoppiamento inconciliabile a totale discapito dei suoi mentori prediletti, per poi svelarne gli inganni nel falò delle vanità dell’attuale società parigina … e per di più prevedendo che sarebbero perpetrati a suo stesso svantaggio», si disse intravedendo una qualche possibilità d'inganno, e tuttavia elaborando una sua errata convinzione. «Mimì, si può sapere dove sei finita?», le chiese al suo rientro nella stanza. «È incredibile, non v'è traccia del manoscritto. Ho guardato dappertutto più di una volta, non mi resta che chiedere alla servitù, sempre che Madame sia d’accordo?» «C’è una particolare ragione Mimì perché tu non l’abbia già fatto?» «No ma, recentemente ho dubitato molto che qualcuno si sia intromesso nei nostri rapporti Madame, poiché trovo che lei non sia più la stessa nei miei confronti.» «C’è che sei diventata gelosa Mimì, è segno che stai invecchiando.» «Forse, ma si da il caso che lei non si fida più di me.» «Che sciocchezze t’inventi adesso, sil vous plaît Mimì, fai venire qui la servitù, voglio vedere le loro facce una per una, ma non credo siano capaci di nascondermi qualcosa. Che mai ne farebbero di un manoscritto di un giovane sconosciuto?» «Immagino nulla, sebbene una delle ragazze più giovani potrebbe, come dire, avervi voluto curiosare.» «Chi, per esempio?» «Non saprei, ma forse Magdeleine...?» «Ascoltiamola, falla venire da me e visto che sei gelosa di lei, resta anche tu, se non altro potrai appurare la tua immodestia», replicò Madame Rose sorridendole con dolcezza, non senza un pizzico di quella civetteria tutta femminile che la distingueva. Magdeleine non era il tipo di ragazza da prendersi una qualche iniziativa senza prima averne chiesto il permesso, soprattutto nel rispetto del professor Stephan, del quale Madame Rose sembrava apprezzare la compagnia e che lo poneva al di sopra della comune rispettabilità. «Vieni pure avanti Magdeleine, una brava ragazza come te non avrà certo soggezione a confidarsi con una signora attempata qual io sono, suvvia dimmi...» «Madame sa che può fidarsi di me. Certamente ho veduto il manoscritto, era poggiato proprio lì, sullo scrittoio, l’ho solo spostato per spolverare…» «Spostato dici, per metterlo dove?» «No, mi scusi, volevo dire sollevato.» «E non hai dato una sbirciatina al suo contenuto, dico così, per pura curiosità?» «Mais no, Madame.» «E immagino tu non sappia neppure di cosa parlasse, è così Magdeleine?» «Di fantasmi!», si lasciò dire imprudente la ragazza, tradendo la sua precedente ammissione. «Devo quindi pensare che dei fantasmi si aggirino in questa casa, che si appropriano dei manoscritti altrui e di chissà quant’altre cose? Non sarebbe poi così improbabile, del resto ognuno di noi si porta dietro qualche misfatto, non è così Mimì?», soggiunse infine Madame Rose, il cui sguardo lasciava intendere un biasimevole provvedimento da prendere nei confronti della ragazza. «Oh sì Madame», convenne Mimì evitando di aggiungere altro al suo dire nel licenziare con un cenno della mano, la giovane cameriera. «Se non si amano i fantasmi, non cercateli, non chiamateli e, soprattutto, non fategli del male, perché probabilmente il male lo hanno già ricevuto in quanto spiriti eletti che sopravvivono in noi che li abbiamo creati.» «Un’altra perla della saggezza di Madame che ricorderò, onde annoverarla ai nostri ospiti nel caso dovessero lamentarsi di qualcosa di inaspettato che dovesse accadere qui alla Maison.» «Perché Mimì, hai forse udito qualcosa in proposito?» «Beh, non in ultimo il professor Stephan proprio in riferimento alla partenza inaspettata di monsieur Proust, disse che la Maison non sarebbe stata più la stessa.» «In qual senso?» «Ma, non saprei, il professore asseriva senza darne spiegazione che alcuni suoi personaggi letterari così fortemente drammatici, sarebbero rimasti qui, che si sarebbero aggirati in queste stanze dove hanno trovato la loro ragion d’essere, creati dalle fantasticherie del nostro inconscio quotidiano.» «È quanto ha detto?» «Mais ouì Madame … ha anche aggiunto che il dramma della loro esistenza stanzia in tutti coloro che li hanno suggeriti o forse vissuti in prima persona, ma ammetto d’aver trovato tutto questo spaventoso.» «Mia cara Mimì, non devi prestare ascolto ad ogni cosa che viene detta, il professor Stephan parla dall’alto del suo essere filosofo, per lo più insegue i fantasmi della sua eccentricità … talvolta mi sorge il dubbio ch’egli stesso altro non sia che uno dei personaggi creati da Marcel.» «In verità Madame ho sempre pensato che quella che indossa sul volto sia una maschera … sempre così pulita, il trucco perfetto, con i suoi papillon indossati come orpelli di scena di un teatro demodé.» «Tu dici Mimì? … già, una maschera, il trucco? Sai che non vi avevo mai pensato.» «Sì, proprio come un teatrante che si muove nell’ombra della scena, il cui apparire improvviso talvolta crea un certo imbarazzo, tra l’ambiguità del passato e l’assolutezza del presente.» «Illazioni le tue Mimì dovute ai tuoi pregressi teatrali che ti trascini dietro dall’Oriente. Devo dire che il professor Stephan si è sempre dimostrato un fedele amico e un perfetto gentiluomo, chi più di lui?» «Oh sì, una persona di belle maniere e al tempo stesso riservata, ma ciò non toglie che potrebbe rivelarsi un despota nascosto nell’ombra …» «Dici così per dire Mimì o lo pensi davvero?» «Affatto Madame, la letteratura è stracolma di Jago, è il dramma che si consuma sulla scena che lo richiede a un non protagonista in cerca d'una qualche possibilità di affermazione.» «No, non mi sembra gli si attagli la doppiezza della maschera teatrale che gli attribuisci, semmai sembrerebbe recitare a soggetto, senza copione né parte, perché non sa ciò che potrebbe succedere domani a Parigi, siamo tutti precari su questo palcoscenico.» «Eppure Madame, nella realtà egli sembra vivere dentro un copione che lo contempla, anche se fuori del tempo, fuori da questo mondo che in parallelo col passato chiede di entrare nel presente amabile delle sue grazie…» «Se alludi a qualche avance Mimì devo deluderti perché il professor Stephan non ha mai ambito alla mia mano, semmai alla mia amicizia … da che, nel 1914, ai primi barlumi della guerra, fu costretto a fuggire dal suo paese d’origine la Polonia e a trovare rifugio qui a Parigi, per poter infine entrare in quel Tempio della filosofia per eccellenza che è la Sorbona.» «E di questa Maison», insisté Mimì. «Immagino tu abbia letto il manoscritto, è così Mimì?» «Mais no Madame, ho ancor più ragione di credere che monsieur Proust lo abbia lasciato appositamente sulla sua scrivania affinché lei lo leggesse.» «Cos’altro Mimì?» «Rammento che parlando al professor Stephan monsieur Proust manifestò l’intenzione di voler lasciare qualcosa per ringraziarla di quanto aveva fatto per lui in tutti questi anni, e che spettava a lei decidere cosa farne, se autorizzarne la pubblicazione o se darlo alle fiamme... immagino parlasse del manoscritto.» «Farne un falò, tu dici? Forse ha ragione nel sostenere che spetta a ognuno di noi restituire ai nostri ‘fantasmi’ la dimensione del presente, per essere noi davvero presenti a noi stessi … saremo mai in grado di farlo? Si'l vous plaît Mimì vorrei restare sola, ho bisogno di riflettere, nel frattempo recupera il manoscritto, non può essere svanito nel nulla.» «Ho pensato che monsieur Proust potrebbe aver avuto un qualche ripensamento tardivo ed essere tornato a prenderlo? … Ma no, l'avrei comunque visto ... che forse il professor Stephan potrebbe … essendo egli l’unica persona che in questi giorni ha avuto accesso alla Maison?» «Ho compreso Mimì, ora lasciami si'l vous plaît, e continua a cercare, dovrà pur essere da qualche parte.» «Mais oui, professeur Stephan? …», chiese Madame, allorché sollevata la cornetta lo chiamò alla Sorbona. «Certainment qu'oui!» «Je souis Madame Rose, avrei desiderio di vederla al più presto, se le è possibile quest’oggi stesso.» «Potrei essere da lei attorno alle cinque del pomeriggio, se le sembra un’ora opportuna?» «Bene, l’aspetterò per il Té.» «C’è qualcos’altro che desidera, Madame?» «Null’altro che la sua presenza, merci.» Presagendo una qualche contrarietà nella voce severa di Madame Rose, il professor Stephan intuì la possibilità di dover rispondere a una qualche domanda riguardante il manoscritto consegnatole a sua volta dalla giovane Magdaleine dietro compenso di un semplice complimento. Quindi, dopo aver preso con sé l'incarto e averlo messo nella sua borsa, si avviò a piedi verso la Maison, fermandosi in una rinomata pâtisserie lungo la strada dove acquistò una scatola di Bon-bon onde deliziare il raffinato palato di Madame Rose che andava pazza per i dolci. Accolto con la squisita gentilezza di chi riceve un ospite gradito, Madame Rose lo attendeva seduta nel chiosco a vetri che aveva fatto posizionare sulla terrazza del piano nobile, attraverso cui poter ammirare ogni angolo del giardino. «Madame Rose voglia accettare i miei riguardevoli omaggi», sussurrò appena Stephan nel baciarle la mano, dopo aver consegnato il piccolo cadeau nelle mani dell'attenta Mimì. «Guardi professore, le mie petunie … che meraviglia! Quest’anno sono più belle che mai - ostentò Madame, alzando appena di un tono la voce - le osservi lei stesso professore, non sono splendide?» «Davvero incantevoli!» si limitò a dire Stephan, non sapendo quali fossero le petunie, in mezzo a tanta varietà di fiori sparsi in ogni angolo di quel fantastico giardino che Madame affidava alle cure di un floricoltore esperto. «Davvero amorevoli. Del resto tutto ciò che riguarda Madame è notevole per la sua cura», aggiunse Stephan. Chiunque nell'incontrare Madame avrebbe apprezzato la sobria eleganza di quel pomeriggio che la vedeva indossare un bell’abito blu sfumato di celeste cielo, da far pensare a un voluttuoso ritratto di Giovanni Boldini. Il suo volto ovale straordinariamente luminoso, lasciava appena intravedere i segni dell’età che avanzava inesorabilmente, per quanto ella mostrasse un incarnato roseo quasi trasparente che donava un che di regale alla sua elegante figura. Al dunque Madame Rose con aggraziata nonchalance lo invitò a sedersi al piccolo tavolo apparecchiato in maniera ineccepibile, sì che egli non poté fare a meno di notare la ricercatezza dei merletti posti sotto ogni tazzina e ancor più raffinati sotto la teiera e al porte-biscuit, come del resto a ogni altro pezzo dell’intero servizio di porcellana fine, e l’intera esposizione di cucchiaini d’epoca inneggianti alla ‘grandeur’ napoleonica. Mimì dopo aver accolto nelle sue mani il grazioso vassoio della pâtisserie, lo scartò e lo depose sul piccolo tavolo, non senza averne offerta la visione a Madame Rose che se ne servì con gioia, stemperando così la tensione che l’aveva colta nel tempo dell’attesa. Tuttavia, pur mantenendo una cauta riservatezza, Madame attese ancora qualche istante prima di dare inizio alla conversazione, fin quando Mimì preso commiato con un rispettoso inchino, li lasciò soli. «Si aspetta qualcuno a tenerci compagnia?», chiese il professor Stephan osservando il tavolo apparecchiato per una terza persona. «In verità doveva essere una sorpresa mio caro Stephan, comunque, visto che l’ospite che avrebbe dovuto onorarci quest’oggi della sua presenza non può essere ovviamente con noi, direi di iniziare.» Il Tè venne presto servito da una minuta Shaky d’origine indiana, o forse pakistana, la quale, depositata la teiera con un inchino, li lasciò alla loro conversazione … «Ed io che credevo egli fosse ancora qui … chissà poi perché se altresì ero informata della sua vicina partenza. Ma, pensiamo ad altro.» si lasciò dire Madame, dopo un primo sorso di Tè. «Ça và sans dir le professeur, le manifestazioni più tipicamente umane possono essere comprese solo in un contesto in cui facciamo le cose pensando ad altro. O almeno, richiamandoci agli altri quando questi non sono ormai presenti», soggiunse Madame. «Mi sfugge il pieno senso di ciò che dice Madame Rose, devo essermi distratto, voglia scusarmi.» «Nel senso che pretendere comprensione non è la stessa cosa che farsi comprendere. È quanto dicevo poco fa con Mimì riguardo a una sua presunta idea che dev’essersi fatta di lei, professor Stephan.» «È così, il primo requisito d’una buona conversazione sta nello sforzo di sapere da chi vogliamo essere compresi. Non si può pretendere che gli altri recepiscano ciò che noi riteniamo sia espresso nel modo migliore … spesso accade il contrario. A lei non accade, Madame?» «O sì, ancor più se riguarda qualcuno che in questo momento ha bisogno di tutta la nostra comprensione.» «Stiamo parlando di Marcel Proust, immagino, è forse a conoscenza del perché della sua partenza improvvisa?» «Devo ammettere che talvolta la sua perspicacia davvero mi sorprende, professore.» «D’accordo, ma …» «Nient’affatto professore, in questo caso non sussiste alcun ma che risponda per noi, e lei non può confutare di aver trafugato il manoscritto che Marcel prima di partire ha destinato al mio beneplacito. Alla sua età non dovrebbe avere più bisogno di uno sguardo garante per essere quello che è, una persona che d’un tratto si rivela inaffidabile…», azzardò inopportuna Madame. «Ho l’impressione che sopravvaluti le sue aspettative, di certo Madame non mi aspetto una maggiore considerazione per essere quello che rappresento per lei, così come non intendo privarmi della sua benevolenza.» «Mais no le professeur, anche se credo abbia le mie stesse identiche ragioni di essere preoccupato, non è forse così?» «Ascoltandola mi tornano a mente le parole del vecchio Goethe, nel dire che “sapersi amato dà più forza che sapersi forte”, anche se non è affatto questo il mio caso. Sapermi amato da sempre mi sospinge nell’inferno degli altri, non mi si chieda perché.» «Dev’esserci indubbiamente una ragione che andrebbe scandagliata, non crede?» «Forse c’è, nella misura in cui gli altri con i loro sotterfugi, i loro biasimi, le loro ipocrisie, non esitano a rivelare un sentimento che si credeva puro verso chi si ama e scoprire che non lo è mai stato. Quasi che il loro amore sia offerto in olocausto su un vassoio d’argento, mentre viceversa quello che ricevono chissà perché è solo di peltro …» «Pensa a un inganno della vita o solo a una disillusione?» «Come scrisse un poeta italiano d’altri tempi, Francesco Petrarca: "C'è negli animi umani un certo perverso e morboso piacere di ingannare se stessi, del quale nulla, nella vita, può essere più funesto". È così che l’amato giace inerte in attesa della grazia dell’amore dell’altro, di colui che dice di amarci, anche quando è proprio l'amore a spingerlo incontro alla morte.» «Si'l vous plaît le professeur, non usi più quella brutta parola in mia presenza, mi rattrista, soprattutto quando è rivolta a un interlocutore assente, benché abbia nel nostro cuore un nome e un cognome insostituibili.» «Mi dispiace Madame, ma credo che malgrado tutto, nessuno possa essere altro da ciò che lo rende credibilmente umano, per quanto la consapevolezza della fine ci renda tutti mortali allo stesso modo, penso che a lungo andare la sola sofferenza d’amore ci trasformi in esseri immortali o viceversa, in poveri martiri.» «Una considerazione filosofica questa che mi rende la consapevolezza di non essere vissuta così tanti anni invano; anzi tutt’altro, conferma la mia certezza di voler vivere a lungo e poter dare un senso alla mia vita, sarà poi il destino a decidere, quando non l'abbia già deciso … se non altro per conoscere come andrà a finire, ah, ah, ah!», confutò Madame con quel pizzico di sarcasmo che sempre la distingueva. «Purtroppo è proprio questa la manifestazione più accreditata, la certezza della fine che tutti ignoriamo, ma che vorremmo conoscere quando siamo ancora in vita.» «Non è detto che ciò debba accadere molto presto, almeno è quel che spero. Tuttavia rispondo alla sua affermazione, con una personale idea che ho maturata nei confronti della vita: è precisamente questa ‘certezza della fine’ come lei dice, la missiva della ragione di cui noi tutti condividiamo l’uso.» «Vale a dire il diffondere la nostra opinione sulla fine affinché la si discuta, la si accetti o la si rifiuti, e non soltanto per vederci confermare le nostre ragioni. Entrambi siamo qui per questo, per condividere quasi tutto di quel che facciamo o diciamo per sentirci vivi, altrimenti ci sarebbe poco da fare e quasi nulla su cui riflettere», aggiunse Stephan, rammaricato che il discorso avesse preso una piega tanto amara. «Dunque lei, in quanto filosofo, non crede che la corretta lingua parlata da entrambi oltre a farci comprendere reciprocamente, serva a che si debba anche essere sinceri l’un l’altro?» «Tutt’altro, lo asserisco fermamente! Per quanto non è del linguaggio che si stava trattando mia cara, quanto di aprirsi a una filosofia della vita che non contrasta con i più sani principi della sincerità.» «Lei forse ritiene che la filosofia possa creare fantasmi raziocinanti capaci di far sparire un manoscritto da questa casa senza alcun consenso, è così?» Il rossore improvviso che d’un tratto rese paonazzo il volto del professor Stephan si spense dietro un pallore altero, facendolo sembrare un manichino senz’anima ridotto al silenzio. «Non creda che una simile accusa possa da me essere accettata così impunemente, tuttavia si sbaglia Madame Rose, ha invece tutta la mia comprensione, come del resto le confermo tutto il rispetto per quanto nel manoscritto è rivelato …» «No, certo, del resto neppure la sua filosofia contempla chi pure rimane per sempre con noi … a volte mi sembra di sentire la voce di mia sorella Martha, la sento aggirarsi attraverso le stanze di questa casa e che mi chiama…» «Mortale è chi muore in noi, non chi portiamo nel nostro cuore, è bene rendersene conto.» «Davvero lo crede? Io stessa parlo con lei qualche volta, nei giorni di vento, quasi che con il vento arrivi un afflato del suo respiro e sollevi le tende della nostra stanza, quando sono assopita. Ancor più quando s’avvicina il temporale. È allora che la sua presenza mi da la consapevolezza di qualcosa insito nel legame affettivo condiviso del nostro essere sorelle, amiche, e al tempo stesso amanti l’una dell’altra.» «Comprendo ogni cosa Madame e ne sono addolorato, se mai ha temuto che la sua confessione venisse svelata in uno scritto, ebbene confermo che proprio attraverso le pagine del manoscritto sono venuto a conoscenza del segreto che l’attanaglia. Un gesto deplorevole da parte mia, ma la prego, che almeno mi si risparmi il biasimo. Come lei, anch’io temevo vi fosse rivelata una mia inconfessata debolezza, probabilmente attribuita alla mia persona nella rilevanza creativa dell'immaginario confessato dal suo autore.» «Immagino sia questo ciò che sta cercando così affannosamente?», aggiunse Stephan, allorché recuperato il manoscritto dalla sua borsa lo consegnò nelle mani di Madame. «Mi si passi l'averlo preso volutamente e di averlo letto nel caso vi fosse detto qualcosa della mia intimità, mentre invece nel manoscritto si parla esclusivamente della sua, Madame. Non di meno vorrei evitarle l'ulteriore strazio di leggere quelle cose che sono certo la rattristerebbero.» Madame Rose che lo aveva ascoltato in silenzio, non trovando alcuna simulazione d’intenti per quanto accaduto, apprezzò molto il suo gesto spontaneo, più che mai convinta dell'onestà del professor Stephan. Così come fu certa della fiducia che da sempre Mimì riponeva in lei, allorché entrando con un piccolo vassoio d'argento nelle mani, recò un biglietto per Madame che, dopo averne letto il contenuto, palesò in volto il suo profondo rammarico. «Qualcosa non va, Madame?» «Nulla professore, è solo la defiance di un attimo, voglia scusarmi. Per quanto, riflettendo su ciò che Marcel possa aver narrato nel manoscritto, di quel ch'io stessa possa avergli narrato, va detto comunque ch'egli non era presente al tempo dell'accaduto, pertanto ogni sua rivelazione è di parte e in ogni caso riguarda solo me. Tuttavia, stando a quel che lei mi riferisce, dopo aver letto il manoscritto, posso ben condividere ogni cosa con lei, e non abbia timore di rivelarmene il contenuto … si'l vous plaît le professeur?» «È così, il nostro scrittore narra di fatti che forse non ha vissuto in prima persona, ma certamente deve aver elaborato da una qualche sua rivelazione Madame, altrimenti come potrebbe parlare di un fantasma che s’aggira imperturbabile nella Maison, ipotizzando un oscuro segreto sulla scomparsa di sua sorella Martha, succube di una pena coscientemente inflittale per una morbosa gelosia …» «La prego, non vada oltre …», esclamò Madame Rose incollando i suoi occhi in quelli del professor Stephan, intendendo con ciò di non proseguire nella narrazione, convinta che in fondo fosse un bene per lei non aver letto il contenuto del manoscritto nella sua intera stesura ... la ringrazio ma non intendo sentire altro, la prego ... lo faccia sparire!», aggiunse in fine piena di rancore restituendo il manoscritto nelle mani del professore. Mai fino a quel momento Madame Rose aveva mostrato in presenza di alcuno una così oppressiva emergenza psicologica tale da dover frenare una qualche reazione incontrollata che avrebbe potuto condurla a un’azione folle o, come era accaduto in passato, di imminente quanto colpevole fuga … «Ancor meglio sarebbe darlo alle fiamme, che bruci all'inferno insieme al suo autore!», esclamò Madame piena di rancore. «È davvero quello che vuole?» «Sì la prego di farlo sparire, lo distrugga, e che sia per sempre», aggiunse poi riflessiva, non sapendo dove posare il suo sguardo dopo l'avvenuta rivelazione. «Sarà fatto come lei desidera, Madame...» «Mimì! Mimì! - chiamò ripetutamente Madame attendendo il suo immediato arrivo - il prosessor Stephan ci lascia, lo accompagni si'l vous plaît … mi scusi professeur et merci, a bientôt», quindi si accomiatò in tutta fretta risalendo la scala interna che conduceva alle sue stanze private. Al suo ritorno Mimì trovandola stravolta come non mai, fece per soccorrerla. Dopo averla aiutata a spogliarsi e a mettersi a letto, le chiese se avesse gradito un po' della sua compagnia ... «Si'l vous plaît Mimì, adesso lasciami, fai in modo che non venga disturbata per nessuna ragione.» «Come Madame desidera, soggiunse Mimì augurandole un sereno riposo.» Nelle ore di dormiveglia agitato che seguirono, a Madame Rose tornarono alla mente alcune frasi di rimprovero ascoltate molto tempo prima durante una controversia che le risuonava famigliare … «Non siamo soli, qualcuno ci osserva attraverso le pareti, e tu sei una impudente sgualdrina a comportarti così, davanti a tutta la famiglia.» Per quanto, all’epoca dei fatti narrati, l’opinione degli altri non avesse per lei alcuna importanza, quelle parole pronunciate da sua sorella Martha con tanta veemenza, non esitarono a contrastare la sua presa di posizione di voler lasciare la Maison, che all'epoca fu giudicato un gesto folle dai suoi congiunti. Ne accusò il dolore profondo, convinta come allora di detenere un vantaggio esclusivo su tutti, una probabilità maggiore di chi, come Martha, non era affatto sicura di averlo: ‘la convinzione di poter raggiungere l’irraggiungibile’. Ma lei quella convinzione l’aveva riposta nella sua pazza idea di rincorrere l’amore per Alphonse, quel fidanzato che Martha aveva poi sposato e che Rose avrebbe voluto per sé.
Fu così che, quasi d’improvviso, si rivide lontana negli anni della sua giovinezza, sorridente e imperturbabile che attraversava correndo l’interminabile corridoio che collegava le stanze del piano nobile e raggiungere la scala sul retro della Maison che le avrebbe permesso di raggiungere il giardino … Più che mai adesso, rammentava di non aver avuto alcun ripensamento, né un attimo d’incertezza, lei «...fuggitiva da tutto e da tutti, per sempre», che si allontanava dalla Maison, correndo all'impazzata attraverso il sentiero per raggiungere Alphonse, certa ch'egli la stava aspettando al bordo del parco per fuggire con lei, ma non era stato così. A distanza di tempo nessuno ricordava quanto occorso alla Maison de la Ville in quegli anni lontani; né si seppe mai nulla dell'oscura morte della signora Martha, successiva alla partenza dell’amato sposo Alphonse per la guerra, da cui non avrebbe più fatto ritorno. Tantomeno dell’allontanamento da Parigi di sua sorella Rose che si disse andata in sposa per procura a un anziano console di stanza in una colonia francese d’Oltremare. Dacché la vetusta Maison de la Ville, rimasta chiusa per moltissimo tempo, finì per essere inglobata nella città che le cresceva attorno, ormai considerata un cimelio di un lontano passato, e che finì pressoché cancellata dalla memoria dei parigini. Finché un giorno, rimasta vedova, Madame Rose aveva fatto ritorno a Parigi dall’estremo Oriente e volle restituirla al suo originario splendore, trasformandola in una dimora residenziale esclusiva, per una clientela molto selezionata. Tale era la sua riservatezza che ormai solo alcune guide, tra le più vecchie ed esperte e qualche fidato chauffeur de taxi sapevano come raggiungerla. Ma solo dietro presentazione di un invito scritto rilasciato da Madame Rose, o che lei stessa avesse richiesto un tale servizio, e che, altrimenti, non sarebbe stato loro permesso l’accesso. Sul filo dell’ostinata dimenticanza di Madame Rose dei fatti che avevano contrassegnato gli anni della sua giovinezza, la Maison de la Ville aveva ripreso la sua attività per così dire 'consolare' annoverando numerosi ospiti di prestigio, e per quegli ‘amici degli amici di una certa classe’ che, in ragione di una qualche raccomandazione erano in cerca di una pausa confortevole dalla frenetica consuetudine del quotidiano, senza tuttavia allontanarsi da Parigi. Avvenne così che di tanto in tanto, una volta entrato nelle grazie di Madame Rose, Marcel Proust era solito farle visita per diletto, in ragione di venire a contatto con certe persone della 'bonne societé' piuttosto in vista, alle quali era solito dedicare le sue attenzioni di scrittore, e non solo. Conoscenze che, in seguito avrebbe trasferito sotto altro nome ne La Recherche, l’opera a cui lavorava ormai da qualche tempo. In quegli anni, una sorta di straordinaria quanto occulta intuizione, aveva permesso a Marcel di focalizzare in Madame Rose una figura dalla doppia personalità: l’una charmant e flessuosa quanto determinata, come una perfetta 'maitresse royale' che padroneggiava austera la corte immaginaria della Maison avvolta in un'aura di grandezza nobiliare. L’altra, più intima, fragile come una porcellana di Sévre in bilico su di un vassoio d'argento, che coltivava in seno una sofferenza profonda, capace di vagheggiare immagini e figure del passato che tornavano ad affacciarsi alla sua mente nei momenti bui di certe notti, in cui più avvertiva la presenza del fantasma di Martha aggirarsi nella sua stanza da letto. Allorché assalita dall’ansia, Madame Rose si disse che avrebbe gradito la compagnia di Mimì, che le sarebbe stato di conforto ascoltare la sua voce cantilenante leggerle qualcosa e, quindi, la chiamò ripetutamente invitandola ad entrare. Mimì che, in ogni occasione, sostava fuori della sua stanza, entrò e si sedette accanto al suo letto, e aperto il libro di poesie che a suo tempo il caro Alphonse aveva regalato a Madame, in occasione di un suo 'compleanno', prese a leggere con voce sommessa una poesia di Emily Dickinson tradotta dall'inglese ... “Era come sentire nel proprio intimo le avvisaglie di una prima incrinatura verso l’eterno. E tuttavia non ancora verso l’immortalità.”
Mimì vedendo che Madame si era un poco assopita, fece una pausa momentanea, tuttavia chiese a Madame se voleva che andasse avanti nella lettura, oppure … La riflessione contenuta in quelle frasi aggravò la fragile quietudine di Madame, quasi che le parole le giungessero dall'altra parte di un modo estremo che lei aveva appena sfiorato … «Ti prego Mimì, sceglierne un’altra si'l vous plaît» … Dacché l’attenta Mimì sfogliate alcune pagine del libro soffermò lo sguardo su una a caso e riprese a leggere con voce pacata …
“Gli spiriti normali / ritengono che il sonno / sia solo un chiuder gli occhi. /…/ Ma la mattina non è sorta ancora!” /…/ “Una rossa signora sopra il colle / mantiene il suo segreto! Eppure, come resta tranquilla la scena! / Che indifferenza mantiene la siepe! / Come se la “resurrezione” / non fosse niente di strano!”
Di colpo, l'immagine sfocata che s'impresse negli occhi di Madame, altri non era che quella di Martha nei panni della rossa signora che s'aggirava nei pressi di un colle coperto di gigli, testimoni della sua avvenuta resurrezione dopo il sonno profondo della 'morte', il cui lontano segreto custodito nel tempo, le riapparse improvviso sul volto sfigurato benché vivo di sua sorella. Era molto più di quanto il simbolico pronunciamento dell'Arcano Maggiore che ripetutamente quella sera si era presentato sul desco della sua interpellanza, stesse a significare. Come se per una sorta di affettiva presenza emozionale, il fantasma di Martha si spingesse a cercare nella sua fragile esistenza le ragioni della propria infelice assenza ... «Era un invito quello, rivolto a svelare qualcosa di nascosto, o forse solo a mantenerlo segreto nelle chiuse stanza dei ricordi?», si chiese. «Chissà mai perché c’è sempre la nebbia in ogni situazione che non si comprende?» aggiunse Madame Rose con la vista leggermente annebbiata, allorché poggiata una mano sul libro fermò la voce di Mimì e pian piano socchiuse gli occhi abbandonandosi al torpore che la fece assopire. Tuttavia non riuscì a evitare che dal forzato silenzio insorgessero i fantasmi del passato, e d'un tratto, nell'incedere evocativo del suo intimo segreto, Madame Rose scorse nel nero più profondo, il vivido riflesso di una supplica persuasiva, una richiesta d'aiuto che sapeva di riscatto ... Il fantasmatico volto opale della rossa signora le apparve nel buio della stanza osservandola dai piedi del letto. Indossava una camicia da notte di mussola con piccoli fiorellini delicati, tenendo fra le mani alcuni gigli da poco sbocciati. Aiutami Rose, disse, e con il braccio teso la invitò a levarsi e a seguirla. Rose non fece domande, si alzò dal letto e indossata una vestaglia, la seguì attraverso un lungo corridoio interminabile. Quindi, discesa la scala che portava al piano terra della Maison s'affrettò per starle dietro. Aveva appena attraversato il salone quando Martha si spinse verso la porta d’ingresso rimasta aperta e sparì oltre la soglia. Rose provò un attimo d’incertezza e scalza oltrepassò la porta immergendosi nella fitta nebbia che le offuscava la vista. Era a pochi passi da lei eppure non riusciva a raggiungerla. La rossa signora si voltava di tanto in tanto a guardarla in silenzio, implorandola muta di non fermarsi, di seguirla, ma ad ogni passo avanzato di Rose si allontana correndo a piedi nudi sull’erba bagnata. Rose la inseguì finché presa dall’affanno, inciampò e cadde distesa sull’erba, al limite del parco. Quando, risollevò lo sguardo vide Martha attraversare la strada, dirigersi verso un piccolo cancello ed entrare in una costruzione bassa con grandi finestre sulla facciata. Rose la seguì ma una volta affacciatasi sulla porta le andò incontro un’infermiera vestita di bianco, dall’aria alquanto sospettosa ... «Che cosa ci fa lei qui? Che cosa vuole?» «Io... non saprei, qualcuno ha bisogno di me, mi ha condotta fin qui.» «Non c’è nessuno qui che può aver bisogno di lei. I malati più gravi sono stati portati all’ospedale centrale. Piuttosto mi dica perché è in quello stato? Se ne vada o chiamo la …» «No, aspetti, la prego mi ascolti. Una donna dai capelli rossi ha chiesto il mio aiuto, potrebbe essere in pericolo di vita. È appena entrata qui, io l’ho veduta.» «Non è entrato nessuno qui, a quest’ora di notte. È un medico lei?» «No, sono una parente.» «Mi dica, è sicura di sentirsi bene?» «Si, credo di si.» «Aspetti, lei ha bisogno di un calmante. Poi mi prometta che se ne torna da dove è venuta. Anche perché non c’è nessuno qui, tutte le stanze sono vuote.» «Ne è sicura?» «O santo cielo! Faccio il turno di notte e so perfettamente quali sono le mie competenze.» «Non s’inquieti, per favore, dicevo così, tanto per dire. Perché non se ne accerta? Le dico che è entrata una donna qui, poco fa, che aveva bisogno d’aiuto. Mi creda. La prego.» «D’accordo, va bene mi segua, così se ne accerterà di persona.» Quindi si avviarono entrambe per un lungo corridoio bianco, con alcune porte chiuse anch’esse bianche che l’infermiera apriva una dopo l’altra lasciandole constatare che all’interno erano irrimediabilmente vuote. Rose la seguì passo passo in silenzio, guardandola desolata. Avrebbe voluto scusarsi con lei ma l’infermiera si allontanò, lasciandola sola nel mezzo di un'ultima stanza. D’improvviso la vide, la rossa signora cerulea nel volto disfatto giaceva distesa su un letto coperta da un bianco lenzuolo con gli occhi sbarrati. Rose era confusa, la trovava più vecchia di quanto le era sembrata solo qualche momento prima …
“Nell’assoluto mi sembrava assorta / di splendore e di cielo pensierosa. / L’onore di scrutarla con i miei occhi / fu di breve durata / disinvoltura argentea, la sua / nel volteggiare fuori dalla vista. /…/ ma ero troppo in basso per seguire / l’altissimo suo viaggio / la sua cerulea superiorità.”
Erano ancora le parole di Emily Dickinson a risuonarle nelle orecchie che Mimì seguitava a leggere durante il dormiveglia di Madame. La quale, svegliatasi di soprassalto, si guardò attorno desolata. Mimì non era più con lei, tuttavia la lampada sul comodino era ancora accesa, il libro aperto a pagina settecento quindici … «Eccomi, Madame ha chiamato?», domandò Mimì entrando, quasi scusandosi per averla lasciata sola. «Non dire nulla ti prego.» «Cosa c’è Madame, non si sente bene?» «Non ho riposato affatto.» «Spero non a causa della lettura … magari non è stata di suo gradimento?» «Invero Mimì, temo che il messaggio intrinseco di quelle parole contenessero qualcosa di cui dovrei temere.» «Ne sono desolata, io di certo non l’ho apprezzata più di lei per quel suo lato oscuro cui sono riflesse alcune verità occulte che non ritengo utile indagare.» «Ma che dici mia cara, c’è un lato oscuro delle cose che in qualche modo affascina. È un po’ come voler scandagliare l’altra faccia della luna, che non si vede ... “eppure so che il suo passo stillante si volge sempre in giro”. Ecco, forse ci sono, è questo verso che riassume il senso nascosto di quella poesia: oscura come l’altra faccia della luna, che sappiamo esserci ma che nessuno vede.» «Come di un segreto nascosto Madame?» «Sì, un intimo segreto che non ho mai rivelato a nessuno. Vedi Mimì, non sempre i segreti ci chiedono d’essere svelati, come in altri momenti nemmeno d’essere portati con noi nell’oltretomba. È come nell’arte dell’affresco il rinvenimento di una sinopia, in cui persiste ciò che è all’origine e che talvolta addirittura nasconde qualcosa d’altro, un’altra forma, il disegno preparatorio di una presenza non rivelata che si sottrae alla vista sotto il colore della pittura successiva; di cui non si è deciso ancora se mantenerne il segreto, oppure svelarlo. E poiché non è possibile salvare entrambe, spesso si tende a salvare il dipinto finale, sacrificando il disegno preparatorio, creativo dell’opera ultimata.» «Anche se la forza della sinopia è più che mai interessante? Nel senso che ci rivela l’origine assoluta della creatività, il mistero che ricopre l’intima passione da cui è successivamente scaturita l’opera d’arte?», chiese Mimì rivelando una certa acutezza di dialogo. «Va stabilito se vale più la forza della presenza o la passione che ne ha determinata l’assenza, la quantità e la qualità delle emozioni che hanno provocato il dubbio della scelta, della quale non ci è ancora pervenuta la risposta.» «Di solito una risposta siffatta è quanto più adatta a una domanda intelligente, e io non voglio deluderla. Credo che ciò che più emoziona, abbia diritto di precedenza sulla stucchevole realtà ultima dell’apparenza. Siamo portati ad amare ciò che ci piace. Non è forse così Madame?» «Se la sinopia è apprezzabile più dell’opera stessa, si salva la sinopia sacrificando il resto con un atto d’amore. E l’amore non è mai disdicevole, anche quando ci mette davanti a una scelta. Non c’è ragione che tenga contro la forza dell’amore, anche quando quest’ultimo si colora delle tinte aspre della passione.» «O dell’odio, Madame!» esclamò Mimì. «L’amore in fondo è anche odio, è il suo perverso contrario, persegue uno stesso fine, ciò che non può l’indifferenza.» «Anche quando l’odio ci parla di morte?» «Si muore anche per amore Mimì, e l’odio è il suo massimo esponente. Con la differenza che mentre l'amore è la scintilla della passione, l’odio più spesso è la fiamma che rende la vita un inferno.» «Non saprei Madame, non sono mai stata sposata, ho accettato di vivere nell’ombra.» «Al contrario di me, mia sorella Martha, che vedi in quella sbiadita fotografia, era senz’altro la più bella. Il suo fidanzato Alphonse era un soldato in carriera. Venne a trovarci durante la guerra. Si sposarono. Rimase con noi due mesi. Era d’estate, la più bella che io ricordi. Poi ripartì per il fronte e non fece più ritorno. Dal nostro segreto amore nacque una bambina, Magdeleine, che di nascosto da tutti, lasciai in affidamento a una famiglia nel sud della Francia e mi trasferii in Oriente. Quella figlia che ho ripreso con me alla morte dei suoi genitori adottivi. Mia sorella Martha non ne è mai venuta a conoscenza. Anche se in un certo momento della sua vita disse di aver avuto una visione, dopo di che, cadde in un coma profondo dal quale non si è più ripresa, fino all’ultimo dei suoi giorni» …
“Noi fummo spose in una sola estate, / o cara, in giugno fu la tua visione / e quando cadde la tua breve vita / anch’io mi sentii stanca della mia. / Abbandonata da te nella tenebra / mi raggiunse qualcuno / che portava una lampada [accesa] / e ricevetti il segno io pure” …
Era pur quanto recitava in un altro passo la Dickinson che Madame Rose teneva ben presente nella memoria, rammaricandosi con la devota Mimì, che l’ascoltava raccolta in tutta la sua orientale mestizia. «Non volermene Mimì se ho mantenuto il segreto anche con te che mi sei così cara, ma adesso che più s’appressa il momento della mia dipartita, ho intenzione di rivelare a Magdeleine ciò che non sa e restituirle quanto più gli spetta, non in ultimo il suo vero cognome.» «Mi permetta un ragionevole dubbio, non riesco a pensare sia interessata a una così imprevista rivelazione.» «No, neppure io lo credo. Si da il caso, che Marcel abbia rivelato questo mio segreto che fin qui non ho mai osato rivelare al alcuno.» «Mi chiedo cosa farà adesso Madame?» «Riguardo a che cosa, Mimì si'l vous plaît?» «A proposito del manoscritto …» «Perduto dicevi … forse! Entrambe sappiamo che nulla va mai perduto definitivamente, siamo noi che più spesso ci perdiamo nei viluppi delle parole trasformandoci in quei fantasmi talvolta beffardi e dispotici, spesso ‘affattucchiati’, capaci di rendere questa vita un po’ meno amara tirando qualche scherzetto in buona fede, così per ammazzare il tempo della malinconia e della solitudine ... quei fantasmi che s’aggirano nei labirinti dei nostri illeciti dubbi, quando in coscienza sappiamo benissimo dove stiamo andando e cosa stiamo facendo.» «Maschere della nostra incoscienza, l’aveva pur detto il professor Stephan», soggiunse Mimì assaporando un ché d’amaro sulle labbra. «Ma come si sa le maschere nascondono una doppia identità: drammatica o gioiosa, spetta a noi decidere quale scegliere per meglio presentarci sulla scena. Siamo tutti costantemente proiettati sulla scena di un teatro invisibile, dove gli opposti talvolta si sostituiscono alla ‘verità’, fuori dalla realtà di un mondo estremo, e questa Parigi edulcorata in cui ci è dato vivere è la cornice perfetta per la sua rappresentazione, non credi?» «Finzione Madame, finzione!» «No Mimì, realtà.» «Ma non perdiamoci in chiacchiere sil vous plaît, tu ben sai Mimì che ognuno dei nostri ospiti s’aspetta di trovare nella Maison una benevola accoglienza e una ancor migliore ospitalità. Come dire, di ritrovarsi al centro di un amabile ‘incontro con la bellezza’, per quanto effimera essa possa sembrare, vedi di farlo intendere al personale di servizio Mimì, sil vous plaît, è quanto di più mi aspetto da te.» «E noi saremo qui ad attenderli come sempre, a braccia aperte, non è forse così, Madame?» «Mais ouì ‘La fin ce n'est que le commencement !’ mon cœur ami.» L’indomani alla Maison de la Ville, allorché proseguivano i preparativi per il tanto atteso ‘anniversario’ che Madame Rose voleva festeggiare con gran sfarzo. Dal canto suo Mimì aveva un bel da fare nel disporre ogni cosa secondo il desiderio esplicito di Madame: dalle luci più o meno soffuse delle lampade Liberty che molto risalto davano agli arredi d’epoca, alle innumerevoli composizioni di fiori multicolori i cui riflessi si spegnevano nella moltitudine degli specchi alle pareti. Per non dire della disposizione dei tappeti e dei dipinti orientali su seta che avrebbero adornate le stanze di ricevimento e che avrebbero reso la Maison splendida di uno sfolgorio pari a una dimora regale, per il piacere esclusivo degli ospiti che avevano accesso nell'enturage esclusivo e amicale di Madame Rose ... E che dire di Parigi? Beh, Parigi era comunque Parigi, la 'ville lumiere' vestita alla moda, alle prese con quella ‘joie de’ vivre’ che le la Belle Époque elargiva a piene mani, aprendosi ad ogni possibile e/o impossibile accadimento. L'indomani nulla sarebbe cambiato di quel 1900, un continuo andirivieni di vendeur de journaux, di gigolò nullatenenti e di garçon che invitavano i passanti a entrare nei bistrot e nei numerosi 'boites de nuit' onde passare una notte di svago più incantevole che mai …
... quasi si fosse sulla scena di un vaudeville rumoroso e fin troppo movimentato.
FINE
Nota d’autore.
Trattasi di opera immaginaria i cui personaggi fittizi e luoghi reali hanno lo scopo di conferire veridicità alla storia narrata. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone viventi o scomparse è assolutamente casuale. Naturalmente tutti gli errori sono solo miei.
Bibliografia di consultazione:
Marcel Proust, “Alla ricerca del tempo perduto” – I Meridiani Mondadori 1983. “Album Proust” – I Meridiani Mondadori 1987.
Emily Dickinson, “Tutte le poesie”, I Meridiani – Mondadori 1997.
Id: 885 Data: 19/11/2022 02:11:03
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- Poesia
’Ostrakon’ composizioni per immagini di Alessandro Ghignoli
“Ostrakon” … composizioni per immagini di Alessandro Ghignoli Anterem Edizioni – 2022. Sì che alla luna… come alla pagina bianca “ogni verso ‘scritto’ è grido di perdono”, s’addice chiedersi quale esigenza, se è lecito, la poesia ha ‘d’essere veduta’? Che cosa ha spinto l’autore alla sua visualizzazione grafica e disporla per immagini? Poiché l’immagine di per sé non necessita, come la poesia, d’essere ‘cantata’ o quantomeno letta e ‘ascoltata’, ma va semmai disposta sulla carta, dipinta sulla tela, fotografata, filmata e quant’altro offre oggi la più avanzata tecnologia in fatto di consumo, sì che si è finiti, è questo il caso, di dare ad essa … “il contorno il limite e la forma / fino alla coscienza geometrica / di una razionalità si muove / l’immagine simmetrica e chiara / nell’equilibrio dell’insieme vivo”. Che è poi esattamente l’opposto e/o il contrario del senso espresso da sempre dalla ‘poesia’ ufficializzata di imposti canoni letterari e che, per quanto abbia fatto il suo tempo, si permetteva al lettore di ‘capire’, per così dire, di ‘misurarsi’ con la propria memoria immaginifica, data la straordinaria capacità creativa d’immaginare dèi e demoni abitatori di mondi impossibili come ‘il paradiso’ e ‘l’inferno’, ed anche dare adito a eroi e mostri, per autopunirsi dell’inefficienza di un ‘perdono’ mai obliterato da alcuno… “senza purezza pura / mista mista mistura / nello strano straniamento / parlatura […] così forte e dura dimora / non di moda è la parola / in trasmutanza”. Non a casso Alessandro Ghignoli usa due sostantivi come ‘straniamento’ e ‘trasmutanza’ onde porre i suoi costrutti entro i limiti di un possibile/impossibile, per chi osa guardare e ascoltare, che aprono al ‘senso’ della sua inespressa voracità del "tuttuno", cioè di quell’insieme che dà l’esatta dimensione del tempo in cui viviamo, forsanche della società che ci siamo costruiti addosso… “È nell’intermezzo, o nell’intervallo di suono / dove anch’io posso dire un poco io sono, / nella perdita e nella permuta di ogni caduta”. Scrive ancora l’autore in un’altra sua involuta ‘composizione per immagini’ in cui “l’istantanea di una transizione” si presta a quel “io sono” cui per un precipuo concetto di finitudine non è dato sapere. Sì che ognuno può dirsi ‘forma’ e ‘pensiero’ di quello che è… “l’abisso che sprofonda nella solitudine di chi si è / giammai dire io sono / io sono, io sono, se mai io sono / […] corpi e anticorpi della meschinità / indignazione (?), moralismo (?) / condizione dell’essere che ‘non è’ / che non è dato d’essere (?) /muti nel tempo che stanzia / nella totale mancanza di volere”. (GioMa) … Allora cos'è, cosa non è quell'io cui dobbiamo la nostra essenza? “sputa ciò che tutto / dentro il vissuto muta / ci sono non ci sono / solo le parole sono /la maschera vera / la vera cera impressa / di voce rinata ancora / in una terra promessa /immune in me insieme /nei miei me stessi me.” Quand’ecco l’ultimo verso torna al principio, a quel “grido di perdono”, al “la stessa preghiera / l’odore del dolore / il grido di ogni verso”. Quello stesso grido che Munch ha levato, solo apparentemente 'muto', eppure così pregno d’angoscia per la sorte di chi l’osserva, più del singolo grido un vero e proprio ‘urlo’ contro la cecità dell’umanità intera. Quel dipinto che alla luce dell’arte possiamo ricondurre a un antico “Ostrakon”, dal titolo della raccolta da Alessandro Ghignoli, più propriamente al pezzo ‘rotto’ di terracotta dipinta che a suo tempo riportava l’immagine di una ‘presenza’ umana poi trasformata in ‘assenza’ e tuttavia propria dell’essenza ch’era stata… “sono tutti questi corpi questi effetti di corpi uno sull’altro vicino e lontano l’altro forme indiscusse e spettacolari di forme contenute in spazi fuori i meccanismi […] in lingua viva e intrecciata e poi morta e poi riscoperta oltre il nuovo il monolinguismo somigliante […] di quella parte in allegoria in questa viva vitale vita alfabetica i solchi i solchi i solidi soliti sordi ascolti e poi e ancora voi noi alla ribalta in rivolta volta a chi sa a chi nelle favole perde il certo per l’incerto”. In altro modo l’autore affida ai versi e alle immagini composite d’una scrittura ‘graffita’, seppure nel rimescolio delle tecniche moderne, di recuperare l’ininter-rotto messaggio dell’"Ostrakon", che ci parla dal passato, per quanto vagheggiato ed elaborato, che pur sempre denota la sua caducità di frammento che Stefano Guglielmin ben definisce - nella sua postfazione al libro – in quel: «…sopravvivere nei lacerti semantici, nelle censure e nelle cancellazioni, nel cercare l’unità in lingue altre, vive e morte, in un meticciato inevitabilmente caduco; la stessa caducità che ci pervade prima nel corpo e poi nella parola, che è anch’essa - qui anzitutto - corpo, materia sonora e visiva. […] dove, l’apparente artificiosità stilistica che cerchiamo nella poesia contemporanea» s'avvale dell'imprinting originario che ha dato forma ad "Ostrakon"… “scrivi tutte le parole possibili - dice ancora l'autore - copiale registrale diffondile con fotocopie e libri scrivile tutte e poi cancellale e poi scrivile e poi riscrivile tutte ancora insieme dille dopo solo dopo solo davvero dopo cancellale ancora e ancora anche dopo”, ... e ancora fino all'infinito. L’Autore. Alessandro Ghignoli, poeta, critico e traduttore di lingua spagnola e portoghese ha all’attivo un’ampia produzione letteraria anche in prosa. È vincitore del Premio Lorenzo Montano 2009 con “Amarore”. Più di recente tra le monografie va ricordato “La comunicazione in poesia. Aspetti comparativi del Novecento spagnolo” 2013, e “Transcodificaciones de avanguardia en Italia”.
Id: 884 Data: 13/11/2022 12:06:23
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- Poesia
Flavio Ermini - Perché la poesia - Anterem Edizioni 2022
“FLAVIO ERMINI … O LA RICERCA INFINITA DELLA POESIA D’AUTORE”
L’uscita quest’anno di un volume interamente dedicato a Flavio Ermini, poeta e saggista, fondatore della rivista letteraria Anterem, rende omaggio a un pensatore del nostro tempo che ha speso la propria vita alla ‘ricerca infinita della poesia d’autore’, che ha accolto insieme a nomi prestigiosi della letteratura mondiale, una selezione altamente specialistica di autori contemporanei italiani che sono approdati al Premio Lorenzo Montano con ‘sillogi poetiche’ di alto profilo letterario, corredate da prefazioni e/o postfazioni saggistiche affidate a studiosi del settore. Il volume oltre a raccogliere i numerosi editoriali pubblicati da Flavio Ermini negli anni che lo hanno visto impegnato nella selezione dei diversi autori per la rivista Anterem e il Premio Montano, accoglie un saggio introduttivo di Marco Ercolani, psichiatra e scrittore attivo in ambito mitologico-narrativo; e la postfazione di Daniele Maria Pegorari professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea dell’Università di Bari, e condirettore della rivista interdisciplinare “Incroci”. Quanto si rileva dai due scritti che accompagnano l’uscita di questa ‘monografia’ dedicata, rende al lettore l’esatta dimensione della cifra autorale di Flavio Ermini e della sua particolare tendenza dello ‘scopritore’ di talenti, essendo egli stesso poeta che “dall’uomo pretende una fedeltà inesauribile all’essere poeta immerso nel pensare poesia”, come un “padre chino su un inginocchiatoio, che protende lo sguardo verso l’infinito” (GioMa). “L’essere umano è il suo avvenire ma anche la domanda sul suo avvenire, cioè non solo esiste, ma vuole sapere il perché della sua esistenza.” (Fabio Squeo)
“L’alto dei cieli non ha fondamento né gravità l’alto dei cieli discosto com’è dal fuoco al pari del mondo abitato che dalle acque creaturali viene circoscritto per quanto non si tratti che di assecondarne la caduta consentendo così alle forze relittuali di protendersi una volta ancora verso il principio per misurare delle forme il grado di accoglienza nell’inclinazione dei sensi entro i poli del finito in cui si situa il divino per annunciare il dolore.” (Flavio Ermini)
Immagini per a-solo di poesia.
Con l’affermazione “La poesia non è un genere letterario”, tema del Simposio aperto nell’Ottobre 2017 alla Biblioteca Nazionale Braidense, Flavio Ermini, poeta, narratore e saggista, nonché direttore ad interim della rivista di ricerca letteraria Anterem fondata nel 1976 con Silvano Martini, di fatto conferisce alla ‘poesia’ una prospettiva dinamica privilegiata che la distingue dalle altre forme narrativo-letterarie, in ragione di una empatia sostanziale che l’accomuna al canto e alla musica, per lo più afferenti alla sfera del patrimonio immateriale. La ‘poesia’, non necessariamente scritta, offre quindi la possibilità di catturare molti aspetti della vita delle immagini che ancora oggi sfuggono alla descrizione letteraria, per quanto la si concentri in due ambiti distinti che si profilano nella nostra incompiutezza e nella nostra mancanza d’essere, ancorché non rispondenti alla domanda sulla nostra esistenza. Da un lato, quindi, la rappresentazione onomatopeica della ricerca linguistica oltre che acustico-sonora che è all’origine della parola, e “che consente di riguadagnare la continuità originaria tra parola e mondo”; dall’altro, l’avanzare costante di una ricerca che adotta dalle varie scuole stilistiche, i differenti approcci teorici e metodologici, riguardanti “il pensiero visivo” e la “percezione dell’immagine”, qui intesa nell’accezione di “percezione delle forme dell’arte”. La poesia dunque, come forma d’arte a se stante di un “pensare che può strettamente coniugarsi con il poetare, alla luce di un rapporto sempre nuovo tra parola e senso”, e per quanto la “ricerca di senso” possa oggi sembrare in contrasto con l’attualità intimistico-minimalista inerente più all’indicibile che al non-detto; o, diversamente, con il linguaggio massimalista-globalizzato in cui la poesia ripone la riflessione sul senso che, seppure in differenti modalità di ricezione e comunicazione, ciò non diminuisce la portata antropologico-culturale del messaggio poetico che racchiude in sé. La natura della poesia, infatti, si avvale di suoni ‘suggestivi d’immagini’ che si traducono in lineamenti audio-visivi conformi alle diverse espressioni dell’arte tout-court; e successivamente in forme connaturate al canto e alla danza (vedi il canto degli uccelli, la danza di corteggiamento di molte specie animali, ecc.). Ciò che nel tempo ha permesso di penetrare l’universo sonoro dell’habitat in cui viviamo, riscattandolo da culture e tradizioni diverse, entrate a far parte del ‘patrimonio immateriale’ dell’umanità. Ma ‘vedere la poesia’ nelle immagini della rappresentazione visiva, ed ascoltarne la musicalità intrinseca (nelle forme come nei colori), fa capo al concetto fondamentale della ‘performance‘, (Victor Turner) inerente all’estetica e al liminale: La ‘performatività’ può essere utilizzata come chiave interpretativa di alcuni caratteri delle nuove tecnologie e in particolar modo può essere una nozione utile per connotare di una veste teorica la ‘costruzione di senso’ attraverso l’agire favorita dagli strumenti mediatici digitali, oggi a nostra disposizione. “Per comprendere appieno questo concetto è però necessario leggerlo come pratica necessaria a una ridefinizione critica del reale e potenziale non-luogo di margine e di passaggio da situazioni sociali e culturali definite a nuove aggregazioni sperimentali. La riflessione teorica sul concetto di ‘performance’ permette infatti di penetrare le fenomenologie liminoidi (zone potenzialmente feconde di riscrittura dei codici culturali) e da qui anche la trasformazione sociale stessa” (Wikipedia).
Poesia per immagini.
Con l’aver dato ‘forma scritta’ al ‘dire’, attraverso il percorso accidentato dei segni grafici e, successivamente, alla sua trasposizione simbolica in quanto metafora figurativa, la ‘poesia’ assurge alla sua forma preminente di ‘creatrice d’immagini’, raggiungendo il suo apice nell’aver dato ‘voce’ all’immagine che la rappresenta. Per cui attribuire alla ‘poesia’ una certa corrispondenza e/o la relazione con l’immagine (grafica, pittura, scultura, fotografia ecc.), è inevitabile. L’alleanza introspettiva, di segreta comunicazione fra le parti, è, per così dire, incommensurabile. Al punto tale che un’immagine è poetica anche senza la suggestione del verso scritto che l’accompagna. Allo stesso modo che si può vedere un componimento poetico, se non addirittura ascoltarlo, senza la necessità di utilizzo di una immagine o di una forma specifica d’arte. In questo la ‘poesia’ è paritetica alla musica, al canto e alla danza, perché: “fonte di formazione e deformazione di un nuovo atto significante.” (Giorgio Bonacini).
Atto comprensibile di un prevedibile prosieguo di andare ‘oltre’ la forma, aprire un varco subliminale al testo scritto o figurativo, alla esegesi della parola contenuta e/o scivolata negli interstizi bianchi che intercorrono tra le righe, in cui il ‘dire’ risulta destrutturato dalla forma del ‘voler dire o non voler dire’ (nel senso di edificazione); e dal logos in quanto pensiero e verbo (edificante) del poetare. “Il dire del poeta ci parla di un ‘altrove’ dov’è in opera una prospettiva rovesciata rispetto al mondo sensibile” – scrive Flavio Ermini (in “L’altrove poetico” Editoriale n. 95 - Anterem), in cui l’immaginario è il vero interfaccia del poeta che se “non nomina le cose esperibili”, pur si avvale di binomi di ‘senso’ come: fisico-psichico, interiore-esteriore, indefinito e comunque intenso e/o estremo. Allora l’ ‘altrove’ è il Nulla e il Tutto è l’oceano e il deserto, la germinazione e la seccura, la speranza e l’abbandono, il moto e la quiete, l’essenza e l’assenza, l’immobilità e il trapasso, la stasi e la morte, plausibilmente contenuti nel dialogo poetico. Immagini e forme queste, preminenti di concetto e contenuto, tuttavia impossibili da identificare e/o configurare se non nell’ambito di un ‘altrove’ in costante trasformazione, nelle differenti modalità di una cultura recepita nelle sue diverse identificazioni verbali-acustiche e sonoro-musicali, nonché coloristiche e luminose che danno luogo alla trasparenza dell’aere, in cui il ‘senso smarrito della poesia’ si ritrova e ci orienta verso il mistero del nostro essere. ‘Immagini coloristiche’ e ‘forme poetiche’ dunque, come memoria storica dell’esistenza antropico-naturale compresa tra realtà massima e finzione estrema, all’interno di una location-abitativa e una docu-fiction in cui la presenza e/o l’assenza umana si realizza nello ‘sconfinamento di senso’, allo stesso modo che nell’espresso sentimentalismo e nell’amore fugace, nella commedia liminale (farsa), come nella drammaticità luttuosa (tragedia), al livello della soglia della coscienza e della percezione.
Le dimore della poesia.
“Qui si viene non per celebrare una dimora, un giardino, ma perché ci si è persi” – cita Flavio Ermini (in “Non c’è fine al principio” Editoriale n. 94 - Anterem). La frase è del filosofo Lacoue-Labarthe alla quale inavvertitamente sembra rispondere proponendo alla lettura un’altra frase: “Se volete incontrarmi, cercatemi dove non mi trovo. Non so indicarvi altro luogo.”, del poeta Giorgio Caproni (in “L’altrove poetico” n. 95 - Anterem). Un non-luogo dunque che pure è “il luogo che ospita la domanda sull’essere, testimoniando la profondità della physis quale si era rivelata agli albori del pensiero”. Se si considerano qui le due frasi contigue, non senza una forzatura intellettuale, si potrebbe qui raffigurare un ‘ossimoro’ dove dimora-persi / altro luogo (dove non mi trovo), spingono verso quell’ ‘altrove’ dove “non c’è fine né principio”, che è poi il luogo della ‘poesia’, in cui:
“… la natura può ancora parlarci come all’origine parlava ... dove le antiche parole tornano alle nostre labbra come strappate al silenzio; vere quanto è vero lo sgomento dinanzi all’inconoscibile.” (Flavio Ermini)
Ancora più significativo è il principio immateriale poetico espresso nella ‘physis’ nel quale fin dall’antichità si cercò di cogliere il ‘senso’ della realtà in cui l’uomo è immerso nel suo divenire: “La poesia impone di accettare l’essere nel mondo in cui si dà, e implica un interrogarsi sul venirci incontro della molteplicità, un interrogarci sul come la parola può salvaguardare l’essere dall’apparenza. La parola è poetica – e quindi vera – allorché fa sì che l’essere sia. È in questo ‘lasciar essere’ che la parola svela il senso (della poesia) ed è dunque presso di essa quando ne preserva la differenza”. Differenza in quanto termine di opposizione e contrapposizione che interviene a spiegare le realtà particolari intrinseche della funzione poetica sottoposta al divenire, che dev’essere immutabile, previo l’inconfutabilità del pensiero che l’ha espressa, nel modo e nei termini del poeta, perché verità dell’essere. Il ‘gioco filosofico’ (perché di questo si tratta) si avvale qui dell’interposizione di punti di riferimento alquanto labili, in cui la ‘poesia’ è sinonimo di mobile (solubile), contro la ‘parola’ per sua natura immobile (insolubile), malgrado l’alterità dei contrari che ne negano la relativa effettuazione. Si ha dunque che se possiamo considerare la ‘parola’ come ‘liquida’ per effetto della ‘retrotopia’ (Zigmunt Bauman) in atto; ancor più la ‘poesia’ si fa evanescente, si volatizza nell’aere, spingendosi nella germinazione del nuovo che, al pari della fotosintesi clorofilliana s’avvale della metamorfosi della forma data, onde per cui dissoi-logoi “le parti mutano ma tutto resta immutevole” (Anassimandro), in quanto le differenze ‘affermazione e negazione’ mantengono uno stesso valore. Sta di fatto che in qualità di scrittore e poeta Flavio Ermini, si inserisce nel ‘gioco’ sfruttando proprio questa formula inconfutabile con le sue pertinenti scelte Editoriali, interponendosi, per così dire, nelle linee direttrici della raccolta dei testi che compongono ogni singolo numero della Rivista Letteraria Anterem ormai giunta al suo numero ‘Gold’ di 100.
Alcuni esempi di ‘altrove’ poetico:
“Non m’interessa pensare al mondo al di qua del mondo” (Nietzsche) “Si potrebbe dire che abbiamo due destini: uno mobile e senza importanza, che si compie; e un altro, immobile e importante, che non si conosce mai.” (Musil) “Lontano dal cammino degli uomini.” (Parmenide) “Ma i viventi commettono tutti l’errore di troppo forte distinguere. Fiorire e inaridire sono a noi ugualmente noti.” (Rilke)
Alcuni dialoghi inerenti all’ ‘altrove’ poetico:
“Poesia e pensiero in dialogo” - di Adriano Marchetti, in Anterem n. 95 - Dicembre 2017 (estratto).
Poesia e pensiero sono distinti come i due poli in cui si coniuga il linguaggio, in ciò che vi è di più profondo, di più elementare e più iniziale, per vibrare infinitamente in tutta la sua estensione. […] Appartiene alla tradizione occidentale una poesia che parla nella convinta presunzione di essere poetica. Diventa arte, il suo rapporto con la filosofia è apparso difficile, forse ossessivo. Nell’arroccamento sul proprio territorio autonomo e nella irresponsabilità verso qualunque altra disciplina che ha attraversato, si riflettono i grandi stereotipi: si dice per esempio che la poesia è irrazionale, emozione, sentimento, immaginazione, rivelazione. Mentre il pensiero sarebbe rappresentazione, razionalità, logica. Il filosofo, difende in forme diverse la sua idea. Il poeta maschera in forme diverse quell’idea. L’ambiguità che nel filosofo è una colpa, nel poeta è un pregio. […] I decostruzionisti giungono persino a ipotizzare che poesia e filosofia siano la stessa cosa e che si diversificano solo nella scrittura che utilizzano. […] La filosofia inizia come una domanda di senso e non ripudia la rivelazione verbale del canto. E la poesia sa di trasmettere un certo sapere. C’è, per così dire, una sovranità terroristica della poesia rispetto a una sorveglianza sapiente dei filosofi. Il tessuto del linguaggio filosofico si sottopone a una sorta di metafora continua, costringendo gli stessi concetti che utilizza a trasformarsi. In più ambiti i filosofi riconoscono nei versi forme dell’esperienza che già hanno avuto una sorta di canonizzazione filosofica; si fanno aiutare dai poeti in ciò che dicono a cornice della loro opera. Tuttavia non si tratta né di poesia filosofica né di filosofia poetica. Per comprendere tale indissolubilità e insieme singolarità occorre risemantizzare i due termini del rapporto. La poesia che pensa supporta la contraddizione, porta dentro di sé il pensiero e resta come in attesa sulla soglia, lasciando che le domande siano sospese al centro della coscienza profonda e dolorosa dell’ambiguità. Da una parte il rigoglio dell’essere e dall’altro la sofferenza – facce di una stessa medaglia – fanno sì che il poeta assuma su di sé …
“...tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia” (Arthur Rimbaud). […] La filosofia non smette d’interrogare la poesia e si trattiene su quella soglia dove la poesia continuando a pro-vocarla e a sfidarla, le restituisce le parole con un tono nuovo”.
Qui la poesia smaschera la filosofia se questa presume di essere l’ultima parola del mondo. L’ultimissima parola non è mai stata detta; risuonerà al di là del mondo, altrove. […] Dal canto suo il pensiero impedisce al canto di essere poesia di se stessa. Né identità né confusione, né esclusivamente ombra né piena luce, né reciproca impenetrabilità. Il loro dialogo è possibile a condizione che il pensiero non sia ridotto a espressione logica autosufficiente e che la poesia non sia compresa come un riflettersi estetico di se stessa. La nostra epoca, enigmatica nella sua oscillazione tra illimitata potenza e radicale alienazione, ci offre la prova dell’assenza di fondamento. […] Il tempo favoloso della scoperta del mondo – l’infanzia del mondo – è solo un relitto alla deriva, e risibile è il progresso nella sua presunzione di perfezione ‘naturale’. […] Il linguaggio raggiunge il poeta che lo eredita per la sua estrema sfida nell’epoca di compimento ed esaurimento della metafisica. […] Anche la filosofia, o (ri)pensa se stessa su modalità conoscitive che a lungo andare la inducono a riconoscere il proprio vuoto, o deve uscire da sé, dal circolo virtuoso dell’auto-trasparenza, rinunciando al dominio logico che si dà ragione da sé. La separazione tra poesia e pensiero è in realtà una relazione unitiva dei due modi ritmici che portano il linguaggio al linguaggio. La poesia dà da pensare al pensiero e si accolla il dovere di pensare, ma non si pensa. Da parte sua, il pensiero, benché con modalità differenti, scruta la poesia, impedendole di essere poesia della poesia, cioè auto-legittimazione di fronte al pensiero. Quest’ultimo, per quanto assolutamente radicale, non è in funzione di una conoscenza fondatrice, ragionevole e rassicurante, così come la poesia non è letteratura assoluta né tanto meno mistica ante litteram. […] La loro conversazione accade nell’intersezione della loro comune origine. L’origine non può essere pensata né come nulla né come qualcosa; la poesia scaturisce tra quel nulla e quel qualcosa, tra l’indefinito della negazione e la potenza dell’affermazione. Tra il nulla del nichilismo che nega il reale e l’illusione della rappresentazione che imita la natura c’è questo luogo vuoto, in cui ciò che è può apparire e raccogliersi nel suo dire silenzioso: un prima dell’inizio, un movimento inaugurale – vibrazione scaturente di ciò che perviene continuamente a sé. Non c’è origine, ma accordo immediato con una perpetua nascita a cui s’intonano i modi e le interrogazioni della scrittura, attraverso l’arte della variazione, della brevità esplosiva dell’istante al vocativo ostinato, verso qualcosa che si rivela riservandosi. […] La parte radiosa, l’alêtheia della physis, si lascia intravedere solo sfuggendo alla vista. Il suo dischiudersi universale appare nel suo ritiro in seno all’oscurità, dove la parola si rifiuta di dimostrare e decifrare, facendo solamente segno alla sua scaturigine. (Del resto), … se fosse la piena chiarezza, sarebbe compiuto e immutabile; se fosse totale oscurità, il suo accesso sarebbe impossibile. L’esperienza della rivelazione è nella rivelazione stessa, nel circolo del rivelarsi sottraendosi. Il poeta corre il massimo rischio, arrischia la propria identità di poeta:
“Io è un altro”, enuncia Rimbaud. “… di insensato gioco di scrivere”, avverte Mallarmé. “… di cadere in servitù di parole”, parla Ungaretti. “… (rischia) attraverso l’intuizione della ‘decreazione’, l’unico atto autentico di donazione la sua identità”, è quantto afiora negli appunti di Simone Weil.
Da “Il lavoro della poesia” – di Giampiero Moretti, in Anterem n. 95 - Dicembre 2017 (estratto). “La grandezza artistica (del fare poetico) può mai essere storicamente efficace, può inserirsi nel processo del divenire?”; (la domanda è così posta nel saggio “Problematica della poesia” da Gottfried Benn), e si pone nella prospettiva evoluzionista interpretata in senso biologico-meccanico, e non invece in senso ‘spirituale’. Spirituale vuol dire per Benn: che il cambiamento, lo sviluppo, nel grande e nel piccolo, avviene in senso goethiano, in maniera tale cioè che sia una variazione sul fondamento e non una variazione-accrescimento del fondamento. In campo poetico, la differenza sta nel fatto che nel primo caso l’individualità lirica resta ‘soggetta’ a una sostanza che, mutandosi, muta il soggetto poetico, mentre, nel secondo caso, l’individualità lirica assoggetta a sé il fondamento che, il fatto, scompare nell’Io che lo ‘esprime’. Il fondamento insomma, ‘resta’. […] In effetti, Benn sottolinea la preminenza della libertà poetica dell’Io lirico sulla meccanicità della sostanza interpretata in senso positivistico. […] Tra le considerazioni più degna di nota, e massimamente in linea con il pensiero di Nietzsche, troviamo quella secondo cui «l’Io è un tardo stato d’animo della natura, e addirittura uno stato d’animo fuggevole», ricondotta perciò al contesto fortemente nietzschiano all’interno del quale e dal quale nasce la prospettiva poetica di Benn, quella affermazione significa che l’Io ha un ‘suo’ tempo, dal quale emerge, e che esso è del pari fatto di tempo, e ciò senza alternative, senza ulteriori possibilità che non siano veri e propri inganni, abbagli (non insomma finzioni poetiche ‘volute’). […] Tra queste due strettoie, l’Io poetico esprime la sostanza, che non è però mai un mero niente e che quindi non può mai semplicemente appartenere all’Io che la esprime. […] E tuttavia: quell’espressione è dell’Io, gli appartiene come una ‘cosa’, una pertinenza (?) La poesia (e la sua espressione dell’Io) non viene tanto legata e collegata alla vita ‘spirituale’ del singolo, quanto piuttosto al suo ‘corpo’, come zona autenticamente antica, arcaica, in cui in qualche misura riposa l’emozione come dimensione e fatto primario: non frutto di mero stimolo esteriore, dunque, quanto piuttosto di una temporalità interiore, profonda e intensa che nessun cervello può oltrepassare o trascurare. […] Quella temporalità arcaica è ‘già spirituale’, ed è al contempo un fatto, irraggiungibile tuttavia dalla scienza intesa in maniera diversa da Goethe. Entra qui in scena, secondo la nostra lettura di Benn, la sua ‘proposta’ della poesia come un ‘fare’ che abbia, al contempo, caratteri individuali e universali, aspetti sia di irripetibilità (e quindi in un certo qual modo se non proprio irrazionali quantomeno a-razionali), sia di stile, comunicativamente avvicinabili, quest’ultimo, all’ambito del sapere. […] Poesia (quindi) come linguaggio e però come conoscenza, una mescolanza all’interno della quale non indisciplina e sregolatezza, bensì disciplina e regola sono al centro del processo poetico. […] In questa prospettiva, è possibile concludere che il ‘fare poetico’ è un fare ben più somatico che cerebrale e che esso presenta caratteri di universalità non di rado iscritti ‘nel corpo stesso del poeta’ non solo. Affrontando la questione del sorgere e del significato della genialità Benn evidenzia efficacemente come, nella sua prospettiva, l’elemento individuale (‘degenerativo’) della genialità si trasformi in qualcosa di universalmente riconosciuto, accertato e celebrato soltanto nella misura in cui l’universalità popolare (oggi diremmo: il pubblico) ne decreta il successo che viene fondato, radicato – diremmo noi – sul ‘corpo’ del poeta, vale a dire radicato in quelle profondità arcaiche le quali, sole, garantiscono una universalità non effimera all’opera d’arte ‘espressa’ dal genio. […] Le poesie vengono fatte, scrive Benn, e intende: le ‘poesie’ non sono il resoconto, il ‘racconto’ di stati d’animo individuali e passeggeri. Il ‘fare’ poetico è dunque ora al centro della riflessione; il difficile ciò che rende ‘rara’ la poesia, consiste nel fatto che essa non ha tema-argomento ma deve trasformare ciò che l’esistenza ‘sente’ in poesia. Se l’esistenza sente se stessa è ‘solo’ se stessa, la poesia sarà forse anche per certi aspetti ‘ben riuscita, ma non vera in senso ultimo. […] Forse, ma non è poco, se consideriamo che quella ricerca consapevole di un’apparenza (che non può mai, naturalmente, essere mera maniera) poggia a sua volta non tanto o soltanto sulla volontà artistica ‘del’ poeta quanto invece sulla potenzialità poetica dell’essere. È quest’ultima, se così stanno le cose, che ‘libera’ la poesia come risultato puro e semplice dalle strettoie del mestiere. Naturalmente, indicare cosa, in una poesia, non va nella direzione suddetta, è molto spesso ben più semplice del contrario. Si leggano con attenzione, a tal proposito, le pagine che Benn dedica a sottolineare i quattro elementi che (a suo dire) tanto frequentemente compaiono nelle poesie quanto altrettanto frequentemente, segnalano un cortocircuito nella poesia. In conclusione però il punto è uno solo e uno soltanto, nella poetica moderna, la poesia del nostro tempo è quella in cui la nostra esistenza si ritrova appieno, o almeno può ritrovarsi l’Io che, parlando di se stesso parla d’altro, e questo altro non è una sua proiezione, ma è davvero Altro. E se non è, tale parlare, una modificazione, davvero diventa difficile ipotizzarne una più radicale.
Poesia dunque come variazione, cambiamento, sconfinamento, digressione, erranza.
Queste le tematiche ampiamente trattate dalla Rivista Letteraria da illustri studiosi traduttori e commentatori di saggi filosofici e poetici dei migliori e riconosciuti scrittori di ogni epoca, con particolare riguardo agli autori a noi contemporanei. Nelle sue pagine troviamo, inoltre a Flavio Ermini, Giorgio Bonacini, Vincenzo Vitiello, Carlo Sini, Alejandra Pizarnik, Laura Caccia, Enrico Castelli Gattinara, Alfonso Cariolato, Ranieri Teti, Massimo Donà, Henri Michaux, Davide Campi, Mara Cini, Marco Furia, e numerosi altri collaboratori. Ma non è tutto, sono regolarmente accolte inoltre le ‘voci’ dei grandi poeti, come Friedrich Hölderlin, Paul Celan, Emily Dickinson, Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, Marina Cvetaeva, Claude Esteban, Camillo Pennati, Rainer Maria Rilke, Yang Lian, solo per citarne alcuni. Anche se è facile immaginare che nei 42 anni dalla fondazione della Rivista siano apparsi, verosimilmente, tutti o quasi sulle sue pagine. Un pregio questo che attribuisce ad Anterem il primato di una lunga impegnativa produzione letteraria, della quale, Flavio Ermini, da sempre, mantiene alto il vessillo dell’impegno filantropico socio-culturale nel nostro paese. “Non c’è fine al principio” va quindi considerata come ‘massima’ che da sempre distingue e sostiene Flavio Ermini, e va letta come impegno progressivo e conseguente nel duro lavoro di direttore e redattore della Rivista, giunta quest’anno al suo 95 numero con il quale si è voluto in questo articolo, dare una risposta confacente a “La poesia non è un genere letterario”, come abbiamo avuto modo di accertare. Relativamente a un modo dirompente e in qualche modo provocatorio di tornare ad argomentare un dialogo schiuso in Illo tempore, ma pur sempre attuale, sul ‘fare’ poesia e sul ‘lavoro’ del poeta, con l’affrontare tematiche vecchie e nuove inerenti e/o differenti all’argomento poetico. Lo attestano le numerose adesioni alle diverse ‘sezioni’ del Premio, ed ancor più le varie pubblicazioni indotte ad esso, come avviene ad esempio con ‘Limina’ Collezione di scritture, e con ‘Opera Prima’ che accoglie fra le sue pagine le ‘voci’ di autori inediti e in parte sconosciuti nella scuderia del Premio intitolato a Lorenzo Montano giunto alla sua XXXII edizione, che la Rivista Anterem indice ogni anno nella ricerca infinita della Poesia d’Autore. Autori che si aprono con spirito innovativo a questa parte legittima di infinito, dando maggiore forza al riconoscimento della ‘poesia’ come forma d’arte a se stante, capace di affermare l’universalità del suo messaggio, sconosciuto in quanto imperscrutabile, suggestivo quanto più ispirato. Afferente al pensiero e alla parola, così come al canto e alla musica, in quanto ‘voce poetica’ definitivamente liberata dai lacci misteriosi delle afasie di un linguaggio ampiamente superato, appartenuto al passato, per quanto glorioso, ma che oggi pur s’avvale della bellezza terrena dei sentimenti e dell’ebbrezza spirituale che inevitabilmente pervade l’universo futuro.
Da “L’esperienza poetica del pensiero”, scrive Silvano Martini … “I luoghi verso i quali ci dirigiamo non hanno consistenza propria. Assumono quella che noi intendiamo conferire loro. L’esperienza poetica è andare verso qualcosa e, nello stesso tempo, costruire quella cosa stessa.”
Flavio Ermini (Verona, 1947), poeta e saggista.
Dirige dalla fondazione (1976) la rivista di ricerca letteraria “Anterem”. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Poema n. 10. Tra pensiero e poesia”, (poesia 2001; edito in Francia nel 2007 da Champ Social), “Il compito terreno dei mortali” (poesia, 2010; edito in Francia nel 2012 da Lucie Éditions), “Il matrimonio del cielo con la terra” (saggio e poesia, 2010), ‘Il secondo bene’ (saggio, 2012), “Essere il nemico” (pamphlet, 2013), “Rilke e la natura dell’oscurità” (saggio, 2015), “Il giardino conteso” (saggio e poesia, 2016), “Della fine” (prosa poetica, 2016). Collabora all’attività culturale degli “Amici della Scala” di Milano. Per Moretti&Vitali cura la collana di saggistica “Narrazioni della conoscenza”. Partecipa a seminari e convegni in molte istituzioni accademiche italiane e straniere. Vive a Verona, dove continua il suo lavoro nell’ambito editoriale della rivista Anterem e del Premio Lorenzo Montano.
Riferimenti bibliografici oltre quelli citati: Fabio Squeo, “L’altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza”, Bibliotheka Edizioni 2017. Victor Turner, “Antropologia della performance”, Il Mulino 1993. Wikipedia, Enciclopedia libera on-line – by Wikimedia Foundation Giorgio Bonacini, Prefazione a “L’inarrivabile mosaico” di Enzo Campi – Anterem Ed. Premio Lorenzo Montano ‘Raccolta inedita’ 2017. Zigmunt Bauman, “Retrotopia”, Laterza Editori 2017. Gottfried Benn, “Lo smalto sul nulla”, Problematica della poesia, Adelphi 1992, in “Il lavoro della poesia” – di Giampiero Moretti, in Anterem n. 95 - Dicembre 2017. Artur Rimbaud, in “Poesia e pensiero in dialogo” di Adriano Marchetti, Anterem n. 95 - Dicembre 2017.
Altre recensioni di Giorgio Mancinelli sul sito larecherche.it:
Flavio Ermini, "Il Giardino Conteso" - Moretti & Vitali, 2016. Pubblicato il 20/04/2016 04. Flavio Ermini, “Serata/Evento dedicata a Rainer Maria Rilke, a 90 anni dalla morte”. Pubblicato il 29 dicembre 2016. ANTEREM 91 apre il 2016 con uno straordinario numero da collezione. Pubblicato il 03/03/2016. “91 E NON LI DIMOSTRA” ANTEREM RIVISTA DI LETTERATURA E POESIA . Pubblicato il 30/12/2015 “Premio Di Poesia 'Lorenzo Montano' Edizione Del Trentennale”. Pubblicato il 10/02/2016
Sitografia: ANTEREM – Rivista di Ricerca Letteraria: www.anteremedizioni.it Premio Lorenzo Montano: premio.montano@antermedizioni.it
Id: 879 Data: 21/08/2022 08:34:29
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E' un viaggio nella città nascosta e sotterranea, coi suoi personaggi presi dalle cronache quotidiane di epoche diverse e verosimilmente re-inventati dalla creatività dell’autore: santi, diavoli, becchini, preti, donne scaltre, uomini saggi, ubriachi, gestori di bar e d’osterie, cantanti di strada, funamboli, beoni, opportunisti e tantissimi altri, immersi nella cornice antica e pur sempre nuova di una città, Roma, incredibilmente conosciuta, o forse, così imprevedibilmente sconosciuta, in continuo disfacimento nel suo pur essere eterna. Un po’ di Roma è qui, nello sfogliare queste pagine che gli ho dedicato, sfiorando appena la sua bellezza austera ma sobria, della quale ho scostato il velo ascoso e magico che la ricopre. Lo stile usato è quello della cronaca giornalistica che risale gli accadimenti dal lato umoristico, per giungere al paradosso dei ludi luculliani e del carnevale di storica memoria. Un viaggio senza tempo, o forse attraverso il tempo, che non tiene conto dei secoli come dei millenni che a Roma non sembrano mai passati, e che rivivono nelle sue pietre e nella polvere accumulata dalla storia.
Id: 876 Data: 05/07/2022 17:23:03
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- Musica
Vangelis Papathanassiou - un mito della musica contemporanea
VANGELIS PAPATHANASSIOU : L’UOMO, LA MUSICA, LO SPAZIO
Per meglio distinguere la figura di Vangelis nel panorama musicale sempre più affollato e spesso distratto dell’elettronica-pop bisognerebbe aver letto il ‘reportage’ sulla musica contemporanea apparso in Larecherche.it (vedi ‘Quaderni di Musicologia XIII: la musica contemporanea’), colui che ha spalancato ulteriormente le infinite possibilità applicative di questa tecnica strumentale che ha dato vita a un vero e proprio genere musicale: la ‘musica spaziale’. Ma prima di tentare una qualsivoglia definizione della sua musica, si rende necessario non tanto conoscere l’individuo in quanto ricercatore attento e dalle infinite capacità intuitive, quanto rendersi consapevoli della sua concezione musicale. Tutto nasce al Nemo Studio che Vangelis realizzò a Londra sul finire degli anni ’70 e che confidenzialmente ha chiamato “il mio laboratorio”, perché al dunque di questo si trattava, di un vero e proprio laboratorio alchemico di ‘programmazione musicale’. Come egli stesso ha detto: “È lì che tento di costruire la musica del nostro tempo, riprodurre suoni, toni, modalità, successioni, certi effetti spaziali e temporali. Quello che più mi interessa è il rapporto che corre fra l’uomo e la musica, o meglio gli speciali effetti psichici e psicologici che la musica riflette sul comportamento umano”. È comprensibile quindi come un così capace musicista, arrangiatore, compositore e co-autore di canzoni che ha nel suo DNA certe ambizioni di ricerca finisca poi con lo sfociare nella dimensione filosofica e psicologica del creativo, quanto meno dell’artista impegnato a dare un seguito alla sua concezione musicale ‘altra’ da quella in cui si era formato. Cioè da quando con il gruppo greco degli Aphrodite’s Child formato nel 1968 con Demis Roussos, Loukas Sideras e Anargyros Koulouris, scalava le vette delle classifiche canzonettistiche con una miscela di rock e atmosfere folkloristiche greco -mediterranee, condita da arie progressive in un sostrato di musica classica. Agli inizi del 1970 Vangelis s’affaccia sulla scena da solista. Risale infatti al 1971 l’uscita di “Hypothesis” suo primo album, frutto di ricerca, dal titolo fortemente ipotizzante di quello che sarà il suo futuro ambito di ricerca. Seguono nel 1973/75 due colonne sonore per i documentari del francese Frederic Rossif: “L’apocalipse dex animaux” e “La fête sauvage” strepitose per innovazione compositiva che lo impongono fin da subito all’attenzione internazionale. Tuttavia saranno le musiche composte per il sequel televisivo “Cosmos” a spalancare per lui le porte della sua definitiva entrata nella programmazione elettronica della musica, e di dare sfogo, se così si può dire, alla sua capacità espressiva senza impedimenti di sorta, rendendo la sua musica riconoscibile alla prima sequenza di note. Con “Heaven and hell” del 19… di eccellente fattura compositiva, in cui sono raccolte le musiche utilizzate nel sequel televisivo, Vangelis spazza via ogni riserva sulla natura della sua musica e ci mette di fronte all’opera compiuta. Da questo momento in poi le sue performance avanzate ed estreme riempiono il panorama musicale mondiale, presentandosi al grande pubblico nella duplice veste di ‘mago’ alchemico -elettronico capace di mettere in movimento l’orecchio (e la fantasia) dell’ascoltatore con assonanze nuove, uniche e originali, il cui effetto primario è quello di far scaturire gli effetti più inusitati: atmosfere e situazioni, location ambientali e straordinari ‘spazi’ cosmici. La fusione dei generi e l’uso di filtri sonori permette a Vangelis di approntare una sorta di rinnovamento anche nella musica tradizionale ch’egli a un certo punto sembra riscoprire ravvisando in essa il messaggio ancestrale degli avi: “Per me la musica non è solo intrattenimento, piecere estetico ed edonistico, ma qualcosa di più. È una forma di vita a se stante, vecchia milioni di anni, quanto l’uomo … quando l’uomo …” Nascono da questa affermazione i bellissimi brani: “Heart” dall’album omonimo del 1973, “Dervish D” ispirata alle danze dei Dervisci di Turchia il cui mistico ‘ruotare’ trova la sua realizzazione nella spirale cosmica dell’universo; la lirica “To the Unknown Man” un inno levato al mondo sconosciuto dell’uomo; entrambe incluse nel successivo album “Spiral” del 1977 e colonna sonora del film di Francois Reichenbach in cui Vangelis propone inoltre un’antica melodia greca per bouzuki; nonché l’esperienza di “China” del 1979 in cui il compositore si avvale delle sonorità orientali e che gli permette di spingere la ricerca nei meandri inconsueti del TAO. SI rende qui necessario fare un passo indietro a prima di quest’ultime esperienze, e ritrovare il Vangelis degli anni ‘70/’80 , quello dal punto di vista commerciale più proficuo: “Albedo o.39” del 1976, e “Beaubourg” del 1978 che subito s’imposero all’attenzione degli organizzatori mediatici che li utilizzarono nelle sigle di alcuni importanti programmi radiofonici e televisivi. Successivamente 1980/82 Vangelis sembra passare un momento riflessivo di transizione che però non preclude la sua produzione come solista. Mi riferisco agli album realizzati con John Anderson ex leader degli Yes col quale avvierà una lunga collaborazione, ne cito qui almeno due “Short Stories” e “See your later” in cui Vangelis si ripropone in veste di arrangiatore co-autore delle canzoni in essi contenute. Nel 1982 esce al cinema, in forma sommessa, “Chariot of fire” una pellicola dell’inglese Hugh Hudson in cui si narra di un evento sportivo riferito alle Olimpiadi pre/post War (non ricordo bene), del quale Vangelis firma la colonna sonora nei titoli di coda e che fin da subito si rivela più che un semplice commento sonoro alle immagini. Infatti sarà successivamente insignito del premio Oscar per la migliore ‘colonna sonora’ di quello stesso anno. Nell’economia del film infatti la musica di Vangelis si riappropria del ruolo preponderante che la ‘colonna sonora’, in altre pellicole del periodo, sembrava aver perduto, con lo scandire il ritmo percettivo del discorso fotografico che David Watlin e Dewi Humpries, rispettivamente direttore e operatore della fotografia, avevano magistralmente condotto; quasi a sottolineare i momenti di progressiva emozione, di vivificante bellezza visiva con quella sonoro-uditiva delle immagini. Siamo all’apoteosi della ‘colonna sonora’ in cui il connubio con la musica raggiunge l’apice dell’eleganza estetica in musica. Raggiungimento estetico-sonoro che si ripeterà con “Missing” del 1982 un film di Costa Gravas e con “Blade Runner” del 1994 di Steven Spilberg in cui la musica di Vangelis sottolinea maggiormente l’ambientazione ‘minimalista’ piuttosto che il soggetto. Qui il ruolo della musica diviene quello più specifico di ‘sostegno’ all’impatto traumatizzante delle immagini che scorrono ora veloci ora stupendamente lente, pur sempre con geniale efficace. A seguire la splendida “Antartica” 1983; “The Bounty” del 1984 e la successiva “Conquest of Paradise” del 1992, “Alexander” del 20004, intervallate da musiche per spettacoli teatrali: “Elektra” (Grecia) 1983, “Medea” (Spagna) 1992, “Las Troyanas” (Spagna) 2001, “A Vihar” (lit. The Tempest) (Ungheria) 2002, “Antigone” (Italia) 2005. Musiche per balletto: “R.B. Sque” (Regno Unito) 1983, “Frankenstein” - Modern Prometheus (Regno Unito, Paesi Bassi) e “The Beauty and the Beast” (Regno Unito) 1985-1986. Risale al 2001 lo splendido “Mythodea”: Music for the NASA Mission: 2001 Mars Odyssey (Sony Music) lo spettacolo per immagini oggi anche in DVD. Considerato il più originale costruttore di ‘cattedrali musicali’ per colonne sonore, mostre, avvenimenti sportivi, eventi di rappresentanza ecc. Evangelos Odysseas Papathanassiou, compositore impegnato nella ricerca strumentale capace di creare, attraverso l'uso funzionale delle tastiere, atmosfere grandiose di matrice sinfonico-orchestrale; compositore inoltre di musica elettronica e new age, noto con il nome d'arte di Vangelis, ha offerto la propria collaborazione a numerosi gruppi rock strumentale e cantanti contemporanei come Irene Papas di cui vanno qui ricordati almeno due interessantissimi album: “Odes” del 1979 e “Raphsodies” del 1986 contenente antichi ‘canti greci’ di una bellezza stravolgente. I Krisma (Chrisma) “Amore” del 1976, “Chinese Restaurant” del 1977, “Hibernation” del 1979. Inoltre con la magistrale interprete di canzoni italiane e non Milva, per la quale Vangelis ha riadattato il famoso brano "To the unknown man", divenuto in italiano, "Dicono di me", in francese "Moi je n'ai pas peur" e in tedesco "Ich hab'keine Angst" e che è oggi uno dei pezzi più significativi del repertorio della cantante, ma anche un grande successo discografico. Vangelis ha scritto per Milva molti brani originali e spesso inclini ad una immersione visionaria, ipnotica e sofisticata nello sperimentalismo elettronico e polifonico. “L'ultima Carmen”, su testo di Massimo Gallerani e la citazione inter-testuale di Bizet, è un ottimo esempio di questa sensibilità espressiva aperta al confronto culturale e alla compenetrazione dei modelli. Costante nell'opera di Vangelis, rimane infatti, la capacità di fondere elementi molto distanti tra loro, in una realtà sonora e ritmica che viene costruita e ‘re-inventata’, in un insieme di blocchi elettronici e sintetici. A questo approccio problematico ha dato a suo tempo una risposta fattiva Vangelis Papatanassiou con l’esclusione, salvo rare eccezioni, di ogni forma immotivata di commento musicale, come quelle create per i documentari di Frederic Rossif “L’Apocalypse des Animaux” (1973), e successivamente “Opera Sauvage” (1979), ed anche “Soil festivities” (1984), alle quali il musicista ha prestato il suo operato in qualità di compositore, arrangiatore, esecutore e produttore, quale solo un vero e proprio alchimista del suono riesce a fare ora creando ed elaborando ‘effetti sonori’ studiati ad oc o presi dall’ambiente, utilizzando rumori reali e semplici suoni prodotti con strumenti musicali o nell’elaborazione di voci, come già in Henze nella riproposizione di un titolo: “Voices” (1995), anche queste elaborate da sintetizzatori ma con esito più suggestivo, in genere sufficienti a realizzare un ascolto decisamente più distensivo. O, come in altri casi, rendendo più agevole seguire il flusso del commento vocale nel suo significante divenire: “Mythodea” (19) (CD e Video - 2001) realizzato per la Missione Nasa “Mars Odyssey”; così nei cortometraggi e documentari dove ‘la voce’ è acusmatica, cioè che rimane ‘fuori del campo visivo. “L’acusma cinematografico spiega – Virgilio Tosi op.cit. – è davvero per un verso ‘fuori-campo’ (quindi, per lo spettatore, al di fuori dell’immagine), ma allo stesso tempo è dentro l’immagine dietro la quale proviene, in forma reale (realistica) o immaginaria; come se vagasse sulla superficie dell’immagine ora dentro ora fuori, con dei punti variabili all’interno dell’inquadratura, riconoscibili come tali solamente nella mente dello spettatore man mano che le immagini scorrono davanti ai suoi occhi.” Si è parlato di vari aspetti riguardanti la ‘musica per immagini’ e dei suoi fautori come di un ‘miracolo’ già avvenuto, è questo il momento di andare ‘oltre’ l’aspetto culturale che l’ha visto nascere e recuperare (notare l’ossimoro), mi correggo, ripercorrere le numerose strade aperte dalla ricerca e non solo, che oggi distinguono gran parte della musica contemporanea in ogni sua referenzialità. A ciò molto è servito l’abbinamento con le diverse espressioni artistiche che la cultura odierna mette a disposizione, e che vanno dalla rappresentazione teatrale al balletto, dalla mostra d’arte alla cinematografia di genere documentaristica al reportage ambientale, in cui però, malgrado la credibilità culturale che gli si voglia dare, in realtà l’aspetto commerciale ha preso il sopravvento e l’‘artefice’ (gli artefici) di tanto sconvolgimento è andato incontro al pubblico per colmare la grande differenza che li teneva separati.
“Anche per questo – scrive Augusto Romano in “Musica e psiche” – la musica-visiva” ha dovuto farsi portatrice di una certa comunicabilità che non aveva. Ha dovuto cioè ricercare quei simboli dell’espressività sonora che non gli appartenevano, ma che pure davano fondamento all’idea di musica nel suo insieme, vuoi per effetto della globalizzazione (world-music) in atto, e che accompagna ogni manifestazione antropologica fin dalle sue origini tribali di tipo musicale-socio-comunitarie, fino agli ultimi esempi di acculturazione e addomesticazione delle immagini-sonore. Quella stessa che ha alimentato costantemente la produzione sonora di riflessioni filosofiche e psicologiche che hanno assunto, inevitabilmente, consistenza ormai ‘mitica’: si prenda ad esempio il Jazz o il Rock, che hanno tracciato un percorso nell’immaginazione umana. […] Di fatto ogni discorso sulla musica si intreccia con quello sulla psiche e sulla pratica analitica sociologica, in un gioco di analogie situato sull’arduo confine che divide ciò che è dicibile da ciò che non è”.
Ma l’uomo, Vangelis non ama fare sfoggio di sé e raramente si concede di apparire in pubblico, non si lascia fotografare e non appare neppure sulle copertine dei suoi numerosi dischi. Le rare volte che è salito sul palcoscenico risalgono ormai agli anni ’80. Era infatti il 17 luglio del 1989 quando prese parte al concerto ‘live’ alle Terme di Caracalla a Roma dove finì per suonare ‘O sole mio’ e in parte fu addirittura deludente. Suo malgrado egli è ancora oggi, uno dei più accreditati compositori di colonne sonore, soprattutto nella solennità imponente degli arrangiamenti, molto ricercato dai registi che gli fanno la corte pur di accaparrarselo. In Vangelis, il richiamo accattivante e spesso minimalista alla classicità o alla spiritualità di sapore vagamente "New Age", definisce un aspetto decisivo di quella ricerca strumentale e sonora a cui il compositore ha sempre guardato con estremo interesse. Forse l’unico fra quelli per così dire cui si può accreditare una certa autenticità e rigore professionale, un probabile (allora lo era) profeta della musica del domani.
Id: 869 Data: 20/05/2022 06:27:15
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- Poesia
Elegia - Una raccolta poetico-narrativa di Mariasole Ariot
“Elegia” … o della tensione poetico-narrativa. Una raccolta di Mariasole Ariot – XXXV Premio Lorenzo Montano – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2022.
“È così il buio: è così la luce.”
L’insorgere di una necessaria assenza di parola che può far pensare a una qualche sofferta dimenticanza che di fatto lascia sgomenti, non trova soglia in queste pagine di Mariasole Ariot, tendenti a ricreare attorno al suo dire, il vuoto causale che l’accompagna e le riveste d’aura poetica, traendone il massimo profitto narrativo …
“Ancora – premere ancora – i bulbi delle cose – andare a fondo – nella notte chiara la chiara della vista – che non vedo – quando appare – e non ripara – la corda, questo piccolo morire.”
Non un vuoto interstiziale dunque, separa le frasi in ‘sospensione’, ma un pieno concettuale che ne riveste le pause latenti, come in uno spartito musicale, essenziali alla composizione d’insieme fortemente espressiva, se vogliamo drammatica, come può dirsi di tutta l’opera wagneriana che, d’altra parte, lascia spazio a eventi, attese, emozioni che alimentano il ‘climax’ sviluppato dalla dilatazione dei tempi narrativi, così “…la notte – quando non dormire – […] che dice il confine – e sprofonda – sprofonda ciò che mi ha fondato.” E “Di nuovo un’identità – mancata – si scompensano le cose vive – e i vivi delle strade – questa strada senza passanti – questi passati che ronzano d’intorno – non stentano mai a morire.”
La resa wagneriana è altamente suggestiva, si pensi ai contrasti fra elementi della natura, ai cieli torbidi di nuvole come schiere avverse che si confrontano sul campo; al costante tragico viluppo del bene e del male a scapito dell’identificazione e del riconoscimento; alla drammatica sopravvivenza dei personaggi ‘elegiaci’ che si muovono sulla scena e che, viceversa, s’agitano in noi spettatori, presi nel vortice sovrasensibile degli eventi …
Noi che siamo, che: “Abitiamo – case sconosciute quanto chiaro è il chiaro – il salto che trascura – i piani e l’altezza delle scale – la scelta che non sceglie la mia scelta – un cranio senza scoglio – una scogliera.”
E ancora si pensi alla tensione dei sentimenti che attanaglia tutti, personaggi e spettatori, nel conflitto quotidiano tra la vita e la morte, allorché non rimane che contare nel ‘vuoto’, che non è il ‘nulla’, il numero dei morti rimasti disseppelliti, la somma dei cadaveri mangiati, dei figli spuri disconosciuti, degli avanzi di una tavola riccamente imbandita ch’è pur è la vita: questo nostro vivere obliato senza remissione …
“Dicono si torca il mondo – come il cibo – digerito delle tavole – dell’ultima cena per la cena mancata – quando ti nascondi dall’occhio – che preme all’infuori e rincorre – poi nascondersi – nelle parti che ho mangiato.”
E verosimilmente trovarsi a rigurgitare davanti allo specchio la propria filantropica essenza, pur senza voler essere benevoli con se stessi, vissuti con “Il terrore – di dire – e di non dire – la verità che a volte – arriva – in una notte – mentre riposano i mille – personaggi che hai creato – e tu diventi – la loro stana vuota.” Un vuoto di scena che spaventa, allorché la brama d’essere lascia spoglie insepolte, incustodite, dell’anima che in ginocchio prega sulla nuda terra una qualche defezione di memoria, di oltraggio subito, di violenze oscene, di manchevolezze arbitrarie contro la dignità cercata: un’intima battaglia che si consuma sul campo della vita nell’amletico dubbio “essere e non essere” di shakespeariana memoria …
“Cronacare – una nebbia sulla lingua – cronacare i dettagli dei corpi, cronacare – la scorza dei feriti – questa misura – oscura che grava sulle cose – di questo misurare – i territori dei sepolti.”
E ancora …
“Si muove solo – l’interno – accadersi per cadere – non avere alcun – appiglio – alla scena madre – questa madre da cui siamo - scivolati fuori – a velocità di verme – camminare a ritroso – laggiù – in un passato che muove nessun presente – solo un vissuto – per chiedersi – se mai hai vissuto.”
Ma per quanto vi è detto, l’autrice non esclude alcuna attribuzione di colpa subita, né suggerisce una possibile via di fuga. La colpa, se di questa si tratta, rimane ancorata al peccato d’essere qui, adesso, al cospetto di un Dio ineluttabile, nascosto alla vista, intransigente quanto impietoso …
Il tributo dovuto è in queste pagine solo apparentemente bianche, che pure non chiedono riscatto …
“E non è forse – ogni segno come un sogno una vaga – interpretazione – essere ciò che l’altro – altrove – dice l’essere che sei – e non è – forse ciò che pensi l’accaduto – solo interpretare un accadere – come dimostrare il vero – quando si cela.”
“È così il buio: è così la luce … dove mai è dire sempre.” Una costante tensione poetico-narrativa attanaglia l’autrice di questi illuminati versi metonimici, traslati d’una sceneggiatura artata, al cui dramma assistono fugaci ombre del vissuto, incolori, che attraversano la tela di fondo alla ricerca della verità, per un ‘teatro degli opposti’ senza né vinti né vincitori …
“Attraverso il deserto mi deserto – destare un’opinione – sul margine del foglio – sfogliarmi separarmi misurarmi – avermi e non avere – per avermi – reciso l’esistenza.”
L’autrice: Mariasole Ariot, ha al suo attivo una lunga collaborazione alla rivista scientifica lo Squaderno, dal 2014 è redattrice della rivista letteraria online Nazione Indiana. Sue pubblicazioni: “Simmetrie degli spazi vuoti” con G. Bortolotti – Arcipelago Edizioni 2013; “Anatomia della luce” Aragno 2017. Nell’ambito delle arti visuali, ha collaborato alla realizzazione del cortometraggio “I’m a Swan” (2017), e “Dove urla il deserto” (2019).
Id: 865 Data: 16/04/2022 05:50:29
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- Poesia
Dinosauri Psicopompi…elementi strutturali di poesia aliena
“Dinosauri Psicopompi” … elementi strutturali di poesia aliena. Una silloge di Paola Silvia Dolci, Anterem Edizioni/ Cierre Grafica 2022.
“Mi sveglio sempre prima Della fine dei sogni. Staccata, come se venissi ritagliata con le forbici dalla carta.”
È questa una proposta grafico-letteraria che prendendo spunto da frammenti poetico-mitologici di un passato assai remoto, pur sempre vivo in noi, propone una possibile costruzione di testo narrativo avulso da prerogative intenzionali e ipotesi critiche che, altresì, sminuirebbero l’effetto originale del testo. Quasi si fosse in presenza di una cercata decostruzione che si rivela nel ‘non detto’, paragonabile al ‘non finito’ di un’opera d’arte …
“Quando cala il buio, i fantasmi del mare si addensano, si avvicinano, si nutrono sia della notte, sia dell’acqua. Quando spunta il sole, i fantasmi, corrono ancora sul filo dell’acqua.”
Un’assenza, quindi, che assume qui l’istanza di un dire oltremodo alieno, in cui la parola conchiusa in sé, è rivelatrice di un approdo ultimo, definitivo, che impedisce di notare la prossimità della nostra presenza (di lettori), messa di fronte a una stesura insolita, i cui richiami, nell’immagine grafica che l’accompagna, proiettano, solo apparentemente, un vuoto di senso, allorché … “i sogni si associano alla conoscenza”.
Sì che l’avvio in solitaria ascensione verso il ‘vuoto oscuro’ (parimenti di un buco nero nello spazio), non incute paura alcuna, né soggiace a velleità di grandezza o potenza ctonia, ma si riversa nell’universale cosmico della conoscenza. Inutile quindi cercarvi un ‘senso altro’ che non c’è, l’autrice non lo rivela. Piuttosto allude a una coesione con la realtà liquida che stiamo vivendo, così come dischiudere ulteriori spazi alla creatività acrilica del nostro tempo …
“Ho gli occhi irritati dal sale, la sabbia triturata tra i denti, le ombre dense dell’isola si annidano, nello scricchiolio lieve della barca, stanotte, la tua presenza mi ha fatta sentire sola. Devo diventare aria.”
Dacché il ritorno alla dicotomia di accompagnatori fortuiti che noi siamo, ‘psicopompi’ del nostro essere, sospinti verso un mondo estremo che ci aspetta al di là delle parole, dei nostri costrutti, dell’immaginario collettivo che ci accomuna nella fine, un ultimo approdo, antitesi di un disegno (forse) compiuto sulla carta (del destino) che necessita di ritagliare, scontornare, e bruciare tutto quanto è d’intorno di un’identità obliterata … “Non riesco mai a ricordare il suo nome. […] Quando vorrei sottrarmi, resto. Chiede squarci della mia intimità, questa per me è la cosa più intricata. […] Non so perché resto, forse perché me lo chiede.”
Forse perché in ciò, si avvalora l’inizio di una nuova avventura, “la continua tensione di valicare un confine”, sintomo e soggetto di una velleità antropica mai venuta meno … “non bastiamo mai a noi stessi, mai ai nostri desideri” cita l’autrice: “Rimane la stanchezza, la rinuncia, - un’abulia quasi felice.” […] “Poi, da sogno a sogno … mi difendo con la paura. […] “Il nervo ottico rimasto in bianco, fulminato nel cuore del cervello.” Ma non c’è paura, semmai l’incombenza di una necessità, voler sapere, voler comprendere, anzi no, piuttosto di voler conoscere quanto (di sé) è rivolto nel “Lo specchio sopra la mia testa, alle spalle del letto, riflette due volte la stessa immagine.” Un gioco di “piccoli ingranaggi”, uno dei più interni che si cela nel mistero di chi siamo, quale simbolo archetipo della trasformazione del Sé. Solo allora …
“Quando tutto sarà finito, tutto ricomincerà daccapo. […] Ci cambiano i sogni. Mi capita di entrare nella testa degli altri. Incidere la candela con il pugnale dal manico bianco. Bruciare alla fiamma le foglie di alloro su cui ho scritto i miei desideri, alla luce della luna. Gettare le ceneri in mare. […] Che cosa voglio quando non percorro mai una strada fino in fondo (?). Sul mondo in frantumi distendere un cielo limpido che lo tenga di nuovo unito. […] La finestra su una piazza, o qualcosa …
… qualcosa che rievochi i ‘dinosauri psicopompi’ del passato che un giorno torneranno, così come gli déi ancestrali della nostra dismessa immaginazione.
Note: Tutti i corsivi sono dell’autrice Paola Silvia Dolci, diplomata presso il Centro Nazionale di Drammaturgia. Attualmente collabora con diverse riviste letterarie. È traduttrice e direttrice responsabile della rivista indipendente di poesia e cultura “Niederngasse”. Alcune sue opere più recenti: “I processi di ingrandimento delle immagini per un’antologia di poeti scomparsi” – Oèdipus 2017; “Diario del sonno” – Le Lettere 2021.
Id: 862 Data: 12/04/2022 14:20:57
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- Musica
Quaderni di Etnomusica Musiche e canti popolari dellUcraina
QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA
MUSICHE E CANTI POPOLARI DELL’UCRAINA (… il vento dal campo smuove solo metà dei fiori del giardino.)
Se la musica ha il privilegio di parlare un linguaggio universale, ancor più dobbiamo riconoscere ad essa la peculiarità di efficace veicolo di comprensione tra i popoli e, a buon diritto, di far parte delle discipline di studio specifiche che sono fonte primaria di conoscenza, alla quale, pure contribuiscono tutti i popoli della terra indistintamente, nessuno escluso, riconosciuti all’interno del fenomeno di acculturazione. Per cui, in prospettiva della “nuova realtà musicale” quale si è andata delineando in questa nostra epoca di repentini cambiamenti, studiare l’Etnomusicologia assume significato di riappropriazione delle testimonianze più rappresentative della cultura musicale dei popoli. Pur con le sue accezioni peculiari, vuoi musicali (strumentali), vuoi orali (poetico letterarie), inerenti agli usi e i costumi dei popoli che l’hanno determinata, nel loro effettivo stanziamento geografico, l’Ucraina può essere considerata a sé stante, per quanto rimangono sempre ben riconoscibili apporti ed influenze di altre popolazioni, spesso determinanti per lo strutturarsi complessivo di forti influssi che, in varie epoche ed a vario titolo, furono e sono presenti sul suo territorio: Russi, Bielorussi, Romeni, Moldavi, Bulgari, Polacchi, Ungheresi e Tatari di Crimea, insieme ad altre presenze minoritarie. Influenze che, volutamente rivisitate come “espressioni originali” di singole autenticità, restituiscono, in taluni casi accertati, identità etniche-culturali ben definite, che ci permettono di riequilibrare lo stacco tra passato e presente di un seppur discontinuo percorso millenario, in cui la cultura slava costituisce il nucleo etnico fondamentale dell’odierna Ucraina. Quindi, pur mantenendo questo quadro composito come sfondo sul quale disegnare una qualche riflessione, è possibile, per quanto approssimativamente, individuare due aree culturali: “…quella centrale e nord orientale (composta dagli ucraini propriamente detti), una zona pianeggiante adatta all’agricoltura, la cui ricchezza spesso attirò l’avidità di popoli invasori che in ragione di facili spostamenti l’occuparono, (…) e una seconda, comprendente la parte nord-occidentale del paese in territorio caucasico, montagnoso, in cui le difficoltà di comunicazione (culturale) ed i problemi di sopravvivenza han fatto sì che si conservassero caratteri culturali più arcaici, all’interno di una tessitura etnica pur frammentaria. Pertanto le divisioni e le differenze nei caratteri musicali di questo popolo ricalcano, con buona approssimazione, queste due suddivisioni etnico-linguistiche presenti sul territorio dell’odierna nazione ucraina. (1) L’Etnomusicologia vede l’Ucraina come un territorio da riscoprire, non solo come ricordo del tempo, o come magia e incanto perduto, in cui le diverse categorie di suoni percepiti vanno studiate come veicolo di comunicazione e di scambio per la comprensione tra le diverse etnie, piuttosto, come ha evidenziato in passato Alain Danielou (2): “… dei suoni per comunicare, spesso difficile da distinguerne gli elementi articolati, che noi chiamiamo linguaggio, dalle emissioni della voce, contraddistinte all’altezza del tono e dalla durata, che sono alla base della musica. Non a caso esistono, infatti, sul territorio, lingue tonali, recitazioni cantate e strutture musicali proprie del linguaggio parlato (...) che nel tempo hanno sviluppato forme musicali libere da qualsiasi funzione sociale, le quali, proprio perché svincolate da presupposti rituali, hanno progredito rapidamente sulla via del perfezionamento tecnico e del raffinamento del gusto”. In breve, tutto ciò conferma di fatto che non si conoscono popoli, fin da quelli primitivi ad oggi, che non abbiano conosciuto o che non conoscano una qualche forma musicale, sia che rientri nella propria cultura etnica (ritualità tribale) o faccia parte del proprio habitat naturale (rocce parlanti, vulcani tonanti, alberi suonanti, animali canterini), da cui l’uomo ha appreso la “formula” talvolta impregnata di magia, della musica esistente nel creato, così come le riscontriamo sul territorio ucraino. Apprendiamo così che, l’insieme della cultura musicale e tutto ciò che ad essa ruota attorno, si rivela uno dispositivo fondamentale da farci riflettere sul suo significato. Eppure, anche quando con i primi studi antropologici, ci si è accorti che l’essere consapevoli della propria esistenza, non è dato per scontato, almeno non per tutti allo stesso modo, che supportare una campagna a sostegno della ricerca Etnomusicologica è fondamentale per una “presa di coscienza”, in grado di restituirci la consapevolezza dell’immenso ‘dono’ che ci è dato, determinata dal fatto che la musica, alla stregua delle altre arti, va considerata patrimonio di tutta l’umanità. Mi piace qui sottolineare un’affascinante intuizione di Marcel Mauss (3) il quale, con il triplice obbligo di “dare, ricevere e ricambiare il dono”, costituisce un “fenomeno sociale totale” a cui fare riferimento, all’interno di una prerogativa universale, pur con le sue diversificazioni e interazioni, le cui eredità peculiari e speculari che ogni popolo autonomamente ha corrisposto a quello successivo. Fatto, questo che ha permesso allo stesso Mauss di affermare: “…che tutte le società arcaiche, ‘primitive’ o ‘senza stato’ che siano, pensano il loro universo e perfino il cosmo, nel linguaggio scambievole del dono”, di cui la musica – aggiungo – figura tra i beni materiali della cultura universale. Testimonianza questa, che ci consente di riconoscere una dignità culturale specifica, distintiva di molti popoli più o meno conosciuti in seno alla sempre più evoluta popolazione delle nazioni, per cui andare alla ricerca delle loro “origini” linguistiche, o tracciare le linee di un modello culturale che possano aver perseguito, come pure evidenziare i caratteri originali di cui si compone la loro tradizione musicale, assume significato di andare alla ricerca della “memoria del tempo” e di quanto ci permette di ripercorrere l’intero arco ciclico socio-musicale dell’umanità. È quanto più rientra nel lavoro dell’Etnomusicologo, il cui impegno dev’essere meta e linea di partenza di un percorso perseguito ma che è ancora tutto da scrivere. Etnomusicologia dunque, come acquisizione di un maggiore bagaglio culturale, per un sempre maggiore impegno sociale nella conoscenza di popoli e paesi “altri” dal nostro, che si aprono a noi e ci svelano i loro segreti e le loro gemme: la loro musica, i loro riti, le usanze e i costumi, l’artigianato e le opere dell’arte. Con ciò, rendendoci partecipi del loro mondo fantasmagorico, di colori, di note, di suoni, di strumenti, di canti e di balli, di manufatti popolari che hanno conosciuto la notte dei tempi, molti dei quali, mantengono ancora oggi tutto il fascino del loro mistero. Ancora dalle note introduttive di Stefano Castelli (*) per l’edizione italiana del disco LP “Ucraina” – Collana Albatros – Editoriale Sciascia 1979, cito quanto segue: “Le divisioni e le differenze nei caratteri musicali risalgono, come accade per molti paesi europei, al XVIII ed al XIX secolo, allorché le manifestazioni folkloriche riferite al Granducato di Kiev, retta dal suo storico Patriarcato cattolico, più o meno contrapposto al patriarcato ortodosso di Mosca, che documentano un primo momento di unificazione etnico-politico nell’area balcanica. Su un altro versante parallelo, può essere utile considerare il canto liturgico che, importato dai bizantini con la religione Ortodossa, subì tuttavia modificazioni indicative, e fissare così l’inizio di una conversione dell’Ucraina, attestatasi attorno all’anno 989. In cui, si insegnavano alle popolazioni gli inni sacri servendosi di lingue paleoslave, pesantemente mediate fra il canto greco-ortodosso e quello ‘parlato’ dalle genti ucraine.” Notevole fu l’apporto alla musica cosiddetta ‘profana’ suonata da suonatori girovaghi, detti ‘Skomorokh’, anche detti Tzigani d’Ungheria insieme ai Rom di Romania, che troviamo menzionati in proverbi, ballate e modi dire davvero originali. “Erano questi attori e musici girovaghi discendenti in linea diretta da un’antica tradizione di stregoni e sciamani che durante i loro spettacoli usavano indossare maschere di indubbia attribuzione magica, considerati propri dei tentatori satanici, la cui musica e i loro strumenti erano messi all’indice da un preciso precetto religioso che la definiva: “…come una tromba che durante la preghiera riunisce i guerrieri e gli angeli celesti, così i loro strumenti ‘gusli’ e ‘sopeli’ riuniscono i demoni svergognati”. Successiva alla dominazione mongola del territorio, nell’intervallo compreso fra il 1237 ed il 1480, l’Ucraina conobbe un lungo periodo di isolamento musicale che i musicologi riferiscono alla commistione fra i canti bizantini e quelli russi basati su sensibilità radicalmente diverse. La marcata differenza di un tempo fra i due diversi stili musicali non è quasi più riscontrabile se non nel canto, nel quale l’Ucraina utilizza la propria lingua nazionale, nella diversa pronuncia idiomatica da quella russa. Finanche gli strumenti musicali in uso sono, con qualche differenza di forme, gli stessi utilizzati in tutta l’area dei Carpazi, inclusiva di quelle forse più note tradizioni presenti rispettivamente in Romania, Bulgaria, Ungheria, Moldavia, Polonia e Slovacchia. “Tra i numerosi strumenti ucraini conosciuti vengono qui ricordati solo i più importanti: la ‘kobza’, una possibile variante della ‘bandura’, che ricorda assai da vicino strumenti persiani o afgani; presenta un lungo manico munito di tasti, collegato ad una cassa ovale, sulla quale sono tese tre/quattro corde. La ‘bandura’ propriamente detta si presenta come un singolare incrocio fra un salterio ed un liuto, dal manico corto e tozzo, sprovvisto di tasti e, salvo che in alcuni casi di esecuzioni virtuosistiche, le numerose corde dette ‘prystrunky’, varianti nel numero di 50/60, sono fissate attraverso la cassa e vengono suonate ‘vuote’, cioè senza accorciarle schiacciandole con le dita. Un altro strumento molto in uso in tutta l’area è il ‘violino’ localmente denominato ‘skrypka’ sostanzialmente identico al violino europeo ma più rozzo, la cui costruzione è affidata a liutai di villaggio. Una connotazione a parte va data al ‘gusli’ in uso nelle zone appartenenti al gruppo linguistico slavo e sta a indicare una gran varietà di strumenti a corda quali: ‘husty’ e ‘hudity’, che significano semplicemente ‘suonare’. Sembra che originariamente il ‘gusli’ sia stato qualcosa di simile a un’arpa, tuttavia di difficile attribuzione territoriale. La ‘duda’ è una cornamusa formata da un otre di pelle da cui si dipartono tre tubi di legno: il ‘sysak’, cioè l’imboccatura attraverso la quale il musicista la mantiene gonfia d’aria; l’’huk’ che fa da bordone basso, solitamente composto da tre pezzi di legno innestati l’uno nell’altro, nel cui mediano è innestata la lamina vibrante che produce il suono. La melodia è ricavata dalle due canne parallele con finale ad ancia con sei o sette fori che servono a modificare il suono. Fanno da accompagnamento diversi modelli di flauto, fra i quali il più diffuso è forse la ‘sopilka’, un flauto a becco con cinque o sei fori. Non in ultimo, troviamo il ‘flauto di Pan’, che può avere da due a sette canne. In una nota di colore si dice che in caso lo strumento difetti di una o più note che impediscono al suonatore di eseguire la melodia desiderata, questi intoni con la voce le note mancanti. (5)” Ma che cosa avviene quando alla formazione di una data cultura ha contribuito più di un popolo e più di una singola tradizione che verosimilmente ne ha forgiato l’anima multiforme? E di conseguenza: quale impronta musicale, più o meno originale che sia, comunque tipica del territorio preso in considerazione, risulta accresciuta nella sua dimensione socio-antropologica? L’interrogativo è mio, ma stavolta e guarda caso, la risposta ce l’ho bella e pronta, offerta a scatola chiusa, niente meno che da Charles Darwin, il quale, nel suo “L’origine dell’uomo” (6) scrive: “Giacché né il piacere legato alla produzione di note musicali, né la capacità (di produrle) sono facoltà che abbiano il benché minimo utile diretto per l’uomo (...) devono essere collocate fra le più misteriose di cui egli è dotato”. La prima risposta è inclusiva nella domanda stessa, lì dove si determina un contributo comunitario e/o in qualche modo è possibile incontrare sul nostro cammino di ricercatori, taluni accorti studiosi che usano le rispettive tradizioni per imporre e sostenere un certo ordine di costumi, all’interno delle gerarchie socio-culturali e religiose, di riferimento etnico. Ciò che dà luogo però a un sminuzzamento della cultura, una certa particolarità non influente nella formazione della cultura stessa. In Etnomusicologia la comparazione è importante perché accomunare le similitudini, le sinonimie e, per contrasto tiene conto delle divergenze, in modo da ricondurre gli effetti entro un comune "accordo" specifico di fondo. La seconda risposta prende avvio nello studio specifico del territorio oggetto di ricerca e ne valuta la tipicità, basandosi sulla morfologia e l'economia del medesimo, alfine di rintracciare quegli elementi materiali presenti in natura che hanno permesso all'umano antropologico di sviluppare il suo utilizzo musicale e la propria creatività, per quanto primitiva essa possa risultare. A fronte di quanto affermato, va inoltre detto che l’immagine di un mondo costituito soltanto dalle culture ufficiali e dalle confessioni riconosciute, per la maggior parte, sono prive di curiosità o di particolare interesse per la nostra ricerca etnomusicologica, in quanto il nostro coinvolgimento coincide più con ciò che è involontario e accidentale, e che “viaggia” fuori delle righe della uniformità culturale ufficiale e della escatologia precostituita. Al noto ricercatore Stefano Castelli si devono, inoltre, le numerose “note ai canti” e molto altro ancora, che accompagnano la raccolta presente nel disco citato, utilizzate in questa presentazione etnomusicologica dedicata all’Ucraina, soprattutto perché non avendo conoscenza della lingua, non potevo fare altrimenti che affidarmi alla cura sostanziale dello studioso che le ha redatte, ringraziandolo per aver aperto un varco conoscitivo a un patrimonio che altrimenti sarebbe andato perduto. Stando altresì agli ultimi accadimenti in corso di una guerra che ha disperso un numero esorbitante di artisti, fra esecutori strumentali e cantanti, detentori di molta parte di questa tradizione musicale. Non potendo presentare qui alcuna traduzione dei canti, mi limito quindi alla citazione dei nomi di alcuni di essi e alla raccolta di note ad essi riferiti, talvolta appartenenti a singole popolazioni presenti sul territorio: “Hutsul Kolomiyka”: gli Hutsul e/o Gutsul, sono una popolazione dell’Ucraina nord occidentale che presenta caratteristiche arcaiche sia per quanto riguarda la lingua, che per quanto si riferisce ad espressioni collegate a teorie demonologiche e rituali funebri, per lo più scomparsi nella loro forma originaria dal resto del paese. Non c’è quindi da meravigliarsi per alcune arcaicità presenti in questa ‘kolomiyka’ eseguita con la ‘duda’ nonostante sia un genere musicale fiorito attorno al 16° ed il 18° secolo, periodo in cui i sistemi musicali europei incominciavano ad essere conosciuti anche fra le masse rurali e, i cui influssi provenienti dalle diverse zone limitrofe al resto d’Europa si sovrapposero alla musica locale. Il “Kozachok” è invece una tipica forma di danza accompagnata dal canto, in cui la ‘duda’ è accordata in modo diverso dal brano precedente. Il cui testo si struttura in strofe di quattro versi di sette sillabe ciascuno con un forte accento posto sull’ultima sillaba di ogni verso. In questo particolare caso la ‘duda’ ripete il modello melodico fornito dal canto, per iniziare poi una serie di variazioni nelle quali vengono introdotte nuove note e nuove figurazioni ritmiche. La “Hutsulka”, è una musica da danza in cui risultano estremamente evidenti le influenze dei violinisti zingari rumeni. Troviamo qui tutti gli elementi che compongono il loro tipico virtuosismo: lo svolgere parallelamente al coro la medesima melodia arricchita di trilli, acciaccature, velocissime scale e, di contro, i momenti di sospensione in cui viene ripetuto sempre un semplice gruppo di note in modo da accrescere, da consumati istrioni, l’attesa dell’uditorio. Il coro puntualizza abilmente la dimensione ritmica con grida, urla, fischi, battiti di piedi e frasi parlate, proprie della partecipazione popolare alla festa, giustificata pienamente dalla maggiore diffusione su tutto il territorio, cui la ‘Hutsulka’ ha maggiore diffusione e rivendica palesemente la propria origine etnica. Nelle tipiche danze ucraine segnate dalla partecipazione di un folto pubblico, si stabilisce un rapporto singolare: da una parte gli archi sembrano seguire, sostenendole ritmicamente e melodicamente, le voci dei danzatori e, dall’altra, voci soliste si staccano talvolta dalla tonalità del coro per riprodurre i modi esecutivi tipici dei violinisti tzigani. E veniamo ai due ‘canti corali’ da me utilizzati per il sottotitolo a questa lunga ricerca conoscitiva: “Il vento dal campo” (che smuove solo) “Una metà dei fiori del giardino”, a significare che per quanto dell’eredità accumulata per secoli dall’eroico popolo ucraino, solo una parte di questo patrimonio culturale potrà essere cancellato, e che i ‘fiori’ strappati dal vento di un’assurda guerra (come se non bastasse la pandemia ad accumulare i morti) rinasceranno per un’altra primavera: “Così come Cristo risorgerà per una e un’altra Pasqua ancora”. Così come ricrescerà l’erba dei prati e gli alberi dei boschi, le vaste piantagioni di messi che hanno contrassegnato il lavoro di questi instancabili agricoltori che da secoli contribuiscono all’ecosistema mondiale con il mantenimento di estese ‘foreste vergini’; la loro produzione di orzo, segale, mais e frumento che nel tempo gli sono valsi la denominazione di “Granaio del mondo”. Di tutto il materiale musicale – proseguo nel citare il ricercatore Castelli – i due brani corali sopracitati sono gli esempi maggiormente collegati ad arcaiche pratiche di canto. La polifonia è infatti uno dei caratteri anticamente dominanti in quest’area, accomunata in primis dalla pratica del lavoro di massa contadino, con i quale si accompagnavano i lavoratori e le lavoratrici durante la raccolta dei frutti della terra, (si rammentino i canti delle mondine e degli scariolanti in Italia), e non solo. Inoltre ai vicendevoli scambi fra polifonia liturgica e polifonia popolare, l’antichità del carattere polifonico è testimoniata anche dal fatto che, all’inizio del processo di inurbamento, da più parti si è sottolineata una netta differenziazione fra lo stile delle campagne e quello di matrice ‘colta’ che si andava sviluppando nelle città nonostante la diversa identità (religiosa e/o profana) fra le linee melodiche e i testi delle canzoni, nella suddivisione possibile fra “canzoni di villaggio” e “canzoni di città”. In entrambi i casi la polifonia risulta pienamente contrappuntistica; le varie linee melodiche si intrecciano e si separano allo stesso modo, non limitandosi a cantare per intervalli paralleli. Nella tessitura composita del patrimonio rituale di una cultura – scrive ancora Stefano Castelli – le pratiche riguardanti il matrimonio occupano spesso un punto nodale, importantissimo, fondamento medesimo musicale dell’Ucraina, che possiamo dividere in canti in qualche modo corrispondenti ai momenti eclatanti del rito: le canzoni di addio e le lamentazioni dei parenti della sposa; i canti di carattere mitologico, cavalleresco o eroico cantati durante i festeggiamenti e i banchetti; le strofe a sfondo erotico eseguite nelle vicinanze della casa in cui gli sposi si preparano a trascorrere la prima notte delle nozze; infine, le canzoni di matrimonio propriamente dette, cantate durante lo svolgimento del rito. Anticamente infatti il rito durava giorni, scandendosi con precisione in un accurato sviluppo minutamente preordinato. Tralasciando il passato, rimane facile notare la pressoché completa identità di alcuni canti matrimoniali, per quanto riguarda lo stile melodico e i modi di esecuzione, con i canti agrari del raccolto. La cui funzione raccoglie intorno a sé stili diversificati relativi a funzioni diverse. Il matrimonio, quindi, vissuto come momento di mescolamento in cui è presente una molteplicità di temi paragonabili solo a più antichi riti di iniziazione che comportano sempre uno scenario di morte iniziatica. È questo della morte un altro momento rituale assai marcato nei canti di matrimonio, specie da parte dei parenti della sposa per cui ‘sposarsi’ equivale allontanarsi dal clan di appartenenza per seguire il marito; come morire e viceversa rinascere in altro luogo. Non a caso i funerali di una ragazza assumono la forma di un matrimonio, con canti e musiche allegre. Le simbologie usate nei testi sono assai esplicite: “la sposa muore per il suo clan”, “la fanciulla sprofonda nel mare”, “il ramo è divelto dalla pianta” e così via. I canti relativi vengono eseguiti da due cori, solitamente femminili, guidati da due attendenti. Il testo descrive, in forma di contrasto, tutti i momenti del rituale: come accade per gli incantesimi, la partecipazione umana deve essere costante e l’attenzione più minuziosa deve essere posta in tale atto ‘legislativo’ in modo che nulla venga turbato e sfugga al controllo dei celebranti. Così, appare spesso che l’atto di rapimento della sposa da parte del clan del marito, deve sembrare che ella venga obbligata ad andarsene, per non offendere il clan originario. Se è vero che la musica ha il potere di mantenere vivi certi suoi caratteri a distanza di millenni, che continua a essere suonata e intonata negli stessi luoghi dove si è formata, ciò vale altresì per la parola orale e scritta, per la letteratura come per la poesia, per i gesti rituali così come per il canto e la danza, che troviamo, pur con migliaia differenziazioni in ogni parte del mondo e presso tutte le popolazioni conosciute. Gli esempi potrebbero essere infiniti, sebbene a tutti va dedicata, da parte del ricercatore, una particolare attenzione. Soprattutto perché, ogni singolo momento nell’ambito della vita e della cultura di ogni singolo popolo, rappresenta una condizione sperimentale evolutiva, e la musica è sempre stata la più attaccabile dai bacilli delle mode e della modernità, e non sempre in maniera eccepibile. Appare chiaro, dunque, come l'eredità di questo approccio sia fondamentale per comprendere la pluralità dei codici e dei linguaggi, centrale nella teoria postmoderna, nonché sia applicabile ante litteram alla situazione contemporanea della multimedialità, dell'ipertestualità e della contaminazione «in rete», che della teoria postmoderna sono l'esito ultimo e più complesso. Orientamento teorico e metodologico risalente, con diramazioni successive, all'opera del linguista svizzero Ferdinand de Saussure, che considera la lingua come un insieme strutturato di elementi interagenti e interdipendenti; successivamente la definizione è stata adottata anche per indicare gli indirizzi di pensiero che hanno esteso alle scienze umane i principi dello strutturalismo linguistico, per cui i fenomeni culturali sono visti come insiemi organici tra i cui componenti vigono relazioni costanti e sistematiche: l'antropologia (con Claude Lévi-Strauss), la critica letteraria (con Roland Barthes), la psicanalisi (con Jacques Lacan), l'esegesi marxista (con Louis Althusser), la filosofia della cultura (con Michel Foucault) e la neo-liguistica (con Roland Jakobson). Per una comprensione analitica del fenomeno cfr. G. Fornero e F. Restaino, Nicola Abbagnano – “Storia della Filosofia”, volume X in “La filosofia contemporanea” (7). Come scrivono E. Schultz e R. Lavenda, autori di “Antropologia Culturale” (8): “Il sapere etnografico risulta sempre mediato da sguardi orientati, da contesti storici e relazionali, da prospettive ideologiche e biografie situate. Ma si farebbe un grave errore pensare di dover depurare o cancellare questa mediazione: si perderebbe la possibilità stessa di riconoscere le fonti e le modalità del processo conoscitivo che si è attuato; verrebbe meno la possibilità di ricostruire e di dar senso alle energie e alle risorse della trasformazione avvenuta. La comprensione dell’altro culturale scrivono gli autori echeggiando posizioni vicine all’ermeneutica contemporanea, e in Italia per molti versi anticipate dall’antropologia di Ernesto de Martino – è costruita intersoggettivamente, utilizzando elementi tratti dal sistema culturale sia dell’antropologo che dell’informatore. Afferrando il significato del sé culturale dell’altro, scopriremo in parte il significato della nostra identità”. Conoscere la storia di un territorio, la morfologia della sua natura, il clima, la flora delle sue pianure e la fauna dei suoi boschi, le condizioni di vita della sua gente, certo aiuta a comprendere la pur “semplice” vena creativa delle sue tradizioni popolari, a conoscere l’origine dei racconti di fiaba, la derivazione mitologica delle sue leggende. Così come conoscere le “sorgenti” della musica e del canto, permettono di comprendere la creatività dei virtuosi strumentisti che molto successo riscossero presso i musicisti colti nelle corti europee gli studiosi del folklore. L’etnomusicologia si è occupata poco di questa regione “narrata e vissuta” in musica dal popolo pur variegato che l’ha formalizzata dentro schemi originali irripetibili. Ciò seppure è possibile affermare che una linea musicale comune li abbracci tutti, secondo una sorta di reciprocità e interscambiabilità che conferisce ad essa una sorta di uniformità e, in qualche modo, di unicità, riscontrabile e riferibile come ad un'unica entità popolare. Fra tutti vanno qui ricordati le voci della letteratura di tradizione ucraina, la cui voce poetica più antica è rintracciabile nelle ‘byliny’, canti epici del tempo in cui, all’alba del millennio passato, Kiev lottava contro i nomadi delle steppe, ed in tutta una vasta creazione popolare rimasta anonima, tramandata oralmente per secoli, prima di essere fissata sulla carta. La parte più originale di questa tradizione dell’antica letteratura sorta in terra ucraina è costituita dalle epopee di cui il “Canto della schiera d’Igor”, rappresenta l’esempio più mirabile. Ma è anche necessario inoltrarsi nelle abitudini di un popolo per poter scoprirne l’entità vitale e recepire al meglio le sue tradizioni. È così che visitare un paese richiede inoltre di esaminare quelli che possiamo definire gli ‘archetipi’ della sua religiosità, i caratteri essenziali della sua cultura, le espressioni tipiche della sua arte, come i manufatti, la cucina, il bere, e non solo riferiti al passato. Bensì anche la residualità di quanto si proietta nel presente, come l’accoglienza e la generosità del suo popolo. Nonché conoscere la cucina ucraina in quanto parte integrante della cultura popolare che si riflette nello stile di vita e negli usi e costumi di tutti gli ucraini. Infatti la cucina ucraina si riconosce in modo particolare per la grande varietà di sapori e la diversità di ingredienti utilizzati, per lo più carni, funghi, verdure, barbabietole, frutta e vari tipi di erbe. Alcuni piatti tipici della cucina ucraina sono tra i più semplici da preparare. I cibi si accompagnano con vini locali e non, diversi tipi di birra, vodka, o te, ed altre bevande anche molto diffuse come in particolare la ‘horilka’, un distillato chiaro ricavato dal frumento e dalla segale. Non trascurabile, sempre che la conoscenza della lingua lo permetta, e magari cercare qualche traduzione in altro idioma, dare uno sguardo alla letteratura presente sul territorio che pure conosce una storia lenta affermatasi fin dal XV secolo. “Una letteratura propria dell'Ucraina si afferma già nel XV secolo. La letteratura ucraina raggiunge il massimo splendore con Ivan Franko (1856-1916), e soprattutto con il poeta nazionale ucraino Taras Hryhorovyč Ševčenko (1814-1861), autore di ballate e poemi epici di stampo nazionale. Nel XX secolo si afferma, tra gli altri, la figura della poetessa Lesja Ukrainka (1871-1913). Tra il XX e il XXI secolo tra gli scrittori di storie per bambini si distinse Vsevolod Nestajko. Prevale, inoltre, un tipo di scrittura di carattere sociale e nazionalpopolare. In campo filosofico, nel XVIII secolo, tra gli altri, si afferma la figura di Hryhorij Skovoroda (1722-1794), che fu anche poeta” (9). In musica, come si è visto, è possibile definire la tradizione ucraina come una ‘musica senza confini’, un intrico meraviglioso di ‘strade sonore’ diverse. Per chi non è abituato a frequentarle, sono racchiuse tra questi due estremi: Occidente e Oriente, crogiuolo di stili e assonanze diverse ove si riscontrano influenze arabe ed ebraiche, mongole e tatare, ortodosse greche e altre appartenenti alla cultura islamica. Nessuna di queste però è più definita delle altre. Dacché l’ascolto del disco sopracitato, l’unico che ho rintracciato in questo periodo di assenza totale dal mercato, rivela contaminazioni vissute e metabolizzate che pure resiste all’occidentalizzazione, insieme ad un miscuglio talvolta finanche fastidioso all’orecchio impreparato. In altri momenti però rivelatrici del fascino misterioso orientaleggiante cui ci hanno abituati i grandi compositori russi, quali, ad esempio, i romantici Glinka e Mussorgsky, attraverso le opere dei quali ci si ritrova nel mezzo di feste popolari e pagine entrate nella grande musica classica; arabeschi e armonie di tradizioni antiche e desideri nascosti e forse sconosciuti. Ma limitarsi a ciò sarebbe voler conchiudere la tradizione ucraina entro un perimetro sonoro che non conosciamo appieno; che altresì, nel tentativo di semplificare un panorama complesso e variegato, è ‘fonte estrema’ di rinnovamento musicale integrante di una cultura orale comunque millenaria. “Tra le cantanti ucraine vanno ricordate , tra le altre, Alina Grosu e per il genere pop e Rhythm & Blues Svitlana Loboda; Ruslana Lyžyčko che con il singolo “Wild Dances” ha vinto l'Eurovision Song Contest 2004, svoltosi in Turchia. In seguito l'Ucraina vinse nuovamente con la cantante Jamala nell'edizione dell'Eurovision Song Contest 2016. Tra i cantautori spicca Volodymyr Ivasjuk e la nota cantante lirica che è stata Solomija Krušel'nyc'ka. Per la musica classica ricordiamo la pianista Valentyna Lysycja, che ha assunto rilevanza internazionale (10). Quanto rimarrà di tutto questa ‘fonte sonora’ dopo gli ultimi eventi della guerra ancora in fase di attuazione e in attesa di accordi di pace, che tutti auspichiamo, non so dire. Che nel 2022, si faccia una guerra per la supremazia di una nazione su un’altra non ha oggi alcun senso, è comunque un’offesa alla dignità umana e alla rispettabilità di un popolo civile. Ingrata per chi la fa e per chi la subisce, perché infine chi ne trarrà la vittoria, si ritroverà comunque con una forte perdita in numero di vite umane, di distruzione totale del territorio e carenza di materie prime di cui avvalersi nel processo di sopravvivenza. Davvero non ci sono parole aggiuntive che possano scusare un misfatto simile a quello che si sta consumando in quest’area continentale con la possibile estensione alle altre nazioni limitrofe e, soprattutto, con la probabilità di scatenare altre ‘menti’ offuscate dalla sete di potere o d’imperialismo autocrate. Nessun imperatore o despota che si ricordi nella storia è mai sopravvissuto al potere esercitato dalla cultura dei popoli, all’espressione di quel ‘sapere’ che le genti hanno depositato nel serbatoio della memoria del mondo.
Testi di consultazione: “The New Oxford History Of Music” vol.1 – Oxford Press – London - per l’Italia Garzanti-Feltrinelli – Milano 1991. “Enciclopedia della Musica” – Garzanti, Milano 1996. “The Larousse Encyclopedia of Music” – The Hamlyn Publishing Group – London 1978. “The world of music”, Journal of the International Institute for Comparative Music Studies – Berlin in association with The International Music Council (UNESCO). Chairman of the Board: Alain Danielou.
Note: (1) Oliver Sacks: “Musicofilia” - Adelphi, Milano 2009. Medico e scrittore, vive a New York dove insegna neurologia e psichiatria alla Columbia University Artist. È autore di molti libri, fra i quali “Risvegli”, da cui è tratto il film che 1990 ebbe tre nomination agli Oscar. “Ogni storia cui l’autore dà voce illumina uno dei molti modi in cui musica, emozione, memoria e identità s’intrecciano, e si definiscono. Forse la musicofilia è una forma di biofilia, giacché noi percepiamo la musica quasi come una creatura viva” (dalle note di copertina). (2) Alain Danielou: The International Music Council, “Musical Atlas”, Note introduttive alla collana Unesco Collection by the International Institute for Comparative Music Studies (Berlin/Venice). Emi-Odeon. (3) Marcel Mauss: "Saggio sul dono: Forma e motivo dello scambio nelle società acaiche" – Einaudi, Torino 1965. Antropologo, sociologo e storico delle religioni francese, massimo esponente della scuola di Durkheim. Collaboratore della rivista Annéè Sociologique, fondata nel 1898 da Emile Durkheim. "Saggio sul dono", nasce dalla comparazione di varie ricerche etnografiche, tra le quali lo studio del rituale potlach di Franz Boas e del Kula di Bronislaw Malinowski. (4) Stefano Castelli, scrittore e traduttore, musicista curatore delle note bibliografiche della produzione Albatros per la Editoriale Sciascia dagli anni ’70, ha curato inoltre l’uscita del disco (LP) qui presentato dal titolo “Ucraina” nel 1979. In nota: “Si può dire che, come in tutte quelle che pretendono di possedere una validità appena un poco generalizzata in un settore così magmatico quale è quello della musica popolare, richiederebbe una dimostrazione assai lunga e complessa.” (5) Stefano Castelli, op.cit. (6) Charles Darwin, “L’origine dell’uomo” … (7) Schultz / Lavenia, “Antropologia Culturale” …. (8) Nicola Abbagnano – “Storia della Filosofia”, volume X in “La filosofia contemporanea”. (9) Wikipedia, alla voce “Ucraina”. (10) Ibidem
Id: 858 Data: 03/04/2022 12:29:29
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- Psicologia
Un perfetto ‘equilibrio confusionale’.
Un perfetto ‘equilibrio confusionale’. Lacan e me.
Parlando davanti allo specchio del bagno, in presenza di Jacques, convengo di apportare una leggera variante alla prospettiva lacaniana su alcune certezze acquisite, affatto scontate, in una delle quali si fa riferimento allo “squilibrio confusionale” di alcuni soggetti che, pur in stato confusionale, trovano nella loro quotidianità un proprio costante ‘equilibrio’. Faccio un esempio: Margy E. vive in un appartamento spazioso in centro città, arieggiato e ben illuminato, sì da permettersi una vita agiata e accomodante, a tal punto da circondarsi di mobili e quadri d’autore di un certo prestigio, oggetti di design, collezioni di libri, dischi musicali e film, secondo una scelta del tutto personale ma che darebbero le vertigini a chiunque volesse azzardare una lista o un ipotetico inventario. Non c’è che dire (o ridire), per carità! Si pensi tutto ciò come proiettato in un possibile ‘bazar’ orientale, stracolmo di migliaia di cianfrusaglie d’ogni genere: poggiati qua e là vecchi giornali e riviste, tappeti e cuscini colorati, sculture lignee e marionette, per non dire dei ventagli incorniciati alle pareti. Altrove: manufatti e utensili di tipo contadino, moderni elettrodomestici da cucina, alimenti ancora imbustati di un’ultima visita al supermercato e, dulcis in fundo, una tavola costantemente apparecchiata, pronta a ricevere chiunque si presenti sulla porta, come se non si stesse aspettando altro. In questo caso io che mi domando se sono approdato al Bazar di Istanbul o al Suk del Cairo, o chissà, a L’Antico e le Palme di San Benedetto del Tronto o solo al mercato di Porta Portese in quel di Roma. Nient’affatto, mi dico appena sveglio, sono in casa della mia migliore amica e tanto basta. Margy E. è una donna amabile e solare, generosa d’affetti e prodiga di liberalità ma che, forse, o proprio per questo, vive nel disordine assoluto, perfino l’orologio appeso alla parete segna un orario a dir poco strano, quasi ad avallare il detto che “almeno due volte al giorno segna l’ora esatta”. Non so dire se sia corretto vivere in tale continua approssimazione, ma comprendetemi, appena sveglio di primo mattino, almeno al suo orologio segna le 11:00, la cosa di per sé confonde non poco le idee, almeno le mie, che non riesco neppure a trovare la porta del bagno. George fai in fretta la colazione è in tavola! – esclama Margy dall’altra stanza. Quando mai, a quest’ora, mi dico, perplesso pensando a quale ora dunque è prevedibile il pranzo. Ovviamente non è tutto, il bagno rappresenta il ‘salone delle meraviglie’: spazzole e spazzolini, pennelli e tamponi, ciglia finte e parrucche, matite colorate da far impallidire la tavolozza di Matisse, asciugamani d’ogni dimensione appesi qua e là finanche agli sportelli della doccia, ed altri minuscoli e colorati che non saprei dirne l’uso, una mutandina (si fa per dire) di pizzo color lilla, un’altra nera, un’altra ancora rossa fuoco. Nonché alcuni reggiseno minimalisti, non suoi penso, poiché non potrebbero sostenere l’abbondanza trasbordante delle tette di Margy. Non c’è che dire, non riesco a trovare il rotolo della carta igienica. Dopo la doccia riesco a malapena a trovare il fon per i capelli allorché tutto incomincia a vorticare in aria, come per l’arrivo improvviso di un ciclone. Mi chiedo che circo è questo? Chiamo ad alta voce: Margy mi serve il tuo aiuto! Ma George che mi combini, non hai pensato di abbassare la potenza del fon? In verità no. Sta a vedere che è mia la colpa di aver mandato ogni cosa in aria, non sua che ha spento il fon sulla tacca della bora. Ma che cosa direbbe l’amico Jacques (Lacan) a proposito di tanto scompiglio? – chiedo alla figura riflessa nello specchio (cioè io). È il sintomo della paranoia latente che abita ciascuno di noi come possibile consequenzialità della psicosi di uno “squilibrio costituzionale”. Lampante ma non chiaro, disarmante direi. Il fatto è che Margy agisce istintivamente in modo ovvio. Nel suo ‘casino’ riesce a divincolarsi dalla presa occulta delle cose, entrare e uscire con ovvietà negli scaffali e nei cassetti, negli sportelli degli armadi e degli appendiabiti ancora non disfatti di ritorno da un ultimo viaggio. Quel che conta, sempre che gli si dia la giusta importanza, sta nel fatto che Margy, pur nella sua vaga (nessuna) concezione di ordine, trova tutto ciò che le occorre in un battibaleno e nel modo più inimmaginabile, come se tutto stesse per lei a portata di mano. Sì certo poi lascia ardere sul fuoco la casseruola del sugo giusto in tempo per non farlo bruciare del tutto, mentre sta buttando giù la pasta nell’acqua che bolle, rovescia del vino nel versarlo frettolosamente nei calici di cristallo, ma solo casualmente. Che vuoi che importi George, le tovaglie si lavano, mentre noi vogliamo brindare, non è così? Cin, cin e auguri! Vado a riordinare il letto. Ma a che serve mi chiedo, dacché ci siamo appena alzati? Per un momento ho pensato che stavamo preparandoci per uscire, ma poiché stentavo ad alzarmi da tavola, ho sentito la sua mano trascinarmi via, nell’altra stanza ovviamente. Definire tutto ciò un plausibile ‘equilibrio confusionale’ mi dice che sono nel giusto, che le parole spese a definire la paranoia un elemento di ‘squilibrio esponenziale’ da parte di tanta letteratura scientifica, psicologica e psicoterapica, mi dispone verso la ‘illogica’ conclusione che percettivamente Margy, dentro “la somma dei suoi elementi” è assolutamente originale, in bilico se vogliamo, fra l’euforia del suo mondo surreale, e la schiacciante realtà dell’ontologia classica che pretende, costi quel che costi, il condurre una vita ordinata e conclusa in se stessa. Questa ipotesi formale (e antipatica) dice alla figura speculare dentro lo specchio che, c’è qualcosa d’altro, un di più rispetto all’immagine che rappresenta, e proprio per questo motivo essa esercita sul soggetto (l’io che mi porto dentro), un simile potere di fascinazione. Quel qualcosa in più che sta nello sguardo speculare al nostro da cui spesso prendiamo le distanze, nel timore che ci riveli quel che siamo: “la piccola fragile immagine in uno specchio”, e non quello che vorremmo apparisse di noi, senza crepe né ombre alcune: la paranoia vagamente nascosta di un vivere a confronto con un narcisismo eclatante ...
(continua)
Id: 855 Data: 20/03/2022 09:08:23
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- Filosofia
Il prezzo della guerra … i guasti dell’umana terra.
Il prezzo della guerra … i guasti dell’umana terra.
Con una semplice commutazione di intenti nell’apoteosi linguistica dell’alfabeto, troviamo la lettera ‘M’ che, nei simboli numerici romani, indica Mille, cioè mille e più significazioni che vanno da: Montagna della Perfezione, alla Madre Terra, la cosiddetta Mater Matuta, alla Madonna e tantissime altre, ma, ed anche, Miseria e Morte. Quest’ultime, ben presenti nella quotidianità, rientrano in quella che definiamo negatività dell’esistenza cui non è mai stata data alcuna risposta accettabile. Essendo la tredicesima lettera dell’alfabeto, come si sa, il numero ad essa riferito è considerato infausto nei paesi del Nord e fortunato nei paesi del Mediterraneo. Ancor più perché nella simbologia dei Tarocchi, la tredicesima carta, rappresenta l’Arcangelo Azrael, colui che governa sull’occulto e il misterioso, in quanto è Guardiano delle Anime, Custode della Vita e della Morte; colui che taglia con una falce un campo nero come la notte più nera, cosparso di teste e corpi senza riguardo alcuno: uomini e donne, giovani e vecchi, cadono dinnanzi al Quarto Cavaliere dell’Apocalisse. Al suo ‘rovescio’ vige un’interpretazione contraria, alla quale va riservata una particolare attenzione, non solo necessaria quanto raccomandata che recita di “non arrendersi ad una concezione unilaterale di cieca fatalità perché contraria allo spirito di ogni divinazione” più o meno autentica. Infatti Morte significa anche successione senza fine “da un piccolo ‘io’ a un grande ‘noi’”, al tempo stesso rinnovamento, vita nuova, vittoria sulle avversità, un cambiamento nel flusso perpetuo di un tutto vitale che porta alla trasformazione, alla rinascenza. Ciò che non hanno ancora compreso i ‘signori della guerra’ (tutti quei despoti oppressori che avallano crimini verso l’umanità), che un ‘capovolgimento’ delle circostanze, porterebbe a un annientamento delle loro stesse forze messe in campo. ‘Mille e non mille’ non è mai stato solo un modo di dire, bensì un argomentare palese dell’insegnamento della storia: onde alla fine né vincitori né vinti sopravvivranno alla giustizia divina. Ma il prezzo della guerra non riscatta i guasti che la stessa porta all’umanità tutta, che “lo scostarsi dalla giustizia è un decadere dalla natura umana” (Marco Aurelio); che se “al giusto nuoce chi al malvagio perdona” (Monti), allora anche in guerra “va usata umanità, discrezione e misericordia” (Machiavelli), e non sarebbe giustizia se si volesse condonare le pene ai colpevoli al dolore degli innocenti” (Manzoni). Sì che “il sangue versato serve soltanto a lavare le mani dell’ambizione criminale” (Byron). Tutto infine coincide nell’interrogativo posto dal saggio: “se noi riconosciamo che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia (?) (Pirandello). Non lo è, perché se la giustizia degli uomini è cieca, la giustizia posta in essere da Azrael non lo è affatto, in quanto gli è dato il potere di prendersi cura delle anime dei morenti, in virtù di una ‘giustizia più grande’ che le attende nell’al di là. Tuttavia se “ogni guerra di libertà dall’oppressione è sacra, ogni guerra messa in atto dall’oppressore è maledetta” (Lacordaire). Acciò, “le armi si debbono riservare in ultimo luogo, dove e quando gli altri modi non bastano”; “i popoli corrono volontari sotto l’ala di chi tratta i vinti come fratelli e non come nemici” (Machiavelli). Onde “prepararsi a rispondere a una guerra ingiusta è solo un mezzo efficace per conservare la pace” (Washington); “il segreto per vivere in pace con tutti, consiste nell’arte di comprendere ciascuno secondo la sua individualità” (Jahn)… “All’uomo infine non rimane che una timida scelta fra la felicità dei sensi e la pace dell’anima” (Schiller). Sì che andrebbe ricordato che “la terra è ampia abbastanza, e tutti feconda, può pascerci tutti (fraternamente), può altresì seppellirci tutti” (ragionevolmente)”. (Bini). Non v’è alcun bisogno che i popoli si facciano la guerra.
Note: Massime, pensieri e aforismi liberamente tratti da … Paolo Santarcangeli “Hortus Litterarum” – All’Insegna del Pesce d’Oro 1965. Palazzi, Spaventa Filippi “Il Libro dei Mille Savi” – Cisalpino Goliardica 1967.
Id: 852 Data: 03/03/2022 06:22:24
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- Filosofia
Ombre nel buio … poeticando su questo nostro essere infinito
Ombre nel buio … poeticando su questo nostro essere infinito. Più volte, dopo essermi assopito per un breve istante, apro gli occhi e mi chiedo se non sia già l’indomani o se invece non sia il prolungamento astrologico di ieri, tanto i giorni hanno per me lo stesso colore e il medesimo incanto. Quale che sia l’ardore per la bellezza perseguita o inconsciamente suscitata, improvvisamente evapora, sostituita da ore d’incolmabile astrazione e nulla più m’importa se l’orologio al posto del tempo scandisce la luce o l’oscurità che l’attende. Giunto alla fine del giorno credo di possedere una certa cognizione per cui ad ogni sorgere dell’alba segue un voluttuoso tramonto che dopo un ultimo abbaglio di luce s’accompagna al buio di un’oscurità ignota che mi spaventa e affascina allo stesso modo. Vedo così spalancarsi davanti ai miei occhi attoniti, lontani spazi di profondo chiarore, baluginii di un’aurora appena intravista e ancora inviolata, che nel suo profondersi dentro la notte mi restituisce all’opale chiarore d’una vaga certezza. Finché la mia ferma aderenza alla realtà recupera alla dissimulata voce del silenzio mattutino, la sua chiarezza oggettiva, la prospettiva del passato nel presente onde la vita finisce per essere intimamente avvolta nell’immensità che mi sovrasta, nella parvenza virtuale di una qualche congiunzione cosmica. E non m’importa dar seguito all'illusoria assenza del passato, né di contribuire ad affermare il presente, effimero e comunque passeggero, quanto di addentrarmi nel profondo d’una nuova identificazione con la Luna che mi viene incontro per un ultimo saluto. Ma le parole s’affacciano labili alla mia mente e presto svaniscono sulla scia di un miraggio che pian piano si disperde negli spazi inviolati di un possibile 'altro' ch’è in me, nel costante sdoppiamento di un ‘io’ diverso che si dissolve nella polvere cosmica di un vortice astrale che mi coinvolge e stravolge. Così, in quell’andare ‘oltre’, che sempre si rivela come la mera possibilità di valicare l’invalicabile, avanza il desiderio di guardare attraverso gli uadi segreti del tempo e oltrepassare lo spazio infinito, seppure non ignori che da qualche parte dev’esserci una fine per quanto imprevedibile essa sia. L’immediato desiderio di spalancare il velo ignoto del cielo spazia nella mia mente nella ricerca vana di catturare la segreta essenza di un ‘tutto’, quasi fosse il prolungamento conscio della vita inconscia, scorgo molteplici Lune che s’affacciano e vanno a spasso nell’universo, quasi da poterle afferrare, se solo lo volessi. Per quanto, nel timore d’infrangere la pacata immensità di quel cielo, là dove talvolta l’anima s’invola rivelando a se stessa la propria grandezza e la propria iniquità, non oso svincolare il mio pensiero dal seguire la vocazione di perdermi nella vastità cosmica che si dilata a dismisura, sì che la materia si presenta nuda davanti all’invisibile e s’apre a una lenta genesi. Onde accecato, nell’incedere nella nuova realtà vengo proiettato in una vaga sensazione di prosieguo che sfugge alla materia corporea che mi compone, nell’inconscio della mia esistenza. Sì che la mia immagine riemerge nella consapevolezza di quel silenzio infinito che porta alla solitudine estrema, al vuoto assoluto che precede il vago sentore d’una eternità obliata, come sul punto di approdare alla pura essenza del divino. Almeno per un istante credo di assistere al precipitare epifanico della forma oggettiva dello spirito, di ciò “che non è mai ma che è per sempre”, come di un precipuo concetto di bellezza che trascende nel divenire del sogno e dell’immaginazione, ed occupare infine ogni spazio dentro e intorno a me nella vacua realtà del nulla. E mentre tutt’attorno ogni cosa si mescola impercettibile, discopro nell’intimo timore che mi coglie la luminosità di un’altra Luna lontana, immaginifica e immensa, diversa dalla vecchia e misteriosa musa dell’innamorato e del poeta. Allorché, senza neppure che me ne renda conto, vago smarrito entro quella possibile verità 'altra' che posta al di sopra di ciò che sono, porta all’intima essenza di quell’io che vaga leggero fra le stelle più lontane, partecipe silenzioso del mistero dell’universo e della sua tranquilla infinitezza. Ma nell’impossibilità di condurre lo sguardo oltre lo scintillio del firmamento che mi compete, procedo alla ricerca di quella misura astratta che anzitempo deve aver visto l’uomo, immergersi nel movimento cosmico degli astri. Sì che d’un tratto, rimango a contemplare il fuoco di ramaglie al di sotto della grande cupola della notte, sospesa com’è nell’immutabile e umanissima certezza del creato. In verità non ho mai sottovalutato il desiderio inestinguibile di senso, lo spazio irriducibile dell’interpretazione, la parola come superamento del silenzio, come neppure ho mai pensato a una concezione del tempo che propendesse per un atteggiamento diverso nei confronti del presente o del passato. Piuttosto, che rendesse pensabile una diversa costruzione del futuro, ove il tempo non fosse semplicemente memoria di forme, o apparenza di significato, bensì incontro di realtà e immaginazione, ripetizione volontaria dell’inconscio ch’è in me, reminiscenza di quel presentimento del fantastico immaginario che si annida in ognuno di noi, abbagliato da tanta bellezza. Come certamente occorse al grande viaggiatore Jean Potocki sul finire dell‘800 davanti a ciò che non era mai cambiato nell’astratta sensazione del vissuto, la cui sembianza figurativa del passato diventava ripetizione di ciò che siamo, anch’io mi sono posto la domanda: “quale anima è così inaccessibile all’ammirazione da potersi sempre difendere da questo esaltato sentimento che è l’immaginario?”. Ma la risposta ahimè non mi ha raggiunto se non nella matura età, in cui ho ritrovato me stesso, allorquando, riscoprendo la memoria antica, l’ho sentita farsi presente nella realtà del tempo in cui vivo, quale dimora essenziale di ciò che sono. Seppure, in virtù di ciò che prevarica il mio segreto sentire, tendo a trasportare l’impostazione conoscitiva al di sopra dell’orizzonte cosmico che mi è dato, consapevole che ogni mia azione trova una diversa ragione d’essere, in cui l’immaginario si esprime e si rappresenta secondo le tendenti aspettazioni alchemiche e metafisiche delle premesse, onde né il desiderio di scienza né l’attenzione del filologo, hanno mai smentito il manifestarsi poetico del ‘limine’, in cui ‘l’altro’ ha trovato la sua affermazione sulla ‘soglia’ di quell’infinito cui di fatto tutti noi aneliamo, fissi davanti alla solitudine dell’universo, che una guerra oggi inconcepibile porterà alla dissoluzione, di ciò che rimane …
… se mai qualcosa ne resterà di noi.
Id: 851 Data: 27/02/2022 11:39:03
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- Poesia
In tono minore Una silloge di Evaristo Seghetta Andreoli
'In tono minore' … o l’intima significanza delle parole. Una silloge poetica di Evaristo Seghetta Andreoli – Passigli Editori 2020.
Talvolta accade che l’uomo, nel silenzio dell’ombra che l’accompagna penetri nell’antro numinoso di un universo sospeso, che in ‘assenza di una chiassosa visitazione del proprio ego’, il poeta che pur vive in lui, si conceda all’affannosa ricerca di un’intima emozione che lo pervada. È così che nella sua scrittura, solo apparentemente dimessa, questi apra il suo cielo cosparso di stelle al chiarore di una luna infarinata di biacca, come quella di un clown che mostra al contempo, la sua ingenua meraviglia e la sua amara inquietudine, tema portante – a mio parere – di questa silloge poetica di Evaristo Seghetta Andreoli …
“Ho accettato di stare a metà sulla scala verso l’altopiano delle stelle. L’altro dimora all’ombra di edere antiche, sotto i muri del romitorio. Varie le reazioni alla speranza: di certo non rispondono ai dettami del cuore. Ci lega tutti questa sola strada che sale e scende in armonia col prato, nell’attesa di conoscere domani il colore del nostro fiore”.
Ma non v’è meta nel poeta che s’apre alla speranza del migliore dei mondi possibili, di quel che nella cercata solitudine dell’uomo non appaia possibile, né che la sua rimostranza di clown sia presa in considerazione da alcuno, allorché, finito lo spettacolo il pubblico va via dimentico di sé. Quel che resta è dell’uomo maturo nel suo germinare alla vita, che, all’occorrenza, riscopre se stesso nella natura ch’è propria delle stagioni: così alla nascita, nei colori in primavera e nell’oro assolato dell’estate, ora per ubriacarsi di necessaria linfa, ora di fiori e verzura inebrianti, ora di nuovo polline; così come del vento e delle nuvole quando s’avvicina l’inverno della fine …
Così che “l’uno all’altro ignoti, condividiamo la stessa solitudine.” (…) Con poco o nulla da dire, scegliamo il silenzio. / Ma, se tentiamo una frase, / l’incipit parla all’unisono. E ne ridiamo”.
Allora, come sul pentagramma d’uno spartito musicale, la cifra scrittoria dell’uomo non può che essere ‘in tono minore’, direi interstiziale, di colui che cerca nell’intervallo delle note l’assoluto del suo canto lirico, ma ch’è anche una forma di rispetto necessaria al poeta che, annichilito, s’affranca al cospetto dell’immensa armonia che lo sovrasta ...
“Sono pensieri che solcano il viso, / rughe profonde, vere, come un sorriso. / Sono crepe, sui calanchi delle stelle”.
Come fu per “Vaghe stelle dell’Orsa…” e per “Che fai tu luna in ciel? dimmi che fai” di leopardiana memoria, qui non si tratta di rimembranze, o almeno non solo. Le diverse parti che compongono questa silloge poetica s’avvalgono ora di recitativo, ora d’invocazione, nel ‘modo’ che ognuno di noi, nell’intima significanza delle parole, esprime la propria silenziosa preghiera …
“La luna già riappare / nella sua curva lama. / Cade un altro giorno vano”.
Ed è nell’economia insita nel proprio respiro, nell’intrapresa costruzione di sé, come nella vaga sembianza dell’eterno, che il silenzio si fa dialogo eloquente dell’uomo, del suo inseparabile vissuto. È nell’elaborazione dei propri costrutti, nei lasciti di un’eredità consumata, così come degli abbandoni subiti, che ripone la propria ineguagliabile sofferenza, come per una assenza ingiustificata che ha lasciato l’ombra di sé in una nuvola che passa e s’allontana. Perché? – si chiede l’uomo – senza ricevere risposta … perché?
“Qualche volta le stelle cadono. Per il resto, resistono lassù, appese alla parete dell’Apeiron, pertugi di fuoco nell’involucro universale. Ce ne accorgiamo quando sopra il mare tracciano la scia. Il tuffo nell’infinito è ciò che vorremmo imitare. Sappiamo bene che in quel mare, sospeso sopra gli sguardi, nel suo profondo, c’è tutto ciò che cerchiamo”. Perché? – si domanda il poeta inseguendo i fantasmi nelle nuvole che all’improvviso sovrastano il suo cielo. Che forse domani …? Ben sa che ci sarà un domani leggendo nei grafici disegnati dei cirri una scrittura artata che forse lo riguarda, quasi dovesse egli riempire gli spazi ‘bianchi’ dell’universo cielo, giammai vuoti d’altre costellazioni, d’una moltitudine di pianeti lontanissimi …
“Noi, che proveniamo dalle nuvole. / Siamo pieni di cose, di case. / Di niente. / Immersi nel tangibile, / abbiamo smarrito ogni meraviglia. / La metamorfosi della purezza / nella concretezza.”
Ben sa che solo alla poesia è dato scandagliare nel profondo dell’abisso così come dell’immenso cielo, che tutti noi, uomini e poeti … “Abbiamo bisogno di una fine che sia fine, / conclusa in se stessa …
/ Nulla che vada oltre. / Intanto, procediamo su questo otto, / in orizzontale: una linea continua, / circolare, che non ammette soluzione. / Si torna ogni volta al punto iniziale / per un altro giro di giostra: / all’infinito”.
Mentre l’uomo pur spera in un tempo fuori dal tempo in cui …
“Eppure, torneremo liberi, / lievi, tra le braccia sfilacciate delle nuvole, / sospesi ai cirri… E, se cadremo, / sarà soltanto pioggia”.
Una pioggia benefica, salutare, di cui l’uomo sente il bisogno, che lavi via ogni presunzione d’eternità, ogni esuberanza di vanità, e ubriacarsi infine di ciò che nel poeta talvolta, in ‘presenza di una chiassosa rivisitazione del proprio ego’, sa d’essere sublime …
“Questo momento che sembra eterno ci riporta all’archetipo, all’inizio del Tutto, al primo alternarsi della luce tra notte e giorno. Noi rivediamo le spiagge dei mari antichi da cui venimmo, a cui faremo ritorno, un giorno, dopo la nostra breve avventura”.
No, non v’è rimpianto né commiserazione nella vaga sembianza del tempo edenico perduto cui il poeta affida i suoi costrutti, o che affronti nel voler superare la barriera che lo separa dal conoscere il proprio destino umano. È quanto rivelato in “Argonauti” … “Riuscirò a setacciare i ricordi, che filtrano lenti attraverso il vaglio della memoria. Ricorderò i luoghi in cui non sono mai stato. Con rammarico ricorderò di non aver trovato la via che conduce al vello d’oro, alla ricerca, alla consapevolezza che la luna di luglio assai poco ci degna, ormai, della sua attenzione. Ricorderò nomi e cognomi per tacerli, preservando la loro debole immunità, il desiderio di penombra. Affonda in noi il bisogno di superare ogni barriera, di sapere come finirà l’assurda storia degli Argonauti della nostra era”.
Malgrado le parole dell’uomo rivendichino un’autonomia che non gli è data, spetta ancora al poeta l’insistere prepotente sulla stessa nota …
“C’è sempre vita nei versi, tessere sparse / nel mosaico della passione, / occhi vitrei che, dai porti più remoti, / fissano la deriva della coscienza. (…) E la pioggia che scroscia improvvisa, / che si fa insistente, insolente, /trascina la mia sconfitta nel fango. / (…) / Del resto so che alla pace dell’armonia / preferisco sempre la bizzarria del caos. / (…) / Ora temo che dal cielo precipitino giù / le stelle mattutine”.
Ed ecco che al tornar delle stelle nel verso, si riaccende la speranza di un qualcosa che pure è, che sa di apocrifo e autentico allo stesso ‘modo’, di suggerito all’anima dell’uomo come all’orecchio del poeta: “Univoca direzione per noi: / tutto concorre a varcare / la porta dell’asincronia... / (…) Ci sarà, anche quando la chiglia incagliata / mi ricorderà che tutto diviene / e fermarsi è un’illusione!”
Sì – esclamano all’unisono – o forse cantano l’uomo e il poeta, nel dualismo di entrambi c’è la consapevolezza di essere, ‘ergo sum’, certi che le parole non sgorgano dal nulla …
“Scendono giù le parole, lungo il pendio dell’acqua piovana, mentre la luna piena di questa notte straniata danza in un valzer di nuvole chiare. Veloci, beffarde, le parole fuggono via. Si fermano, forse, nelle pozze, al bordo dei campi di fieno. Si prendono gioco di me (di noi)”.
No – s’apprestano nel dire – o forse sì, perché le parole suggeriscono loro che l’esperienza fa della vita un unico canto, il ‘modo’ d’essere se stessi …
“Ora sappiamo che un altro giorno è compiuto. Ci raccogliamo in noi stessi, dentro le stanze delle nostre rinunce. Nemmeno tentiamo più di indagare la direzione dei voli, il sonno dei rondoni, né dove vanno le nostre illusioni a morire”.
“E quindi uscimmo a riveder le stelle” è detto nel verso 139 dell’“Inferno” dantesco che, proprio grazie alla dolcezza della poesia, riesce a non smarrirsi nei meandri bui dell’esistenza artata. Così, come nella ritrovata essenza dei suoi costrutti, il nostro poeta, Evaristo Seghetta Andreoli, s’avvale del “verso poetico” per stabilire il prosieguo del suo navigare, limpido, nel mare calmo delle rimembranze; nel suo poetare si respira l’afflato di chi – com’egli dice – ‘in tono minore’, va raccogliendo il senso di ciò che siamo.
L’autore: Evaristo Seghetta Andreoli di Montegabbione (TR) da sempre vicino, anche per formazione classica e giuridica, al mondo letterario e artistico, ha pubblicato la sua prima raccolta nel 2013 nonostante componga versi sin da giovanissimo. Egli fa parte dell’Associazione Culturale Pianeta Poesia di Firenze, dell’Associazione Tagete di Arezzo e dell’Officina delle Scritture e dei Linguaggi di Perugia. Collabora con le riviste letterarie Testimonianze, Euterpe e L’area di Broca. Ospite di varie rassegne letterarie tra le quali “Modena Poesia Festival 2019”. Vanno qui citate alcune sue pubblicazioni che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, tra le quali: “I semi del poeta” – Premio Aronte – Carrara 2017 – Polistampa Editore 2013; “Inquietudine da imperfezione” – Premio Internazionale “Mario Luzi” (2016/2017) Roma - Passigli Editore 2015; “Paradigma di esse” - Premio “La Pergola Arte Firenze - Lilly Brogi” (2018); Premio Equi-Libri Cava De’Tirreni (2019) - Passigli Editore, Bagno a Ripoli, 2017.
Sitografia: http://www.italian-poetry.org/evaristo-seghetta/ Mail: evaristo.seghetta@libero.it
Note. Tutti i corsivi all’interno dei paragrafi appartengono al poeta Evaristo Seghetta Andreoli.
Id: 847 Data: 06/02/2022 06:28:09
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- Letteratura
Misura del sonno - Una silloge verbovisiva di F. Federici
"Misura del sonno" … una ricercata ‘cecità’ nella luce che abbaglia.
Una silloge verbovisiva di Federico Federici – in Nuova Limina - Anterem Edizioni 2021.
“Sono chiuse le pietre, l’invisibile impenetrabile.”
Una dicotomia ineluttabile (se mi è concessa), tra l’essenza interiore e l’espansione dell’anima che, nel silenzio della solitudine, (per presa coscienza), avalla una remissione di colpe senza nemesi, inappellabile nell’atto di sottrarsi all’apparenza della realtà distopica, in quanto rappresentazione di una concretezza immaginaria del futuro. Una cercata forma di ‘cecità’ in cui l’autore s’abbandona, in quel mondo estremo (terra di metamorfosi) che sempre appare nel sonno di chi veglia (R.E.M.), collocato in un contesto distante nel tempo e nello spazio…
“Gli sforzi della luce / sulla forma perfetta dell’occhio / e del regolo nero del sonno. / La luce si affaccia alla gemma / e la forza ad aprirsi, a soffrire / senza molte altre qualità / una forza e un impedimento / a formarsi in un’altra maniera / secondo il tempo infinito di una foglia.”
“Si addensa il silenzio all’orecchio / del mondo che si dichiara udibile / mondo indistricabile / delle cose mai dimostrate, taciute. / Si stirano le meningi / verso la rovina del risveglio. / La neve che ti volteggia innanzi / acquieta il canto dei pensieri.”
È detto che “ogni luogo ha il suo destino” che si infiltra negli spazi interstiziali del passato, di cui però nessuno conserva né memoria né immagine, tranne lo scrittore e il poeta, avviandosi lungo la strada dei propri desideri mai enunciati, (o chissà, forse dismessi?). È qui che si perdono e si ritrovano le tracce appena lasciate, calcate con penna iconografica sul fare di una scrittura nuova quanto antica, che dai primitivi grafemi, s’inoltra fin nei sistemi ideografici e pittografici dell’odierna computazione verbovisiva (interazione simbolica) messa in atto dall’autore …
“Prendine nota: / reali il vuoto e / il vento / pulviscolare / che attira la luce / nella fessura. […] (l’insegnamento / degli ingrandimenti / riguarda anche i ciechi).”
“Vorticano astratte / miniature di astri / insetti / spiriti / e universi ventosi / agli angoli delle stanze.” Che sia il destino ultimo della scrittura di Federico Federici non è detto. L’autore non ne fa menzione, di certo è la sua cifra scrittoria, la sua ‘misura del sonno’ è quantomeno meditativa e quindi incommensurabile (in senso verbale-visivo), e/o forse inesprimibile se non considerata aleatoria (in senso sonoro-musicale). Nell’uno e nell’altro caso, il processo di codificazione-decodificazione (da parte del lettore/fruitore) è innegabilmente qualitativo quanto quantitativo di un ‘pensiero’ idealizzato attraverso la rappresentazione grafica, senza ‘altra’ necessaria mediazione se non quella visivo-quantistica evidenziata nel seguente ‘canto’…
“CANTO CXVII chiaro – scuro sedia – scuro chiaro – scuro quando scrivo un (…) l’intera questione di (ecc.) l’occhio: un punto di resistenza a (parole nel canale neurottico ecc.) questo è rumore granuloso + 3: L I M P I D E Z Z A LIMPIDEZZA le parole sono materia che si stampa: geometria dell’occhio + geometria dell’orecchio =”
È nella natura intrinseca all’essere umano ricercare i ‘segni’ della propria esistenza, che nel voler conoscere il proprio destino (ideal fate), rivolge all’implacabile oscurità del sonno i suoi costrutti di luce, onde avvenire a una qualche verità che pur non è data, se non quella di nascere e di morire nei flussi e riflussi delle maree, d’acque torbide di sangue nel suo venire alla vita, come di lacrime cristalline versate nel suo abbandonarsi alla fine…
“…così custode è il silenzio / dei pensieri vuoti / si approssima il sonno / da lontano al cervello / sui suoi passi falsi.”
“Sbocciano / gli occhi dal sonno /gemme dopo il temporale / domande / alla soglia dello spirito / dove attecchisce il mondo.”
“Un respiro profondo. / Si tace. / Nessuno / scolpito / in questo silenzio. / Il filo del sonno / cuce cicatrici di luce.” Sussiste una sorta di immaginaria follia descrittiva in tutto ciò, che lascia interdetto il lettore/recensore davanti alle illustrazioni (contenute nel libro), come si fosse in presenza di chi (l’autore), navigando nel sonno, a un certo punto lasci il timone spingendo la nave alla deriva. È strano come le percezioni s’accavallino nel ‘fragore silenzioso’ delle onde, nella sequenza delle pagine, nei cui spazi bianchi (al confronto coi neri degli inchiostri), irrompono le trame di racconti che, presto detto, s’inabissano e riemergono nella lotta estrema contro la solitudine interiore, come a voler riempire il ‘vuoto’ spazio del mistero…
“Ciò che non si afferra / dà corpo al vuoto finché resta solo / movimento senza traccia…”
“Un leggero morire accarezza la cosa pensata.”
“Non la metà né l’intero” … (come di uno scegliere non necessario).
-Da queste lontananze ci parla Federici … Dalle distanze sorgive dell’essere. Da una profondità originaria. Dalla sua lingua anteriore. Dalle parole di cui si è figli. – (dalla presentazione di Laura Caccia).
È nella ‘misura del sonno’ che la ‘vibrazione poetica’ di Federico Federici, facendo leva sull’immaginazione creativa (di colui che osserva), nonché su quella estrema dell’ascoltatore che legge (la propria voce), sposta il limite della visualizzazione/verbalizzazione dei propri costrutti (intellettuali), portando all’evidenza una sua personale quanto ricercata ‘cecità’ nella luce che tutto abbaglia…
…i propri ‘sonni’ come i suoi improvvisi ‘risvegli’.
Note d’Autore. La silloge è qui presentata in due lingue: italiano e tedesco a fronte, alla stregua di un vero libro d’arte con numerose riproduzioni illustrate che impreziosiscono i testi ad esse afferenti. Fanno seguito alcune note esplicative riguardo al dove e quando ogni singola composizione è venuta alla luce, la sua immanenza in quei ‘luoghi del silenzio imparziale’ che nutrono i nostri sonni, i labirinti oscuri e i paesaggi luminosi della nostra mente. Nota del recensore: Tutti i virgolettati sono di Federico Federici, autore inoltre di arte concettuale, scrittura e fisica. Nel tempo, ha partecipato a mostre e installazioni d’arte. Tra i suoi libri figurano “L’opera racchiusa” Premio Lorenzo Montano 2009, “Mrogn” Premio Elio Pagliarani 2017; “Profilo Minore” , a cura di Andrea Cortellessa – Aragno 2021.
Id: 835 Data: 31/12/2021 15:24:31
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- Poesia
I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse
“I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” (...per una mitologia del presente).
‘il primo cavaliere’ «E vidi subito apparire un cavallo bianco, e colui che ci stava sopra aveva un arco, e gli fu donata una corona, e partì vincitore» … (Giovanni ‘Apocalisse’- 6 -1) ...or tu Pegaso volante dacché portasti Orione la cui volontà infiera contro a spalancare il cielo col dardo infuocato in fra le nuvole che di scaturir l’arduo furore onde maggior senno reclami alle rimostranze divine deh metti sul capo la corona aurea ‘...e parti vincitore’ che di vittoria portar lo scettro alfin non ti sia vano nell’ora dell’ultimo traguardo.
‘il secondo cavaliere’ «Ed ecco uscì un altro cavallo, rosso e a colui che vi stava sopra fu dato il potere di togliere la pace dalla terra, e di far sì che gli uomini si sgozzassero fra di loro, e gli fu consegnata una grande spada» … (Giovanni ‘Apocalisse’- 6 -1) ...che già s’ode lo scalpitar del tuo cavallo baio Epimeteo irrompere sul terreno madido del tuo sudore d’ira violare la pavida serena mestizia del creato che de’ Viventi argui mozzare il fiato deh sentenza di morte una spada sola nol può conseguir destino confacente alle masse che prima o poi disarcionar ti vedrai. ‘il terzo cavaliere’ «E vidi immediatamente apparire un cavallo nero, e colui che vi stava sopra aveva in mano una bilancia. E sentii come una voce in mezzo ai quattro Viventi, che diceva: Due libbre di frumento, per un denaro, e sei libbre d’orzo, per un denaro, ma l’olio e il vino non li toccare» … (Giovanni ‘Apocalisse’- 6 -1) ...dunque sei tu l’eroe eponimo che riappare quell’Icaro venuto dal tempo fondativo che s’interpone tra il simbolo e la forma del Dio vivente mediazione tra somiglianza e dissomiglianza difformità del finito-infinito il presente e il passato dualità incommensuarabile del futuro difforme.
‘il quarto cavaliere’ «E subito vidi apparire un cavallo verdastro, e colui che vi stava sopra aveva nome la Morte e l’Inferno lo seguiva» … (Giovanni ‘Apocalisse’- 6 -1) ...or vieni Prometeo discatenato dalla rupe di lava cavaliere accecato che lavar non puoi con la morte il fato che pur addusse il Creator nell’ora del delirio osceno onde la pandemica peste l’Apocalisse stipulò nel guado dell’inferno orché della mente tua le fiere della terra fecer razzia.
‘ai Viventi’ (de’ sopravvissuti).
«E fu data loro autorità su un quarto della terra, per uccidere con la spada, colla fame, colla peste e mediante le fiere della terra» … (Giovanni ‘Apocalisse’- 6 -1)
...deh Viventi orsù lambite l’immenso cosmo immemore di opposte opposizioni finito-infinito, ragione-senso, mito anti-mito, vitalità-geometria, causa coscienza quantica nel contesto del libero divenire auto-trascendenza identità degli estremi connessione dell’umano e del divino che in ognun di voi
… s’altera.
Id: 828 Data: 06/12/2021 16:23:24
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- Poesia
Ricami dalle frane - silloge poetica di Antonio Spagnuolo
“Ricami dalle frane” una silloge poetica di Antonio Spagnuolo – Oédipus 2021.
Illusione.
“Anche gli umori più terreni hanno un primitivo mitigare furie. Non saprò mai chi sono adesso lacerando il tessuto che mi imbriglia tra i consueti angoli di mura. Preferisco i golfi, le serpentine, il tocco fragili quando le labbra squarciano le ombre, nell’infinito adagio delle notti. Il vello d’oro offriva le vertigini accendendo il fantasma dell’inconscio ove l’ombra tratteggia figure lontane e svanisce l’illusione quotidiana…”
Accade che la ‘poesia’, come del resto in ‘musica’, ritrovi nell’incarnato delle sue possibilità l’aspetto del residuale, o come si vuole, della resilienza, cioè quell’adattamento al cambiamento che, inesorabile, abbatte le mode del linguaggio e le speculazioni filosofiche, spesso ostentate sul nulla. Siamo qui di fronte a una sorta di concretezza affabulatrice ricolma di esperienze culturali e poetiche di indubbio spessore letterario che, nondimeno di un investimento di benevolenza, conduce il poeta all’interno del proprio labirinto personale, per quanto sembri senza soluzione di continuità…
Identità. “Ho perso la mia identità nel fremito ininterrotto dei fantasmi per altre dimensioni, le armonie di un solfeggio che incastra le memorie e mi coinvolge nei ritmi indecisi. Ho giocato al travestimento della memoria! Prima che il giorno si chiuda nel buio si miscela il vortice delle emozioni che sospendono incanti. L’inganno ancora è folgorazione in questo urgente intrigo di contrapposizioni, naufragio che sfuma a fendere il silenzio.”
Un po’ come se nell’esprimersi – scrive Eugenio Montale – “…manca ancora il silenzio nella mia vita”; quel riflesso inorganico e transitorio che restituisce l’esatta misura dell’incesto mentale, del vuoto edonistico filtrato attraverso il concetto d’una assenza iperrealista applicata a una trama che, altresì, si evince nel tessuto narrativo d’insieme…
Schianto. “Laddove una volta c’erano le foglie ancora verdi io poggio il dito / e strappo le spine accompagnato al ritmo del carillon che gira inesorabile. / La vita stessa è un rito sempre eguale che insegue petali senza una cadenza, / nell’incanto della gioventù sfumata in un momento e nell’illusione che tutto sia infinito.” […]
Sì che gli occhi del poeta stentano nel buio dei giorni a venire, a ritrovarsi nel meditare sulle proprie ceneri, e/o come in questo caso, ‘sulle frane’ di un’esistenza avita, benché intensamente vissuta, per certi versi incredulo e frastornato dagli eventi, nel rimpianto di un ‘paradiso perduto’ a causa dell’intensità del proprio vivere mutato, nell’illusione di una promessa di eternità che non gli era data. Così come delle possibili prospettive e la profondità degli intenti portati a conclusione, le cui vedute hanno certamente aggiunto valore alle personali esperienze dell’autore, aprendogli le porte ad una lucida sensibilità emozionale …
[…] “Null’altro che illusioni aggrappate ad un sogno / rimasto indiscreto. / Lo spazio che le dita riuscivano a comporre / sgualciva l’orlo dei quaderni segreti. / […] Ecco i miei sogni radunati alla sera / pronti a sconvolgere il vuoto / […] pronti a rigare i margini del cielo / con le vocali di fuoco che disgregano il senso.”
Una prima porta è certamente quella della condivisione tranquilla e silenziosa con gli altri, cui Antonio Spagnuolo rivolge questa sua silloge, fino a questo momento inedita. Un’altra è quella che solleva il velo dell’intimità, la sola capace di modificare il senso del tempo, così come lo spazio neutro dell’ascolto, che s’inoltra per le strade inusitate dell’inconscio, solitamente non pensate, e che trovano nell’ ‘amore’ la sola ragione d’essere presente e partecipe del suo essere…
[…] “Torno a correre e ripenso a quella frase che incidesti nel tronco / quale promessa di un luogo solo nostro. / Essa salva e conserva le memorie nella estrema luce di un riflesso / che non sarà previsto cambiare tra le ombre della malinconia. / Nascondo allora l’essenza di un profumo che tagliava la pelle / e ti rendeva immortale.”
Benché qui ci si occupi della sua più recente pubblicazione, nulla toglie di cogliere certe sfumature di ritorno della sua essenza poetica, cioè di quelle “cose che non sono mai, ma che pure fanno parte del substrato d’ognuno”; di quel rincorrersi fra le parole, sia dei ‘segni’ come delle ‘allocuzioni’ nel linguaggio scrittorio; sia dei ‘gesti’ come delle ‘espressioni’ insite nei segreti del suo lessico verbale, qui raccolti nella chiusa significativa dal titolo “Ultimo Registro”: quasi una ‘summa’ per un’opera carente di prologo e/o di un plausibile epilogo, sostituiti da partiture che pure rendono possibile la compenetrazione d’insieme…
“Anche l’oblio è stralcio di memoria / altro versante che cancella colori, / solitudini e canti misteriosi, tra forme vaghe e luminose…”
Non è a caso – scrive l’amico Flavio Ermini – che dall’erranza di costrutti intuitivi, che solo il lettore attento in qualche caso può riuscire a cogliere, non si giunga in poesia a compenetrare l’essenza delle cose: “… errante è la parola poetica che si cala nell’abisso dei colori, cercando la via più breve che porta all’uno.”…
“Ho lacerato la carne stringendo fra le labbra il non senso della mia illusione. / Quel voler procedere a memoria aspettando i riflessi sanguinanti avvolti nel canto / inesauribile dei colori, del vero vuoto che vuole divenire verso.” []
[…] “Ora un salto mi allontana dall’incendio / di speranze disconnesse: / tra le fragili dita disegno forme nuove del dissidio.”
[…] “Gli occhi al cielo distratto, quasi per lontananze / ha il pensiero di ghiacci e nell’azzurro / compone il sussurro di abbandoni. / Ora il mio urlo lo raggiunge e inganna / l’attesa di un racconto nuovo.”
Ciò che accade nei ‘ricami’ poetici di Antonio Spagnuolo, in quanto riflessioni che lo hanno portato dalla rimembranza delle ‘frane’ alla rinascenza dei suoi ultimi ‘florilegi’ lirico-poetici, con la creazione di spazi esclusivi riservati alla poesia e alla saggistica di ‘prospettive’ e ‘rassegne’ dedicate: sia con la produzione di riviste letterarie ad ampio spettro; sia in campo pittorico con opere destinate alla ‘poesia visiva’, delle quali l’autore vanta numerosi riconoscimenti e premi.
Note. Tutti i corsivi sono di Antonio Spagnuolo, tratti dalle ‘poesie’ edite nel volume “Ricami dalle frane” – Oédipus 2021. La citazione afferente ad Eugenio Montale è tratta da “Prose e racconti” – Mondadori 1984. La citazione afferente a Flavio Ermini è tratta da Margherita Orsino “La traversata infinita” – Anterem Edizioni 2019.
L’Autore. Antonio Spagnuolo (Napoli, 1931), poeta e saggista, redattore di periodici e riviste letterarie, fondatore e direttore del mensile “Prospettive culturali”. Presente in mostre di ‘poesia’ e ‘poesia visiva’ è attualmente inserito in antologie nazionali e internazionali. Alcune delle sue opere sono state tradotte in diverse lingue: francese, inglese, greco, spagnolo, arabo e turco, inoltre ad aver ricevuti numerosi riconoscimenti. Tra le recenti pubblicazioni: “Non ritorni” (Robin 2016); “Sospensioni” (Eureka 2016); “Svestire le memorie” (Fondi 2018), “Polveri nell’ombra” (Oédipus 2019).
Id: 826 Data: 16/11/2021 15:37:06
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- Poesia
Silvia Comoglio … o l’apoteosi dell’ozio creativo
Silvia Comoglio … o l’apoteosi dell’ozio creativo. “Afasia” una silloge poetica, Nuova Limina / Anterem Edizioni 2021
L’apparente ossimoro del titolo consiste nell’accostamento di due concetti volutamente contrapposti: ozio e creatività. Ben sappiamo che lì dove esiste una contrapposizione spesso si ha un immediato confronto dialettico con ciò che è logico razionale, sia con l’illogico irrazionale, in entrambi i casi, fonti primarie d’ispirazione poetica che solo formalmente coincidono con la dialettica letteraria … * L’illusione, sapete, è sempre così sapiente, ordine di scie archetipe di mondi a- vidi di mondi * L’albero-lanterna è l’ultimo segreto, il sonante, e eterno, strisciare delle ali
Di fatto, in questo crogiuolo di creatività che è “Afasia”, Silvia Comoglio esprime mediante la scrittura, un’incoerenza di tratto (parlato e/o grafico) che la pone nell’immediato sconvolgimento del linguaggio pensato … * Amotanto la luna frantumata nel tempo di parola, tersa piccola vedetta di amorose notti tra-sudate a labbra
Scrive Jean-Paul Sartre in “La nausea” (*): “La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno. Tenere un diario per vederci chiaro. Non lasciar sfuggire le sfumature, i piccoli fatti anche se non sembrano avere alcuna importanza, e soprattutto classificarli” – mettendo in risalto la possibilità di pensare senza l’uso delle parole e/o, viceversa, di classificarle separatamente, come fossero pensieri tenuti a mente di un diario del quotidiano che dietro ogni parola vuole ci sia un pensiero, qui riversato in una sorta di presupposto implicito del linguaggio mnemonico …
* múrami la bocca di lumi liquidi di cielo, incontrati di notte per ventura * taci, e non guardarmi mentre scendo – sulla strada: è nella casa, tutta bianca! che di torba scende a iato quel regno degli avanzi nudi di – memoria * … a risalita! nel mondo, appena nato sul palmo della mano, a cu- spide di sguardo único di amore
È quanto meno sembra funzionare al primo impatto con la poetica dell’autrice, sia sul piano logico, sia su quello illogico, seppure, per meglio esplicitare questo presupposto, vale chiedersi se c’è un qualche nesso fra pensiero e linguaggio … * [Dite se questa nube sciolta – è il viaggio che trabocca, tempo che si inclina quando – mondo aggiunge giorno al corpo rimasto sul confine
O, quale idea si comprime nel linguaggio olistico del poetare (?) …
* [amore di impotente chiaroveggenza l’occhio divorato Sempre dal suo mondo: chiglia rovesciata in nugoli di voci Tacite a frontiera, a profonda terra misconosciuta […] a giusto solo peso di un mondo senza mondo, come se orma cresciuta inconcepita, al limite di sponde nude di stupore –
Non in ultimo, qual è la dimensione pragmatica del linguaggio usato dall’autrice, per quanto questo possa apparire consapevolmente e/o inconsciamente artato … * [udii sogni che fecero degl’occhi – alte - e strane case: specchi in cui ti guardi, e che riempiono di terra le nostre – scárcerate ombre
A queste e ad altre analoghe domande non v’è risposta alcuna che ci si possa aspettare. Rimane che l’autrice, Silvia Comoglio, si avvale in “Afasia” di una passione reiterata per la scrittura, così come, ragionevolmente, quella di una sorta d’illusione di felicità, la cui ricerca ossessiva, sappiamo, è da annoverarsi tra le cause maggiori di infelicità …
* Un giorno avrò un sogno che uscirà dal bosco – prezioso ordine a saperci identici contrari, specchiati, a mondo di traverso, dentro il suo chiarore – di cuspide di sguardo único d’amore * nello stagno gridano a fior di loto venne, venne il pesciolino d’oro, senza lisca e senza spine – e senza nulla, nulla, tenere al mondo
Ci si potrebbe chiedere inoltre chi decide cosa, la ragione o la passione, nelle controversie della vita (?); l’andare in cerca della felicità e/o concedere all’illusione il miraggio della felicità (?); e perché no: in che consiste il voluto accostamento di due concetti volutamente contrapposti di un ossimoro (?) … * … è l’eco, a primo soffio, tenuto in fede di parola, come se puro solo bacio rimasto sulle dita a car- dine stellato –
Nel caso specifico, in “Afasia” l’autrice risponde con il paradigma dell’ozio in quanto apologia di creatività, o, se vogliamo, imprime all’ozio un proprio determinato stile di vita, quello stesso che, come diceva Oscar Wilde: “…non far niente è il lavoro più duro di tutti”, in quanto bisogna volutamente imporsi e/o esporsi alle ragioni del mondo … * [è tutta, tutta morta! la luna che si sente – tanto, stanca-stanca! nel tempo di paura Dacché è apparente che Silvia Comoglio ha scelto di sovvertire le parole a una rivendicazione di individualità e di indipendenza con una scrittura personalissima, impetuosa quanto appassionata, più che mai viva, cui va riconosciuto un diritto di libertà che noi tutti dovremmo riaffermare: poeti e filosofi, scrittori e giornalisti, censori e recensori, per quanto oziosi e al tempo stesso creativi, costruttori di altre fantastiche verità … * Amotanto la luna frantumata nel tempo di parola, tersa piccola vedetta di amorose notti tra-sudate a labbra
“Io non ho bisogno di fare delle frasi – ci rammenta Jean-Paul Sartre. Scrivo per mettere alla luce certe circostanze. […] Bisogna scrivere tutto come viene alla penna, senza cercare le parole … ho bisogno di ripulirmi con pensieri astratti, trasparenti come l’acqua. […] Piuttosto è il modo con cui gli istanti si concatenano. Ecco come credo che avvenga: d’un tratto si sente che il tempo scorre, che ogni istante porta con sé un altro istante, questo un altro e così di seguito; che ogni istante si annulla, che non vale la pena di tentare di trattenerlo.” (*) È questa la cifra scrittoria di Silvia Comoglio? Forse! risponde l’autrice nella chiusa che segue: prima di qualsiasi giudizio avventato, permettetemi un’ultima parola … * “l’antimondo! è il solo punto In cui l’alba si sorride: il forte bacio di chi bacia noi che siamo tutti – i paradisi”
L’autrice: Silvia Comoglio, filosofa e scrittrice, autrice di numerose sillogi poetiche, è presente in molte pubblicazioni antologiche presso i più affermati editori del genere. Vanno qui ricordati “Cati onirici” – L’arcolaio 2009; “Via Crucis” – Puntoacapo 2014; “Sottile, a microchiarore!” – Joker 2018. Da alcuni anni fa parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni – Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano.
Note: (*) Jean-Paul Sartre, “La nausea”, Einaudi 2014
Nota del recensore: Mi scuso personalmente con l’autrice per non aver mantenuta l’ortografia dei testi stampati, in ragione di una carenza effettiva del mezzo di trascrizione.
Id: 824 Data: 26/10/2021 11:15:59
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- Poesia
La dimora del ritorno una silloge poetica di S. D. Rosati
La dimora del ritorno - una silloge poetica di Sofia Demetrula Rosati – Nuova Limina / Anterem Edizioni 2021
“Tremila anni … ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l’hanno fissata. Questa fortezza (Micene), una volta inespugnabile - cumulo di pietre ora - fu l’ultima cosa che vide … Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola.” (*)
Sola, come la Dea Misterica di cui l’autrice porta il nome, Demetra dea della natura, colei che dà amore incondizionato, portatrice delle stagioni e patrona della giovinezza, “il cui non esserci (oggi) era (è) solo un voltare di spalle, un cambio di maschera, una posa drammaturgica.” Ma ciò che può sembrare un gioco effimero che sfocia nel tragico teatrale, non è che luce riflessa, un ripensamento sul ‘mito’ di cui, col passare del tempo (millenni), si è perso il filo, smarrito nell’attraversare il labirinto del vissuto, definitivamente …
“Tremila anni … così il verdetto del dio si mostrò duraturo: nessuno le avrebbe creduto” (*) – mai, per l’eternità. Nessuno, sebbene un fantasma si aggiri ancora, come nel passato, sui guasti d’ogni guerra: Troia come Micene, Varsavia come Beirut, Hanoi come Rangoon, Beirut come … quante altre? – contro un nemico da tempo dimenticato e i secoli inesorabili che l’hanno spianate. Il sole, la pioggia, il vento, tutto è cambiato invano. Immutato è rimasto il cielo, un blocco d’azzurro intenso, alto, distante …
“Ogni cosa cosmica / aveva possibilità di sguardo / su ciò che era stabilito.”
Così, come nelle macchinazioni teatrali non tutto però è dato per scontato, in ciò l’autrice restituisce alla scrittura poetica ciò che va oltre il testo sponsorizzato dal ‘mito’, condividendo il suo ruolo precipuo con quello del lettore/spettatore, formalizzando una possibile trama che riversa in-presenza, quella che era l’attualità misterica, assente ai nostri giorni; da cui il titolo “La dimora del ritorno”, per un appagante ‘incontro’ con il presente …
“…certi passi silenti e lo sguardo distratto di chi sta per partire e non ha più a cuore ciò che resta, qualche appunto qua e là sparso in casa, su fogli strappati male, perché male fa, dover lasciare parole prive di storia, sconnesse all’attenzione e tenute insieme da un collante … nei radi giorni di senso … con la dolorante consapevolezza (d’essere null’altro che) un grafema, scaldano solo se brucio le pagine su cui scrivo, nutrono solo se diventano mercanzia.”
Per quanto ciò possa sembrare vuoto di senso, è nella presenza del ‘mito’ che si consuma il nostro e l’altrui destino, di “assenza nella presenza” che si rinnova: dimensione e misura di un incesto edenico mai venuto meno …
“…e non somigliavamo a nulla, ci coglieva lo stupore quando potevamo sfiorarci, emettevamo leggeri suoni bluastri, dall’indistinto sapore di felci, il verde non era ancora stato codificato, vagavamo tra il giallo denso e il blu liquido.”
Ancorché non bruciate le pagine scritte, leggiamo: “…esistevamo, nell’evanescenza del divino femminile, ne eravamo certi, perché i nostri colli lunghi, si sollevavano verso il cielo, le retine cominciavano a guizzare, emanando segnali striduli e imprecisi, spazi di mnemonizzazione … quando i suoni divennero parole, conoscemmo la memoria e la dimenticanza.”
Non c’è dimenticanza conscia nell’immutabile ‘segreto delle cose’ se non la labile, inconscia “…adesione alla sapienza sacrificale dominata dall’incertezza, che pesa sulle coscienze oscuramente, come esigenza inespressa” (**), presente nei segni del ciclo annuale di morte e rinascita inerenti al ‘mito’, archetipo che possiamo contemplare solo unendo gli estremi di una qualche entità/identità astratta, profetica, veggente. Ebbene, è questa la cifra incatenata che Sofia Demetrula Rosati pone davanti allo specchio del tempo, come riflesso rifratto in sequenza fino a raggiungere l’evaporazione. È forse questa “l’evanescenza del divino femminile” cui sottintende l’autrice nel suo excursus poetico attorno al ‘mito’? Per quanto è dato sapere, è rivelato nelle pagine di questa silloge, che nulla esclude alla verità sulla condizione della donna di ieri come di quella d’oggi, entrambe “rinchiuse in una singolare normalità – benché avverte – si definiscono abusate” e, per antonomasia, senza riscatto dal ‘peccato originale’ che, in ragione di una presunta colpevolezza, si autoesclude dall’essere stato commesso, che pure è ancor oggi presente, sopravvissuto finanche all’espiazione di un Dio misericordioso …
“…le figlie della narrazione … non conoscono la storia delle proprie antenate, madri nonne perse nei tempi, ormai ossa consunte, alcune diventate tossicodipendenti, altre malate a volte psicotiche … sebbene l’imperfezione creata, prende la forma dal ventre ripetutamente abusato, di sagoma dalla memoria abortiva, figlia che osserva il mondo con lo sguardo di una Gorgone costernata e afflitta, da uno stupore cupo.”
Per giungere poi alla bellissima supplica ‘madre’: “…non mi lasciare sola in questo vuoto che non è assenza ma compressione di colpa domani la possibilità di poter credere che se torno a muovermi la materia nella quale sono immersa mi riconoscerà e saprà farsi involucro affinché anche per me questo universo in moto esprima il suo senso relativo e l’essere l’esserci abbandoni la posizione di quesito per spostarsi in un luogo temporaneamente attratto dalla ripetizione.”
Come anche dice nella sua filiale invocazione:
“…madre, sfiora il mio corpo districa i capelli e usali per la tessitura ungimi con unguenti da te preparati fammi sorridere cullami.”
Così di seguito, sul farsi della preghiera, la figura materna della Dea Partenogenica è umanizzata nel ‘mito’ che l’accoglie: “…rinasci dal mio ventre di figlia, onde ella nacque divorando il suo destino.” E benché separata da un’umanizzazione che la distoglie dall’eternità cui pure è relegata, si fa oracolo; la cui “parola (di veggente) non conosce simbolo o metafora … (e dalla quale), si è sempre attesa la narrazione … ma la cui gola non narra e non conduce a nutrimento.”
Fino alla conclusiva ammissione di colpa (un’altra) imperitura:
“…madre Non fu con le parole Che distruggemmo I tuoi altari?” “Nessuno la credette allora, nessuno le avrebbe creduto …” (*) – è quanto intessuto nella tela dei millenni. È qui che l’autrice si richiama al ‘prologo’, posto in apertura d’ogni canto in indice, per condurre il lettore/lettrice alla fonte della sua creazione poetica, si direbbe in extremis, all’ ‘epilogo’ mitologico del suo narrare le assennatezze della dea …
“…i suoni di flauti e danze la riportarono con lo sguardo verso il mare e la sua Salerno dove trascorse una vita lunga e feconda, dispensò cure e bellezza fino all’ultimo dei suoi giorni, mai più volse le spalle a levante … con la consapevolezza che non esiste sapienza tanto grande da non poter essere offuscata da un solo unico errore. E allora chi può realmente possederla?”
Allo stesso modo s’interroga il poeta-lettore/lettrice-protagonista, l’essere per il quale il dubbio è l’unica certezza …
“…se la parola scritta fosse l’unica sapienza … e la poesia restasse l’ordine ultimo al quale poter accedere? L’unico senso, la conoscenza di ciò che … fra punto di partenza e divenire … non può avere significato”.
È allora che il ‘mito’ qui contemplato, s’accende di poetico afflato, impercettibile ai sensi, ineludibile la verità dell'essere che siamo: mitici eroi di una galassia ormai spenta, coscienti che un giorno non lontano gli antichi dèi torneranno.
L’autrice Sofia Demetrula Rosati, scrittrice e traduttrice di testi poetici dal greco moderno apparsi in diverse raccolte antologiche per le più importanti riviste e collane editoriali, vincitrice inoltre di alcuni premi importanti del settore tra cui “Premio Donna e Poesia” 2012. Appassionata di tecniche calligrafiche orientali e occidentali, produce lavori di visual poetry, asemic writing e asemic calligraphy. Sue sono le significative illustrazioni grafiche interne al libro.
Note: (*) Christa Wolf, “Cassandra”, E/O 1983 (**) Italo Calvino, “Palomar”, Mondadori 1983
Id: 823 Data: 23/10/2021 01:28:18
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- Musica
Musica en la Obra De Cervantes
MUSICA EN LA OBRA DE CERVANTES (...rileggendo Don Chisciotte de la Mancha nel 404° anniversario della morte Aprile 1616). “Los tiempos mudan las cosas y perficionan las artes …”
Il Romance Spagnolo tra Letteratura e Musicologia. Prima di entrare nel vivo dell’investigazione, necessita qui trattare, seppur brevemente, quello che era il contesto letterario medioevale di rilevanza musicologica, che verso la fine del XIII secolo salutò in Spagna il sorgere di forme culturali autonome come la “prosa epica” e la “poesia lirica”, corrispettivi di un sostrato “etnico” preesistente – forse retaggio di più antichi aedi – formatosi sulla scia dei “cantare de gesta” e sfociato poi nel Romance epico-cavalleresco, giunto a noi esclusivamente in forma letteraria, ma che un tempo era fondamento della tradizione orale … “Ya represento mil cosas / no en relaciòn como antes, / sino en hecho, y asì es fuerza / que haya de myudar lugares”. Si tratta in breve di una sorta di narrazione che, fluita attraverso i cuentos (racconti, novelle, fiabe), le coplas (canzoni, versi, ballate), subì notevoli mutazioni prima di definirsi nella forma del Romance che noi conosciamo e che, una volta oltrepassati i confini nazionali, arrivò nelle Corti dell’Europa medievale, al seguito di venditori ambulanti, viaggiatori e pellegrini, guitti e trovatori, subendo modifiche di aggiustamento secondo la lingua e la cultura ospitante, onde per cui una stessa “ballata”, magari d’origine inglese o francese, italiana o spagnola, all’occorrenza rimaneggiata, raggiungeva e diventava popolare in altre parti del mondo all’ora conosciuto, nei territori tedeschi e olandesi, o attraversati i mari, addirittura in quelli scandinavi e oltre.
Caratteristica dell’epoca era la riduzione, da parte di narratori e cantori che li avevano appresi dalla tradizione orale, di Romance più o meno anonimi che venivano rappresentati nei teatri improvvisati all’interno delle corti medievali, alla presenza di nobili e prelati altolocati, nonché di signorotti arricchiti, e da cui, verosimilmente, prese forma quello che sarà la grande tradizione del Teatro spagnolo passando per Garcilaso de La Vega, Lope de Vega, fino a Calderon de la Barca. Quello stesso che, ad uso e consumo della catechesi dilagante, trascinerà sui sagrati delle chiese, dando sfogo all’attività processionale nella chiusa dei Sacramentales, recitativi di derivazione religiosa, conosciuti anche come Sacre Rappresentazioni. Allo stesso modo che, seppure in forma assai ridotta, entrava nei Retablo degli spettacoli di piazza, tenuti in occasione di fiere e mercati, o durante le festività ad uso e consumo del popolino, sempliciotto e credulone, ma non per questo sciocco e sprovveduto, che cercava nel Romance un certo acume vivace e spesso salace, in cui si rispecchiavano le debolezze umane, le passioni e gli intrighi dei nobili o delle Corti. Spettacoli questi molto popolari che, con l’avanzare d’una maggiore conoscenza della lingua e della scrittura, acquistarono man mano un certo gusto espressivo e se vogliamo finanche pittoresco che ritroveremo più tardi nella zarzuela, l’operetta tipica del teatro spagnolo, che fornì ai “Romanceros”, sorta di divulgatori d’una primitiva forma di comunicazione sub-mediale, forme linguistiche e letterarie originali profuse di latino, giudaico-cristiano, moresco, e alcuni dialetti volgari che, in buona misura, ritroviamo nelle canciónes liriche e in alcuni Romance famosi, come questo “Romance del Quintado” (*), nella sua forma più tradizionale, trascritto da Joaquin Diaz:
“Ciento y un quintado llevan, todos van para la guerra. / Unos ríen y otros cantan; otros bailan y otros juegan. / Si no es aquel buen soldato, que tan largas son sus penas, / que el día que la casaron, sus bodas fueron sin fiestas. / Ya se acerca el capitán, le dice de esta manera: / ¿Qué tiene mi buen soldado; qué tiene que non se alegra? / Que el día que me casé me llevaron a la guerra / y he dejado a mi mujer, ni casada ni soltera. / Coge mi caballo blanco y vete en busca de ella, que con un soldado menos, también se acaba la guerra”.
"Cento ed un reclutato partono, tutti vanno per la guerra. / Alcuni ridono ed altri cantano; altri ballano ed altri giocano. / Se non quel buon soldato che tanto lunghe sono le sue pene, / che il giorno che si sposarono, le sue nozze furono senza feste. / Si avvicina già il capitano, gli dice di questa maniera: / Che cosa ha il mio buon soldato; che cosa ha che non si rallegra? / Che il giorno che mi sposai mi portarono alla guerra / e ho lasciato mia moglie, né sposata né nubile. / Prendi il mio cavallo bianco e vatti alla ricerca di lei che con un soldato in meno, finisce anche la guerra." Riguardo alla composizione dei testi, molti erano gli autori che usavano stilare i loro versi sullo stile del virelai (*) provenzale, una delle tre forme impiegate nella poesia e nella musica medioevale, le altre sono la ballata italiana e il rondeau francese che rimandano a quel patrimonio musicale comune di una vasta area che dalla penisola Iberica raggiungeva l’Occitana fino alla Lombardia. Non di meno la musica strumentale era altresì ricca di straordinari esecutori per vihuela, chitarra saracena, cornamusa, ribeca, che si servivano per l’accompagnamento di tintinnambulum, flauti diversi, crotali, tamburi e tamburini, e timpani per segnare il “passo” nelle processioni. Nel tempo, vanno citati i francesi Jehannot de l'Escurel, Guillaume de Machaut e Guillaume Dufay che ci hanno lasciato composizioni ballate e mottetti, e alcuni complainte, molto eleganti nella forma; gli italiani Francesco Landini, compositore, organista, poeta, cantore, organaro e inventore di strumenti musicali, uno dei più famosi compositori della seconda metà del XIV secolo; e il più acclamato del suo tempo non solo in Italia, Jacopo da Bologna, compositore che si inserisce nella corrente musicale dell’Ars Nova, noto soprattutto per i suoi madrigali, e le sue numerose “cacce”. In Spagna, Alonso Mudarra, Luis de Milàn, Diego Ortiz e altri, i quali composero brani preminentemente strumentali utilizzando generi diversi, come: la “gagliarda”, “fantasia”, “ballade”, “pavana” e le così dette “recercar” e “folias”. Vanno ricordati inoltre, quei Troubadour (così si chiamavano nell’Europa medievale) che, oltre a suonare strumenti di vario tipo, come: lira, arpa, organetto, piffero e Fidel, intonavano la “voce” su versi di loro stessa composizione, improvvisando nei diversi “dialetti” regionali, canzoni e musiche a ballo in occasione di feste, matrimoni e banchetti, nelle nascenti Corti e presso i Signori dell’epoca. Tra i molti rimasti anonimi spiccano i nomi di Peire Vidal, Bernart de Ventadorn, Rambaut de Vaqueiras, La Comtessa de Dia, Marcabrun, Jaufre Rudel che scrissero madrigales cortesanos, romance e villancicos amorosos, danzas e bailes para cantar y taner (per cantare e suonare). In quel tempo, la maggior parte della poesia lirica e i poemi cavallereschi, le cronache storiche, i Romance e le opere filosofiche, erano per lo più scritte (o trascritte) in castigliano antico, che accoglieva in sé molte espressioni popolari, e che, una volta adeguatamente affinate o del tutto rimosse, diedero forma alla lingua spagnola così come è conosciuta ai giorni nostri.
È in quest’ambito cortigiano e popolare che, nel XIII secolo Alfonso X di Castiglia, ‘el Sabio’, dispose la raccolta delle “Cantigas de Santa Maria” (*), quattrocentoventisette composizioni in onore della Vergine Maria e dei suoi miracoli, in cui è fatto uso del volgare desunto dal latino, dovuto a copisti non sufficientemente esperti della lingua, che lo intervallarono con espressioni d’uso quotidiano a loro forse più naturali. Conservate in parte a Madrid e altre a Firenze, in quattro manoscritti contenenti inoltre raffigurazioni pittoriche di strumenti e suonatori, le Cantigas, ricche come sono di suggestioni musicali improvvise e di apporti letterari diversi, rappresentano una forma “commemorativa” di notevole pregio, sia nell’uso della “cantata”, sia per la struttura musicale utilizzata, che ben presto confluirono nella cultura delle austere corti d’Aragona e di Castiglia, d’Aquitania e di León, al pari del teatro e della danza annoverate tra gli svaghi preferiti dagli aristocratici del tempo.
Ad Alfonso X ‘el Sabio’, si deve inoltre l’aver incrementato con le sue opere, la letteratura del tempo e le discipline storiografiche e giuridiche, in aggiunta alla sua già copiosa biblioteca, indubbiamente una delle più ricche e conosciute dell’epoca, costituita da un numero impressionante di manoscritti redatti da intellettuali latini e arabi, ebrei e islamici, iberico cristiani e provenzali che formavano l’importante scuola da lui fondata detta dei Traduttori di Toledo, il cui apporto letterario e scientifico andò sviluppandosi nei secoli successivi. A lui si devono alcune fra le Cantigas più belle: Dalla “Cantigas 7”: (stralcio senza traduzione)
“Esta é de como Santa Maria pareceu en Toledo a Sant Alifonsso, et deu-ll’huia alua que trouxe de Parayso, con que dissesse missa”.
“Muito dovemos, varóes, / loar a Santa Maria, / que sas graças et seus dòes / dá a quen por ela fia. / Sen muita de bòa manna / que deu a un seu prelado, / que primado foi de España / et Affons’ era chamado; / deu-ll’húa tal vestidura / que trouxe de Para’yso, / ben fe’yta a ssa mesura, / porque metera seu siso / en a loar no’yf’e dia. / Ben enpregou él seus ditos, / com’achamos en uerdade, / et os seus bòos escritos /que fez da Virigihndade / d’aquesta Sennor mui santa; / per que sa loor tornada / fai en España de quanta / a end’auian de’ytada / jvdeus et a eregìa. / Porén deuemos etc.”... È indubbio che all’origine di tanta ricchezza di brani sia strumentali sia cantati che compongono il “Cancionero de Palacio”, si noti la molteplice coesistenza di diverse forme musicali, quelle stesse che hanno accompagnato la grande evoluzione culturale che si andò conformando nella Spagna dei secoli XIII e XIV, e che videro l’evolversi, accanto agli inni processionali, ai canti dei pellegrini e le preghiere ispirate, altre forme musicali popolari, accostate a canciones amorose e profane, melodie per vihuela e arie di danza e d’occasione, impiegate come brevi “intermezzi musicali” durante la lettura dei primi Romance viejos d’argomento religioso che segnarono un’autentica evoluzione del genere. Uno dei più noti, è senz’altro la “Historia de los enamorados Flores y Blancflor” di anonimo medievale, il primo esempio di romance esposto in forma letteraria, conosciuto in tutta l’Europa già nel XIII secolo, in cui si narra di due innamorati, modello di fermezza e di costanza, la cui lealtà superò ogni pena che la vita inflisse loro per separarli, e di come, infine, riuscirono a coronare il loro sogno d’amore: “… essendo Flores d’origine mora e Blancaflor cristiana”:
“Señora mia: De la pena vuestra duele al ànima mia, que, de la vida mia, yo tengo por bien empleada, porque, cuando yo de espana partì, fice cuenta de perder la vida por vos. Pues Dios me ha enderezado asì, creo que me sacarà a mì y a vos de todo este peligro. Màs una sola cosa, señora, vos demando merced, si a vos placerà: que demos complimiento a nuestros amores”.
“Signora mia: Della vostra pena duole all’anima che, della mia vita io ho ben impiegata, perché, quando io partii di Spagna, feci conto di perdere la vita a causa vostra. Perché Dio mi ha indirizzato così, credo che tirerò fuori voi e me da tutto questo pericolo. Ma una sola cosa, Signora, voglio chiedere grazia, se a voi piacerà: che si dia compimento ai nostri amori”.
La trasformazione da poema lirico in Romance è di carattere popolare e avrà un lungo seguito, per cui tutti i poemi più o meno attendibili, nati come brevi evocazioni di leggende o ascrivibili a cronache realistiche, divennero veri e propri romance lunghi, paragonabili a sequel di più puntate, tra questi: “Romance del Rey Don Rodrigo y la perdida de España”, “Bernardo del Carpio”, “Romance de los siete Infantes de Lara”, ed altri, di cui rimangono solo alcuni episodi, come nel caso del: “Romance de Don Bueso”, del “Romance de Abenámar y el rey Don Juan”, o del “Romance del Prisonero” . Tra questi ricordiamo Gil Vicente, drammaturgo e poeta portoghese autore di un “Amadis de Gaula” tratto dall’omonimo romanzo in cui si alternano vicende d’amore, di gelosia e pentimento, di grande eleganza letteraria. Nonché Bernardo Tasso (italiano) padre di Torquato, il quale, rimasto affascinato dalla trama, rielaborò la materia del poema e ne proseguì la historia, in un poema in ottave “Amadigi”, formato di 100 canti. E l’altro, quel “Romance del cautiverio de Guarinos” di anonimo pubblicato in pliegos sueltos, cioè in fascicoli sciolti, all’inizio del XIV secolo, in seguito ricordato da Miguel Cervantes nella sua opera più famosa “El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha”(*), nel passo in cui, Don Quijote andando a trovare Dulcinea, lo ascoltò cantare da un agricoltore del Toboso, il cui incipit è pressoché indimenticabile:
“!Mala la hubistes, franceses, / la caza de Roncesvalles ...” “! Cattiva la subiste, francesi, / la caccia(ta) da Roncisvalle...”
L’opera letteraria più importante dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes de Saavedra, giustamente ritenuta una delle più rappresentative della letteratura mondiale, è anche un eccellente compendio di musica del suo tempo, infatti fa dire al burlone scudiero Sancio Panza:
“Señora, donde hay mùsica no puede haber cosa mala. La mùsica siempre es indicio de regocijo y fiestas”.
"Signora, dove c'è musica non può esserci cosa cattiva. La musica è sempre indizio di gioia e festa"…
È questa la più alta testimonianza della popolarità del Romance in terra di Spagna, che ci permette di dar credito a quella che è una prima informazione musicale (ne troveremo delle altre) che forse stavamo cercando fin dall’inizio e che fa da autentica cornice all’epica tardo-rinascimentale e quindi barocca, in cui sfocerà il Romance successivo. L’attendibilità di questo discorso, ci fornisce la chiave di lettura dell’intero romanzo, che è racchiusa nella frase che Cervantes fa dire proprio al protagonista indiscusso della sua opera, quel “Don Chisciotte della Mancia” audace cavaliere errante:
“Todos o los mas Caballeros andantes de la edad pasada, fueron grandes trovadores y grande musicos”.
“Tutti o forse i più dei Cavalieri erranti dell'età passata, furono grandi trovatori e grandi musicisti”. Con ciò, s’introduce qui la figura del “Romamceros”, ovvero dello scrittore di romance, da non confondere con la raccolta di Romance cosiddetta cancioneros, quei narratori medievali, trovatori e menestrelli (vecchi e nuovi) che ancora all’inizio del XIV secolo, giravano per i borghi e nei contadi portando oltre alle cantate popolari e le canciones, quei componimenti poetici di carattere epico-lirico espressi in doppi ottonari assonanti con o senza estribillo (ritornello) fra l’una e l’altra strofa, simile alla ballata trovadorica e, come questa, lineare e monotona, gravata da una pena inarrivabile e dolente, tipica delle lamentaciones religiose. Dire che i Romanceros, narratori di storie leggendarie e avvenimenti di cronaca spesso rimaneggiati, obbedivano in certo qual modo, a quel codice dell’amor cortese, modello di virtù e moralità, nel quale la società cortigiana del tempo piaceva rispecchiarsi, è più che superfluo, nessuno di loro sfugge a quelle che sono le linee (o le mode) “letterarie” dell’epoca in cui si trovavano ad esercitare uno dei mestieri più antichi del mondo: l’affabulazione.
È però nella forma del “Romance nuevo” che i Romanceros mettevano insieme sentimenti diversi anche contrastanti quali: amore e odio, vendetta, magia, esotismo, fantasia (che più tardi saranno detti romantici), e che oggi ancora abbagliano l’improvvisato ascoltatore e l’acculturato lettore per le tematiche riferite a eroi lontani e vicini (nel tempo o nella realtà), e che piuttosto desidera burlarsi di loro, piuttosto che ammirarli per quelli che sono o che rappresentano. Non si sa bene se fin dall’inizio, ma comunque e sempre più spesso, i Romanceros rendevano una trasposizione fortemente emotiva, inframmezzata di pause e silenzi più o meno prolungati che accrescevano nell’ascoltatore una certa suspense nella narrazione. Così come, sul tipo della canciones epica, usavano accompagnarsi al suono di una chitarra, o una viella, alternando la narrazione con brevi parti cantate, o “villancicos” che, oltre ad alleggerire il racconto, permettevano, in ragione dell’orecchiabilità della musica, una maggiore memorizzazione del fatto narrato, per cui non sorprenda che il risultato artistico possa vantare una storia fra le più lunghe e continue, dal medioevo a oggi.
Obras cantadas: “Al villano se la dan la ventura con el pan. Ano bueno, Rey, tuvimos porque sembrando en el suelo y ayudàndonos el cielo, mucho pan al fin cogimos; mas, si Dios quiere y vivimos, si después nos lo comemos, màs contentos quedaremos que comiendo de un faysàn. Al villano se la dan la ventura con el pan”.
“Donde estàs, senora mia, que no te duele mi mal? O no lo sabes, senora, O eres falsa y desleal. ... Mi dolor, que es muy sobrado me hace desatinar. Tù no sabes de mi mal Ni de mi angustia mortal; ... Esposa mia y senora! no cures de me esperar; hasta el dia de juicio no nos podemos juntar”.
Molti sono gli autori spagnoli di Romances vecchi e nuovi, che solo un elenco sarebbe qui impossibile quanto inutile azzardare, pertanto mi limito a citarne uno, il primo e senza dubbio il più grande, colui che, in qualche modo, ha contrassegnato la sua epoca, il XIV secolo: Juan Ruiz, più noto come Arcipreste de Hita, nato presumibilmente ad Alcalá de Henares (la stessa patria di Cervantes) nel c.1280, anche famoso per essere l’autore del “Libro de buen amor” considerato uno dei capolavori della poesia medievale spagnola. Un poema di 7 mila versi assortiti divisi in 1728 strofe, con forme che rimandano alla poesia devota, alla lirica, all'allegoria, alla satira, e personaggi molto realistici (come la mezzana Trotaconventos, e doña Endrina). Nel prologo si allude a una prigionia che una didascalia di un amanuense dice ordinata dal cardinale Gil Albornoz, dove il "buen amor" del titolo, cioè l'amore divino, si contrappone al "loco amor", l'amore folle e terreno. Senz’altro uno dei libri più singolari e significativi delle origini della produzione in castigliano, scritto in "cuadernavía", un verso in sedici sillabe, usato soprattutto nella parte narrativa, ma sono presenti anche altri tipi di versi. Con la pretesa/pretesto di svelare i sottili inganni dell'amore mondano, attraverso una concreta varietà di ‘exempla’, “Libro de buen amor” si muove tra digressioni e divagazioni di ogni genere, presentando una serie di esperienze galanti e sensuali in cui la seduzione si conclude sempre con uno scacco, tranne in una sola eccezione. Alla costruzione del poema pseudo autobiografico confluiscono dati e toni disparati: avventure immaginarie e esperienze reali, schemi dottrinali e atteggiamenti goliardici e giullareschi, l'invettiva e il tradizionalismo, fonti classico-latine e cristiane, mentre influenze francesi e orientali sono inserite nel flusso della vita quotidiana. Quest'ultima è deformata in modo caricaturale da un irrefrenabile umorismo fantastico e un vitalismo che si mescola con pressanti preoccupazioni didascaliche, e tuttavia di edificazione etico- religiosa.
Dal “Libro del buen amor” leggiamo:
“El hombre debe alegrar su corazón, pues las muchas tristezas pueden nublar su entendimiento. Son palabras de Catón el sabio, que yo hago mías ahora. Mas nadie puede reírse de cosas serias, por eso yo pienso introducir en este libro algunos chistes con objeto de que aquéllos que los lean puedan divertirse y alegrar su ánimo. Pero te ruego, lector, que entiendas bien lo que digo y no tomes el rábano por las hojas. Medita bien la esencia de mis palabras. No me pase contigo lo que sucedió al doctor de Grecia con su rival romano, un hombre ognorante y de pocas luces. He acquí el cuento: ...”.
"L'uomo deve rallegrare il suo cuore, perché le molte tristezze possono offuscare il suo intendimento. Sono parole di Catone il saggio che io faccio ora mie. Ma nessuno può ridere di cose serie, per qual motivo io penso di introdurre in questo libro alcune storielle che quelli che li leggono possano divertirsi e rallegrare il proprio animo. Ma ti prego, lettore, capisci bene quello che dico e non prendere il ravanello per le foglie. Medita bene l'essenza delle mie parole. Non mi passi con te quello che succedette al dottore della Grecia col suo rivale romano, un uomo ignorante e di poche luci. C'è qui il racconto: ... ". Pervenuti per lo più in manoscritti tardivi, in rielaborazioni di seconda e terza mano, talvolta decurtati di alcune parti, quando non ridotti a poco più di semplici testi sovrapposti uno sull’altro, i romance costituiscono il retaggio di un “fare teatro” che li riscatta dall’etichetta narrativa nel loro insieme, per restituirli integri nella loro originalità, al teatro drammatico vero e proprio, tipico della finzione scenica che trascende la contingenza di luogo e di tempo, per acquisire significato universale, un artifizio questo di molto teatro popolare. Il genere si commenta da solo, a poco – come si è visto – è servito in questa sede, un’analisi sistematica dei testi, coniugare il soggetto coi personaggi o con la metrica del verso.
Le forme musicali più frequenti sono, come si è detto, il villancico somigliante alla frottola italiana, e lo zejel arabo. Il fraseggio compositivo delle canzoni non è unificato e varia dalla semplice monodia: dall’espressione vocale formata da tre-voci nel discanto, lasciato al tenore e al controtenore, alla forma polifonica vera e propria a sei-voci del XVI secolo. Altra forma presente, sebbene in numero minore, è ancora il romance, letteralmente "portato” nelle corti e foderato con perfezioni e squisitezze colte, diverso nella metrica che risulta irregolare, fiorita per bocca di buffoni e narratori che l’adattarono ai canoni dell’epoca. Trascritto più tardi in versi di otto sillabe (ottonari) in forma strofica che, vale qui la pena ricordarlo, il romance sempre inizia con un verso introduttivo (estribillo), continua con una strofa originale (copla), e termina con la (vuelta), cioè il ritorno all’inizio. Forme queste, che ritroviamo anche nella musica popolare, basata su una struttura armonica molto semplice, che man mano si andò arricchendo di nuove espressioni strumentali con inserimenti corali, e una più sensibile espressione del testo, al pari di quella “spiritualità” cortese di stampo religioso conosciuta come musica sacra. In ognuna delle molte canciones o villancicos il canto popolare sempre si mostra come il fiore della vita culturale spagnola, destinato, per il tramite d’una risorta autocoscienza, fortificata dal fatto dell’avvento di un nuovo spirito nazionale che attraverso il contatto con le altri nazioni europee, che caratterizzò in profondità lo stile musicale del romance – “accompagnato da brevi e monotone note” , come ha commentato l'eminente Menéndez Pidal, che lo ha ben esposto nel suo "Romancero Ispanico" (*):
“..quello que sin ningun orden, regla ni cuento, facen estos romances e cantares de que las gentes de baxa e servil condicion se allegra, forman un solo cuerpo tradicional”.
"…quello che senza nessun ordine, riga né conto, fa di questi romanzi cavallereschi e dei canti che le genti di bassa e servile condizione rallegra, forma un solo corpo tradizionale".
Non in ultimo, va riscontrata un'indubbia tendenza del romance verso il verismo, che però non deve confondersi con un realismo troppo dettagliato, il che lo porterebbe a eliminare la sua potenza archetipica e i suoi misteriosi suggerimenti. La realtà che i “romance cavallereschi” ci mostrano è di per sé una realtà in certa misura trasfigurata nell’aspetto, più o meno veridico della cosa ideale o idealizzata, connessa con chiavi ed echi di magica trascendenza; le cui caratteristiche possono apprezzarsi, in certo qual modo, più per la stringente spontaneità, che per rilevanza storica o realistica. Come si può riscontrare in “L'apparizione” (*), di anonimo, che qui leggiamo un breve stralcio nella versione di Campaspero di Valladolid:
"Se ha asustado mi caballo / yo tambien me sorprendì. / No te asustes, caballero / no te asustes tù de mì, / que yo soy la tu querida / la que llaman Beatriz. / Còmo siendo mi querida / no me hablas tù a mi?/ Boca con que yo te amaba / ya no la traigo yo aquì, / que me la pidiò la tierra / y a la tierra se la dì. / Ojos con que te miraba / tampoco les traigo acquì, / que me les pidiò la tierra / y a la tierra se les dì. / Brazos con que te abrazava, / tampoco les traigo aquì, / que me les pidiò la tierra / y a la tierra se les dì. / Yo venderé mi caballo / para misas para tì, / y me venderé a mì mismo / porque no pases allì. / No vendas a tu caballo / ni te pongas a servir; / cuantas màs misas me digas / màs tormentos para mì".
“Si è spaventato il mio cavallo / che anch’io mi sorpresi. / Non ti spaventare, cavaliere / non ti spaventare di me, / che io sono la tua amante / quella che chiamano Beatrice. / Come mai, pur essendo la mia amante / non parli tu a me? / Bocca con che io ti amavo / non la porto oramai io qui, / che io la chiesi alla terra / ed alla terra io la diedi. / E gli occhi con cui io ti guardavo / neanche quelli porto io qui, / che io li chiesi alla terra / ed alla terra essi li ho dati. / E queste braccia con che tu abbracciavi, / neanche loro porto qui, / che io essi chiesi alla terra / ed alla terra essi ho dato. / Io venderò il mio cavallo / per dire messe per te, / e venderò me stesso / perché non passi lì. / No, non vendere il tuo cavallo / né mettiti a servire; / quante più messe tu mi dica / più aumentano i tormenti per me".
Come è possibile comprendere dal testo che abbiamo appena letto, l’atmosfera dell’amor cortese, fa ancora da sfondo a quella culturale del periodo entro il quale il Romance fiorì e si sviluppò, e che, ritessuta nelle forma più erudita del genere novelesco, trovò una sua evoluzione più tardi, in epoca Barocca e per certi versi nel corso dei secoli XVI e XVII in cui assistiamo a una ripresa assai suggestiva, da parte di musicisti e letterati illustri che ne fecero un genere raffinato, utilizzato poi nella successiva forma polifonica. Ne sono esempi illustri: Luis de Góngora, teso al recupero dell’aspetto primario ricco d’immaginazione e fantasia; Francisco de Quevedo, che nel Romance evidenziò l’aspetto satirico e menzognero; Lope de Vega il cui ideale cortese consisteva in un colto casticismo che sovrapponeva la tradizione del Romancero, all’eleganza e alla dolcezza della metrica italiana. Per arrivare alla nostra epoca con Blas de Otero, che trasformò la figura del “poeta” in un “profeta” che segnala gli errori del presente per riuscire a superarli ed accedere a un futuro migliore. In entrambi i casi, questi autori, con fare di moderni musicologi, si adoperarono nel recupero delle antiche melodie tradizionali e poemi anonimi e popolari di molti autori del passato, e altri ne composero, interpretando con notevole compiacenza, i sogni e gli ideali della Spagna feudale.
Facciamo anche noi un passo indietro nell’affrontare un aspetto finora trascurato in questa ricerca che a fatica s’inoltra nel mare magnum della letteratura spagnola riferita al Romance, e recuperare, lì dove ci siano state carenze, alcuni testi di rilevante importanza. Ovviamente il semplice elencare testi non comporterà una loro assunzione nella ricerca qui avviata che certo non valica il muro della conoscenza archeologica, ma si vuole essere di stimolo per riscoprire quanto di essi ha contribuito alla nostra formazione letteraria e non solo. Soprattutto di quanto oggigiorno viene utilizzato da molti autori che crediamo originali, creatori di fumetti e romanzi, giochi elettronici e cinema fantasy, e che invece, sicuramente, dobbiamo a quanti: filologi e ricercatori, etnomusicologi e musicisti, letterati e semplici ricercatori appassionati, che si sono prodigati nel recupero di tanta letteratura e che ci permettono di rivisitare quell’epopea portentosa del passato, non senza scaturire in noi, attuali fruitori senz’anima, una pur vaga emozione che testimonia una creatività esemplare, mai venuta meno.
La tradizione del Romance dunque, si presenta a noi di una tale ricchezza che definirei quasi miracolosa, e che invito qui a riscoprire, per l’essere sorprendentemente ricca di spunti poetici e non solo. A partire da un autore che in assoluto si leva su tutti (almeno per noi ricercatori), testimone della popolarità che ebbero il Romance e i Romanceros nella tradizione spagnola: Miguel de Cervantes de Saavedra. Il quale, nel suo “Don Quijcote de la Mancia” (*), che di fatto possiamo definire quasi un lungo “romance nel romance”, elenca circa quaranta strumenti musicali in accordo con la loro funzione e colore timbrico perfettamente allogati e aggettivati secondo la lingua popolare. Nonché venti danze e balli tra quelli menzionati; altrettanto dicasi delle canzoni che corrono di bocca in bocca e che l’autore fa cantare ai suoi personaggi; mentre sono almeno una dozzina i romance citati. Un esempio di quella che è la sua sterminata conoscenza enciclopedica, lo troviamo in apertura del capitolo XXXXIII, in cui il Romance è annunciato dal canto “in sulla prima ora dell’alba”, l’ora propizia per il canto amoroso in letteratura:
“Marinero soy de amor / y en su piélago profundo / navego sin esperanza / de llegar a puerto alguno … ”. “Marinaio son d’amore / e nel suo pelago profondo / navigo senza speranza / di arrivare in porto alcuno …”.
Il romance popolare spagnolo si rivela comunque in tutta la sua ricchezza di contenuto, quale mezzo espressivo di sentimenti che vorremmo fossero nostri, nel ritrovare quella compostezza, quella integrità nazionalistica di un popolo che già allora si distingueva per il temperamento virile dei suoi personaggi, per l’ardire di un torneo o di una corrida, per i ritmi sfrenati dei suoi bailes, l’andamento malinconico del cante, la nostalgica cadenza della vihuela, l’insolenza della chitarra flamenca o morisca, la voce alta dei suoi poeti. Una voce altamente sonora, con la quale ogni poeta d’oggi che si misura nel romance, diventa subito autentica e popolare, nell’accezione della parola stessa di narrazione, che prende forma dal popolo e nel suo essere popolare trova la sua continuità e la sua massima affermazione creativa, secondo il metodo che restituisce al popolo la sua storia, e di cui diviene – in senso assoluto – protagonista:
“..col tagliare e aggiungere versi, col sopprimere o variare le parole, col modificare lo svolgimento o alterare capricciosamente gli avvenimenti e le azioni dei personaggi, o meglio, col riscrivere la storia secondo un singolare punto di vista, secondo una propria logica dei fatti …”.
Non poca importanza va quindi attribuita al Cervantes musicologo, conoscitore ed estimatore della musica del suo tempo, tanto più va sottolineata la sua funzione di ricercatore e trasmettitore dell’antica tradizione, sebbene, egli ne abbia fatto, per così dire, un uso speculativo all’interno del suo romanzo (e che romanzo), col voler dare ai suoi personaggi una parvenza di realtà e di lucida follia. E che bene interpretò il noto compositore contemporaneo Manuel de Falla, il quale, nella messa in musica di “El retablo de Maese Pedro” (*), improntato sulla storia di “Gaiferos e Melisenda” (*), d’appartenenza al Romance epico, in cui il “retablo”, cioé il teatrino dei burattini, fa da sfondo alla rappresentazione che si svolge davanti a Don Quijote, l’ultimo e certamente il più nobile dei cavalieri erranti che siano mai esistiti. Nel suo romanzo Miguel de Cervantes, l’antico romance vijeos assume una posizione di grande rilievo, rendendogli quell’attualità che in parte esso aveva perduta nel tempo, ottenendo così un duplice effetto: integrativo della rappresentazione che si svolge sulla scena, alla vita dello spettatore e viceversa e, al tempo stesso, permette a Don Quijote di entrare nel vivo della rappresentazione. Una scena che ritroviamo nella finzione del “teatro nel teatro” e ancor più nel cinema: da “Hellzapopping” di Henry C. Potter, a “La Rosa purpurea del Cairo” di Woody Hallen , dove la “finzione sostituisce la realtà che sostituisce la finzione”, in quanto elemento caratterizzante di un accadimento, attraverso il quale l’autore colto, il musicista galante, il narratore forbito, con l’assegnare ai personaggi certe emozioni, li consegna alla vita reale o inventata che sia, restituendo al lettore prima, all’ascoltatore poi, così come al cineamatore meravigliato, una diversa condizione esistenziale, attraverso la quale è sollecitato il sogno, la fantasia, l’istinto, la follia, l’ignoto:
“Giace qui l’hidalgo forte Il cui valore arrivò A tal punto che ebbe in sorte Che la morte non trionfò Della vita con la morte. Poco il mondo calcolò. Se ebbe d’orco la figura, un’insolita mistura la ventura in lui provò: visse pazzo e morì savio.”
È ancora Cervantes che ci fa dono di questo sonetto, se pure va ricordato che sono passati secoli da che Miguel de Cervantes scrisse il suo famoso romanzo e altrettanti da che l’eco di quella che fu la poesia epica spagnola fosse ripresa dai suoi poeti più insigni: “che è poi il segreto spirito del romance che torna a forgiare noi moderni”, come affermato da Léon Felipe, uno dei grandi poeti spagnoli del novecento che ha dato nuova voce al romance epico e cavalleresco, quello stesso spirito che releghiamo all’antica voce della terra e che trascende la contingenza di luogo e tempo, per acquisire quei significati universali che sono propri della grande poesia. Quand’ecco:
“Per la pianura della Mancha / torna a vedersi la figura / di Don Chisciotte passar”.
El Romance de Calaynos. “Ya cavalga Calaynos a la sombra de una verde oliva, sin poner pie en el estribo cavalga de gallardìa. ... Mirando estaba a Sanduena al arrabal con la villa por ver si verìa algùn moro a quien preguntar podrìa. ... Por Alà te ruego moro asì te alargue la vida que me muestres los palacios donde mi vida vivìa”.
NOTE: Bibliografia di consultazione: Miguel Cervantes de Saavedra “Don Chisciotte della Mancia” – Einaudi 1972.
Dionisio Preciado - “Folklore Espanol: musica, danza y ballet” - Studium Ed. Madrid 1969. G. Di Stefano - “El Romancero: estudio, notas y comentarios de texto” - Narcea de Ed. - Madrid 1985. Javier Villalibre - “Selection de Romances” - Editorial Everest - Leòn 1983. Cesare Acutis, a cura di, "Romancero: Canti Epici del Medioevo Spagnolo" – Einaudi 1983 C. Samonà – A. Varvaro “La Letteratura Spagnola: dal Cid ai Re Cattolici” – Sansoni – Milano 1972. Ramon Menéndez Pidal - in “Flor nueva de romances viejos” - Espasa-Calpe - Madrid 1985. “L’apparizione” di anonimo del XIV secolo - in Wikipedia Libera Enc. Manuel de Falla - “El retablo de Maese Pedro” - (vedi discografia) “Gaiferos e Melisenda”, ballata judeo-españolas in “Don Chisciotte della Mancia” di Miguel de Cervantes op. cit.
CINEMA: Esistono diversi adattamenti cinematografici dell’opera, alcuni dei quali molto celebri come: “Don Quixote” 1933 diretto da Georg Wilhelm Pabst. “Monsignor Quixote” 1991 con Alec Guinness nel ruolo di Don Chisciotte. “Don Chisciotte di Orson Welles” - ovvero il capolavoro perduto. Film del 1955 presentato Fuori Concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica del 1992. “Don Chisciotte e Sancho Panza”, film commedia del 1968 diretto dal regista Giovanni Grimaldi. Franco Franchi interpreta Sancio Panza mentre Ciccio Ingrassia don Chisciotte. In origine il film doveva intitolarsi “Don Cicciotto e Franco Panza”. Franchi e Ingrassia non sono stati l’unico duo comico a vestire i panni dei due celebri personaggi; infatti i protagonisti del film muto “Don Quixote” (1927, regia di Lau Lauritzen Sr.) sono i due comici Pat e Patachon (Carl Schenstrøm e Harald Madsen).
“Man of La Mancha” di Arthur Hiller film musicale del 1972 a sua volta tratto dal musical di grande successo. La trama del film è la messa in scena di “Don Chisciotte della Mancia” a opera del suo stesso autore. Cervantes è interpretato da Peter O’Toole (che veste anche i panni di Don Chisciotte); Sophia Loren interpreta Duclinea/Aldonza e James Coco Sancho Panza/servo di Cervantes.
“Lost in La Mancha” di Keith Fulton e Louis Pepe - overo la mancata realizzazione di ‘Don Qixote’ 2001.
“Donkey Xote” di Josè Pozo, commedia d’animazione del 2007 di produzione Lumiq Studios Filmax International, scritta da Angel Pariente e diretta da José Pozo in cui la storia è raccontata dal punto di vista dell’asino Rucio, che interrompe la narrazione di Cervantes per esporre il suo punto di vista sulle avventure di Don Chisciotte.
“Quijote” di Mimmo Paladino 2006, film surreale, dal taglio teatrale a opera dell’artista Mimmo Paladino. La maggioranza delle scene è girata nell’atelier di Paladino e la scenografia si avvale di alcune delle sue opere. Nel cast del film compaiono Peppe Servillo nel ruolo di Don Chisciotte e Lucio Dalla in quello di Sancho Panza.
“The Man Who Killed Don Quixote” di Terry Gilliam che dopo anni di controversie esce nel 2018.
MUSICA: (*) “Canciones y Danzas de Espana: en el tiempo de Cervantes” – Hespèrion XX – EMI 1989. (*) “Musica en la Obra de Cervantes” – Pro Muica AntiquA – Monumentos Historicos de la Musica Espanola 1982. (*) “El Cancionero de Palacio” 1474.1516, Hespèrion XX, Jordi Savall – Astrée 1991 (*) “Cantigas de Santa Maria” Alfonso el Sabio 1223 -1284 - Monumentos Historicos de la Musica Espanola 1990. (*) “Cantigas de Santa Maria” Alfonso el Sabio 1223 -1284 – Clemencic Consort – René Clemencic – Harmonia Mundi 1995.
Id: 821 Data: 13/10/2021 17:07:08
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- Poesia
Anna Chiara Peduzzi... ladeguata finitezza delle parole.
“Figure semplici” una silloge poetica di Anna Chiara Peduzzi – Anterem Edizioni 2021 – con una riflessione critica di Giorgio Bonacini.
C’è un’adeguata finitezza delle parole che dell’essenza varca il limine del dire, spuria finanche della grafia che la distingue e/o del suono che ne ottempera l’afflato. Nel suo divenire, pur nel vuoto subliminale che l’accoglie, se tratte dalla profondità simbiotica del linguaggio, ecco aspirano a un primario connubio verbale, onde risalire dal profondo i negati meandri del senso. Come di riflesso transitorio, in/organico e residuale, di materia gassosa e/o secrezione liquida evaporata nell’incesto mentale che le ha concepite, e che, per effetto transitorio di adattamento al cambiamento, assumono significato di ‘assenza nella presenza’…
Non dette non esistono le cose o esistono di meno restano inoffensive ad aspettare sgretolate dal dubbio che le erode mezze realtà di incerto statuto di malavoglia ogni tanto visitate …
Inevitabile pensare alla presenza di una certa finitezza che investe il ‘profondo esistenziale’ dell’autrice; a un’anamnesi personale transiente e resiliente dalla resa iperrealistica: fisiologica e patologica della realtà, onde costruire e/o ricostruire, seppure a livello inconscio, l’illusione organica dei propri trascorsi. Quel dialogo ‘secretum’ che Anna Chiara Peduzzi pur rivela, non senza qualche esitazione, nella sua silloge poetica “Figure Semplici”, recentemente pubblicato da Anterem Edizioni. Si è messi qui di fronte a una forma del ‘dire’: limite e/o soglia di quell’addivenire che, in senso figurato, ognuno raramente espone al giudizio altrui …
Parla compitando la voce che s’affonda senza accento di luogo e si alloggia nel dialogo dei vivi …
Più che di ‘figure semplici’ si è qui proiettati nel mezzo di ‘forme composite’ di un dialogare presente, la cui materia biologica è strutturale, di collegamento e sostegno alla finitezza umana, corporea ed epidermica, emozionale e sensibile, sostenuta dall’afflato umorale percettivo, conoscitivo e/o intuitivo, che elabora le possibili varianti apprensive: ansietà, preoccupazione, sofferenza, inquietudine; ma anche sentimento, passione, e quella finitezza d’amore che ciascuna parola porta con sé, vissuta o da vivere fino allo spasimo, fino alla fine dei giorni, come … in altro luogo la nutrice / che sazia questa fame.
Dov’è come si forma la cosa che di noi non ha bisogno per apparire e imprimersi …
L’imprinting alla finitezza d’amore è qui di seguito dato dalla sequenza a-ballo dei sistri suonati dal vento, dalla sabbia (o forse la polvere) sollevata dai piedi scalzi delle parole sussurrate, udite (?), in una notte d’estate, e volate via nei versi di una canzone che, se non direttamente, riguarda la presenza di (noi) protagonisti, fantasmi di noi stessi …
All’improvviso accampata intorno al fuoco di inaudite parole scintillanti aggredisce il silenzio e fa irruzione come un vento caldo che spalanca le rime doppie il suono dei metalli così della fiamma iniziale non resta che l’assenza nell’incavo dei versi rifiutati l’eccidio dei pronomi personali.
Allora cos’è che manca al compimento di un sentimento che pure dimostra tutta la sua finitezza: è forse il tenace istinto che lo trattiene, l’incompiutezza della perfezione o l’illimitatezza dell’infinità, che dietro la varianza rivela / l’incessante lavoro di diairesi? No, nessuna, o forse tutti i distinguo possibili, insiti dietro un’emozione che da sola enumera il multiplo e l’immenso, /… / contro l’idea che si sdoppia / che sempre è ed era …
Una parola sola occupa la mente liquida come un fiume che al passaggio tutto travolge e filtra in ogni anfratto lasciando oggetti sparsi campi invasi mulinello che ingurgita il presente nel disordine nuovo delle stanze dove il pensiero fluttua impotente finché nel tempo saturo tutto poi tace …
Come di frattali tendenti all’infinito che elaborano similitudini di se stessi, sfrangiati schemi d’infiorescenze pandemiche, ogni punto in esatta rispondenza, […] non mentono un’eternità promessa / saranno pulviscolo molecolare / informi scarti / nella generale dispersione …
Dov’è come si forma / la cosa che di noi non ha bisogno / per apparire e imprimersi (?) … si chiede ancora l’autrice/protagonista del libello, nel ricercare la ragione del suo sentire, la finitezza di senso impressa sulla carta, come a voler imprimere sulla sabbia il proprio estemporaneo ‘io’, ben sapendo che il vento e il tempo cancelleranno ogni residuale esistenza delle parole …
Dicono il tempo fattore d’incostanza aberrazione dal piano intelligente come deriva dei gravi verso oriente che ci trascina ignari tra stagioni ma nessun argomento mostra o spiega quella freccia che manca il suo bersaglio le fermate ai bordi della strada non è il carattere che guida il nostro passo ma agitazione di cellule e membrane e inesaudito resta allora il voto che in terra imprima un’orma disuguale.
“Figure semplici” di Anna Chiara Peduzzi è il XXXIV° volume della collezione La Ricerca Letteraria diretta da Ranieri Teti, vincitrice della sezione storica del Premio Lorenzo Montano - Anterem Edizioni 2021. L’autrice laureata in Filosofia a Milano e in lingue straniere e traduzione a Parigi, lavora e collabora a riviste italiane e francesi, come traduttrice per organismi pubblici francesi e internazionali. Interviene in seminari di traduzione specialistica presso università e istituti di formazione dell’Unione Europea.
Id: 820 Data: 05/10/2021 19:04:58
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- Poesia
Il pensiero magico di Bianca Battilocchi in Herbarium magic
Il pensiero magico-ermetico di Bianca Battilocchi ...in “Herbarium Magicum” – Collana Nuova Limina / Anterem Edizioni 2021.
“… penetra in abisso sprofonda nel sonno vigile dell’anima mundi … e traduci in idioma nuovo”
Volta a riportare alla luce la vera sapienza, “affinché dalla vista si sollevi alla percezione” (*), l’autrice di questo florilegio poetico lancia l’invito apologetico-celebrativo ad entrare nel labirinto magico-ermetico, stratificato nel complesso sistema esoterico di una certa produzione filosofico-letteraria medievale che, sopravvissuta nel substrato intellettuale moderno, si spinge nel sottobosco impenetrabile, perché misconosciuto, o forse perché abbandonato in Illo-tempore e che riconosceva all’Anima Mundi un primato rilevante nella conduzione dell’esistenza umana.
L’analisi semantica, di assegnazione di significato al testo, trova qui le difficoltà proprie del fare poetico, che esula dal dare un senso a una struttura sintattica corretta e, di conseguenza, di penetrazione dell’espressione linguistica autorale. Di conseguenza il pensiero magico-ermetico dell’autrice disvela il “…consegnarsi a una lingua interiore (labirintica) che dà voce al vedere (simbolico-immaginario) e, nello stesso tempo se ne sottrae, per ritirarsi nel mistero di un idioma nuovo”. (**)
“… risillabare / vocalizzare … per effetto di un incantamento, questo?”
Forse sì, o meglio per effetto di stasi, entro cui trova esito lo straniamento poetico, nei “…passaggi intricati e dondolati / da litanie … che si fondono d’io”. E che talvolta ritornano (prima di) “… svanire / e riassorbire in sublime / l’aurum potabile / lasciarsi pervadere dal calore / della pura ispirazione”; quell’aurum (oro liquido) che nella fusione ermetica si rapporta con mitico-oracolare, assume nella semantica poetica significato di purezza, valore e lealtà, che è all’origine molto più antica della divinazione mistica cristiana insieme all’incenso e alla mirra …
“quando non è più lo sfondo a coprirsi dorato ma di oggetti in oro il trittico si fa vanto … di versi pressappoco illeggibili in sospensione riversati ombre sagoma profumo ipnotico di lingua edenica … sotto il segno di un magico botanico”
Annota Bianca Battilocchi in ‘Marginalia’: “Jung ravvisò nell’alchimia la volontà di trasformare quel fondo sotterraneo o inconscio, per portarlo a esprimere il ‘suo oro’, ovvero il suo significato occulto”. (***)
Altro elemento costitutivo questo “Herbarium Magicum” appartiene a quel sistema simbolico elaborato fin dagli albori storici dall’immaginario collettivo, che attribuisce alla materia vegetale, così come del resto a quella minerale, proprietà salutari benefiche e propizie o, all’occorrenza malefiche, messaggere di sortilegi e incantesimi …
“…avvicinarsi all’hortus rosa dopo rosa … una rosa, solo una rosa, in pieno inverno che folle richiesta” … rosa croce croce rosa … le tavole si sovrapponevano in un’arte scompaginata in una danza schizofrenica della memoria … in grumo … un viale stretto e polveroso costeggiato gravido giallo e verde i limoneti fitti e grondanti d’estate … l’approdo non segnalato da raggiungere mettere alla prova … ma v’era l’ombra lontana d’un luminoso fiore”
Note (*) Cristina Campo, ‘Gli Imperdonabili’, Adelphi 1987. (**) Giorgio Bonacini, dalle note di copertina. (***) Carl Gustav Jung, ‘Psicologia e alchimia’, Bollati Boringhieri 1994.
L’autrice Bianca Battilocchi, scrittrice e ricercatrice collabora con diverse riviste letterarie. La sua raccolta poetica Herbarium magicum è arrivata finalista al Premio Montano 2020 e una seconda La fonte di Isadora, ha vinto il Premio speciale del presidente di giuria a Bologna in Lettere 2021.
Id: 818 Data: 06/09/2021 16:17:05
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- Poesia
Daìta Martinez … la voce lirica del discanto.
Daìta Martinez … la voce lirica del discanto.
S’increspa al respiro del vento, prima d’incedere dagli interstizi dei suoi silenzi marini, la liricità grave di Daìta Martinez, che riporta in superficie scompagini di un linguaggio primario, agli albori di una fonesi onomatopeica il cui alitare nudo, scaturisce, per effetto di discontinuità, dalla “precisa irrealtà di una distanza”. È questo il tempo residuale di un passato che è solo della memoria, onde il verso poetico consegue dilagante al ‘discanto’ gergale e sacro rigenerato sul filo di una “liturgia dell’acqua”, da un ‘qui ed ora’ veritiero e inquietante, che “ruba parola alle parole … sospingendo destini”. Eppure non traspare afflizione, dispiacere o tormento del verso, se non l’accettazione di una ‘assenza nella presenza’, ascendente alla volontà determinante dell’essere, di quel ‘sé’ che l’accompagna nel discanto, così nei ‘pianissimo’ come nei ‘fortissimo’ della sua voce, agra nella fusione gergale, tuttavia così mediterranea. Non è certo necessario a Daìta Martinez stabilire l’ineguagliabile e profondo legame con la sua terra, “una riserva di limoni … la fioritura del ciliegio / l’incantesimo di una cantilena, / nella danza di una trottola”, nonostante la materia della lingua parlata, è negli elementi annotati, nel ‘riportarli alla luce’, che la rivelazione del suo ‘spirito lirico’ s’avvale, e che conosciamo dalle sue labbra “ammucciate sutta sta finestra di sciroccu”. L’insensatezza della solitudine, la propaggine dei silenzi nei giorni senza vento, il pronunciare discontinuo delle parole avite, l’antitesi dell’ossimoro nell’ingranaggio dell’esistenza che porta a nuovi costrutti della mente, la soglia, il limite estremo dei desideri che non si realizzano, il “nodo nudo … mentri talìa como sciddica ciatu”. Leggiamo qui, in questo modo di dire siciliano, com’è detto di persona indifferente ad ogni avversità, l’anima bella dell’autrice “chiarissima d’insistenza”, il suo respiro, aperta alla resilienza, al distacco dalla ‘realtà nella realtà’: “margine di un margine di vento … vuoto il grembo nel grembo agli / occhi sorge e discende l’obliquo / suo farsi dal mio fondo crociato”. Intrecci di parole che spetta al poetare disciogliere nel “chiarissimo buio” che le circonda, con indulgenza nel “l’immobile acqua che sospende l’impronta calma … di seta sorta vuota tonda sul finire”, quasi a indurle a ritrarsi in se stesse, per un riscatto salvifico dalla condanna ciclica di un paradiso mancato: “Per disobbedienza cerco un riquadro inverso / al senso di una grazia unita e segreta all’ode del perdono”. L’effetto ultimo può risultare infimo oppure grandioso, dipende dallo spirito con cui si affronta l’intero costrutto della “liturgia” annunciata, dal pronunciarsi ‘vivo’ delle parole: “il prato di latta ha margherite colorate nei sogni dei bambini … / dopo la questua la preghiera e quel finire / a mano il ricordo più lento odoroso vento / con occhi della piccola grazia ribelle alle / stelle pi n’anticchia di beni attummuliatu rina rina dintra ‘a vucca ca scunta e nenti cunta di lu scantu”. Non c’è bisogno di conoscere il dialetto per comprendere ciò che la lingua evocata aggiunge al suono dell’afflato d’amore: “per imperfezione o / per credenza rubata agli angeli nudi / come impercettibile ora del passero / questa sua ritrosia sulla biancheria / bianca di bianchissimo cuore tutto / l’ardore dell’odore accolto per cura / sola primizia di una lacrima matura”. Siamo allo stremo del poetare, in cui l’esistenza stanca di lottare perennemente di fronte al destino, s’avvoltola in se stessa, nel silenzio di un sentimento d’amore o, forse, di melanconia affettiva, di quella osservanza che il poetare sovverte in “isolata perla, la luna, il cielo altro non promette solitario”. Dacché scrive (dal profondo dell’abisso):
“… anche le lacrime hanno lo loro melodia e veglia l’aurora retrostante il ticchettio nudo del mezzadro di fianco stanco per inconoscibile protesta la sua lattescente finitezza che là tra bocca impensata per maldestra sua attesa la misura del bene seppur senza mai tracciarlo un riservato ti voglio bene nascosto dentro al profilo della stanza venuta all’acqua profumata la guancia rosata del sole un breve oltre allo sguardo del mare …”
“Il mondo che ne emerge è favoloso – scrive Maria Grazia Calandrone nella sua intensa ‘prefazione’ – Daìta Martinez racconta un’infanzia e un presente cresciuto fino all’amore adulto, dove tutto è mescolato a tutto e ogni elemento contribuisce a formare il suono di fondo che riconosciamo come il ronzio del ‘reale’, oltre la così detta realtà. […] Perché Martinez sta parlando a qualcuno, sta raccontando il colmo, il mediterraneo traboccare in colori e sapori della vita, per qualcuno che ascolta. O ascolterà, leggendo questo nascondersi in bella vista della parola, questo smettere anche la punteggiatura e lasciare che ognuno sia quel che è, veda quel che vede. Canti il suo canto”.
Daìta Martinez è poetessa palermitana autrice di numerose sillogi poetiche è finalista nel 2020 della 34° edizione del Premio Lorenzo Montano. La presente silloge è edita da Nuova Limina per i tipi di Anterem Edizioni 2021.
Id: 817 Data: 04/09/2021 08:38:03
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- Libri
Leggere / Ascoltare Idee e Suggerimenti per tenersi occupati
Leggere / Ascoltare Idee e Suggerimenti per tenersi occupatidurante il loockdown.
PSALM - di Paul Celan “Salmo” nella traduzione di …… Nessuno ci impasta di nuovo da terra e fango, nessuno rianima la nostra polvere. Nessuno. Che tu sia lodato, Nessuno. Per amore tuo vogliamo fiorire. Incontro a te. Un Nulla fummo, siamo, reste- remo, noi, in fiore: la rosa di Nulla, di Nessuno. Con il pistillo chiaro-anima, lo stame deserto-cielo, la corolla rossa per la parola porpora, che cantammo al di sopra, oh al di sopra della spina.
È detto: “Con salmi e inni e cantici spirituali” (San Paolo ‘Lettera ai Colossesi’). Dapprima inclusi nel rito liturgico, alfine di trasfigurare e di elevare l’umanità al di sopra delle vicende terrene, il canto dei “Salmi” (*) ha illuminato da sempre il successivo cammino della preghiera verso nuovi e più alti ideali, offrendo alla religione un linguaggio altamente spirituale, le cui ampiezza espressiva ha ancora tutt’oggi un effetto trainante sulle masse che nei secoli ha rappresentato la sublimazione del rito liturgico cristiano. Dall’iniziale canto Gregoriano, all'Exsultandi et Lautandi del canto-fratto, alle odierne “Prayers" (*) del compositore georgiano Giya Kancheli, sono passati qualcosa di più di 1000 anni, acciò il senso caratterizzante la ‘preghiera’ non è mai venuto meno. Dell’uso di fare musica e di elevare canti durante le cerimonie liturgiche, rituali della diffusione del culto cristiano, del quale è fatta menzione nell’Antico Testamento con riferimento alle lodi solenni composte sulle parole sacre inizialmente recitate, che dovevano essere intonate ‘con gaudio ed esultanza’, non si è persa oggi memoria. O almeno così sembra, seppure in parte, stando alle testimonianze raccolte nell’area slava, successivamente unificata nel canto rituale della Chiesa russo-ortodossa, il cui rigore imposto alla forma ne delimita immancabilmente la portata strumentale d’ogni pretesa d’arte, per farsi linguaggio collettivo, sia di recitazione che strumentale che fosse eseguibile e recipita dalle masse raccolte in preghiera. In ciò Giya Kancheli sembra aver raccolta ogni forma preesistente, antica e antichissima, nella sua odierna creazione musicale, ricreando a sua volta un nuovo stile, unico e inconfondibile. Il cui andamento ‘piano e grave’ ondeggia come di un mare solo apparentemente calmo, che all’improvviso scaturisce dal profondo, come per una tempesta rigeneratrice di spume, ad esprimere l’imtima natura del proprio sentimento religioso. Così in “Caris Mere” (*), quasi l’estensione di una preghiera che implode con notevoli assonanze col Gregoriano, sia di forma che di stile, sia nell’uso dell’organo che degli strumenti esibiti, quali: voce soprano, clarinetto, viola, e l’inserimento del sax soprano e orchestra d’archi. Un mix che si rivela testimonianza di una medesima derivazione liturgica, per quanto sarebbe improprio asserire un origine diversa dall’una dall’altra forma, ma più verosimilmente ritenere entrambe confluite da un comune patrimonio, tramandato dalle culture più antiche alla cultura cristiana. Concepita in forma di ‘preghiera’ l’opera di Giya Kancheli prende spunto dal ‘Salmo 23’ cui è detto “Il Signore è il mio pastore…”, incluso nel CD “Exil” (*), per poi includere ogni altro significato voluto, spaziando da testi di Paul Celan, ad Hans Sahl. Mentre in “Abii ne Viderem” (*) l’utilizzo della Stuttgarter Kammerorchester diretta da Dennis Russel Davies; con le voci e il flauto del The Hilliard Ensemble, e Kim Kashkashian impegnato alla viola. L’opera completa “Prayers” si sviluppa in quattro parti formando essa stessa ‘un ciclo e così suddivisa: “Morning Prayers”, “Midday Prayers”, “Evening Prayers”, “Night Prayers”. Volendo essere ‘up-to-date’ l’ensemble Kronos Quartet (*) ha elaborato quest’ultima in un Cd dedicato all’autore georgiano, cui va riconosciuto, insieme all’estone Arvo Pӓrt, l’eccellenza musicale della grande tradizione liturgica. Che la ‘liturgia musicale’ si sia occupata in particolare all’antica innodica cristiana, noi sappiamo che in letteratura, invece, in via alternativa ci si è occupati, attraverso linguaggi e immagini, al simbolismo fenomenologico delle diverse forma dell’immaginazione. Pertanto, inseguire un schema speculativo nel campo della filologia linguistica che fin dai primi enunciamenti potrebbe risultare infruttuoso, è per me cosa ardua da affrontare, in questo contesto. Soprattutto se a proporlo è uno stimato filosofo francese di tendenza teologico-cristiana qual è Stanislas Breton, che ha dedicato un eccellente saggio “Simbolo, schema, immaginazione” (*) alla ‘riflessione sul simbolo’ della poetessa e scrittrice Rubina Giorgi.
Scrive Breton: «Simbolo è ciò che, senza concetto, al di là o al di qua del concetto, fa dunque comunicare gli uomini tra loro e le cose tra loro. […] Molti indizi, oggi ci persuadono della necessità di tralasciare sia l’ontologia tradizionale sia la semiotica generale che l’ha rimpiazzata. Tra le opere che testimoniano questa insoddisfazione e che delineano, in modo fermo, lo schema di questo superamento, ce n’è una che abbiamo scelto perché ci sembra essere il punto d’incontro di diverse tendenze e di molteplici discipline: […] cioè la scienza filosofica dell’essere, afferente alla “metafisica platonico-aristotelica”.» […] Da cui l’affermazione: «La fine della metafisica, potrebbe essere l’inizio della simbologia.» Ne consegue l’individuazione, nell’ambito della ‘speculazione filosofica’, di uno ‘schema’ necessario nello studio della ricognizione scientifica, antecedente alla formulazione dell’ ‘ontologia formale’. Un metodo di apprendimento rivolto alla comprensione del ‘sistema significante’ che, come è anche detto nell’introduzione del saggio, rivolge la sua utilità allo studioso/lettore, nell’addentrarsi, seppure con non poca difficoltà, nella ‘materia significante’ ed accettarne i concetti e/o a condividerne le tesi.
Una proposta di lettura questa che, stando almeno nelle intenzioni dell’autore, guarda all’insieme del pensiero in ambito linguistico a lui contemporaneo. Breton, infatti, rivolge una speciale considerazione alla simbologia di Rubina Giorgi, che ha svolto un’importante excursus, quanto più addentro all’ ‘ontologia formale’, attraverso l’aspetto delle forme e ai significati intellegibili, rivolto, soprattutto, alla funzione che il ‘simbolo’ riveste nel nostro mondo odierno. Nella specifica del ‘simbolo’ che Breton rende in modo quantomeno suggestivo oltre che rigoroso, si hanno in breve: due poli entrambi ricettivi, divisi da un intervallo vuoto e/o nullo (nihil) reso fruibile nell’immaginale (vedi Cobin, Hillman e altri). In primis va qui chiarito che il sussistere dell’ “approccio immaginale” nei confronti del ‘simbolo’, non esula da ciò che è fondativo nel “pensiero immaginale” riferito al ‘simbolico’. In breve, lì dove Breton cita Rubina Giorgi: «..il simbolico, come funzione di negazione e di distanza, non è vuoto perché è auto-riflettente, ma è auto-riflettente perché è vuoto. Il movimento dell’autoriflessione conferma questo vuoto.» […] «Per ristabilire l’equilibrio tra il causale ed il semantico, è necessario che lo schema elevi alla dignità di nuovi significati delle accezioni preliminari e convenzionali, che non sono del resto da concepire mai come cause propriamente dette, e le inserisca in una totalità originale dove esse prendano una valenza nuova.»
Soprattutto quando questa è applicata all’intenzionalità dell’arte cui l’impersonalità dell’artista diventa abnegazione del soggetto nei confronti dell’oggetto. Un’esigenza speculativa messa al servizio della creatività, per cui – come scrive Carlo Di Legge: «l’abnegazione del me provoca (spesso) le rappresentazioni più raffinate dei molteplici recessi della soggettività.» Ma il passo poetico non si ferma qui, infatti Breton aggiunge che «..l’oggetto e il soggetto non sono fissati una volta per tutte. Bisogna assimilarli non a degli elementi invariabili ma a delle polarità reversibili. […] Nel suo movimento, il simbolo è soggettività in modo che specularmente (moto proprio del riflessivo), rimanda di continuo il soggetto all’oggetto e viceversa.» In ciò non v’è nulla di misterioso quanto invece c’è di speculare, in ogni singola istanza c’è sempre all’origine un’intenzionalità ricettivo-creativa propria dell’essere pensante (animale, vegetale, umano), afferente a una sorta di ‘energia’:
Difatti il ‘simbolo’ re-interpretato secondo Breton sulla scia delle avances di Rubina Giorgi equivale a un principio d’identificazione, l’affermazione stessa dell’individualità dell’essere antropico: «Ed anche questa energia è sospesa ad un irraggiamento originario che, aldilà dell’essere e della forma, si presenta come pura indeterminazione “per eccesso” di cui le figure sensibili e le forme intellegibili, come pure lo stesso movimento formativo, spiegano, in una lingua cosmica, l’inesauribile generosità.»
Veniamo quindi messi di fronte a un problema logistico che si vorrebbe risolvere, ma di certo – scrive Carlo Di Legge nella sua eccellente introduzione: «Non (con) la logica formale classica dunque, ma (con) una logica che, tuttavia, consente di districarci, orientandoci nella selva delle somiglianze, e che paradossalmente presiede alla comunicazione e all’interpretazione, se interpretazione è sempre legata alla comunicazione: quello simbolico è, per quanto non possieda chiarezza né evidenza, il luogo che offre certezze, pur nella variabile molteplicità delle forme»: «Il suo carattere polimorfo non gli impedisce (al simbolo) di assicurare la comunicazione tra gli uomini. Non più del resto di quanto la sua ambiguità non lo condanni all’incomprensibile. Ad ogni modo questa comprensibilità si accontenta benissimo dell’equivoco e della pluralità dei sensi.»
Pertanto giungiamo a un’altra affermazione: «L’essere è la forma, attiva o passiva, che sfida ogni nostro gioco linguistico.» (Breton) Come è anche detto nell’introduzione, che «lo si riconosca o meno, questa è propriamente la nostra vita. […] Ci parla del nostro universo, dicendo che in esso ogni ente è in simpatia con ogni altro; ma non è questa, la dimensione della logica scientifica: non stupisce chegli scienziati non la ammettano, se non i più illuminati.» (Carlo Di Legge) Volendo a questo punto rientrare nello schema formulato inizialmente, dei: “due poli entrambi ricettivi, divisi da un intervallo vuoto e/o nullo (nihil) reso fruibile nell’immaginale”, approdiamo con più facilità a individuare i rapporti che intercorrono tra ‘simbolo, schema, immaginazione’ definiti nel titolo del libro: «Oggi si sarebbe tentati di riservare lo studio a questo insieme di discipline abbastanza privo di rigore che si chiama “semiotica”, perché si occupa di segni, di qualsiasi natura essi siano, sia pure privilegiando lingua e linguaggio e con il primato e la guida della linguistica, che induce talvolta a subordinare l’antico ‘semeion’, nella plasticità delle sue accezioni, alla chiarezza e alla distinzione della parola scritta o parlata.»
Tuttavia ciò non basta a seguire uno ‘schema’ di per sé farraginoso che induce alla antinomia delle trattazioni, allorché si avvale della speculazione filosofica per affermare alcuni principi solo apparentemente indissolubili afferenti ad altre discipline e altri autori come Heidegger, Levinas, Lacan, Frigo ed altri che, non in ultimo, trovano in Jacques Derrida, “l’epistemologo del pensiero postmetafisico”, la resilienza di una specificità indelebile con testi importanti anche per questa trattazione: «Ma è chiaro che il dilatarsi e l’esplicitarsi, messo in opera dallo schema e dall’immagine (rappresentati nel testo), suggeriscono una linea di sviluppo all’infinito che non copre tuttavia la perfetta omogeneità del tempo postulato. Il tempo dell’immaginario, come quello della storia che lo nutre, è al tempo stesso racconto che spiega e memoria che raccoglie. Tempo ciclico e tempo lineare si fissano quindi in un tempo più profondo, […] che la densità dell’essere, la pienezza che si insinua, in certi momenti che miracolosamente sospendono l’uniformità della successione che affiora nell’Opera, quando essa è veramente Opera […] che restituisce all’uomo , contro la minaccia di dispersione e l’inerzia della natura, la poesia di un’espressione autentica.»
Va citato inoltre un libro di Jacques Derrida: “Pensare al non vedere - Scritti sulle arti del visibile” (*), in cui si tratta delle arti come problematicità: “che si rifrange ogni volta in una molteplicità lontanissima dall'essere omogenea. Per quanto ciò che concerne il visibile, infatti, si tratta sempre, anche se in modalità differenti nelle arti e rispetto alla scrittura, della traccia, del tratto, di spettri, e dunque di un “vedere senza vedere niente … punto di condensazione di una realtà possibile”.»
“Vedere senza vedere”, si è detto, e anche “pensare al non vedere”, ciò che più si abbina alla tematica di “Vocali”(*), introdotta da Arthur Rimbaud in cui il ‘poeta maledetto’ avverte precise sinestesie tra colori e vocali, tra elementi naturali e grafici … Vocali
“A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti: A, nero vello al corpo delle mosche lucenti che ronzano al di sopra dei crudeli fetori, golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende, lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle; I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti; U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi, quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe che l’alchimia imprime alle fronti studiose. O, la suprema Tromba piena di stridi strani, silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi: – O, l’Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!”
C’è però anche chi invece avverte un’istintiva identificazione con essi, ad esempio nei colori della natura nelle diverse stagioni, e perché no nei colori dei sogni che sfolgorano all’interno del “… punto di condensazione di una realtà possibile”. E chi abbina i colori all’effimero contemplativo della musica, e allora è il mare, il cielo, la terra o i prati a dettare la sua tavolozza; e perché non pensare ai sentimenti cui siamo invero profondamente legati, che ci ispirano il colore dei giorni, o anche il profondo buio delle notti. Quei colori che ci invitano al canto che, come nei ricordi dell’infanzia ci avvertono che non tutto è perduto, che il germinare della terra riporterà l’antica origine edenica del mondo, che inseme agli antichi dèi torneranno le speranze messianiche di una redenzione possibile. Quegli stessi colori che il canto di una voce o il suono di uno strumento può darci la dimensione di quel che siamo, l’identità di esseri umani, intelligenti, capaci di creatività, di sostegno, di concepire un disegno di vita unitario, di poter affrontare le sfide e affidarci all’avventura di un viaggio. Come ad esempio in musica, di misurarci in un ‘ensamble’, di comunicare con gli altri elementi di un’orchesta, operare affinché le note si colorino di accordi, di assonanze armoniche, di linee melodiche sempre nuove, che ci restituiscano, infine, quella ‘gioia di vivere’ che oggi sembra perduta nelle strette maglie della sofferenza che ci attanaglia. Nasce così “The colour identity” (*) un CD interamente strumentale con alcuni straordinari inserimenti vocali di Marta Loddo e Rosie Wiederkehr, presentato dal Mauro Sigura Quartet, formato da Mauro Sigura, cui si deve la ‘coloratura’ virtuosistica della melodia e le ‘variazioni’ all’interno dei brani, come di componente costitutiva essenziale. A determinarla è l’assoluto cui egli approda con l’Oud, uno strumento solista per eccellenza, che in questo caso fornisce al Quartet l’alchimia d’insieme necessaria a coniugare memorie di un passato lontano con il moderno presente, la cui ‘chiave’ definisce la ‘linea sonora’ costituente la New-Jazz World Music.
Se si volesse accostare un colore al suono dell’Oud, potremmo definirlo ‘contenuto nell’emozione che suscita’, corrispondente in pittura all’arancio tendente al rosso, o forse al viola tenue, i colori propri del melos antico, ovvero dell’odierna melancolia che suscita l’autunno nei dipinti ‘crepuscolari’; il colore stesso di un sentimento come l’amore, per pienezza sonora ed espressiva, paragonabile a un certo tipo di poesia e, in certo qual modo, ‘chiave sonora’ dei brani nell’album pressoché acustico. Brani in cui s’intercalano voci diverse, offrono all’ascoltatore attento l’opportunità di sentire/vedere i ‘colori’ che verosimilmente li hanno ispirati: il ‘bruno’ dell’accorato richiamo che fuoriesce dal profondo della terra in “Il canto di Maddalena” e “Madri di Damasco”; il ‘verde-blu’ di “Terramare” e “Instabile”; la lontananza ‘azzurro-cielo’ di “A ovest di me” e “Seven chitzaz”; la desolata contrada bruciata dal ‘giallo-oro’ del sole di “Allagamenti” e il successivo “Bruja”; fino all’ ‘argenteo’ “Mbour” che sa di pioggia che scende leggera sui campi, portatrice d’ebbrezza e di sperato piacere. Bravissimi tutti i componenti The Quartet, autori e coautori dei brani e degli arrangiamenti: Mauro Sigura, Gianfranco Fedele, Alessandro Cau, Tancredi Emmi, ai quali va il plauso per aver mantenuta, senza mai strafare, l’eccezionale ‘misura del tempo’ spesso ricercata dei componimenti; e il mio personale omaggio per leleganza raffinata del suono dei loro strumenti.
L’eco della ‘poesia’ di cui fin qui si è spesso parlato trova riscontro in “Edeniche” - Configurazioni del principio (*), una raccolta poetica di Flavio Ermini - Moretti & Vitali Edit. 2019, che propongo all’attenzione di quanti mi leggono.
"Prolegomeni alla ricerca del ‘mito’ perduto". Nella concezione poetica di Flavio Ermini, autore di ‘Edeniche’, difficilmente si arriverebbe a una ‘dismissione del mito’ così come è giunto a noi contemporanei, per quanto gli effetti della sua ‘caduta’ si dimostrino oggi irreversibili, privata com’è della tesi che l’ha sostenuta fin dall’origine. Tesi che, dapprima Kant poi Jung e Kerényi hanno posto in evidenza, in quanto rappresentazione dell’inconscio collettivo primordiale, come “creazione mitica del pensiero umano”, d’appartenenza specifica alla sfera della psiche. Una ‘dismissione’ dubbia che pure c’è stata, e di cui oggi si tende a sminuire l’importanza, malgrado volenti e/o nolenti, non riusciamo ancora a fare a meno della ‘prestanza creatrice del mito’ che, come già Hegel a sua volta ha dimostrato, si palesa come essenza di “pura disciplina fenomenologica dello spirito”: «Non ha fondamento né gravità l’antro dei cieli / discosto com’è dal fuoco al pari del mondo abitato / che dalle acque creaturali viene circoscritto / per quanto non si tratti che di assecondare la caduta / consentendo così alle residue forze relittuali / di protendersi una volta ancora verso il principio / […] desituandoci dalle nostre abitudini cognitive / per esporci all’assoluto contrasto che si afferma / nel secondo principio di ascensione al cielo / […] nel varcare con reticenza il limite che ci separa / dalla superficie celeste dell’ultima terra / con la segreta illusione di rivelarne la natura». Non mi è dato conoscere quanto consapevolmente ogni singolo autore citato, e lo stesso Flavio Ermini, “nel fondare il mondo sulla ragione”, abbiano visto negli effetti della ‘caduta edenica’, la perdita delle forme archetipe della psiche, attraverso le quali lo spirito umano pure s’innalza verso il sapere assoluto. Di fatto, con la compiuta ‘dismissione’ della pregressa mitologia senza uno scopo definito, seppure sostituita per ciò che riguarda l’attualità da nuovi ‘déi ed eroi’ di recente conio e piuttosto avulsi da virtù etiche ed estetiche “quale testimonianza dell’oscurità che si cela / nell’impreciso vuoto del presente”, si è creato un ‘nulla prepositivo’ nella conoscenza collettiva di non facile riempimento psicologico, che sta portando a uno sconvolgimento profondo di tipo esperienziale, pari quasi al trauma ‘immemore’ del Diluvio che in illo tempore sconvolse la terra: «..a causa dell’ostinato levarsi delle tenebre / se non proprio dell’annientamento cui porta l’apparire / sempre di nuovo si ripete l’ascensione al cielo / in omaggio al divenire che in terra si distende / sullo sfondo originario cui l’umano si sottrae / mettendo a soqquadro anche il sacro recinto / […] dove opera ogni notte un rivolgimento natale / l’incerta creatura da poco tempo generata / per la cui sacralità viene un mortale a garantire / in virtù della pietra e di un impossibile assentire».
Grandiosa l’immagine del ‘sacro recinto’ edenico, e della causa che ha portato alla dismissione dell’umana creatura da esso, in cui: «‘la terrena sostanza del giardino’ porta all’incompiutezza il graduale sottrarsi alle stagioni / che improntano senza posa il nostro incerto cammino / attraverso i gradini del tempo fino all’atemporalità / che diventa ostile alla terrena sostanza del giardino / rendendo inadeguato il consacrarsi al cielo della luce / così come il situarsi ai lati di una penosa dissoluzione / che (di fatto) mortifica l’essere umano per la vita che gli resta». Nondimeno, nelle diverse sezioni autonome che distinguono questa silloge poetica al pari di un ‘unico lungo poema’, ritroviamo più o meno definiti tutti quei valori che il poetare si concede di trasformare in verso descrittivo, in cui si ravvisa una trama che non stento a definire ‘tragica’, se non ipotizzando una sorta di riabilitazione ‘al momento non formulabile’, che arresti il tempo della ‘caduta edenica’, in una sospensione a noi necessaria per ovviare quella ‘dismissione mitologica’ che pure fin qui ci ha accompagnati, «..se non ipotizzando l’aiuto delle ali», di nuove ali che ci permettano di tornare a volare: «..non l’interezza è all’origine del nostro apparire / ma un grido che ai viventi l’indiviso sottrae / quando è su loro impresso il marchio dell’obbedienza / anche se altro non fanno che sfuggire all’esilio / votati come sono all’illusoria condivisione della verità […] in collisione con l’orizzonte che lontano si configura / e con dolore fa pensare a molti uomini in catene […] nella relazione che i differenti mantiene separati / per un tempo che potrebbe anche essere indefinito / … il cui ‘paradiso perduto’ / rappresenta l’ultima luce per i mortali / spinti come sono verso la prima essenzialità / che nell’antiterra riconosce … / l’insopprimibile incedere di forze discordanti». Per quanto il sottotitolo avverta trattarsi di ‘configurazioni del principio’, «nel carattere albale di vaghe sembianze», si ravvisa, almeno nelle intenzioni, un plausibile riferimento alla perdita delle ali da parte degli angeli caduti che ritroviamo sparpagliate un po’ dovunque. In ogni luogo dove, in contrasto con gli spostamenti tumultuosi che la ‘caduta’ dei corpi, al pari di meteore impazzite, di per sé conduce, si è ceduto a quella ‘pietas’ umana e divina insieme, atta a conservarne le spoglie e la memoria. È in questo senso che in “Edeniche” ogni locuzione va letta e ponderata a fronte di una forma poetizzante della trasformazione ‘divina’ dell’umano sentire:
‘la forma perfetta dei cieli’ nel carattere albale di vaghe sembianze proprie dello spirito che bagna la terra dove soffre ogni pena l’umano che appare è nota da tempo la compostezza dei morti pur se occultata sulla linea di faglia del moto affannoso di chi ancora vive ignaro della forma perfetta dei cieli
Ma noi non possiamo dismettere l’idea di una possibile intesa tra gli umani, propensi come siamo all’affrancamento della pena giustamente/ingiustamente inflitta, semplicemente perché non ci è concesso dalla violenza delle necessità cui siamo sottoposti, onde per cui ‘il cantiere dell’uomo’ “nell’atto di sottrarsi all’apparenza”, rimane attivo “per bandire il vuoto dal giardino”:
‘il cantiere dell’uomo’ ha voci ovunque il cantiere dell’uomo nel richiamare alla mente la casa natale che spinge l’esule a uno stato di sconforto in quanto elemento destinato alla fine mentre più inerte si va facendo il preumano per l’estendersi del male tra le forze discordanti la cui violenza impedisce al giusto di tornare privo di ali com’è alla volta del regno.
In fine ècco due libri di recentissima produzione letteraria: 'La scatola di latta' (*) il fantasmatico volumetto scritto e illustrato da Paolo Donini che ha messo a punto una sorta di gioco prezioso, utilizzando 'l’alchimia di una fiaba moderna' capace di affabulare il lettore. È così che rapito nella lettura mi sono ritrovato …
'Nello sperduto paesino di Ics, fra morbide colline ondulate come le pagine di un libro...' Così come ha fatto l’autore di questo ‘delizioso’ piccolo libro (nel formato), ma grande per contenuto che è “La scatola di latta”, enome, immensa quanto l'universo. Tuttavia più che raccontarvi la ‘fiaba’ adatta a grandi e piccini, ho scelto di parlare delle ‘tavole sinottiche’ (i disegni) che Paolo Donini ha incluso nel suo libro a incominciare dalla copertina … la storia narrata verrà poi da se e/o potrete sempre leggerla direttamente, ma non senza esporvi a un qualche ripensamento sull’evoluzione della vostra crescita, sulla maturità acquisita, sul rapporto con gli altri e col mondo che ci sta attorno.'Siete pronti? Allora andiamo a incominciare!':
Tutto ha inizio con un punto, anzi da 'il punto' (((.]]] Certo così incorniciato può sembrare di stare a parlare di un’opera d’arte. Ma è così, forse non avete considerato che ‘lui’ è all’inizio di tutte le cose, il ‘punto’ focale di ogni dimensione: in algebra, in geometria, in architettura, nell’arte più in generale, ma anche nel linguaggio scritto e/o in qualche modo sottinteso, allo stesso modo del linguaggio parlato, di cui 'il punto' sta al centro dell’Universo. Si pensi per un istante a come Michelangelo Buonarroti ha suddiviso in riquadri, vele e rombi la Cappella Sistina, se non fosse partito da un punto 'iniziale' del suo capolavoro (?), c’è da rimanere sbalorditi. Il pregio di Donini sta nell’aver individuato una ‘formula grafica’ che coglie l’occhio e ci dice che siamo approdati in territorio alieno: analogico, semiotico, ermeneutico, sembolico, filosofico, immaginale. Non c'è niente di più significativo dell’anima cosmica cui il ‘punto’ appartiene, nel suo insieme ordinato che si esplica nel significante, pur restando nei limiti dell’interpretazione linguistica e della scrittura grafica. Un 'significare' le cui coordinate si dipartono '..frementi di virtualità, suscettibili di prendere forma' (*) nell’ordine del linguaggio che compongono, dando luogo a una sequenza e a una dipendenza ritmica: mettere/levare – pieno/vuoto – presenza/assenza: quale oggetto e/o soggetto di un sostantivo che apre a nuove prospettive simboliche, e che rimandano '..come suggeriva la definizione classica, ad una facoltà del conoscere'. (*) Dacché ‘il punto’ prima ancora d’essere un segno grafico ha un potere figurativo da cui nascono le figurazioni costruttive della nostra creatività. 'Quella sera il piccolo poeta cenò prima del solito, si infilò a letto e si addormentò ...'
È qui che l’immaginale creativo riflette della genesi polimorfa dei segni/simboli che appaiono oggi sulla nostra tastiera visiva, fuoriusciti dall’ 'ermeneutica formale' con cui abbiamo riempito il ‘vuoto’ (solo apparente) della nostra 'scatola di latta'. Ma torniamo per un momento al ‘gioco’ iniziale: cioè all’interpretazione del ‘punto’ nell’immanenza del senso, e concepirlo come qualcosa che va oltre il significare di ogni contenuto concreto. Proviamo dunque a leggere la ‘tavola sinottica’ di copertina, incrociandone e traducendone i simboli contenuti, pertanto: 'Quando @ incrocia sulla sua strada asterisco * gli sovviene qualche dubbio …. che fin da subito si trasforma in domanda? V vuoi vedere che dalle parentesi ( ) sono fuggite le doppie virgolette' 'cui fa seguito, in percentuale %, che @ si preoccupa non poco di dove siano andate. V vuoi vedere che certi loro compagni & un poco birichini, veduta la bella giornata di sole hanno boicottato la Scuola per andare a giocare sui prati delle colline di Ics? Ò, che qui sta per ‘ops’, e si vuole che sia proprio così. E mentre di notte c'è un Poeta che s'ispira all'amata luna, di giorno c'è un grillo che canta senza posa. Così, fra una nuvoletta bianca che vaga nel cielo, c'è un certo Vento che arriva a scombinar le fila delle Parole, e volendo, compare un aquilone Д (intravisto di profilo) che zigzagando innalza i loro cuori e rende festosa l’allegra & compagnia'. ©
Potete anche non crederci ma 'Ics' (non X), la bella ‘favola di latta’ di Paolo Donini esiste davvero, ma non cercatela in nessuna cartina geografica, perché non la troverete. Cercatela nella soffitta dei ricordi, allorché sfogliando le pagine, forse solo un poco impolverate, v’accorgerete di non aver mai smesso di scrivere di voi, dei vostri sogni, delle illusioni, delle sconfitte e delle risalite, e che infine converrete con me, che il confronto con le brutte favole di oggi, vale una rilettura critica, per quanto benevola su ‘chi siamo?’ e ‘dove stiamo andando?’ in questo nostro mondo altero. (*) I corsivi nel testo sono di Paolo Donini. Paolo Donini, scritore, saggista e critico d'arte e letteraria si occupa di curatela di mostre e di spazi espositivi, è inoltre autore dei disegni presenti nel volume che bene si incastrano con la grafica, il formato, nonché la cura editoriale di questa pubblicaszione. Sue sono tre raccolte di poesia 'Incipitaria' (Genesi Edit. 2005); 'L’ablazione' (La vita felice 2010); 'Mise en abîme' (Anterem Edizioni 2016). È vincitore inoltre del del Premio Lorenzo Montano ‘Opera Edita’ 2011.
'Enne'… le mille + una volte del quotidiano essere. Un libro di Valentina Durante – Voland 2020
Mio Caro Enne … ovvero costruzione e decostruzione di un personaggio apparente, necessario nello scrivere in italiano a coprire la carenza grammaticale del tempo neutro in cui si apre la scena di questo libro solleticante (quanto appetibile) le velleità del lettore curioso. Eh sì, perché Enne è qui utilizzato come fattore scrittorio che potrebbe non esistere nella realtà e che, anzi, non esiste in nessun’altra concretezza attoriale dall’autrice, che lo adopera per dire ‘enne persona’, ‘enne volte’, presente in una ‘enne-sima’ situazione in cui si rende necessario il suo impiego. Mi avvalgo qui dell'accezione che l'autrice fa nel definire ‘impiego’ l’attività svolta dal personaggio che si va man mano delineando all’interno di una sciarada di situazioni fittizie (a non voler dire superficiali quanto metodiche del quotidiano), che pure prendono corpo nel corso della costruzione oggettiva del libro, frutto di una scrittura creativa verosimilmente istantanea, a voler rimarcare la maniacale intermittenza fotografica (in 'Enne-due'), lì dove l’operato del fotografante e del fotografato si vuole coincidano … 'per avere una restituzione reale di noi stessi'. È qui (in questo passaggio minimale), che l'autrice coglie in pieno l’annosa e mai risolta prolissità della filosofia odierna, intenta com'è a decifrare i gesti del quotidiano e trasformarli in concetti che esulano dalla sua missione originaria. Ed è ancora qui che ha inizio la costruzione del personagio ‘Enne’ e, al tempo stesso, la sua de-costruzione, in ciò che molto probabilmente serve da supporto al 'narratore'. Ma siamo ancora al congetturale, ben presto si scoprirà che ‘Enne’ è ciò che non vuole essere e/o ciò che l’autrice presume di voler essere (che lei è in segreto), ovvero una 'Oblomov' (*) al femminile. Chissà che tutto questo non corrisponda poi a quanto affermato dalla stessa Valentina Durante… 'Eppure, per il modo in cui ho scelto di vivere, non avrei potuto desiderare di meglio'. Il che coincide con quanto intercorre tra ‘nominalismo’ e ‘realismo’ nei 'Tipi psicologici' (*) di Jung; e tra ‘finzione’ e ‘realtà’ nella costruzione cosciente de “Il sé viene alla mente' (*) di Damasio, integrati da nuove e più complesse sequenze … «..quella sull’incidenza delle emozioni e dei sentimenti come ponti connettivi tra il proto-sé e il Sé; quella sul discrimine tra percezione e rappresentazione degli eventi interni ed esterni al nostro corpo come base biologica, unitamente alla memoria, nella costruzione dell’identità individuale.» (Damasio) Per quanto, il dualismo ‘apollineo-dionisiaco’ non sia mai venuto meno, la scelta di ‘Enne’ riflette, suo malgrado, dell’individualità specifica del quotidiano a cui tutti facciamo ricorso, cioè una fuga dall’essere e da quella 'società liquida' (Bauman) che ci costringe a vivere dipendenti dall’ambiente e dai '..limiti delle nostre strutture cognitive'. Dacché, avverte ancora l’autrice: 'Non sono i nostri comportamenti ad adattarsi alla realtà, non siamo noi a concepire idee compatibili con l’ambiente che ci circonda; è piuttosto la realtà che, per limitatezza del possibile, elimina tutto ciò che non è vitale'. Un 'Fuggire da sé' (*) impresso «..nella tentazione contemporanea di imprimere un'affermazione permanente per una continua reinvenzione della vita.» Siamo certi che sia così? Il dubbio si pone nella formulazione di una domanda condivisa, si tratta di '..una sopravvivenza migliore o peggiore' di un qualcosa che affligge il quotidiano, quella dettata dalla '..selezione ‘Enne’ che non agisce mai in senso positivo preservando le idee e i comportamenti più idonei, bensì in negativo' (?); i cui ..comportamenti e le idee che non resistono alla prova di vita, che poi è una prova di verità attraverso l’efficacia, periscono', oppure (?)... L'altro relativo dubbio viene dal seguente brano (in Enne-tre): 'Ma non c’è sempre qualcosa di torbido, di malevolo, in tutti i nostri comportamenti? […] Ebbene, sono di fronte a una delle scelte più difficili che esistano: quella fra due azioni che rappresentano un rimedio, e per lo stesso motivo un danno'. Per quanto a questa domanda non vi sia risposta che tenga, il dubbio rimane sincretizzato nel Sé apparente del personaggio, nel dualismo reale/irreale della sua essenza: se figlio spurio di una creazione letteraria (a tavolino); oppure rivelazione oggettiva (meditata) di un Sé antropomorfo. E ancora: se nel ‘tempo storico’ della sua affermazione 'Enne' dia forma al contenuto di un diario tout court, (sebbene l’impostazione voglia farlo sembrare); oppure di un vademecum rivestito di filosofia (?), pur tralasciando ‘la percezione visiva come attività conoscitiva’ (Arnheim), che dal quotidiano vivere si spinge alla ricerca delle ragioni intrinseche del ‘profondo’ derridiano dei 'Luoghi dell’indecidibile' (*), così come dello spazio storico e simbolico della verità ... «..La verità (intesa) come luogo in cui il soggetto si chiama ad una sovranità e ad una responsabilità irrevocabili e incolmabili; l’indecidibile come ciò che è all’opera nel senso, che fa del dire, della lingua, della scrittura, qualcosa di più ampio di quello che la presenza, l’intenzione o la semplice percezione potrebbero esprimere.» (Derrida) È quanto affermato con tenacia in questo libro da Valentina Durante che, pur entrando di straforo nel meccanismo contorto della riflessione filosofica, affida all’intuizione del lettore più attento, con un linguaggio scorrevolissimo dall’impatto cordiale, come per uno scambio epistolare, in cui con 'Mio caro Enne…' pure apre a un colloquiare ‘intimistico’ ricco di sottigliezze espressive, di aggettivazioni simboliche, di gesti abitudiniali e consuetudini maniacali che finiscono per procurare la vertigine nel lettore. Quelle stesse che nella semplice espressione prosaica (non di meno poetica), raggiungono nella narrazione quella piacevolezza in cui il silenzio si sostituisce alla parola '..il modo migliore per capire chi siamo, la maniera per avere una restituzione reale di noi stessi'. Non per questo 'Enne' può dirsi un libro consolatorio malgrado le sue ‘mille+una’ sfaccettature, quanto poetico-illusorio, allorché il/la protagonista (in ‘Enne-tre’) rivolgendo lo sguardo dal finestrino del treno immerso nel buio: '..avvolgerà i campi, le case, le fabbriche, le chiome degli alberi, le automobili e le persone, nascoderà tutto, interrotto solo da punti luminosi: arancioni e bianchi, verdi e rossi, le finestre delle case, l’illuminazione delle aree industriali, qualche semaforo'. Un buio lucido che nell’essere rivelazione lessicale del gesto (il guardare avvolgente), s’apre in pensosa assenza nel secretum della coscienza individuale, illuminando quei comportamenti di natura morale che, diversamente, porterebbero alla verità dell‘indecidibile’ derridiano, di quella «..verità come luogo in cui il soggetto si chiama ad una sovranità e ad una responsabilità irrevocabili e incolmabili; l'indecidibile come ciò che è all'opera nel senso, che fa del dire, della lingua, della scrittura qualcosa di più ampio di quello che la presenza, l'intenzione o la semplice percezione potrebbero esprimere.»
È così che 'Enne' pur essendo tendenzialmente un/una ‘oblomovista’ si riscatta da un atteggiamento ozioso e sterile, vivendo per così dire, o se vogliamo, sopravvivendo, affetto da patologia filosofico-letteraria propria dell’inguaribile idealista, senza paure e senza aspettative, nella pienezza della libertà acquisita, o forse solo ritrovata (?), pur nella consapevolezza che non esiste un mondo migliore. Ma il gioco verbale continua, riprende da dove è iniziata la sua costruzione, avvenendo subito dopo (in Enne-quattro) alla sua de-costruzione. Cambia la scena, il buio rimane, il lucido iniziale si screzia di pioggia, la visibilità nell’abitacolo dell’auto scema: 'Noi crediamo di vedere, […] noi soprattutto sentiamo'. Per quanto sentire è la forma primaria dell’immaginale individuale e collettivo, concepimento del fantasticare dei sentimenti, del desiderio talvolta recluso che si porta in superficie malgrado una qualche volontà contraria lo sospinga sul fondo; e che, più spesso, porta allo sdoppiamento della personalità, in cui il Sé ricompone il proprio dualismo originario 'l‘io e l’altro', le due faccie della stessa medaglia, e finisce per incorporare in sé 'Il dottor Jekyll e Mr. Hyde' (*), nel suo sostenere che l’essere umano è diviso a metà tra il bene e il male. 'Enne', in quanto personaggio, non sta nei panni dell’uno né dell’altro '..l’unica conoscenza possibile è quella simbolica, che procede per somiglianze e immagini'. – Questo l’autrice lo sa bene, che - 'Non esistono realmente cause o effetti, come non esistono cose che possiedano proprietà intrinseche. Possiamo però considerare i fenomeni (che le regolano) ‘come se’ producessero effetti, e le cose ‘come se’ avessero proprietà, in modo identico, cioè, alla loro rappresentazione'. Ma quella che forse è solo l'istanza dettata da una inderogabile necessità, fa di 'Enne' l’equivalente di un sognatore/trice ad occhi aperti: '..la confortevole illusione di un mondo provvisto di senso' che nella realtà non esiste: 'Lo so benissimo – scrive Valentina Durante e possiamo dedurre che sia vero – che quel viaggio in treno (e qualunque viaggio sia di seguito narrato) per come l’ho immaginato, non è avvenuto e non avverrà mai. Eppure la mia supposizione – il 'come se' – resta formalmente valida. Considerala, se più ti piace (Caro Enne lettore), un punto di vista soggettivo dal quale leggere i comportamenti umani'. Dacché, come commentatore, trovo il mio punto d’arresto, tutto quanto potrei aggiungere in seguito sarebbe comunque basato sul susseguirsi di una supposizione dietro l’altra, di eventi intrappolati nel 'tempo ipotetico' della narrazione. Nel prosieguo l’autrice mi ha preso per mano conducendomi 'ab aeterno ad infinitum' dove ha voluto, formulando domande su domande sulle quali tante volte anch'io mi ero soffermato, tuttavia senza trovare risposte adeguate. Ma non potevo trovarle, perché ero cieco, non vedevo più in là della mia immagine. Infatti scrive ancora l'autrice... 'Solo ora mi accorgo che sono gli occhi. Sì la differenza rispetto a tutti gli altri autoscatti archiviati nel mio computer, nessuno eccettuato, sta certamente negli occhi, (chiusi nel silenzio della sua scatola), e quando ... Mi avvicino allo schermo. La sua luce azzurrata mi sfarfalla in faccia. Mi avvicino ancora. Poi ancora. E finalmente lo vedo nei miei occhi, stasera, c’era uno sguardo bellissimo'. È il mio. ‘Enne’?
Quindi dove sono le risposte? Si chiederà perso il lettore attento. Sono contenute nelle pagine del libro che Valentina Durante ha scritto per il piacere di tutti. Sì, per quei molti lettori che increduli, forse, in fine, usciranno convinti che le risposte erano già verosimilmente in noi.
L’autrice Valentina Durante, è copywriter e consulente di comunicazione freelance, ha lavorato come ricercatrice di tendenze coordinando per la Camera di Commercio di Treviso un gruppo di stilisti, designer, artisti, progettisti e fotografi. Il suo primo romanzo “La proibizione” è uscito nel 2019 per l’editore Laurana. Suoi racconti sono stati pubblicati su varie riviste letterarie e non, tra cui 'Leggendaria', 'Altri Animali' e nella raccolta 'Polittico'. Dal 2019 collabora con la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi. 'Enne' è pubblicato da Voland 2020.
Buona lettura e buon ascolto a tutti voi con l’augurio di un più sereno 2021.
Id: 785 Data: 04/01/2021 07:44:27
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- Musica
New World-Jazz-Music con Mauro Sigura Quartet
The ‘Magic’ of Mauro Sigura Quartet, CD S’ARDMUSIC - EGEA 2020. Con Mauro Sigura (oud, bouzouki), Gianfranco Fedele (piano, dronin, elettronica), Alessandro Cau (batteria, percussioni), Tancredi Emmi (contrabasso, basso elettrico), featuring Luca Aquino (tromba.
Che il Jazz sia il compendio estremo del suono, capace di una perfetta esternazione focale dell’intima passione degli strumentisti per la musica (di tutta la musica), è di per sé assodato, in quanto non solo contiene l’insieme dei suoni ma li ricrea, liberandoli così dalla cornice del tempo che li vuole etichettati in questo o quel genere, trascurando a volte, tutto quanto è all’origine stessa del suono che produce, la capacità umana di catturarne l’energia creativa e trasferirla in immagini oniriche. È quanto si concretizza in questo secondo album discografico dell’ensamble Mauro Sigura Quartet dal titolo programmatico “TerraVetro”, d’ispirazione World-Jazz strumentale che dalle sponde del Mediterraneo s’inoltra nel cuore dei Balkani, alla ricerca ‘empatica’ della migrazione dei suoni, trasferendo l’idea iniziale del 'viaggio attraverso', nella metafora dell’ 'incontro con', dell’abbraccio virtuale con i popoli e le culture che incontra, per una performance energica e vitale…
Nascono così le atmosfere di ‘Mistral’ dedicato al vento di Nord Ovest (Maestrale), che spazza via l’atmosfera statica, le nuvole sospese sopra il pianoro e porta il nuovo, aprendo a spazi di creatività inusitati; di ‘Carthago’, quale omaggio rivolto alla città mitica che affaccia sul Mediterraneo e al suo intimo legame con la terra in cui viviamo, quella Sardegna che tutti (compreso chi scrive) portiamo nel cuore. Così come ‘I muri di Ceuta’ (enclave europea in Africa), un brano afferente ai muri realistici come appunto è quello di Ceuta e i muri mentali e culturali che andiamo costruendo a difesa di noi stessi. E quel ‘Requiem per il Calderone’ dedicato alla memoria del ghiacciaio più a Sud d’Europa “..a cui l'inserimento della ‘tromba’, risuonando nell’immenso spazio lasciato vuoto dal nevaio ormai disciolto, richiama alla memoria ancestrale l'esistenza di un Eden perduto”. (*)
È dunque nella risonanza degli strumenti che più si evidenzia la ‘magica’ essenza della musica che si sprigiona dagli otto brani contenuti ‘in-vivo’, in cui il Quartet entra in sintonia con l’ascoltatore, e non solo quello dei fan del jazz tout cour, quanto, per essere più pertinenti, quello del popolo della World-Jazz-Music. Una precisazione necessaria per meglio cogliere l’insieme del loro ‘sound’, la cui alchimia raggiunge il suo ‘focus’ nella teoria speculativa-filosofica messa in atto dall' ‘amore’ di ognuno per la musica, la professionalità e l’impegno che più evidenzia lo scopo del loro ‘viaggio’ musicale e, non in ultimo, la compiutezza raggiunta della loro creatività artistica, com’è rivelata nei brani riflessivi sui diversi temi. Quale, ad esempio, ‘Listen, Noodle’ scritto da Gianfranco Fedele, d'impostazione ‘poetica’ sul mistero dell'amore, fatto della stessa sostanza della vita meravigliosa e inafferrabile quanto autoreferenziale, non codificabile tramite i mezzi della logica razionale. E ‘Ad un solo passo’ con il quale il Quartet immagina le tante emozioni che si provano quando da una nave, di notte, s'intravedono le luci del vicino approdo, metafora dell'andare verso una nuova vita, che è sì la salvezza ma anche l'incertezza dello stato d’animo di chi si trova ad essere vicino alla realizzazione di un sogno o, comunque, vicino a un cambiamento importante, quel “l’attimo prima” di coglierne il senso ...
Un 'viaggio' che inevitabilmente prende avvio dalla Terra, poteva essere diversamente? E che, quindi, si avvale dell’allegoria della solidità della materia, della forza traslata nelle sonorità precipue della natura e nei 'ritmi' felicemente ricreati da Alessandro Cau (percussioni). Per poi spingersi a ricercare la fragilità del Vetro nei timbri liquidi del ‘piano’ di Gianfranco Fedele, fino a cimentarsi nel costante dueling sostenuto dal ‘contrabbasso’ di Tancredi Emmi che fa da collante dell’intero ensamble, e che le note melodiche del ‘liuto’ (al-oud, trasposizione araba dal persiano antico), di Mauro Sigura, congiunge: “..portando a consuonare tutto ciò che è capace di vibrare, o almeno di far oscillare ciò che è suscettibile di vibrare”. (*) Dacché, in fine, gli ’inserimenti' della tromba di Luca Aquino, aggiungono di misura un tocco di contemporaneità alle sonorità d’insieme dei brani, altrimenti esposti a una catalogazione dal gusto retrò, quasi “..una sorta di melancolia assopita delle note” (*), tra l’altro bella e suggestiva, cui il tono aulico dell’oud, magistralmente suonato da Mauro Sigura, inevitabilmente porta con sé dai secoli passati. La ‘magica’ sonorità del oud ben si rivela nel brano d’apertura ‘Desir’, liberamente ispirato a "Le città invisibili" di Italo Calvino, in particolare al capitolo "Le città e il desiderio", da cui il titolo: “Ho immaginato il desiderio come un qualcosa in costante divenire che non e' mai allineato perfettamente con la realtà” - scrive Mauro Sigura nelle note di presentazione all'ambum... Del resto la storia di questo strumento si presta per un confronto di almeno due diverse espressioni culturali in cui Oriente e Occidente, seppure con le diversità che ne conseguono, in fine s'incontrano sul piano del linguaggio universale della musica tutta. Infatti, non è un caso se lungo la traiettoria del ‘viaggio’ intrapreso dal Quartet, avveniamo sorprendentemente alla metafora del tanto auspicato ‘incontro’ che si spinge dalla Sardegna a Cartagine, dalla Grecia alla Turchia, dai Balkani alla Romania, non come recupero o contaminazione, quanto, se vogliamo, come ‘retrogusto’ di sapori autentici, la rielaborazione di un profumo conosciuto da sempre, fosse anche quello del “pane tagliato e condiviso”.
Una metafora, forse, di quel incanto/disincanto in cui la musica si conduce e che ogni volta che l’ascoltiamo impone il suo effetto trascinante da uno stato di incredulità o di smarrimento, a quello della 'gioia di vivere' al cospetto di una verità più grande, suggestiva quanto indefinibile. Come è detto “in principio erat verbum” (*), lo stesso che tuttavia a noi moderni ancora sfugge: il cielo della World-Jazz-Music come modello culturale del mondo in cui viviamo. Un mondo alquanto instabile, in cui la 'solidità’ della Terra sotto i piedi, offre l'opportunità per restare, mentre lo spirito d'avventura e/o di cambiamento suggerisce di voler andare. Una crinatura che lascia spazio alla fragilità del Vetro di cui s'avvale la nostra più intima 'realtà’, assai diversa dalla 'realtà' di chi attraversa il mare in cerca di un porto cui attraccare i propri sogni, nell'incertezza di una ragione per cui valga la pena di partire, di lasciare tutto per ‘migrare’ altrove. Ma ogni sogno, come ogni viaggio, presenta anche un lato fragile, incerto, contro cui spesso naufragano le speranze. È questo il tema alla base di ‘The Secret Conflict Of Pireo’ dedicato agli esuli greco-turchi che dopo la guerra tra Grecia e Turchia (1919-1922), a seguito dello scambio di popolazioni furono trasferite nei campi profughi e proibito loro di suonare le musiche delle loro tradizioni e quindi: "Dedicato ai musicisti di quelle comunità che pure hanno continuato a suonare clandestinamente le loro musiche, le antiche ‘arie’ del Pireo, ai quali tutti noi abbiamo voluto fare un sentito omaggio sonoro" (*). A seguire ‘Dromo’ (corrispettivo nella musica greca del makam arabo-ottomano) in cui è utilizzato uno strumento a corda suonato con l’archetto, l'assai raro ‘dronin’, nella virtuosa esecuzione di Gianfranco Fedele, con il quale si è voluta ricreare l’atmosfera "instabile e disordinata, inquieta quanto riflessiva", in cui versa il migrante, così come il profugo e l'esule da ogni dove, qui ripresa come tema di fondo di una realtà sociale che si ripropone costante all'attenzione dolente dell'umanità intera. Un ascolto emozionale dunque, quello qui proposto dai componenti il Mauro Sigura Quartet che non mancherà di sorprendervi. Non resta che augurarvi Buon 'viaggio' nel mondo globale della World-Jazz-Music.
Mauro Sigura Quartet ha già prodotto un primo disco “The color identity” (S’ARDMUSIC-EGEA) presentato in-concerto nei diversi paesi dove si sono esibiti: Italia, Tunisia, Norvegia, Giappone, Germania, Serbia, Romania ecc.., ben accolto dagli estimatori e dal pubblico di diversa estrazione culturale dedito all’ascolto della musica, e se vogliamo, ‘di tutta la musica’ estemporanea che va sotto l’egida della World-Jazz-Music.
Note: (*) Le note a capo dei brani di “TERRAVETRO”, S’ARDMUSIC-EGEA 2020, sono di Mauro Sigura. (*) Marius Schneider, “Il significato della musica”, Rusconi 1970. (*) Giorgio Mancinelli, “Musica Zingara. Testimonianze etniche della cultura europea”, MEF - Firenze Atheneum 2006. (*) Profeta Ezechiele, Bibbia di Liegi.
Contatti: Personal e-mail: thecolouridentity@gmail.com https://www.maurosigura.it/contatti-2/
Id: 781 Data: 11/12/2020 18:44:15
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- Scienza
Coscienza Quantica - il nuovo libro di Alberto Lori
COSCIENZA QUANTICA Un percorso quantistico di sviluppo evolutivo.
Alberto Lori ci offre un grande dono: ci fa comprendere la bellezza della Scienza e della Coscienza unite. Non possono esserci due cose separate: la scienza da una parte e la coscienza dall’altra.
“Tutto è uno”, ci ricorda Alberto, attraverso le dimostrazioni matematiche della fisica contemporanea e la saggezza dell’antica spiritualità che affronta questi temi con il coraggio, la determinazione e la lungimiranza di un altro grandissimo genio: Carl Gustav Jung. C.G.Jung aveva compreso molto bene la fisica dei quanti, anche grazie alla sua amicizia con Wolfgang Pauli, premio Nobel nel 1945 per la meccanica quantistica.
Indice Prefazione a cura di Giovanni Vota.
Capitolo 1 - Tutto cominciò per una lampadina: il nuovo paradigma della fisica • Il contributo di Planck e Kirchhoff • L’ausilio degli oscillatori • Boltzmann, De Broglie, Feynmann e Bohr • La scuola di Copenaghen • L’importanza dell’osservatore
Capitolo 2 - Viviamo di paradossi: l’indeterminismo degli esperimenti “su campo” • Il curioso gatto di Schrödinger • Wheeler e la doppia fenditura • Località e non località, “questo il problema” • “L’assist” dei testi sacri • Il potere che ti appartiene • L’apporto di Giuseppe Genovesi, istoni e DNA • Intenzione come Causa mundi
Capitolo 3 - In rotta di collisione o nella direzione di un auspicabile sincretismo? • Visioni opposte o complementari? • Computer cerebrale • Il dilemma sulla coscienza e il cervello olografico • Penrose, Hameroff e Haramein
Capitolo 4 - La Coscienza non locale • Coscienza: a che punto siamo? Un po’ di dietrologia • L’uovo, la gallina e il primato della nascita • Amit Goswami e la fisica delle possibilità • La connessione biunivoca tra cuore e cervello • Huygens e gli orologi a pendolo • Conclusioni
Capitolo 5 - La struttura del Vuoto • Vacuum, non solo un latinismo • I capricci dell’elettrone • Meccanica quantistica versus Relatività generale • Olofrattalità dell’universo • Geometria sacra, sezione aurea e PHI • Dalla sfera al toroide
Postfazione a cura di Carmen Di Muro
Alberto Lori speaker del giornale radio RAI, poi conduttore del Tg2 RAI; in seguito redattore del telegiornale Contatto di Maurizio Costanzo alla PIN della Rizzoli; collaboratore de’ Il Giornale dei Misteri di Giulio Brunner e di Mondo Archeologico di Mirella Rostaing Casini; ha diretto Immagine Italia, rivista trimestrale di carattere turistico; il settimanale ASI, Agenzia Sanitaria Italiana; Quasar, il primo mensile italiano di scienza alternativa. Coordinatore di Dimensione Uomo, gruppo d’informazione, divulgazione e ricerca scientifica, è giornalista freelance e voce di documentari e rubriche TV di successo come: Mixer, Ultimo Minuto, SuperQuark, Sfide, La Storia siamo noi.
È stato autore e conduttore dei programmi su RadioRadio Sempre di domenica e Attenti al lupo. Diplomato Practitioner e Master advanced in PNL all’ISI-CNV di Marco Paret e in Sviluppo delle Risorse Umane all’HRD Academy di Roberto Re, si è specializzato in PNL seguendo i corsi di Anthony Robbins, di Richard Bandler, e in psicologia quantistica con lo psicologo Ilio Torre. È stato docente di dizione e pronuncia italiana nell’ambito del Corso di Giornalismo della Luiss. Ha curato la comunicazione dei dirigenti, comandanti e istruttori del corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, dei giornalisti dell’Ansa, dei piloti Alitalia.
È autore di numerose pubblicazioni di psicoquantistica e comunicazione.
Id: 773 Data: 05/09/2020 05:20:11
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- Filosofia/Scienza
Stanislas Breton Simbolo, schema, immaginazione
STANISLAS BRETON “SIMBOLO, SCHEMA, IMMAGINAZIONE” - Saggio sull’opera di Rubina Giorgi. Edizioni Ripostes 2020. Introduzione di Carlo Di Legge Traduzione dal francese di Salvatore Violante.
Dall’Introduzione. «Le scarpe consumate di Van Gogh, che Heidegger commenta, rievocano la comunione dell’uomo con la natura, la sua fatica e il suo riposo, la sua aspettativa dalla terra e dal cielo, la sua speranza nella visita degli dèi.» S. Breton
Inseguire un schema speculativo nel campo della filologia linguistica che fin dai primi enunciamenti potrebbe risultare infruttuoso, è di per sé cosa ardua da affrontare, soprattutto se a proporlo è uno stimato filosofo francese di tendenza teologico-cristiana qual è Stanislas Breton, che l’ha dedicato alla ‘riflessione sul simbolo’ della poetessa e scrittrice Rubina Giorgi, alla quale, come enunciato nel titolo, ha rivolto questo suo saggio. Con ciò, per quanto qui ci si avvalga dell’accurata traduzione dal francese di Salvatore Violante poeta e critico letterario e, della saggia introduzione di Carlo Di Legge che ne specifica, passo-passo, i diversi capitoli proposti, fin da subito si giunge a confrontarci col pensiero analitico afferente alla ‘psicologia del profondo’ evoluta di C. G. Jung, una delle principali figure intellettuali del pensiero psicologico e psicoanalitico, tutt’ora oggetto di apprendimento. Una proposta di lettura e/o di rilettura questa che, stando almeno nelle intenzioni dell’autore, guarda all’insieme del pensiero in ambito linguistico a lui contemporaneo. Breton, infatti, rivolge una speciale considerazione alla simbologia di Rubina Giorgi, la nostra conterranea che ha svolto un’importante excursus, quanto più addentro all’ ‘ontologia formale’, attraverso l’aspetto delle forme e ai significati intellegibili, rivolto, soprattutto, alla funzione che il ‘simbolo’ riveste nel nostro mondo odierno: Scrive Breton: «Simbolo è ciò che, senza concetto, al di là o al di qua del concetto, fa dunque comunicare gli uomini tra loro e le cose tra loro. […] Molti indizi, oggi ci persuadono della necessità di tralasciare sia l’ontologia tradizionale sia la semiotica generale che l’ha rimpiazzata. Tra le opere che testimoniano questa insoddisfazione e che delineano, in modo fermo, lo schema di questo superamento, ce n’è una che abbiamo scelto perché ci sembra essere il punto d’incontro di diverse tendenze e di molteplici discipline: […] cioè la scienza filosofica dell’essere, afferente alla “metafisica platonico-aristotelica”.» […] Da cui l’affermazione: «La fine della metafisica, potrebbe essere l’inizio della simbologia.» Ne consegue l’individuazione, nell’ambito della ‘speculazione filosofica’, di uno ‘schema’ necessario nello studio della ricognizione scientifica, antecedente alla formulazione dell’ ‘ontologia formale’. Un metodo di apprendimento rivolto alla comprensione del ‘sistema significante’ che, come è anche detto nell’introduzione, rivolge la sua utilità allo studioso/lettore, nell’addentrarsi, seppure con non poca difficoltà, nella ‘materia significante’ ed accettarne i concetti e/o a condividerne le tesi:
«Si può, in diverse guise, seguirne l’evoluzione nella storia del pensiero, ma occorre premettere che un’aura di non detto e non pensato sempre accompagna ciò che del simbolo si esprime. […] Si può immaginare il simbolo come un oggetto spezzato in due frammenti, tra cui dunque s’apre un intervallo, uno spazio attraversato, percorso da una tensione ordinatrice, con sue leggi o quasi-leggi; esso viene rappresentato come “operatore di interposizione” che quindi, in quanto tale, “presuppone polarità e, tra gli estremi, un intervallo”. […] Si accetterà a rigore che tale disciplina era una “ontologia vuota”, o ancora una “logica dell’essere equivoco come oggetto d’interpretazione”. Ma dobbiamo subito aggiungere che tale essere equivoco deve la sua equivocità al fatto che il simbolo si muove nella qualità dei poli, nell’intervallo e nella condizione mediana del termine medio».(Breton) Nella specifica del ‘simbolo’ che Breton rende in modo quantomeno suggestivo oltre che rigoroso, si hanno in breve: due poli entrambi ricettivi, divisi da un intervallo vuoto e/o nullo (nihil) reso fruibile nell’immaginale (vedi Cobin, Hillman e altri). In primis va qui chiarito che il sussistere dell’ “approccio immaginale” nei confronti del ‘simbolo’, non esula da ciò che è fondativo nel “pensiero immaginale” riferito al ‘simbolico’. In breve, lì dove Breton cita Rubina Giorgi: «..il simbolico, come funzione di negazione e di distanza, non è vuoto perché è auto-riflettente, ma è auto-riflettente perché è vuoto. Il movimento dell’autoriflessione conferma questo vuoto.»
«Se autoriflessiva è la soggettività, e il vuoto è autoriflessivo, allora il vuoto sarà l’indizio della soggettività, del soggetto, sebbene non si tratti di soggetto – e del suo correlativo, l’oggetto – come si è abituati a pensarli […] secondo il concetto avanzato dalla fenomenologia husserliana la cui evidenza appare oggi problematica.[…] Per ristabilire l’equilibrio tra il causale ed il semantico, è necessario che lo schema elevi alla dignità di nuovi significati delle accezioni preliminari e convenzionali, che non sono del resto da concepire mai come cause propriamente dette, e le inserisca in una totalità originale dove esse prendano una valenza nuova.» Soprattutto quando questa è applicata all’intenzionalità dell’arte cui l’impersonalità dell’artista diventa abnegazione del soggetto nei confronti dell’oggetto. Un’esigenza speculativa messa al servizio della creatività, per cui – come scrive Carlo Di Legge: «l’abnegazione del me provoca (spesso) le rappresentazioni più raffinate dei molteplici recessi della soggettività.» Ed è ancora Breton che citando Rubina Giorgi nel suo ruolo di poetessa, ci avverte che «..una certa letteratura contemporanea potrebbe illustrare questa nota. Al momento in cui l’autore sembra scomparire nella tela anonima che si tesse tutta da sé, immaginiamo dietro le quinte il demiurgo che non è da nessuna parte perché è ovunque presente. Difficile sfuggire alla sua ombra.»
Onde per cui – aggiunge Breton – «L’opera d’arte dialoga, combina, assume e subordina quello che riceve inserendolo in una atmosfera misteriosa che gli assegna un senso di trascendenza. Lo schema come funzione d’intermediario, si precisa così: operazione schematizzante che seleziona e ritaglia su un preliminare gli elementi che esso ordina in una figura inedita; valore, nel senso linguistico del termine, che istituisce nel gioco dell’arbitrario, ma di un arbitrario regolato e regolatore, un sistema di differenze e di relazioni; simbolo, che non-realizza il reale radicandolo in un immaginario, di cui produce le forme ma per riaccompagnarle subito alla loro sorgente e per conferire loro, attraverso questa riduzione, una mobilità di pura fantasia.» Ma il passo poetico non si ferma qui, infatti Breton aggiunge che «..l’oggetto e il soggetto non sono fissati una volta per tutte. Bisogna assimilarli non a degli elementi invariabili ma a delle polarità reversibili. […] Nel suo movimento, il simbolo è soggettività in modo che specularmente (moto proprio del riflessivo), rimanda di continuo il soggetto all’oggetto e viceversa.» In ciò non v’è nulla di misterioso quanto invece c’è di speculare, in ogni singola istanza c’è sempre all’origine un’intenzionalità ricettivo-creativa propria dell’essere pensante (animale, vegetale, umano), afferente a una sorta di ‘energia’:
Energia «..di un singolare tipo che, non appena sembra acquietarsi in una forma, subito muove alla ricerca d’essere altro, per “un processo indefinito di proliferazione”. […] Questa proliferazione indefinita non è un accidente dovuto a una patologia dell’immaginazione. Non funziona come un cattivo infinito ma come una necessità essenziale. Ciò che Brouwer diceva del continuo numerico vale qui a fortiori: il simbolo si muove in un contesto di libero divenire […] per il suo potere sempre nuovo di auto-trascendenza.[…] Questa alterità fa parte della sua natura di ‘funzione simbolica’ nella quale si esplicita e s’interpreta.» (Breton) Difatti il ‘simbolo’ re-interpretato secondo Breton sulla scia delle avances di Rubina Giorgi equivale a un principio d’identificazione, l’affermazione stessa dell’individualità dell’essere antropico: «Ed anche questa energia è sospesa ad un irraggiamento originario che, aldilà dell’essere e della forma, si presenta come pura indeterminazione “per eccesso” di cui le figure sensibili e le forme intellegibili, come pure lo stesso movimento formativo, spiegano, in una lingua cosmica, l’inesauribile generosità.»
Pertanto siamo messi di fronte a un problema logistico che si vorrebbe risolvere, ma di certo: «Non (con) la logica formale classica dunque, ma (con) una logica che, tuttavia, consente di districarci, orientandoci nella selva delle somiglianze, e che paradossalmente presiede alla comunicazione e all’interpretazione, se interpretazione è sempre legata alla comunicazione: quello simbolico è, per quanto non possieda chiarezza né evidenza, il luogo che offre certezze, pur nella variabile molteplicità delle forme»: (Carlo Di Legge) «Il suo carattere polimorfo non gli impedisce (al simbolo) di assicurare la comunicazione tra gli uomini; non più del resto di quanto la sua ambiguità non lo condanni all’incomprensibile. Ad ogni modo questa comprensibilità si accontenta benissimo dell’equivoco e della pluralità dei sensi.» Pertanto giungiamo ad un’altra affermazione: «L’essere è la forma, attiva o passiva, che sfida ogni nostro gioco linguistico.» (Breton)
Come è anche detto nell’Introduzione, che «lo si riconosca o meno, questa è propriamente la nostra vita. […] Ci parla del nostro universo, dicendo che in esso ogni ente è in simpatia con ogni altro; ma non è questa, la dimensione della logica scientifica: non stupisce chegli scienziati non la ammettano, se non i più illuminati.» (Carlo Di Legge) Tuttavia l’equivoco menzionato è, secondo me, la conseguenza della ‘pluralità dei sensi’ che qui si vuole mistificare dentro il contesto simbolico univoco della ‘forma/immagine’ come punto di arrivo inconfondibile, contravvenendo alla tesi junghiana della sincronicità degli eventi che rendono la doppia polarità del segno inter-connettiva, dinamica stessa del linguaggio comunicativo di ‘reversibilità assoluta’, per cui vale la formula:
«Ciò che non ha forma prende forma, ma ciò che ha preso forma, a sua volta, può cambiarla.» (Breton)
Volendo a questo punto rientrare nello schema formulato inizialmente, dei: “due poli entrambi ricettivi, divisi da un intervallo vuoto e/o nullo (nihil) reso fruibile nell’immaginale”, approdiamo con più facilità a individuare i rapporti che intercorrono tra ‘simbolo, schema, immaginazione’ definiti nel titolo del libro: «Oggi si sarebbe tentati di riservare lo studio a questo insieme di discipline abbastanza privo di rigore che si chiama “semiotica”, perché si occupa di segni, di qualsiasi natura essi siano, sia pure privilegiando lingua e linguaggio e con il primato e la guida della linguistica, che induce talvolta a subordinare l’antico ‘semeion’, nella plasticità delle sue accezioni, alla chiarezza e alla distinzione della parola scritta o parlata.» Tuttavia ciò non basta a seguire uno ‘schema’ di per sé farraginoso che induce alla antinomia delle trattazioni, allorché si avvale della speculazione filosofica per affermare alcuni principi solo apparentemente indissolubili che, per contrasto, trovano in altre discipline (e altri autori: Heidegger, Levinas, Lacan, Frigo ecc.) la resilienza di una specificità indelebile. Inoltre ai già citati Jung, Corbin e Hillman si prenda, ad esempio, l’epistemologo del pensiero ‘postmetafisico’ Jacques Derrida tra le cui opere figurano almeno due testi importanti anche per questa trattazione:
“Margini della filosofia” (1997) in cui l’autore si concentra sul problema dei limiti della speculazione filosofica, problema da sempre "interno" alla filosofia, che si è costantemente interrogata sulla sua portata e ragion d'essere. E l’altro, “Pensare al non vedere - Scritti sulle arti del visibile” (2016) in cui tratta delle arti come problematicità: “che si rifrange ogni volta in una molteplicità lontanissima dall'essere omogenea. Per quanto ciò che concerne il visibile, infatti, si tratta sempre, anche se in modalità differenti nelle arti e rispetto alla scrittura, della traccia, del tratto, di spettri, e dunque di un "vedere senza vedere niente". Per quanto, ciò che apprendiamo dal saggio di Stanislas Breton sull’opera di Rubina Giorgi assume valenza nella specifica dei sottocapitoli trattati: I: Simbolo, schema, immaginazione / II: Simbolo e Mediazione / III: Il problema dell’intervallo / IV: Immaginazione e Schema / V: Simbolo e Realtà. Nonché al rinvio a motivi di teologia a cui la riflessione simbologica si è ispirata. «Riferendosi a espressioni di Rubina Giorgi, Breton può evocare la parola ‘spirito’ in toni di “esistenzialismo religioso”» (C. Di Legge), forse più inerenti alla materia dogmatica per mezzo degli ‘schemi’ offerti alla speculazione intellettiva:
«Questa legge d’atmosfera che cinge di un’aureola il simbolo o piuttosto della qualesi cinge esso stesso, sarebbe come l’indicativo di trascendenza. Questa chiamata segreta a un “altrove” che ci lascia disorientati, questa continua trasgressione che ci impone un ascetismo dell’abbandono, non sarebbe , in ultima analisi, l’impronta del simbolico sull’essenza stessa dello spirito, se vogliamo ben ravvisare, sotto questo termine logoro, il respiro e la fiamma, di cui non si sa né da dove viene né dove va, ma che ci porta e ci condanna a non essere nessuna parte in tutti i luoghi che attraversiamo?» La domanda, così concepita, richiede una certa dose di riflessione prima di trovare una risposta adeguata, sempre che la si trovi. Nel tempo molti sono stati i pensatori di tutte le discipline che si sono spesi nella ricerca, e i più addentro hanno trovato una o più ragioni ‘speculative’ per arrivarci e che, nel loro mettere insieme formule filosofiche e alchimie linguistiche, infine ci hanno offerto motivo di credere in quel ‘mondo estremo’ e forse ‘unico nella sua unicità’, comprensiva della temporalità originaria di natura simbolica che ci troviamo ad affrontare, di un’era evolutiva che ci vede protagonisti inconsci di una mitica realtà che forse non ci appartiene:
«Ma è chiaro che il dilatarsi e l’esplicitarsi, messo in opera dallo schema e dall’immagine (rappresentati nel testo), suggeriscono una linea di sviluppo all’infinito che non copre tuttavia la perfetta omogeneità del tempo postulato. Il tempo dell’immaginario, come quello della storia che lo nutre, è al tempo stesso racconto che spiega e memoria che raccoglie. Tempo ciclico e tempo lineare si fissano quindi in un tempo più profondo, […] che la densità dell’essere, la pienezza che si insinua, in certi momenti che miracolosamente sospendono l’uniformità della successione che affiora nell’Opera, quando essa è veramente Opera […] che restituisce all’uomo , contro la minaccia di dispersione e l’inerzia della natura, la poesia di un’espressione autentica» …
“..il punto di condensazione di una realtà possibile”.»
L’autore. Stanislas Breton (Gradignan 1912-2005) fu teologo e filosofo francese. Entrato nell’ordine dei Passionisti, dopo l’insegnamento all’Università Pontificia di Roma negli anni Cinquanta, divenne professore di Filosofia all’Università di Lione e poi all’Università Cattolica di Parigi. Nel 1970 fu Maestro Conferenziere alla Ecolo Normale Supérieure: nominato da Louis Althusser, il primo filosofo cattolico a ottenere l’incarico. Stimato studioso del pensiero occidentale , con particolare riferimento ai testi della filosofia antica, e del pensiero contemporaneo attraverso l’esame dei testi e delle correnti più significative. Suoi testi in italiano: inoltrre a quello qui presentato, figura “Filosofia e Mistica – Esistenza e Super-esistenza” – Libreria Editrice Vaticana 2001.
Id: 772 Data: 26/08/2020 17:18:19
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- Musica
Vietri sul Mare e in Scena
Al via "Vietri in Scena": sei appuntamenti gratuiti con la musica nella Villa comunale di Vietri sul Mare
Mercoledì 8 luglio, alle ore 11,00 presso la Sala giunta di Vietri sul Mare si è tenuta la presentazione della quinta edizione di "Vietri in scena", la kermesse di spettacoli che si tiene ogni anno nel Comune costiero, alla presenza del sindaco Giovanni De Simone, dell'assessore alla Cultura e al Turismo Antonello Capozzolo e del direttore artistico della manifestazione, il maestro Luigi Avallone.
"Vietri in Scena segna l'inizio del ritorno della nostra bella cittadina alla vita culturale ed artistica nel senso più alto del suo significato. Inauguriamo l'estate vietrese nella Villa comunale per regalare ai nostri concittadini e a tutti gli ospiti che vorranno trascorrere delle serate all'insegna della buona musica, sei concerti gratuiti che ci daranno la gioia di riprendere la vita sociale e culturale dopo mesi di isolamento. E' un traguardo importante per la nostra comunità, soprattutto se si tiene conto del fatto che solo un mese fa sembrava impossibile programmare eventi sul territorio. Alla fine, fortunatamente, grazie anche all’esperienza del sindaco Giovanni De Simone e alla professionalità del maestro Luigi Avallone, siamo riusciti a mettere su una rassegna estiva di grande qualità, che certamente incontrerà il favore dei vietresi e di tutti i turisti che ci faranno l’onore di venire a Vietri sul Mare a trascorrere le proprie vacanze".
Il maestro Avallone ha annunciato che "In qualità di direttore artistico della manifestazione mi sento in dovere di dedicare questa edizione di Vietri in Scena alla memoria del grande Ennio Morricone, un genio della musica che è appena scomparso e che merita un segno di riconoscenza per le musiche che ci ha regalato: spero di inserire in queste serate almeno un brano a lui dedicato". La manifestazione a carattere musicale è stata realizzata in compartecipazione con il Conservatorio di musica di Salerno "Giuseppe Martucci". Sei gli spettacoli, tutti ad ingresso gratuito fino ad esaurimento posti, che si terranno nella bellissima e panoramica Villa comunale di Vietri sul Mare, nel pieno rispetto delle misure anti covid-19 prescritte. I posti disponibili per consentire le distanze di sicurezza sono 130. La manifestazione "Vietri in scena", condotta come ogni anno da Nunzia Schiavone, inizierà venerdì 10 luglio, per concludersi giovedì 30 luglio. Tutti i concerti avranno inizio alle ore 21.00. IL PROGRAMMA Venerdì 10 luglio - Dirty Six; Daniele Scannapieco - sax Tommaso Scannapieco - contrabbasso; Lorenzo Tucci - batteria Claudio Filippini - pianoforte Gianfranco Campagnuolo - tromba Roberto Schiano - trombone Martedì 14 luglio -The Caponi Brothers - "Swing & Soda"; Domenico Tammaro - voce Giuseppe Di Capua - piano Gianfranco Campagnoli - tromba/flicorno Tommaso Scannapieco - contrabbasso Vincenzo Bernardo - batteria Giovedì 16 luglio - Quintetto Martucci Gaetano Falzarano - clarinetto Tommaso Troisi - violino Olena Vesna - violino Francesca Senatore - viola Francesca Taviani - violoncello programma: G. Salieri,F.Danzi, W. A. Mozart Martedì 21 luglio - Trio di Salerno Sandro Deidda - sax Guglielmo Gugliemi - pianoforte Aldo Vigorito - contrabbasso Martedì 28 luglio - Duo Francesco Buzzurro - chitarra Giuseppe Milici - armonica Giovedì 30 luglio - Duo Daniela Del Monaco - canto Antonio Grande - chitarra canzoni classiche napoletane addetto stampa Claudia Bonasi - 339 7099353 - claudia@puracultura.it
Id: 771 Data: 14/07/2020 17:03:45
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- Poesia
Tirrenide - silloge poetica di Maria Grazia Insinga
"TIRRENIDE" ... nei ‘soliloqui poetici’ di Maria Grazia Insinga - Anterem Edizioni – Cierre Grafica 2020.
Un asterisco (*) a suddividere i ‘passi’ di soliloqui che avallano il silenzio a ‘forma’ compiuta e/o incompiuta di un dialogare estremo, definitivo, senza appello. Un passo dietro l’altro conforme a un prima e un dopo sospesi nella ricerca di un fil-rouge che investighi sul senso… “..era in era è e siamo l’intero”. Orme di piedi scalzi che sfiorano appena l’arenile e continuano sull’acqua nell’attraversamento del mare dell’esperienza, da una sponda all’altra incerte, eppur ferme, sì da lasciare il segno del proprio passaggio, quasi di involo predestinato, inappellabile…
“..e del dopo e sul dopo diremo tanto / e tanto diremo è tutto dopo / ora e non saremo e mai”.
Lo si direbbe un voluto richiamo a note marginali, all’omissione di un concetto che sfugge all’indagine, o forse di un pensiero immaginale, indicibile, che subentra e invade lo spazio di un gesto incontrollato, un segno grafico in sostituzione d’una parola mancante…
“..la parola è qui cosa è presenza non quella / giusta né la soluzione né l’idea di luce perché qui / tutto è nuovo nulla ripete e nulla è in vita”.
Un ‘verso’ evocativo di edenica rimembranza, di cui Maria Grazia Insinga si serve nel richiamo alla ‘Tirrenide’ in illo-tempore scomparsa, e che pur riaffiora in ogni etnia del Mediterraneo Mare, come memoria mitica ancestrale, seppur disgiunta dall’odierna realtà virtuale…
“..e dall’infinito areale un corteo di posidonia sbuca / mostruose evoluzioni di unicorni e sirene in miriadi / di ippocampi la cui polvere è cura e linea di flusso e luce / tra opera viva e opera morta pinne dorsali disseccate / rapidissime farfalle cavalcatura e guida dei mostri”.
Per una realtà che sfugge all’estensione del ‘tempo’ e che s’avvia, per conseguenza, verso ‘la quarta dimensione’ della conoscenza, o se vogliamo della luce, in cui tutto risplende e sfoca nell’impercettibile, allorché il Sé viene alla mente estatica per non appartenere più a sé…
“..su in strada per Tirrenide il viaggio è già / compiuto e alza lo scirocco e / il pianeta è perfetto sto per morire”. Quale fonema di sicura ampiezza ‘il vento la macchia mediterranea un’imperfezione da correggere’ sulla linea di fuoco onde s’adempie il ‘sublime’.
Sussiste che il coniato asteriscolum latino non delimiti un luogo, un terreno confinante, uno spazio abitativo, bensì un alone luminoso dell’anima silente che avalla e/o sconfessa l’esperienza oggettiva dell’enunciato, ponendo il sigillo idiomatico all’ ‘indecidibile’…
“ora è troppo leggibile / la parola che c’è / e in quella che manca / il vuoto mille inizi / uguale mille non possibilità … / dove sono le cose / quando non ci sono?”.
“il tempo primo non sufficiente,
e secondo a nessuno e lo spazio
non sufficiente e prima di tutto
il nostro raccolto non sufficiente
non sento da un orecchio quello
musicale è vuoto e avverte la fine
dalla fine …”.
“che al nulla porti il nulla è già qualcosa
e la smettano di non dire il non dicibile
anche se lo ammetto è già qualcosa …
al diavolo un cenno sarà sufficiente
un nonnulla del capo al limite in limine
faremo unaltro cenno del capo”.
Entrati nel labirinto ricreato dall’autrice “..tutto è solo nel possibile niente”, nel mitico tutto delle parole “..l’estremo esercizio delle rapide contro / dammi il mio arco quotidiano”; dove il dardo incendiario penetra nel liquido discorsivo per incendiare il mare, ove Poseidone regna su Tirrenide “..sulla fiumana ingrossata”, “..l’arco contro la piena, contro vuoti e pieni, e la forma sigillo”; “..in un cerchio, un ciclo due anzi un triciclo o l’uroboro”, preso a simbolo archetipo della condizione esoterica dei cerchi nell’acqua, dell’indistinta sovrapposizione dei cerchi di luce che obliterano la vista...
“la forma nello spazio è pur sempre distanza e pure,
luogo e lì si toccano e c’è nell’intero di chi è solo
una misura di prosa che qui non c’è non c’è racconto
non dirsi ma essere che va verso un altro intero
per contraddirsi dirsi contro e dunque forma dimmi”.
«Io non scorgo che una successione di splendori crudeli il cui movimento stesso esige che io muoia.» – scriverà Georges Bataille (*) nel definire la morte la consumazione ‘sfavillante’ di tutto ciò che era. È qui che ‘Tirrenide’ riassume in sé ‘ciò che non può essere deciso’, il numero finito di ‘passi’, la parola ‘mancante’ nel dialogo costante che l’autrice propone, insito nella scelta del ‘verso’, o se vogliamo, nella ‘forma’ che l'autrice stessa ha dato al suo componimento poetico…
“..in cui la fame la resuscita al canto
del gallo in eccesso di corsivi
e a proposito il corsivo è suo”
“sul farsi del nulla sul farsi del verso
incepparsi in questa vita e nelle parallele
e in altri nulla nulla nulla e bastava uno”.
Poetica che la vede immersa in quel ‘soliloquio’ indefinito e pur nobile che le suggerisce l’anima, onde per cui alcun algoritmo può sostituirsi al ‘senso’ infine trovato, e che Jacques Derrida afferma «..non restare più in contatto con sé, non appartenere più a sé: sta in questo l’essenza della cenere, la sua stessa cenere.» (*)
Una ‘asterisco’ dunque che infine brilla come una stella nello spazio bianco della pagina, come di un cielo spolverato di un ‘biancore diffuso’, di quella ‘iancura’ (*) dove, per una ragione insperata, soggiunta imprevista, “..il nulla accadeva in forma di varco di nulla … la non perfezione della perfezione”.
L’autrice:
Maria Grazia Insinga, siciliana, letterata, musicista professionale, ideatrice di premi di poesia importanti per i giovani “La Balena di Ghiaccio”, “Premio Lighea”, è inoltre autrice superpremiata di libri di poesia e saggistica letteraria. Nel 2015 vince il concorso 'Opera prima', iniziativa editoriale diretta da Flavio Ermini, con la raccolta 'Persica' (coedita da Anterem e Cierre grafica). Nel 2016 con la raccolta 'Ophrys' è finalista alla XXX edizione del Premio Lorenzo Montano, uscito in volume nella collezione 'Limina' di Anterem Edizioni con la postfazione di Giorgio Bonacini. Il presente volume 'Tirrenide' partecipa alla XXXIII edizione del Premio Montano è oggi incluso nella Collezione “La Ricerca Letteraria” (Anterem 2020), a cura di Ranieri Teti.
Note:
(*) Georges Bataille, “Il Labirinto” – SE Editore 1970
(*) Jacques Derrida, “Ciò che resta del fuoco” – SE Editore 2000
(*) ‘iancura’ in “Tropismi” : iancura, biancore omerico, quiete marina – nella intervista a Paolo Casuscelli.
Id: 766 Data: 07/04/2020 06:12:51
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- Musica
Mina Vagante - Auguri Vivissimi.
MINA VAGANTE "Sei grande, grande, grande e come te sei grande solamente tu".
Con quanti nomi si può appellare un’artista ‘assoluta’ che sa catturare l’audience di milioni di fans senza apparire sulla scena da almeno 40 anni? Facendo due conti strampalati, a 40 anni aveva già pubblicato quaranta album di canzoni, e che canzoni (!); che ha doppiato nei suoi secondi 40anni pubblicando almeno un album all’anno e che, sommati, fanno 80 LP/CD di successi, e che successi (!), lasciatemelo dire, da capogiro. Per non dire degli innumerevoli ‘capolavori’ centrati dalla sua voce eclettica e straordinaria che ancora oggi, a dispetto dei suoi 80anni Mina per tutti noi che l’abbiamo vissuta e amata è considerata un’idea, e come a suo tempo ebbe a scrivere Ivano Fossati “Non può morire un idea”.
Ciò che invece possiamo dire, è che ci sono in circolazione almeno 80milioni e forse più di ‘Mina/e’ vaganti, pari al numero dei suoi album venduti. Sicuramente più di quante ne sono esplose durante le ultime guerre in giro per il mondo. Ma almeno queste non recano danno alcuno, anzi sono ‘bigné’ alla crema, di cui lei stessa è golosa. Non so quanto tutto questo sia vero, se non altro perché di danni le sue canzoni ne hanno combinati non pochi, se non altro perché hanno smosso i sentimenti di altrettanti milioni di cuori infranti che, nel bene e nel male, hanno trovato e distrutto corrispondenze affettive.
Né, d’altronde, si può prendersela con gli autori delle sue canzoni senza esimersi dal constatare l’affinità tematicamente forte di adesione lirico-musicale in cui si raccontano storie ostacolate o di abbandoni sentimentali. In esse è fondante l’effetto insito nel suo modo di cantare e l’uso della voce tecnicamente invasiva, che si sprigiona dalle proprie corde emozionali e proiezioni ‘espressive’ di sicura presa sull’immaginario del pubblico al quale si rivolgono, e d’altro aspetto con i mutamenti delle forme e delle modalità del consumo discografico. Come è dimostrato dal “mina.live” registrato a “Bussoladomani” secondo una moda di quegli anni e che ha visto l’abbandono dalle scene dell’artista.
È lecito chiedersi perché Mina eserciti un così grande carisma nell’ambito canzonettistico italiano e non solo? O anche come e soprattutto perché così numerose schiere di ‘iniziati’ si siano convertite al culto della sua stravaganza? A voler dire alla sua personalità, professionalmente rigorosa, la cui voce riesce a imporre un tale fascino e una sensualità così imperante da autentica ‘regina’ di un popolo di alieni abitanti di una indubbia galassia di estimatori. Indubbiamente una risposta c’è, anzi più d’una, diverse e contrastanti. Che lo crediate o no, nell’intenzione di configurare il prototipo Mina mi sono rivolto alla schiera esorbitante dei suoi ‘consumatori’, i quali hanno dato più o meno una identica risposta:
«Praticamente perché è ‘una voce per tutte le stagioni’», «..perché dall’età di 10 a 100 anni ci si rivolge a Lei per fare regali a se stessi», «..perché dice ciò non si ha il coraggio di dire», «..affinché ci si lasci trascinare in una qualche storia impossibile da vivere sulla propria pelle».
Ma altre risposte provengono dalle parole di quanti si farebbero straziare il cuore, per vivere una così ‘grande, grande, grande’ emozione e almeno un’altra domanda: «Quale uomo o donna non vorrebbe lasciarsi coinvolgere in una ‘passione’ così profonda, e ‘ancora, ancora, ancora’ donarsi per l’eternità dei propri giorni?» Per cui si noti come i riferimenti non siano propriamente casuali, e che quasi sembra di sentire sulla propria pelle che stiamo parlando di una ‘love-affair’, non è forse così? Ma non provate neppure a dare altre risposte perché suonerebbero false. In realtà ogni animo sensibile trova nella voce accattivante di Mina la propria sensibilità nascosta e/o palese che sia, il proprio modello di mondanità. Vuoi per aver consumato ‘scandali’ procurati senza volerlo, e per certe sue esibizioni ‘eclatanti’ addirittura censurate, che l’hanno vista tirarsi fuori dalle convenzioni di una società che fin dai suoi inizi gli andava stretta. Tali che si può ben dire di aver contrassegnato un’epoca in cui la ‘libertà femminile’ reclamava il proprio diritto di esistere come ente a sé stante, e di essere considerata dall’altro sesso, quello maschile, capace di una sensibilità emozionale forte, forse più forte di come fino allora esposta.
È vero, in certi casi l’abbiamo vista esporsi quale feticcio da ‘baraccone’ cui sono seguite infinite brutte imitazioni, non senza però una punta d’invidia da parte di chi, in qualche modo, desiderava sostituirsi a lei. Per non dire delle molteplici quanto orrende parodie dei suoi modi di esprimersi nel cantare: dall’uso delle mani e del corpo, fino ai ‘vezzi’ delle sue labbra mentre canta; anche e, soprattutto, senza avere né la sua estensione vocale, né la sua capacità interpretativa, e neppure le sue qualità oltremodo sensuali e spiritosamente gay. “E se domani…” canta Mina ancora dopo 40 anni, ma nessuna delle sue imitatrici nel frattempo ha oscurato il suo ‘domani’.
Notevolmente sofisticata in certe apparizioni televisive di show che hanno fatto epoca, Mina è comunque una ‘diva senza esserlo’, ritraendosi piuttosto che apparire promotrice di una certa mondanità, la cui assenza dalla scena non ha fatto altro che accrescere la sua popolarità e, immancabilmente i pettegolezzi sul suo conto. Sì che viceversa una ‘diva’ di celluloide di solito sollecita, e in qualche modo sostiene, tutto ciò che rende ‘glamour’ la propria esistenza. Lei no, la sua personalità malgrado la sua timidezza, s’impone visivamente all’occhio del pubblico attraverso le copertine decisamente ‘artistiche’ dei suoi album.
È così che abbiamo appreso ad apprezzarla nell’insolita quanto originale veste grafica creata dal suo ‘personal designer’ Luciano Tallarini che negli anni ’80 ha sorprendentemente magnetizzato la sua figura d’interprete, presentandola ogni volta diversa ma pur sempre all’altezza della situazione: si pensi al doppio album “Salomé” in cui Mina appare con la barba, la cui veste grafica accresce il suo prestigio artistico, creando un aspettativa ulteriore nei fans che ogni volta l’accoglievano con effetto ‘sorpresa’. Fu quello uno dei tanti appuntamenti ‘di classe’ a cui Mina ci ha abituati, per la felicità di noi estimatori, con la sua voce eclettica, la cui estensione supera di gran lunga la scala musicale.
Per una ‘Salomè’ con la barba Erode avrebbe fatto decapitare (con rispetto parlando) cento Giovanni Battista, e che si può definire la migliore trovata pubblicitaria di quell’anno 1981. Ma a un altro artista, questa volta un affermato visagist, che va attribuito il plauso delle molteplici trasformazioni, ‘vere e proprie metamorfosi’, in cui l’abbiamo spesso ammirata: Stefano Anselmi, già curatore sul set di Federico Fellini ed di altri importanti registi del cinema che re-inventa il suo ‘look’ rendendola di volta in volta inedita e soprendente.
Quella stessa Mina apprezzata interprete di brani del reportorio italiano e internazionale, quai ad esempio: “Walk on by” di Burt Bacharach e “Tu sarai la mia voce” versione italiana “Put the weight on my shoulders” di Gino Vannelli. E ancora più entusiasticamente “Verde Luna”, “Tres palabras” ed “Esperame en el cielo” prese dal repertorio sudamericano, come farà anche in seguito interpretando canzoni in brasiliano di Cicho Buarque e di altri. Inoltre ai nuovi brani contenuti in questo straordinario doppio-album, appositamente scritti per lei da Andrea Lo Vecchio, Paolo Conte, Bruno Lauzi, Edoardo De Angelis ed altre arrangiate dal figlio Massimiliano Pani.
Per quanto non si è ancora qui parlato di un altro album “Attila”, la cui ironia sottile della copertina, in cui ‘Lei’ appare completamente ‘calva’, che ci permette di pregustare, quasi a livello epidermico, l’interessante quanto stravolgente contenuto di una Mina-disco-music. 18 brani più o meno classici e tuttavia mai apparsi prima, calibrati sulle sue qualità ed estensione vocale da compositori e poeti quali: Bardotti, Shapiro, F. Monti Arduini, Malgioglio, Cantarelli che portano nella canzone italiana una ventata di fresco e di attualità con i tempi.
Brani quali: “Street Angel”, “Anche tu”, “Ma ci pensi”, e quella “Anche un uomo” che furono la colonna sonora dell’anno 1980, interpretate da Mina volta a superare il clichè canoro tradizionale con matura intelligenza interpretativa. Si pensi che “Attila” già a poche settimane dalla sua uscita, realizzò l’esaurirsi delle scorte, sì che la casa discografica PDU, fu costretta a rivolgersi ad altri per la stampa dei dischi, ammettendo di non farcela ad esaudire la richiesta del mercato. Ma era quella una Mina vestita a nuovo che malgrado le sue rare apparizioni sugli schermi televisivi, ancora una volta centrava l’obiettivo del successo, e che tutte le Radio, cresciute a dismisura, proponevano a tutto spiano per il piacere di un pubblico fedele al suo mito che le dimostrava così il suo affetto incontrastato.
Nel frattempo ‘Lei’ la cantante per eccellenza, conosciuta oltreoceano quasi senza mai muoversi da casa, conquistava paesi e continenti, tanto da essere considerata all’altezza, se non più grande, di tante star internazionali. E questo solo perché non ha mai voluto prendere un aereo; non ha mai smesso di cucinarsi le ‘frittelle’ con le quali soddisfa la sua inconsueta golosità; così come di catturare i suoi uomini e/o scegliere i suoi compagni di viaggio nelle sue performance televisive. Scusate se è poco, potendo lo ha fatto, tenendo fede alla sua interdipendenza che ancora oggi non le permette di sottomettersi alle astruse volontà degli altri: creatori di eventi, imprenditori ed esercenti di media; e non solo perché ha accumulato una fortuna di cui non tiene neppure conto, ma perché infine è rimasta se stessa, semplicemente Mina, con la sua preponderante personalità che riesce ancora, e sempre, a creare con la sua voce un’atmosfera autentica e ‘paradisiaca’ che riesce a dare a tutti i suoi risvolti. Paradisiaca come il titolo del suo album del 2018 intitolato “Paradiso – Lucio Battisti Songbook”, contenente le versioni più sofisticate dell’autore, e interpretate da Mina con la solita voce esaustiva incredibile e inarrivabile come solo lei riesce a fare.
Un discorso a parte va qui fatto riguardo alle molte interpretazioni di vecchi e nuovi brani del panorama canoro italiano: dai successi sanremesi da Lei reinterpretati con intelligente maestria vocale, ai successivi “Mina in studio”, “Mina canto o Brasil”, “Sorelle Lumiere” e “Veleno” con lo strepitoso “Succhiando l’uva” di Zucchero e altri brani di autori come Bruno Lauzi “Certe cose si fanno”, Daniele Silvestri “La seconda a sinistra”, Renato Zero “Che fatica”, Samuele Bersani “In percentuale” e Ivano Fossati “Notturno delle tre”.
Quant’altro ci sarebbe da dire a riguardo dei molti cantautori che hanno duettato con Lei, a incominciare dallo strepitoso Adriano Centano che recentemente con “Le migliori” tanto ci ha divertito e strabiliato; per parlare poi dell’incommensurabile Enzo Jannacci; delle re-interpretazioni di brani di Domenico Modugno, Lucio Dalla, Luigi Tenco, Pino Donaggio, Roberto Vecchioni, De André, Renato Zero, Cristiano Malgioglio, Zucchero Fornaciari, e dell’ultimissimo album in ordine di uscita in duo “Mina Fossati” da cui “L’infinito di stelle”, “Luna diamante” e "Meraviglioso, tutto qui” entrati a far parte della colonna sonora del film di Ferzan Ozpetec “La dea fortuna”.
Così come non vanno assolutamente i due album dedicati alla canzone napoletana dei quali nessuno in questi giorni di grande afflato amoroso da parte dei fans per il suo ‘compleanno’ ha lasciato trapelare almeno la conoscenza. E dire che appena agli inizi, nell'ormai lontano passato, Mina aveva dedicato alla canzone partenopea almene due o tre album indimenticabili.
Mi riferisco in particolare allo speciale ‘Mina - ieri & oggi’, andato in onda su Rete4, condotto dal pur capace e bravissimo Mauro Coruzzi (in arte Platinette), co-fondatore del Mina Fan Club, che insieme a Paolo Piccioli ci hanno regalato uno splendido spaccato di una Mina per certi versi ‘inedita’. Tuttavia ritengo non si possa restare indifferenti nell’ascolto dei due album dedicati a “Napoli” e “Napoli secondo estratto”, nei quali Mina interpreta in modo straordinario vecchie e nuove canzoni del repertorio napoletano: “Amaro è ‘o bene” di Sergio Bruni, insieme a “Napule è” e “Je sto vicino a te” di Pino Daniele e la struggente “Indifferentemente” di Martucci-Mazzocco, e tanti altri reinterpretati per l'occasione come: Bovio, Di Giacomo, Russo, Di Capua, E.A.Mario, fino a “O cuntrario è l’ammore” tratto da “Crisantemi” di Giacomo Puccini. Per quanto va assolutamente ricordata l’accorata “Lacreme Napulitane” inserita nel già citato album “Mina. Live”. Ma voglio qui ricordare un album passato un po’ sottotono come “Dalla Terra” in cui Mina si cimenta con 'brani sacri’ alcuni in napoletano ed altri cantati in latino: “Voi ch’amate lo criatore” tratto dal “Laudario di Cortona” del XIII secolo, accompagnata al pianoforte da Danilo Rea e “Quanno nascette Ninno” di Sant’Alfonso de’ Liguori, insieme a brani di Pergolesi, Chiaravalle, Monteverdi, e Gounod nella chiarissima “Ave Maria”.
Un particolare apprezzamento va fatto per “Volevo scriverti nonostante tutto” di Pulli-Ferrara contenuto nell’album “Maeba Mina” del 2018, inoltre al duetto “A Minestrina” di e con Paolo Conte, nonché quello con Davide Dileo in “Un soffio”. Mentre tra gli autori è impossibile non notare la presenza di Paolo Limiti che ha firmato “Il mio amore disperato”, e nel tempo altri grandi successi interpretati magistralmente da Mina. Inserite in questo album troviamo inoltre “Last Christmas” dei Wham e “Heartbreak Hotel” cavallo di battaglia del mai compianto sufficientemente Elvis Presley.
Per quanto splendidamente concepito nell’ultimissimo “Mina Fossati” i due sembrano fare a gara nel voler riproporre un ‘melò’ musicale patinato che ricalca l’avventura biografica e individuale, riconoscibile nell’ombra stilistica e romantica dell’autore Ivano Fossati. Si può tentare di definire un tale ‘valore emotivo’? Certamente sì. Anche se non mi sembra il caso di ripercorrere qui le tappe di questo cantautore apprezzato ma in qualche modo anche contrastato, ‘perché difficile’, del panorama musicale italiano. Per quanto, va detto, la voce imprevedibilmente ‘chiara’ (a questa età) di Mina fa rifulgere anche i testi più artificiosi, benché carichi di tensione emotiva.
Anzitutto va fatta luce su un punto essenziale ancora non espresso del rapporto fra Mina e il pubblico, non esclusivamente quello dei suoi ammiratori quali siamo, riguardo alla sua capacità di distribuire ‘piacere’ a chiunque si metta in ascolto; di riempire la ditanza che c’è fra la sua ‘voce’ e l’intera ‘auidiece’, rendendoci partecipi di una realtà vissuta in maniera autentica per quanto virtuale, del suo e del nostro esserci. Ciascuno di noi ascoltandola cantare è infatti un po’ meno solo, come dire prende a carico la sua voce come esperienza di sé e della propria necessitudine di vivere.
Grazie Mina, e tantissimi affettuosi auguri: “Sei grande, grande, grande, e come te sei grande solamente tu”.
Un tuo fan da sempre perso nei meandri della tua voce intensa.
Id: 763 Data: 26/03/2020 16:55:08
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- Politica
Bla, bla, bla … al gran ballo degli ingrati.
Bla, bla, bla … “al gran ballo degli ingrati”.
Dal libretto “Ballo delle Ingrate” di Ottavio Rinuccini , membro della Accademia Fiorentina degli Alterati, musicato da Claudio Monteverdi in forma di madrigale per strumenti antichi, quali: viole da braccio, chitarrone, arpa doppia, clavicembalo.
“De l’implabil Dio Eccone giunt’al regno: seconda, o bella madre, il pregar mio. Non tacerà mia voce Dolci lusinghe e prieghi, fin che l’alma feroce …”
La scena s’apre tra i fumi e le fiamme dell’inferno ove in alterco si rivendica amore: “Amor non sai / che dal carcer profondo / calle non è che ne rimeni al mondo”. Non sembra anche a voi di risentir balzare di bocca in bocca, ora dall’una ora dall’altra fazione politica del nostro parlamento, una sentenza oscura che infine è comunque quanto ci tocca? Non altro perché dai loro scranni gli ‘ingrati’ pensano di convincere, e ci riescono, coi loro falsi affanni ciò che: ‘la gente vuole’, ‘ce lo chiedono gli italiani’, ‘è per il bene del paese’ ecc. ecc.
Sfido chiunque di voi che leggete di dirmi con chi dei tanti parlamentari che ruotano intorno scambiandosi i vessilli, avete parlato o fatto richieste alcune che siano mai state ascoltate? Che non siano state disattese con alterigia di chi non sa cosa rispondere e per questo rispondere talvolta con la prosopopea del ‘politichese’, quando ancor più con l’arroganza di chi sta facendo solo i propri interessi. E dire che ne hanno avuta fin ora di fiducia che chiedevano a gran voce, se non di più, e che noi gli abbiamo data.
Sbagliato! È stato proprio quel ‘di più’ a farli sentire ‘padreterni’, tali da non far loro provar vergogna alcuna, allorché infilano la scheda nell’urna parlamentare e avvenire a un ‘voto palese’. Nò, devono farlo nel modo più ambiguo che ci sia, di nascosto, senza rivelarsi davanti a Voi/Noi che li abbiamo messi lì, anche se in verità non sappiamo bene perché. Sta di fatto che una volta arrivati a occupare gli scranni, non li cedono più e non c’è ragione che valga, neanche quando sono stati colti in flagrante con le dita nella marmellata.
La finzione della scena parlamentare li fa sentire avulsi da qualsiasi colpa o rivendicazione alcuna, in quanto possono sempre dire, come del resto fanno: ‘l’abbiamo fatto per voi’, ‘è per il bene del paese’. Su cui confezionano altre promesse, propositi aggiuntivi, incanti che si rivelano fasulli il giorno dopo, perché gli ‘ingrati’ sono così: rigorosamente falsi, bugiardi a prescindere. Ché, dopo le malefatte: “dolgonsi invan ché non ben saggi furon”; finché arsi di nuova fiamma invocano, anzi pretendono pure d’aver ragione: “Ma qual cieca ragion vol che si nieghi quel che malgrado al fin vi tolgon gli anni?”.
Gli anni sì, fino a precludere il quotidiano vivere con stenti e vicissitudini, che contentar dobbiamo, i loro sprechi e i loro laggi, che vivere essi devono nel benessere ad ostentar fatiche che non fanno. Meschini noi che abbiam creduto ‘agli ideali loro’ e ancor crediamo che di cambiar le cose siano ancor capaci, quando dal loro canto strenua ‘avidità’ avanzar vediamo senza plausibile riscontro, la cui voracità è pari a quella del Diavolo in persona.
Di certo “frutto non è da riserbarsi al fine”, Orsù dunque coraggio Sardine, date fede al mio dire, ben sarebbe, per chiunque s’affacci prossimamente alla politica di metterci la faccia e il culo. Udite udite! Ben sarebbe altresì, ancor prima di recarvi alle urne conviene “..aprir le tenebrose porte de la prigion caliginosa e nera e de l’anime ingrate traete qui la condannata schiera!”, che d’altro più non meritano:
“Udite, udite oh de l’infernal corte feri ministri udite! … Aprite deh le tenebrose porte … al fumo, a’ gridi, a’ pianti a sempiterno affanno … tornate al negro chiostro anime sventurate tornate ove vi sforza il fallir vostro!”
Ma se la par-condicio reclama in giusta misura, le colpe e le pene, è giusto lasciar a loro raggiungere le vette che reclamano a gran voce? Non v’assale il dubbio che facciano ancor meglio di quei ladruncoli da quattro soldi detti ‘furbetti del cartellino’, che accusano di rubare allo stato, mentre loro si accaparrano i migliori posti, occupando tutti i ruoli costituzionali? E che, per quanto noi sappiamo, riservano alle loro amanti il plauso per quello che fanno senza ritegno alcuno? Vogliamo dire neppure loro sono da meno ché l’avidità delle regalie che ne ricavano è fuor di misura, quindi gettiamo pur le meschine alle fiamme:
“Udite, Donne, udite i saggi detti che di celeste parlar nel cor serbate: chi, nemica d’amor, ne’ crudi affetti armerà il cor nella fiorita etade … Donne che di beltade e di valore togliete alle più degne il nome altero … che di cotanto rigor sen vanno armate mal si sprezza d’amor la falce e’l cielo”.
Deh voi ingrate quanto loro, che declamate in terra populistiche veglie e scaramantiche effusioni, volgete lo sguardo altero verso la superna giustizia che di diritto a vivere per ognun reclama. Che infine anche voi donne di ‘ineguagliabile bellezza’ patire dovete lo scorno, e che a lungo andare, ne perdete di grazia il plauso, per rincasar meschine nottetempo degli affannosi anni dell’età che vi consuma.
Siete or voi certe che tutto quel pretendere posizioni e potere in questa società non abbia poi indirizzo in quel che perdereste d’onestà? Che d’uguagliar quegli uomini (si fa per dire), non abbiate già perduto di femminilità il consenso? Davver convinte siete che non sia nella rivalsa maturata in seno agli uomini il vanto di un possesso che li piega a un futuro voler vostro che li fa diventar violenti e ancor più assassini?
Cercare un equilibrio conviene, una giustizia giusta che non consenta soprusi di genere, ché ritrovar il senno di poi a questa umana prole non è ancor dato.
Id: 755 Data: 19/02/2020 10:21:26
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- Sociologia
Bla, bla, bla … Australia lo sterminio dimenticato.
Bla, Bla, Bla … Australia lo sterminio dimenticato.
Incendi, la soluzione aborigena. (*)
“In Australia si cercano nuove soluzioni per contrastare il fuoco, c'è chi propone e attua tecniche che vengono dal lontano passato. I recenti temporali tanto attesi hanno provocato chiusure stradali e inondazioni improvvise in parte della costa orientale , mentre il paese sta ancora combattendo contro un centinaio di incendi boschivi. A questo si aggiunge anche l'allarme lanciato dal WWF, relativo alle centinaia di tonnellate di cenere e detriti che avranno un impatto importante sull'ambiente e sulla salute delle persone. Di fronte a questo scenario, si cercano nuove soluzioni ad un problema, quello degli incendi, che si ripete ogni anno, anche se mai con questa intensità. Per oltre 50'000 anni, gli aborigeni australiani si sono presi cura della terra in modo olistico e per loro il fuoco non è un nemico da combattere, ma un amico da capire per ripristinare la terra ed aumentare la biodiversità. Le tecniche aborigene liberano la terra dal combustibile, come detriti e boscaglia, con fuochi controllati e a bassa intensità, che riducono il carico di carburante e diminuiscono il rischio di incendi. Si tratta di una pratica poco conosciuta dai vigili del fuoco, come affermato dal pompiere John Olle, che ha capito che questa tecnica - quelle degli incendi controllati - non ha a che fare solo con il fuoco, ma si tratta di connettersi con la natura”.
È bastato alzare il tiro di questa affermazione per dar luogo a una montagna di polemiche, e a ragione secondo me, pur tuttavia non riportate sui social, né argomentate dai giornalisti in alcun servizio visto alla TV né sulla carta stampata, se non in brevi accenni, tanto per tenerci al corrente che l’Australia stava bruciando, con fiere immagini di salvataggio di alcune specie animali che, guarda caso, rischiavano l’estinzione. Di contro nulla è stato detto, tantomeno fatto vedere, degli esseri umani che, sempre guarda caso, malgrado le esigue concessioni governative, sopravvivono sul territorio sembra solo da 50.000 anni, segregati in aree delimitate, in stato di povertà assoluta, succubi di uno ‘sterminio silenzioso’ quanto coatto, che punta all’estinzione degli Aborigeni e per lo più ‘volutamente’ ignorato dal resto del mondo, quanto caparbiamente inflitto. Voglio far qui presente che, guarda caso, non si tratta solo di esseri umani oggi ascesi a una condizione di merce di scambio, besì di una ‘cultura’ che potrebbe essere la più remota nell’evoluzione dell’uomo ancora oggi esistente sulla terra, comprensibilmente evolutasi su altri ‘piani di intelletto’ e in perfetta simbiosi con la natura che li accoglie. Ma forse sarbbe più idoneo qui dire ‘che li accoglieva’, poiché espropiati in toto da quell’ancestrale connessione che gli Aborigeni (vocabolo orrendo coniato all’inizio dell’800 dai Colonizzatori, altro vocabolo questo di una caparbietà devastante), detenevano con il territorio che li ospitava. A tal punto da saper come domare gli eventi naturali che oggi incutono preoccupazione, come appunto: gli incendi boschivi, le alluvioni e le esondazioni delle acque, con una gestione proficua e nella costante salvaguardia della natura circostante.
Davanti a un tale disastro ecologico come quello che abbiamo vissuto in diretta, mi chiedo se non sarebbe il caso di porsi qualche interrogativo sulle condizioni di vita delle popolazioni aborigene dell’Australia, oppure vogliamo immaginare che le fiamme dei roghi, il fumo e la cenere che hanno invaso tutto il continente non abbiano affatto scalfito la loro pelle, i loro occhi, i loro sensi. Quasi fossero degli ‘avatar’ un tempo umani ascesi alla declinazione divina e oggi reincarnatisi sulla terra, e per questo avulsi dalla fine che fanno tutti gli esseri mortali in preda ad eventi così distruttivi (?). Vogliamo pensare al voler mettere fine, cioè per concludere un genocidio iniziato da almeno un millennio, si sia intenzionalmente dato fuoco a un intera area geografica, rischiando alcune casette di legno scelte a bella posta da dare in pasto ai media, con tanto di successivo e/o preventivo risarcimento statale? No, non lo pensiamo, anche se …
Vogliamo pensare che gli Aborigeni stufi di tanta acredine nei loro confronti, in quanto succubi del razzismo che da sempre li perseguita e li ha visti spesso ridotti in schiavitù, nonché contro lo sfruttamento apocritico (*) della società odierna, e la malversazione (*) nei confronti della loro cultura e delle loro tradizioni, abbiano appiccato, per una tensione masochista, gli incendi, al fine di estinguersi nelle fiamme per poi rinasceri dalle proprie ceneri come la Fenicie di mitologica memoria (?). Beh, pensiamolo pure, anche se qualche dubbio ci viene alla mente …
Oppure siamo di fronte a un altro genere di sterminio, quello faunistico che vede il governo australiano impegnato ad affrontare il prolificarsi di spacie animali come i canguri e i koala che tanto danno (leggi fastidio) creano alle popolazioni e alle coltivazioni, sia in fatto di spesa economica, sia in fatto di ingiusta distribuzione (sperequazione) fra animali ed esseri umani, onde la determinata riduzione sostanziale del loro numero. Ma guai aprire una sorta di caccia al canguro (che pure esiste), o ai koala che farebbe insorgere gli animalisti di tutto il mondo e che, sempre guarda caso, butterebbe una cattiva luce sul governatorato e farebbero scrivere intere pagine, con tanto di immagini illustrative, sulla mancanza di umanità del popolo australiano. Non sia mai …
Allora è meglio fare di tutto quanto un unico falò, dicono i malpensanti governativi, anche perché in questo modo il ‘governo di Ponzio Pilato’ si lava le mani di problematiche fastidiose e in un modo o nell’altro irrisolvibili. O almeno, vista la cosa sotto una certa luce, non si espone a critiche e responsabilità socio-economiche che altrimenti arriverebbero a far pensare, guarda ancora il caso, a una qualche corresponsabilità e/o a collusioni lobbistiche e opportunità politiche che, chissà, magari non poi così accettabili dall’opinione pubblica. Ma noi che scriviamo non siamo così perfidi di pensare possibili certe cose, anche se smentiti dai fatti che, volenti o nolenti, ci confermano di non essere degli ‘avatar’, o almeno, fino a prova contraria, ancora non conclamati … Per quanto il tutto possa sembrare riduttivo d’una realtà conclamata, i roghi australiani non scoppiano per caso o per noncuranza ma per un’incapacità di gestione sia individualistica sia collettiva che, dimentica di un fare rispettoso dell’ambiente, mette oggi a repentaglio l’intera comunità colonizzatrice, gettando ombre anacronistiche sulla condizione degli Aborigeni e sulla loro ancestrale cultura. Comunque non è il caso di attribuire colpe imbarazzanti a tradizioni arcaiche che pure serpeggiano nel sottobosco australiano ma che hanno perso ogni legame con la superstizione popolare, o almeno una tradizione orale che non appartiene più alle masse, semmai è l frutto d’una contaminazione razzista tornata in auge con la globalizzazione politica estremista.
I danni dovuti alla globalizzazione sono irreparabili per l’avvenuto abbattimento delle barriere contenutistiche, la cui de-costruzione, dopo aver depauperato le culture autoctone, ha continuato a imporre ad esse sollecitazioni di carattere politico-comunitarie di insiemi solo apparentemente affini, mescolando e mistificando, le realtà culturali un tempo aggregative, maturate a volte in secoli di storia. Ma la storia non ha mai camminato di pari passo con gli avvenimenti di un’epoca, ancor meno con gli espedienti messi in campo di governi. Più spesso ha visto aggiungere pagine scritte col sangue e/o col carbone più nero, prima di prenderne atto e capitolarle con noni altisonanti come ‘occupazione’, ‘invasione’, ‘schiavitù’, ‘rivoluzione’, tutti apocrifi di ‘apocalisse’.
Cosa che pur sembrando lontanissima nel tempo e quasi cancellata dall’elenco delle probabilità, se non mettiamo particolare attenzione nella salvaguardia del pianeta, siamo vicini a dover affrontare. Allora sì che ci troveremo spiazzati, causa l’incapacità ‘culturale’ di affrontare l’accadimento. Ma che non si dica che non eravamo stati avvisati. Decostruire una cultura ancestrale, senza possibilità di ritornare a una germinazione della stessa, e soprattutto senza averne compresa la portata elettiva che la rende estrema nella pur breve rotazione generazionale cui l’umanità assolve, rende pienamente il senso della ‘stupidità’ che tutti ci attanaglia.
Note: (*) Articolo a cura della redazione di RSI-News - 18 gennaio 2020. (*) apocritico, nell’accezione di ciò che risulta superfluo e ridondante e qindi eplulso dalla società di cui non riconosce l’appartenenza. (*)malversazione è quando un soggetto riceve un finanziamenti per un determinato scopo o attività di qualche interesse, e non li utilizza per tale scopo.
Id: 753 Data: 19/01/2020 08:56:15
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- Cinema
Tutto il Cinema che vuoi ... Cineuropa News
FESTIVAL / PREMI De Rome à Paris: 10 opere italiane inedite in Francia di Fabien Lemercier
10/12/2019 - Dal 13 al 17 dicembre si svolgerà la 12ma edizione di un evento che mette in mostra film italiani inediti in Francia.
Venerdì 13 dicembre, Aspromonte, la terra degli ultimi di Mimmo Calopresti aprirà a Parigi i 12mi Incontri del cinema italiano, alla presenza del regista e della sua attrice protagonista Valeria Bruni Tedeschi (che nel film recita al fianco di Marcello Fonte), alla quale il festival consegnerà un premio per il suo contributo agli scambi culturali tra Francia e Italia.
Battezzato "De Rome à Paris" e organizzato al cinema L'Arlequin dall’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche, Audiovisive e Multimediali) con il sostegno del MiBACT (ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo) e in collaborazione con ICE-AGENZIA (Istituto nazionale per il commercio estero), l'Ambasciata italiana, l’Istituto Luce Cinecittà e l'UNFAE (Unione Nazionale Esportatori Film e Audiovisivi), l'evento proporrà fino al 17 dicembre dieci lungometraggi italiani ancora inediti in Francia che saranno proiettati alla presenza delle squadre dei film.
In programma spiccano i concorrenti a Venezia 'Il sindaco del rione Sanità' di Mario Martone e 'La mafia non è più quella di una volta' di Franco Maresco. Altri tre film scoperti alla Mostra sono in menù con 'Vivere' di Francesca Archibugi, che era stato presentato fuori concorso al Lido, e due titoli passati per la sezione Sconfini: Effetto domino di Alessandro Rossetto e il film che mischia documentario, finzione e materiale d’archivio 'Il varco' del duo Federico Ferrone - Michele Manzolini.
Sono in programma inoltre 'Bangla' di Phaim Bhuiyan (un’opera prima passata per il concorso Big Screen di Rotterdam), 'Dafne' di Federico Bondi (apprezzato al Panorama della Berlinale e recente premio del pubblico all’Arras Film Festival), il documentario 'Bellissime' di Elisa Amoruso (scoperto alla recente Festa di Roma, nella sezione Alice nella Città, e proiettato anche all’IDFA) e 'Il campione' di Leonardo D’Agostini (con Stefano Accorsi nel cast) che chiuderà questa edizione 2019 degli Incontri del cinema italiano - De Rome à Paris.
Si ricorda che l'evento sarà preceduto da incontri professionali con un Work In Progress, un mercato di coproduzione e una tavola rotonda.
GOLDEN GLOBES 2020 Un tocco europeo nelle nomination ai Golden Globes di David González 09/12/2019 - Dolor y gloria, Les Misérables e Ritratto della ragazza in fiamme tra i film candidati, insieme alle coproduzioni britannico-americane I due papi, 1917 e Rocketman Proving the experts' predictions correct, a clutch of European titles have been invited to the upcoming party at the 77th Golden Globe Awards, handed out by the Hollywood Foreign Press Association. The ceremony, which will mark one of the most important milestones of the US awards season, will take place on 5 January in Los Angeles.
This year, the nominated films hailing from the Continent are mainly in English, but are also in Spanish and French. Manchegan maestro Pedro Almodóvar is continuing his successful run through the season with 'Pain and Glory' (recently awarded Best Foreign-language Film by Los Angeles’ film critics, among other accolades), and the work of its lead actor, Antonio Banderas (honoured at Cannes, and more recently, by New York’s film critics and the European Film Awards), has also been acknowledged by the Golden Globes.
Locking horns with Almodóvar for the Golden Globe for Best Foreign Language Film are two of the most highly acclaimed European productions across the pond this year, Ladj Ly’s Oscar submission 'Les Misérables' and Céline Sciamma’s 'Portrait of a Lady on Fire', both coming from France and also awarded at Cannes.
But English-language films, mainly co-productions between the UK and the USA, are leading the European contingent. The Netflix title 'The Two Popes', a co-production between the USA, the UK, Italy and Argentina, has received four nominations, including Best Motion Picture – Drama. The film, revolving around the meeting between Pope Benedict XVI and Pope Francis, stars UK-born thesps Anthony Hopkins and Jonathan Pryce, both nominated too, and was directed by Brazil’s Fernando Meirelles.
Following closely behind with three nominations, '1917', the World War I - film by British filmmaker Sam Mendes, is also nominated for Best Motion Picture – Drama, alongside the work of the director himself, and 'Rocketman', the Elton John biopic directed by the UK's Dexter Fletcher, is the European hopeful in the Best Motion Picture – Musical or Comedy category.
Lastly, a number of other European works cn also be found on the list of nominees led by Noah Baumbach’s Marriage Story, including 'Rupert Goold’s 'Judy' (through Renée Zellweger’s performance), and the TV series Fleabag, The Crown and Chernobyl.
Here is the full list of nominees: Film Best Motion Picture – Drama 1917 – Sam Mendes (UK/USA) The Irishman – Martin Scorsese Joker – Todd Phillips Marriage Story – Noah Baumbach The Two Popes – Fernando Meirelles (USA/UK/Italy/Argentina)
Best Motion Picture – Musical or Comedy Dolemite Is My Name – Craig Brewer Jojo Rabbit – Taika Waititi (USA/New Zealand/Czech Republic) Knives Out – Rian Johnson Once Upon a Time in Hollywood – Quentin Tarantino Rocketman – Dexter Fletcher (UK/USA)
Best Director Bong Joon Ho - Parasite (South Korea) Sam Mendes - 1917 Quentin Tarantino - Once Upon A Time In Hollywood Martin Scorsese - The Irishman Todd Phillips - Joker
Best Actor – Drama Christian Bale - Ford v. Ferrari Antonio Banderas - Pain and Glory (Spain) Adam Driver - Marriage Story Joaquin Phoenix - Joker Jonathan Pryce - The Two Popes
Best Actress – Drama Cynthia Erivo - Harriet Scarlett Johansson - Marriage Story Soarise Ronan - Little Women Charlize Theron - Bombshell Renee Zellweger - Judy (UK/US)
Best Actor – Musical or Comedy Daniel Craig - Knives Out Roman Griffin Davis - Jojo Rabbit Leonardo DiCaprio - Once Upon a Time in Hollywood Taron Egerton - Rocketman Eddie Murphy - Dolemite Is My Name
Best Actress – Musical or Comedy Awkwafina - The Farewell Ana de Armas - Knives Out Beanie Feldstein - Booksmart Emma Thompson - Late Night Cate Blanchett - Where’d You Go Bernadette
Best Supporting Actor Tom Hanks - A Beautiful Day in the Neighborhood Al Pacino - The Irishman Joe Pesci - The Irishman Brad Pitt - Once Upon A Time In Hollywood Anthony Hopkins - The Two Popes
Best Supporting Actress Annette Benning - The Report Margot Robbie - Bombshell Jennifer Lopez - Hustlers Kathy Bates - Richard Jewell Laura Dern - Marriage Story
Best Screenplay Noah Baumbach - Marriage Story Bong Joon-ho - Parasite Anthony McCarten - The Two Popes Quentin Tarantino - Once Upon A Time In Hollywood Steven Zaillian - The Irishman
Best Original Score Daniel Pemberton - Motherless Brooklyn Alexandre Desplat - Little Women Hildur Guðnadóttir - Joker Thomas Newman - 1917 Randy Newman - Marriage Story
Best Original Song “Beautiful Ghosts”, Cats (UK/US) “I’m Gonna Love Me Again”, Rocketman “Into the Unknown”, Frozen II “Spirit”, The Lion King “Stand Up”, Harriet
Best Animated Feature Frozen II - Chris Buck, Jennifer Lee The Lion King – Jon Favreau Missing Link – Chris Butler Toy Story 4 – Josh Cooley How to Train Your Dragon: The Hidden World - Dean DeBlois
Best Foreign-Language Film The Farewell – Lulu Wang Les Misérables – Ladj Ly (France) Pain and Glory – Pedro Almodóvar Parasite – Bong Joon-ho Portrait of a Lady on Fire – Céline Sciamma (France)
TV Best TV Series - Drama Big Little Lies The Crown (UK) Killing Eve (UK/USA) The Morning Show Succession Best TV Series - Comedy Barry Fleabag (UK) The Kominsky Method The Marvelous Mrs. Maisel The Politician Miniseries or TV Film Catch-22 Chernobyl (UK/USA) Fosse/Verdon The Loudest Voice Unbelievable
Best Actor TV Series – Drama Brian Cox - Succession Kit Harington - Game of Thrones Rami Malek - Mr. Robot Tobias Menzies - The Crown Billy Porter - Pose
Best Actress TV Series – Drama Jennifer Aniston - The Morning Show Jodi Comer - Killing Eve Nicole Kidman - Big Little Lies Reese Witherspoon - The Morning Show Olivia Colman - The Crown
Best Actor TV Series – Comedy Ben Platt - The Politician Paul Rudd - Living With Yourself Rami Yousef - Rami Bill Hader - Barry Michael Douglas - The Kominsky Method
Best Actress TV Series – Comedy Christina Applegate - Dead to Me Phoebe Waller-Bridge - Fleabag Natasha Lyonne - Russian Doll Kirsten Dunst - On Becoming a God in Central Florida Rachel Brosnahan - Marvelous Mrs. Maisel
Best Actor Miniseries or TV Film Chris Abbott - Catch 22 Sacha Baron Cohen - The Spy Russell Crowe - The Loudest Voice Jared Harris - Chernobyl Sam Rockwell - Fosse/Verdon
Best Actress Miniseries or TV Film Michelle Williams - Fosse/Verdon Helen Mirren - Catherine the Great (UK) Merritt Wever - Unbelievable Kaitlyn Dever - Unbelievable Joey King - The Act
Best Supporting Actor – Series, Miniseries or TV Film Alan Arkin - Kominsky Method Kieran Culkin - Succession Andrew Scott - Fleabag Stellan Skarsgård - Chernobyl Henry Winkler - Barry
Best Supporting Actress – Series, Miniseries or TV Film Meryl Streep - Big Little Lies Helena Bonham Carter - The Crown Emily Watson - Chernobyl Patricia Arquette - The Act Toni Collette - Unbelievable
Festival / Premi 9587 notizie (festival / premi) disponibili in totale a partire dal 24/05/2002. Ultimo aggiornamento il 10/12/2019. 483 notizie (festival / premi) inserite negli ultimi 12 mesi.
FESTIVAL / PREMI Italia Assegnati i premi Meno di Trenta, dedicati ai giovani attori di Cineuropa 09/12/2019 - Giulio Pranno, Ludovica Martino, Carlotta Antonelli e Giacomo Ferrara sono i vincitori della prima edizione del premio riservato agli interpreti italiani di cinema e televisione sotto i 30 anni. Sono Giulio Pranno, Ludovica Martino, Carlotta Antonelli e Giacomo Ferrara i vincitori della prima edizione di Meno di Trenta, il nuovo premio riservato agli interpreti italiani di cinema e televisione sotto i 30 anni, ideato da Silvia Saitta con la direzione artistica di Stefano Amadio e Silvia Saitta, prodotto dal Nuovo Cinema Aquila di Roma con il patrocinio del Mibact.
La giuria stampa, composta da Vittoria Scarpa (Cineuropa), Luca Ottocento (Fabrique Du Cinéma), Elena Balestri (Funweek.it), Valentina Ariete/Margherita Bordino/Eva Carducci/Gabriella Gilberti/Sonia Serafini (The Giornaliste) e Alessandra De Tommasi (Airquotes.it), ha eletto i vincitori delle quattro categorie principali, partendo dalle cinquine proposte dalla direzione artistica che ha preso in considerazione le uscite dal 1° gennaio al 31 ottobre 2019. La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 7 dicembre a Roma, al Nuovo Cinema Aquila.
Il premio Miglior Attore - Cinema è stato assegnato a Giulio Pranno per il film 'Tutto il mio folle amore' di Gabriele Salvatores, perché “dona al personaggio di Vincent una leggerezza e un’empatia perfetta e speciale. Con questo ruolo ha emozionato tutti e scoperto il suo immenso talento”. Pranno ha avuto la meglio su Giampiero De Concilio (Un giorno all'improvviso), Francesco Di Napoli (La paranza dei bambini), Francesco Gheghi (Mio fratello rincorre i dinosauri) e Guglielmo Poggi (Bentornato Presidente). Il premio Migliore Attrice - Cinema è andato invece a Ludovica Martino per il film 'Il campione' di Leonardo D'Agostini, “per aver dato al personaggio di Alessia la giusta dose di genuinità e dolcezza” e per la sua “presenza luminosa e schietta che lascia il segno ogni volta che compare sullo schermo”.
Le altre candidate erano Anastasiya Bogach (Fiore gemello), Ginevra Francesconi (The Nest - Il Nido), Angela Fontana (Lucania - Terra Sangue e Magia) e la coppia Blu Yoshimi - Denise Tantucci (Likemeback).
Passando alle categorie dedicate alla serialità televisiva, la Migliore Attrice - Fiction è risultata Carlotta Antonelli per il suo ruolo nella serie originale Netflix Suburra - la serie 2, “per la capacità di rappresentare con intensità, in primis attraverso un convincente lavoro sugli sguardi e sulla gestualità, la forte determinazione del personaggio di Angelica”. Antonelli era finalista con Antonia Fotaras (Mentre ero via), Benedetta Gargari (Skam Italia 3), Fotinì Peluso (La compagnia del cigno) e Valentina Romani (La Porta Rossa 2).
Sempre per Suburra - la serie 2 si è aggiudicato il premio come Miglior Attore - Fiction Giacomo Ferrara, che “a Spadino ha dato il meglio del suo talento, alternando sguardi di fuoco e sorrisi spiazzanti. E anche qualche passo di danza”. Ferrara era in gara con Giancarlo Commare (Skam Italia 3), Emanuele Misuraca (La compagnia del cigno), Eduardo Valdarnini (Suburra - la serie 2) e Lorenzo Zurzolo (Baby 2). Consegnato inoltre il Premio speciale Under 30 New Generation al regista 22enne Phaim Bhuiyan per il film Bangla [+], riconoscimento assegnato dalla direzione artistica del progetto e proposto per valorizzare tematiche contemporanee e universali come l'integrazione e il rispetto reciproco.
Infine, è la 19enne Jenny De Nucci la vincitrice del Premio speciale Under 30 New Media, riconoscimento proiettato nel futuro delle professioni legate all'arte e alla comunicazione, e assegnato da una giuria di studenti delle scuole superiori.
I premi: Miglior Attore – Cinema Giulio Pranno - Tutto il mio folle amore Migliore Attrice – Cinema Ludovica Martino - Il campione Migliore Attrice – Fiction Carlotta Antonelli - Suburra - la serie 2 Miglior Attore – Fiction Giacomo Ferrara - Suburra - la serie 2 Premio speciale Under 30 New Generation Phaim Bhuiyan - Bangla Premio speciale Under 30 New Media Jenny De Nucci
EUROPEAN FILM AWARDS 2019 La favorita trionfa a una cerimonia degli European Film Awards impegnata politicamente di Elena Lazic
09/12/2019 - Il film di Yorgos Lanthimos ha fatto la parte del leone lasciando poco altro agli altri nominati, con poche eccezioni come Antonio Banderas, Céline Sciamma e Les Misérables.
Forse c’era da aspettarselo di vedere il film "più" europeo in competizione ai 32mi European Film Awards tornarsene a casa con così tanti premi. 'La favorita', diretto dal regista greco Yorgos Lanthimos, una coproduzione irlandese-britannico-americana con protagonista un cast in gran parte inglese, ha vinto un totale di 8 premi durante la cerimonia, che si è svolta presso l'Haus der Berliner Festspiele a Berlino sabato 7 dicembre. Dopo aver dominato le categorie tecniche con quattro premi (Fotografia, Montaggio, Costumi, Trucco e acconciature), il film ha visto il produttore Ed Guiney salire sul palco per conto di Lanthimos due volte (per il Regista europeo e la Commedia europea), e introdurre un messaggio registrato di ringraziamento da parte di Olivia Colman per la sua vittoria come Attrice europea.
Il film ha lasciato poco spazio agli altri candidati, ma le sorprese non sono mancate. Uno dei momenti più toccanti di una cerimonia altrimenti irriverente (per fortuna), introdotto con grande entusiasmo da Anna Brüggemann e Aistė Diržiūtė, è stata la vittoria come Attore europeo di Antonio Banderas per la sua interpretazione in 'Dolor y gloria' di Pedro Almodóvar. Impossibilitato a partecipare, l'attore, visibilmente commosso, si è unito alla cerimonia via Skype e ha ringraziato il regista.
Un'altra grande e piuttosto inaspettata vittoria per la Spagna è stata nella categoria Film d'animazione europeo, in cui 'Buñuel en el laberinto de las tortugas' di Salvador Simó ha battuto i contendenti di Cannes 'J'ai perdu mon corps' e 'Les Hirondelles de Kaboul', così come il nominato di Annecy Marona’s 'Fantastic Tale'.'Les Misérables' di Ladj Ly, che ha vinto il premio Scoperta europea - FIPRESCI.
La Germania, paese ospitante, ha avuto la sua quota di vincitori. Oltre alla già annunciata vittoria di John Gürtler per la Colonna sonora originale europea per 'System Crasher', il paese è stato celebrato anche ottenendo il nuovo premio Serie fiction europea, andato a Babylon Berlin, che ha visto molti del cast e della troupe dello show salire sul palco. Ma la celebrazione più lunga e sontuosa è stata per Werner Herzog, a cui è stata dedicata una performance esilarante sulla sua vita e carriera in suono e immagini prima che il presidente della European Film Academy Wim Wenders gli cantasse una breve interpretazione di "Nothing Compares 2U" e gli consegnasse il Premio alla carriera. Herzog ha ringraziato il suo produttore Lucki Stipetić e ha incoraggiato tutti a celebrare e difendere l'Unione europea per aver concesso ai film di piccoli paesi una visibilità maggiore di quella che avrebbero avuto da soli. Ha anche elogiato l'Unione europea come il miglior progetto di pace nel mondo, opponendolo a "sciocchi tentativi di creare la pace mettendo fiori nei fucili".
L'idea che l'Europa sia un agente attivo e funzionante per la pace è stata vibrante per tutta la serata, specialmente quando Mike Downey, neoeletto presidente della European Film Academy, ha invitato sul palco il regista ucraino Oleg Sentsov, recentemente rilasciato dal carcere in Russia dopo oltre cinque anni. Downey ha colto l'occasione per annunciare la creazione da parte della European Film Academy, insieme a IDFA e IFFR, dell'International Coalition for Filmmakers at Risk, un'organizzazione volta a sostenere i cineasti che affrontano persecuzioni politiche per il loro lavoro. Fortunatamente, l'annuncio è arrivato lontano da qualsiasi menzione a Roman Polanski, nominato in diverse categorie per 'L’ufficiale e la spia'; menzioni che hanno ricevuto timidi applausi dal pubblico e sono state precedute da una spiegazione di Downey a inizio serata, secondo cui, alla luce delle recenti accuse contro il regista, l'Accademia stava cercando di "rivedere le sue misure disciplinari".
Mix riuscito di impegno e irriverenza, la cerimonia ha visto anche il regista polacco Paweł Pawlikowski ricevere il People's Choice Award per 'Cold War', accompaganto da un'umoristica osservazione su come la gente sia stata recentemente incline a fare scelte terribili. Edward Watts, regista con Waad Al Khateab del Documentario europeo vincitore 'For Sama', ha dichiarato che la squadra britannica del film è stata particolarmente felice di vincere un premio europeo mentre il paese è nel bel mezzo dei negoziati sulla Brexit. La produttrice croata Ankica Jurić Tilić, vincitrice dell'Eurimages Co-Production Award, ha elogiato allo stesso modo lo spirito europeo di collaborazione e tolleranza, che sperimenta ogni giorno nel suo lavoro di produttrice e coproduttrice.
La lista completa dei vincitori: Film europeo La favorita – Yorgos Lanthimos (Irlanda/Regno Unito/Stati Uniti)
Documentario europeo For Sama – Waad Al Khateab, Edward Watts (Regno Unito/Stati Uniti)
Commedia europea La favorita – Yorgos Lanthimos
Regista europeo Yorgos Lanthimos – La favorita
Attrice europea Olivia Colman – La favorita
Attore europeo Antonio Banderas – Dolor y gloria (Spagna)
Sceneggiatura europea Céline Sciamma – Ritratto della ragazza in fiamme (Francia)
Scoperta europea - Premio FIPRESCI Les Misérables – Ladj Ly (Francia)
Film d'animazione europeo Buñuel en el laberinto de las tortugas [+] - Salvador Simó (Spagna/Paesi Bassi)
Cortometraggio europeo The Christmas Gift - Bogdan Mureşanu (Romania/Spagna) People's Choice Award Cold War - Paweł Pawlikowski (Polonia/Regno Unito/Franciia.
Direttore della fotografia europeo Robbie Ryan – La favorita
Montatore europeo Yorgos Mavropsaridis – La favorita
Scenografo europeo Antxon Gómez – Dolor y gloria
Costumista europeo Sandy Powell – La favorita
Acconciatore e truccatore europeo Nadia Stacey – La favorita
Compositore europeo John Gürtler – System Crasher (Germania)
Sound designer europeo Eduardo Esquide, Nacho Royo-Villanova e Laurent Chassaigne – Una notte di dodici anni (Uruguay/Spagna/Argentina/Francia/Germania)
Effetti visivi europei Martin Ziebell, Sebastian Kaltmeyer, Néha Hirve, Jesper Brodersen e Torgeir Busch – About Endlessness(Svezia/Germania/Norvegia.
Eurimages Co-Production Award Ankica Jurić Tilić Serie Fiction Europea Babylon Berlin
Id: 752 Data: 11/12/2019 07:15:14
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- Musica
Novara Jazz - per concludere lanno in bellezza
Novara Jazz - Tutti insieme per concludere l'anno in bellezza. Una serie di concerti in location insolite, come la chiesa di San Giovanni Decollato proponendo le mille sfaccettature del jazz.
Nuova serie di appuntamenti nella splendida cornice della chiesa di San Giovanni decollato a Novara. Si comincia mercoledì 11 dicembre, alle 19, con il solo di sassofono di Luca Specchio. Brani originali che creeranno un'atmosfera davvero speciale. Si prosegue il 18 dicembre, ore 19, con la tromba di Vito Emanuele Galante e le sue composizioni di grande respiro.
Tutti i concerti sono a ingresso gratuito.
Tasteofjazz @ Opificio - Cucina e Bottega
Non mancano i concerti dell'appuntamento settimanale Taste of Jazz a Opificio - Cucina e Bottega, ogni giovedì sera. Sul palco dell'area Boccascena saranno tanti gli artisti che si esibiranno.
Il 5 dicembre a esibirsi il duo Davide Rinella e Simone Quatrana, un progetto che vede psichedelia, jazz, funk, groove, ritmi meccanici, ironia e introspezione, semplicità e caos come protagonisti.
Domenica 8 Dicembre - Aldo Mella e Lorenzo Cominoli (nella foto) - Aperitivo in... Jazz che hanno creato questo progetto dedicato a Charlie Christian, Padre della chitarra elettrica nel Jazz (e non solo…). Chitarre semiacustiche e classiche si uniscono alla sonorità di contrabbasso e basso elettrico oltre all’impiego di effettistica e loops dando vita a sonorità calde e melodiche oltre che ipnotiche ed etniche a tratti.
Giovedì 12 dicembre sul palco Carlo Nicita e Simone Mauri Quartet che dialogano improvvisando per creare paesaggi variopinti, attraverso composizioni originali e standard jazz in continua evoluzione e una costante ricerca creativa basata su ascolto e interplay. Carlo Nicita flauto, Simone Mauri clarinetto basso, Tito Mangialajo Rantzer contrabbasso, Massimo Pintori batteria.
Il 19 dicembre a suonare il Paolo Fabbri Jazz Ensemble con il loro standard jazz. Il repertorio comprende brani di Duke Ellington, Telonius Monk, Oliver Nelson, Charlie Parker, Wayne Shorter e di molti altri artisti che hanno fatto la storia di questa musica afro americana. Paolo Fabbri sax tenore, sax baritono, flauto, Gianni Belletti flicorno, Tommaso Uncini sax alto, Alessandro Manni Villa pianoforte, Massimo Erbetta contrabbasso, Davide Stranieri batteria.
Tutti i concerti inizieranno alle ore 20:30 La serata musicale Taste of Jazz può essere accompagnata dai vini e cocktails e dalle specialità gastronomiche proposte da Opificio. Per informazioni e prenotazioni 03211640587.
Aperitivo in... jazz @ Piccolo Coccia Per l'ottava stagione consecutiva, NovaraJazz firma il programma degli Aperitivi in... Jazz del Teatro Coccia. Sette domeniche mattina, alle 11:30 al Piccolo Teatro Coccia, durante le quali si degusteranno prima del concerto alle 11 nel foyer del Teatro Coccia specialità della produzione enogastronomica del territorio.
Calendario NovaraJazz
Dicembre 2019
Giovedì 5 dicembre 2019, ore 20:30 – Opificio - Cucina e Bottega Davide Rinella e Simone Quatrana - tasteofjazz Domenica 8 dicembre 2019, ore 21:10 - Piccolo Coccia Aldo Mella e Lorenzo Cominoli - Aperitivo in... Jazz Aldo Mella contrabbasso, basso elettrico a 6 corde, loops e effetti; Lorenzo Cominoli chitarre, loops e effetti
Mercoledì 11 dicembre 2019, ore 19:00 – Chiesa di San Giovanni Decollato Luca Specchio
Giovedì 12 dicembre 2019, ore 20:30 – Opificio Cucina e Bottega Carlo Nicita e Simone Mauri Quartet - tasteofjazz
Mercoledì 18 dicembre 2019, ore 19:00 – Chiesa di San Giovanni Decollato Vito Emanuele Galante Giovedì 19 dicembre 2019, ore 20:30 – Opificio Cucina e Bottega Paolo Fabbri Jazz Ensemble - tasteofjazz
Id: 750 Data: 06/12/2019 01:55:59
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- Poesia
M. Grazia Galatà ... o l’incognita moltitudine delle parole.
Maria Grazia Galatà . . . o l’ignota moltitudine delle parole.
Raccolta poetica - Marco Saya Edizioni - 2018
“. . oltre il muro dell’innocenza […] taci o brivido / all’acuirsi del sonno / retto appena nel nudo silenzio” “. . c’è solo il tempo del distacco […] quel quarto lato della coscienza / l’attimo / oltre / je m’appelle” “. . sarà (?), la migranza dei nostri sogni / o l’affaticamento / di un silenzio ambrato all’ora giunta / di un improbabile ritorno forse”
«L’inconcio si esprime per immagini», usava dire Carl Gustav Jung, quelle stesse immagini che la memoria smuove allo sguardo retrospettivo dell’autrice di “Quintessenze”, nel consegnare le parole alla superficie della pagina, volendo restituire una qualche finitezza all’apparire. Per quanto ciò che appare ben presto svanisce, ancor più dell’assenza violata delle parole, prima che le immagini trovino sulla pagina le risposte più adatte alle tante domande che l’autrice si pone in finitezza d’inganno, in assenza di ciò che riversa in esse la voce nel declamarle all’inconscio.
“. . che il silenzio rimanga / tra la porta della quinta / essenza o un tramite / dell’incandescente / la mira delle speranze / nella ripetizione di / un singolo respiro”
Tant’è che le parole ancor non dette necessitano di leggersi con enfasi, non d’essere tradotte, perché sono esse stesse immagini, catturate nel momento della rêverie, in cui la memoria s’apre all’inconscio, a quell’ “ignota moltitudine di nulla” (Pessoa) che noi siamo in assenza di voce. Sì che ci si può perdere negli spazi bianchi fra le righe andando alla ricerca della parola mancante, nell’intuizione delle domande che non chiedono risposta alcuna, e che quasi, viene da chiedersi se mancando davvero esiste, o se mai giungerà alla sua epifania, nell’approsimarsi del tempo che si concede.
“. . è nei piani del tempo quell’avvicinarsi ambiguo all’innocenza o dell’amore leso nella solita impervia salita che appena appena tocca”
“Quintessenza” come essenza del fluire della parola nuda nell’ “aspetto liquido” (Bauman) della realtà delle cose, metafora della estraneità afferente ai fatti della vita, in quanto delatori di edenica memoria, della fiducia tradita, rimasta sospesa senza alcuna possibilità di riscatto. C’è tutto l’estraneo che siamo a noi stessi nell’inconscio junghiano della frase iniziale che Maria Grazia Galatà esprime con le parole contaminate d’ignoto ancor più delle immagini che il suo fare poesia evoca, e che, invece di avvicinarsi s’allontanano nello specchio convesso della sua onirica visione.
“. . niente aveva ragione di esistere / oltre questo tempo stanco o il / battito accelerato dopo essersi / giustificati del perché si vive / e si perde […] oppure sono fumo queste memorie di attesa”
“. . forse l’apparente è un apostrofo invisibile / una riga di memoria nel lato buio / o l’addio rovescio del sale […] le attese delle guance erano terra erano / aria e tempo di mille spose / leggendo tra voci basse al petto / quando i coralli hanno abisso / / ed ebbero a dire nel sonno inquieto”
Qualcosa di indicibile, di non detto, che sa di fugace prossimità, come di verità smentita dalla realtà o forse tradita ancor prima di conoscerne l’entità, la forza nascosta di un sentimento provato che cerca una smentita, per non essere accolto fino in fondo del soffrire, di cui pure non si è perduta l’emozione.
“. . l’imbrunire delle nostre solitudini non è che ballo ambiguo di corrispondenze e maginazione fascinata da questo segreto improvviso nei pasti nudi intatti di forse prendi piano le mie emozioni delle prime luci quando il doppio sarà altro o alta estasi nella follia riflessa moltiplicata spazio scenico o immerso nulla sospensione di una vita spazzata”
“Quintessenza” di cui sentiamo il bisogno, affinché la parola mancante renda alla possibilità dell’istante, seppure violato, di assolvere al dovere di renderci quella felicità che volevamo, per cui sentire nella vita che pulsa, ancora il brivido fremente dell’amore, ancor prima che ci colga nell’apparire estremo, il perdurare della presenza nell’assenza.
“. . negli inverni di notti violate da mille solitudini mi fanno già male gli anni che non avrò partendo da un informe giaciglio giacendo inadatta tale è là frequenza di immagini sovrapposte e lunga è la mano che poggia l’attimo nel tempio dei miracoli quando tutto sembra perfetto”
Ma quale e quanta solitudine disconosce la felicità “. . di quando il ricordo era più forte” (?), si domanda, o forse si risponde Maria Grazia Galatà, nell’incedere dei passi che la vedono attenta “. . nelle ore del silenzio – quando – le fragole sono dolci – che – nemmeno le vedi”. Una sospensione di tempo che lascia sperare nella produzione di ‘senso’, quasi da illudersi/ci che la filosofia infine salverà la poesia dall’amara esperienza, dalla caducità dell’anima assorta; sicché “. . la pioggia cade sempre forte / nei solchi delle guance quando / giunge il tempo dei nodi quelli / che ti chiudono nelle ore del / silenzio”.
È allora che ho sentito: “. . dal cielo cade(re) una rosa […] misera misericordia”, ed ancora “. . ho sentito fermarsi il respiro / in questo tempo malato e la / forma non ha spazio ma cadute […] piove – non senti i lamenti dei vuoti lasciati?”. C’è ancora una qualche verità in questo “. . luogo delle ombre / di vana fertile coscienza / la traccia silenziosa / di una città sospesa”.
No, si risponde l’autrice: “. . lì dove non è vento nelle mille costellazioni / tra le rughe del giorno si aprono le porte / del tempo che dilata gli anni / non c’è niente ch’io possa vedere più della / luce riflessa senza passare per le voglie / di carta (ricordi?) / le arance fiere l’odore / di bruciato – bisognerebbe sentire il profumo / dell’erba – la nebbia – fino allo stordimento / assecondando la solitudine di questo lungo / istante sfocato”.
Ma noi che leggiamo, sentiamo quell’aroma che sa di bruciato nelle parole del poeta, e mai abbiamo pensato che sia possibile evitarlo, solo ubriacarsi di esso, assaporare fino in fondo il gusto del miele affumicato, forse, ma pur sempre con quel retrogusto dolce che porta a illuderci, con Maria Grazia Galatà, ancorché “. . dalla mia (sua) più nuda / realtà / ne gli attimi di tempo […] mentre tutto s’ovatta – i suoi occhi – hanno visto la nebbia / salire fino al cielo” della speranza . . .
“. . c’è un silenzio assordante e tacito / per tutte le volte che ho sognato il mare.”
L’autrice.
Maria Grazia Galatà nativa di Paermo risiede da tempo a Mestre Venzia, ha all’attivo numerose pubblicazioni e rilevanti premi nel panorama della poesia e non solo. È presente in diversi siti web e cataloghi d’arte internazionali e fotografa di professione (è infatti sua l‘originale foto di copertina, e inoltre si dedica da diversi anni nell’ambito della ricerca. Va qui ricordata la sua partecipazione alla Biennale di Venezia 2009; “Altrove” un ‘reading con videoproiezione 2010; la Mostra fotografica personale “Simmetria di un’apparenza” – presso la Galleria d’Arte dell’Istituto Romeno di Venezia; nonché la partecpazione alla 2° edizione di “Congiunzioni Festival Internazionale di Poesia 2017”.
Sitografia: www.mariagraziagalata.it
Il libro “Quintessenze” è edito da Marco Saya Editore – info@marcosayaedizioni.com
Id: 748 Data: 29/11/2019 07:49:44
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- Filosofia
A Tolentino - la 30a Biumor / Popsophia
A TOLENTINO – 30a BIUMOR / POPSOPHIA Si celebra quest’anno la Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte.
“Un'opportunità di intrattenimento intelligente, spettacolare e popolare per ragionare sui temi del mondo contemporaneo”.
Tema dell’avvenimento è: “L’ODIO”
Io conosco la gente, cambia in un giorno.Elargisce con la stessa generosità il suo odio e il suo amore.Voltaire Gli artisti della XXX Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte si interrogano su una parola d’ordine politicamente dirompente e culturalmente dominante: “l’odio”. Proprio questo sarà il tema delle quattro giornate di Biumor, il festival dell’umorismo di Popsophia. Dall’origine antropologica alla sua metamorfosi digitale, dai fatti di cronaca alle creazioni dell’immaginario, dai social network alle opere cinematografiche: il festival sarà un’indagine senza sconti dei linguaggi dell’odio contemporaneo con la lente d’ingrandimento della filosofia. Un tema di stringente attualità che merita di essere affrontato senza facili moralismi. L’odio che dilaga sul web, oltre a essere l’inestirpabile retaggio di un passato che non passa, è un’intossicazione pericolosa di cui siamo al contempo colpevoli e vittime. In un clima saturo di passioni biliose, proprio la cultura e la filosofia, amiche del dubbio e nemiche del fanatismo, possono rappresentare una scialuppa di salvataggio contro l’odio settario e beota degli haters. Lucrezia Ercoli Direttrice Artistica Popsophia
La Trentesima edizione della Biennale caratterizza il novembre tolentinate e torna nel centro storico per realizzare un evento culturale inedito in una città che si è sempre distinta per innovazione artistica e promozione turistica. Un’occasione importante per contribuire alla ripresa del territorio dopo gli eventi sismici, che rilancia il dibattito culturale intorno ai temi legati alla nostra Biennale dell’Umorismo, un’eccellenza della città di Tolentino. Giuseppe Pezzanesi, Sindaco di TolentinoLe giornate della Biennale di fine novembre nel centro storico di Tolentino sono un'opportunità di intrattenimento intelligente, spettacolare e popolare per ragionare sui temi del mondo contemporaneo. Per Tolentino è un'ottima occasione per aumentare il richiamo turistico dello splendido museo dell'umorismo e di tutto il territorio comunale.Silvia Luconi, Vicesindaco e Assessore al Turismo La Biennale dell’Umorismo nell’Arte si conferma dopo ben trenta edizioni come grande evento internazionale, capace di rappresentare la cultura della creatività artistica utilizzando gli strumenti della satira e del sorriso. Un’eccellenza che contribuisce a rendere Tolentino una città moderna che ha la capacità di entrare nella battaglia delle idee oltre i confini regionali. Biumor si conferma un progetto di respiro nazionale che valorizza le eccellenze del nostro territorio e contribuisce a rilanciare dopo i danni degli eventi sismici il valore turistico del centro storico. Silvia Tatò, Assessore alla Cultura.
MOLTI INGRESSI GRATUITI. Gli incontri hanno valore di aggiornamento per gli insegnanti (DDG 1329 7 settembre 2018) e di credito formativo per gli studenti.
LE MOSTRE: La 30a edizione a Palazzo Sangallo : LA MOSTRA E IL MUSEO 21 novembre 2019 / 26 gennaio 2020.
Il 2019 mobilita l’arte umoristica nazionale e internazionale per celebrare la 30a edizione del concorso della Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte con grandissime novità.La mostra delle opere in concorso ripropone con forza una eccellenza internazionale che contraddistingue il nostro territorio. Il trentesimo anniversario del concorso si svolge in un contesto prezioso, il Museo Internazionale dell’Umorismo nell’Arte – Miumor. Unica nel suo genere in Italia, la collezione di Palazzo Sangallo custodisce disegni, illustrazioni, caricature, sculture e dipinti di artisti di calibro nazionale e internazionale. La mostra delle opere sul tema dell’odio vi aspetta per scoprire un altro lato dell’arte, quella che, nonostante venga considerata un’arte minore, è capace, più di ogni altra forma dell’espressione artistica, di parlare direttamente e chiaramente a tutti.
LE MOSTRE: NORBERTO BOBBIO E L’ELOGIO DELLA TOLLERANZA NELL’ARTE DI MAURIZIO GALIMBERTI:
La figura di Norberto Bobbio è al centro di uno dei lavori più affascinanti di Maurizio Galimberti. Il raffinato fotografo, maestro indiscusso nell’uso della Polaroid in particolarissimi “mosaici fotografici”, è già stato ospite d’onore del festival Popsophia. Galimberti, infatti, ha sempre raccontato mediante l’occhio delle istantanee soggetti dall’identità unica, dai protagonisti della cultura pop internazionale (da Lady Gaga a Johnny Depp) fino alle grandi personalità della cultura italiana. E quello con Norberto Bobbio è stato uno degli incontri più significativi per il maestro del ritratto. A Biumor 2019, a 110 anni dalla sua nascita, lo ricordiamo come un intellettuale che ha lasciato un segno indelebile nella storia culturale del nostro Paese, un invito al dialogo come antidoto al linguaggio dell’odio. Gli scatti, prezioso ricordo di un incontro, confluiranno in una mostra, resa possibile grazie alla collezione del dottor Alberto Marcelletti, mecenate con attento occhio artistico.
LE MOSTRE : FEDERICO FELLINIE LA BIENNALE Il 2020 sarà l’anno di Federico Fellini. Tolentino si unisce agli eventi che ne celebreranno il mito con il significativo tributo della Biennale. Nel 1991, infatti, Fellini raggiunse la città per inaugurarne l’edizione numero XVI del concorso. L’ambizione è di iniziare da questo indelebile ricordo, rivivendolo con immagini, video e protagonisti dell’epoca, per arrivare a una selezione di disegni umoristici dedicati al grande maestro che provengono dal museo di Tolentino Miumor. Un’ulteriore occasione per ribadire il genio di Fellini disegnatore: la mostra affronterà aspetti inediti e reconditi della figura del grande maestro e del legameche ebbe con l’umorismo.
O R E 17. 3 0AUDITORIUM ASSM VIA ROMA 36Eroismi giovanilinuovi linguaggi e nuove generazionicontributi video degli studentidell’I.I.S. Francesco Filelfoindirizzo Liceo Classicocorso Comunicazione e Nuovi MediaintervengonoSilvia TatòAssessore alla CulturaDonato RomanoDirigente dell’I.I.S. Francesco FilelfoClaudia CanestriniCoordinatrice Liceo ClassicoRiccardo Minnucci Videomaker Popsophia
MERCOLEDÌ 20 NOVEMBRE / biumor young Gli incontri hanno valore di aggiornamento per gli insegnanti (DDG 1329 7 settembre 2018) e di credito formativo per gli studenti.
GIOVEDÌ 21 NOVEMBRE ORE 17.00 PALAZZO SANGALLO, SALA MARIMUSEO DELL’UMORISMO inaugurazione mostra: La 30a Biennale “L’odio”
ORE 18.00 POLITEAMA inaugurazione Mostre Surreale, poetico e visionario Federico Fellini e la Biennale a cura di Giancarlo Cegna Maura Gallenzi Giorgio Leggi Agnese Paoloni Elogio della tolleranza ritratto di Norberto Bobbio di Maurizio Galimberti
ORE 18.30 Filosofia dell’odio la lezione dell’immagine lectio inauguralis con Massimo Donàe Maurizio Galimberti
ORE 19.30 La pausa buffet a cura dell’Alberghiero “Varnelli”di Cingoli
ORE 21.30 POLITEAMA Concorsopremiazione dei vincitori della 30a edizione della Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte Umorismo 2.0 premio Accademia teatro Degrado Postmezzadrile interviene Piero Massimo Macchini premio Accademia social Lercio.it premio Accademia videoTerzo Segreto di Satira premio alla carriera Iginio Straffi Presidente del Gruppo Rainbow.
VENERDÌ 22 NOVEMBRE ORE 18.00 POLITEAMA Un ‘silenzioso’ sguardo nello humour con Paolo Della Bella Pietro Frenquellucci
ORE 18.45 Odiare ti costa con Andrea Colamedicie Maura Gancitano (Tlon) TEATRO VACCA J. ORE 21.15 LECTIO POPHate Speech, con Massimo Arcangeli.
ORE 21.30 PHILOSHOWAll That Jazz il Musical e l’elogio della leggerezza spettacolo filosofico-musicale ideato e diretto da Lucrezia Ercoli interviene Saverio Marconi ensemble musicale Factory voce recitante Rebecca Liberati.
PRENOTAZIONE: telefonando a Teatro Vaccaj 0733 960059 da lunedì a venerdì orario 10-13/15-18 oppure scrivendo ainfo@teatrovaccaj.it
ORE 18.00 POLITEAMA Joker dalla parte dell’odio con Riccardo Dal Ferro
ORE 18.45 I duellanti dalla novella di Joseph Conrad al film di Ridley Scott con Maurizio Blasi letture Rebecca Liberati.
SABATO 23 NOVEMBRE TEATRO VACCA J. ORE 21.15 LECTIO POPHate Speech con Angela Azzaro e Piero Sansonetti.
ORE 21.30 PHILOSHOW All You Need is Love I Beatles e l’elogio della leggerezza spettacolo filosofico-musicale ideato e diretto da Lucrezia Ercoli Interviene Carlo Massarini ensemble musicale Factory voce recitante Rebecca Liberati.
PRENOTAZIONE telefonando a Teatro Vaccaj0733 960059da lunedì a venerdì orario 10-13/15-18 oppure scrivendo ainfo@teatrovaccaj.it
Con gli interventi prestigiosi di:
MASSIMO ARCANGELI Professore ordinario di Linguistica italiana presso l’Università di Cagliari. Dal 2010 è docente di teoria e tecnica del linguaggio giornalistico presso l’Università LUISS – Guido Carli. Numerose le collaborazioni con testate nazionali. Tra le sue ultime pubblicazioni “All’alba di un nuovo medioevo. La comunicazione al tempo di internet” (2016); “Faccia da social. La comunicazione su Facebook” (con Valentino Selis, 2017). ANGELA AZZAROGiornalista, già caporedattrice de “Il dubbio”, giornale promosso dalla Fondazione dell’Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale. Dal mese di ottobre 2019 è vicedirettrice e caporedattore della nuova edizione del quotidiano “Il Riformista”. Prima a “Liberazione” (ne curava anche l’inserto culturale della domenica) e vicedirettore de “Gli Altri”. MAURIZIO BLASI Giornalista, di origine fermana, entrato in Rai nel 1978 attraverso i concorsi pubblici che diedero il via alla Terza Rete Tv. Dal 1988 è in forza alla redazione delle Marche, e per 12 anni ha condotto il Tg itinerante, che ha conseguito importanti risultati di ascolto. Dal 2014 è caporedattore della redazione marchigiana della Rai.
RICCARDO DAL FERROFilosofo, scrittore ed esperto di comunicazione e divulgazione. Direttore delle riviste di filosofia contemporanea Endoxa e Filosofarsogood, porta avanti il suo progetto di divulgazione culturale attraverso il suo canale Youtube “Rick DuFer”. Performer ed autore teatrale, insegna scrittura creativa presso la scuola da lui fondata a Schio (VI) “Accademia Orwell”. Nel 2014 esce il suo romanzo “I Pianeti Impossibili”. Nel 2018 esce il saggio “Elogio dell’idiozia” e nel 2019 “Spinoza e popcorn”.
PAOLO DELLA BELLA Artista fiesolano, Medaglia d’Oro al Salone Internazionale dei Comic di Lucca nel 1967. Nel 1967 ha fondato, insieme a Graziano Braschi e Berlinghiero Buonarroti, il Gruppo Stanza, impegnato nella diffusione e nella divulgazione dell’umorismo grafico d’autore. È autore del libro “Uno Sguardo profondo. Viaggio nello Humour e nella Satira” in collaborazione con Claudia Paterna e Laura Monaldi, con la prefazione di Stefano Salis, in cui sono raccontati gli incontri con i grandi maestri dell’umorismo.
MASSIMO DONÀ Musicista e filosofo, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. Ha all’attivo ben 7 CD musicali incisi con i suoi gruppi. Tra le sue ultime pubblicazioni filosofiche: “La filosofia di Miles Davis. Inno all’irrisolutezza” (2015); “Tutto per nulla. La filosofia di William Shakespeare” (2016); “La filosofia dei Beatles” (2018).
LUCREZIA ERCOLIDottore di ricerca in filosofia presso l’Università Roma Tre. Docente di “Storia dello spettacolo e filosofia del teatro” presso l’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria e di “Storia della televisione” e “Filosofia dell’arte” presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. È direttrice artistica di Popsophia dal 2011. Tra le sue ultime pubblicazioni: “Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma” (2015); “Filosofia dell’Umorismo” (2016); “Che la forza sia con te! Esercizi di popsophia dei mass media” (2017).
SAVERIO MARCONI Attore di cinema, teatro, radio e tv, e regista teatrale. Firma la regia di innumerevoli opere teatrali, opere liriche, musical che gli fanno ottenere prestigiosi riconoscimenti, da ultimo l’Oscar Italiano del Musical nel 2015. Fa nascere a Tolentino la Scuola di Recitazione di cui è ancora oggi direttore artistico e nel 1983 la Compagnia della Rancia. Tra le sue ultime produzioni, nel 2018 il musical “Big Fish” a Tolentino per la riapertura del Teatro Vaccaj. Dal 2019 è Presidente Onorario della BSMT - Bernstein School of Musical Theatre di Bologna.
CARLO MASSARINI Giornalista, conduttore televisivo e radiofonico. Dal 1981 al 1984 è conduttore e autore della famosa trasmissione di Rai1 “Mister Fantasy” dedicata alla videoarte e al videoclip e dal 1995 al 2002 conduce MediaMente per Rai Educational. Dal 2014 conduce su Virgin Radio la seguitissima trasmissione “Absolute Beginners”. Tra le sue numerose pubblicazioni legate alla critica musicale, Dear Mister Fantasy (2009).
PIERO SANSONETTIGiornalista di politica italiana e di esteri. Dal mese di ottobre 2019 dirige la nuova edizione del quotidiano “Il Riformista”. Inizia a l’Unità nel 1975, prima come cronista, poi come notista politico, caporedattore, vicedirettore e codirettore. Corrispondente fino al 1996 dagli Stati Uniti. Dirige poi Liberazione e collabora con Il Riformista. Nel 2010 conduce Calabria Ora. Lavora alla nascita del quotidiano Gli Altri e di Cronache del Garantista. Fino al 2019 è stato direttore del Il Dubbio.
TLON Andrea Colamedici e Maura Gancitano, filosofi e scrittori, sono gli ideatori del progetto Tlon (Scuola di Filosofia, Casa Editrice e Libreria Teatro). Insieme hanno scritto Lezioni di Meraviglia (2017), La società della performance (2018), e Liberati della brava bambina (2019). Hanno realizzato per Amazon Audible i podcast “Scuola di Filosofie”. Sono promotori, insieme all’avvocata Cathy La Torre, dell’iniziativa “Odiare ti costa”, campagna contro l’hate speech sul web.
PATROCINI Presidenza del Consiglio dei MinistriMinistero per i Beni e le Attività CulturaliMinistero dell’Istruzione, dell’Università e della .
CONTRIBUTI Arianna Berroni, Maria Rossella Bitti, Mauro Cicarè, Mara D’Amico, Mauro Evangelisti, Pierandrea Farroni, Rossella Ghezzi, Gianni Giuli, Giulia Lazzari, Loredana Leoni,Piero Massimo Macchini, Cinzia Maroni, Caterina Marziali, Edoardo Mattioli,Mauro Minnozzi, Laura Mocchegiani, Gisella Quaglietti, Carla Sagretti, Vando Scheggia, Sofia Tomassoni, Mirella Valentini, Viola Vanella, Massimo Zenobi
COLLABORAZIONI CULTURALI Biblioteca Filelfica, Istituto Alberghiero Varnelli Cingoli,I.C. Don Bosco, I.C. Lucatelli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, I.I.S. Francesco Filelfo, IPSIA Renzo Frau, UniTre Tolentino.
PARTNER EDITORIALE Casa Editrice ‘Il Melangolo’ STAFF TECNICO DFL ServiceTecum Srl
Id: 745 Data: 14/11/2019 06:53:46
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- Cinema
Ceneuropa Italian Film Reviews
CINEUROPA ITALIAN FILM REVIEWS
Recensione: "Tutto il mio folle amore" di Camillo De Marco
24/10/2019 - Gabriele Salvatores non teme di toccare il cuore del pubblico con il viaggio di un padre assieme al figlio autistico, con qualche cliché e una regia di alto livello. “Io sono strano, tu sei strano. Dove andiamo?!” urla Willi (Claudio Santamaria) al figlio sedicenne Vincent (Giulio Pranno) mentre sono in fuga su un furgone in Tutto il mio folle amore - presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2019 - film con cui Gabriele Salvatores è tornato “on the road again”, con i suoi paesaggi visceralmente emozionali. Cantante di matrimoni squattrinato e ad alto tasso alcolico in perenne tournée nel Nord Est (lo chiamano il “Modugno dei Balcani”) Willi ha tagliato la corda prima che Vincent nascesse e mostrasse i primi segni di autismo. La mamma Elena (Valeria Golino, che ha interpretato nel 1988 il film più famoso sull’autismo, Rain Man di Barry Levinson) lo ha allevato, con tutte le difficoltà del caso, in una gabbia dorata fatta di una casa di lusso nei dintorni di Trieste e ippoterapia, aiutata dal compagno Mario (Diego Abatantuono), facoltoso editore di romanzi e poesie. Folgorato sulla strada della celebre ballad “Vincent” di Don Mc Lean, Willi irrompe in casa di Elena per sapere del figlio. Quando riparte, si accorge che l’inarrestabile Vincent si è nascosto nel suo pick up. Il musicista si è impegnato in una serie di date in Croazia e inizia così un viaggio fisico e sentimentale, di avvicinamento padre-figlio, di riscoperta di se stessi e dell’altro. Un viaggio attraverso territori deserti e spesso colorati dell’ex Jugoslavia, punteggiato da episodi bizzarri e spassosi, conditi con alcol e sesso iniziatico. Il bravo Santamaria duetta in perfetta sintonia con l’esordiente dalla faccia d’angelo Giulio Pranno, impegnato in una performance straordinaria fatta di stranezze ed eccessi, mentre la famiglia naturale parte alla ricerca del ragazzo “rapito”.
Scritto da Umberto Contarello e Sara Mosetti con il regista, il film è una trasposizione libera del romanzo di Fulvio Ervas “Se ti abbraccio non aver paura”, racconto autobiografico di una padre che dopo aver inseguito terapie tradizionali, sperimentali e spirituali, parte con il figlio autistico per un viaggio in moto, attraversando l’America e perdendosi nelle foreste del Guatemala. Tutto il mio folle amore sarebbe facilmente attaccabile per come è trattato superficialmente il disturbo dello spettro autistico. Anche se all’inizio del film si intuisce il disagio familiare con una scena piuttosto esplicita, si può obiettare che il dramma vissuto dai genitori di giovani affetti da questo disturbo e le difficoltà che incontrano nella società non sono raccontate. Ma Salvatores sembra aver scelto piuttosto il lato solare di questo adolescente diverso, per esprimere la relazione tra “follia” e purezza, autenticità e creatività (non a caso, la canzone “Vincent” di Mc Lean è stata ispirata dal tormento di Van Gogh). Il film mette in scena la gioia di vivere nonostante tutto, senza timore di toccare il cuore del pubblico con qualche cliché ma con una confezione visiva di altissimo livello (la fotografia è di Italo Petriccione).
Tutto il mio folle amore è prodotto da Indiana Production con Rai Cinema ed EDI Effetti Digitali Italiani, in collaborazione con Friuli Venezia Giulia Film Commission, in associazione con Unipol Banca S.p.A. Le vendite internazionali sono affidate a RaiCom. Il film sarà nelle sale italiane dal 24 ottobre con 01.
Recensione: "Tornare" di Vittoria Scarpa
28/10/2019 - Cristina Comencini ritrova Giovanna Mezzogiorno, quattordici anni dopo La bestia nel cuore, in questo thriller dell’inconscio che ha chiuso la 14ma Festa del Cinema di Roma E’ un ritorno doppio, sia fisico che mentale, quello che compie il personaggio principale del nuovo lungometraggio di Cristina Comencini, Tornare. Ma il film, proiettato in chiusura della 14ma Festa del Cinema di Roma, segna anche il ritorno di Giovanna Mezzogiorno, quattordici anni dopo il film candidato all’Oscar La bestia nel cuore, su un set diretto dalla regista romana figlia del grande Luigi, e ai temi dell’inconscio e dei traumi rimossi. Un racconto, sotto forma di thriller, in cui passato e presente convivono, e il tempo lineare non esiste, è solo un modo per misurare il cambiamento.
La protagonista del film, Alice, si fa letteralmente in tre ed è interpretata 40enne da Mezzogiorno, adolescente dalla rivelazione Beatrice Grannò e bambina da Clelia Rossi Marcelli. Siamo nella Napoli degli anni Novanta e le tre dialogano fra loro metaforicamente (e non solo) nella vecchia casa di famiglia sul mare, disabitata, dove Alice adulta torna dopo molti anni di lontananza, in occasione della morte del padre. Lì ritrova anche sua sorella Virginia (Barbara Ronchi), con la quale decide di vendere la casa e di svuotarla quindi di tutti i loro ricordi, e un uomo misterioso, Marc (Vincenzo Amato) che negli ultimi tempi si era preso cura del padre malato.
Sarà proprio quest’uomo, di cui inizialmente Alice sembra non ricordare nulla, ad aiutarla a rimettere insieme i pezzi di un evento drammatico e determinante della sua vita. Alla fine degli anni Sessanta, la donna era un’adolescente bella e ribelle, che respirava l’aria di emancipazione del tempo, avida di libertà e divertimento. Il suo atteggiamento, la sua voglia di godersi la vita e di flirtare con tutti, era facilmente scambiato per leggerezza, in una società dell’epoca repressiva, essendo lei oltretutto figlia di un militare della marina americana. Questa sua “diversità” avrà delle conseguenze che il film ci svela gradualmente, durante un viaggio nella memoria molto doloroso. Nel presente, Alice è una donna molto diversa da quella che fu, e sembra nutrire un senso di colpa per essere stata un tempo così spensierata e audace. Mezzogiorno incarna una donna sofferente, remissiva (anche troppo), “punita”, praticamente irriconoscibile rispetto alla ragazza degli anni Sessanta che ballava il sirtaki in costume da bagno. Da sottolineare invece la straordinaria somiglianza fisica tra le attrici che impersonano le tre diverse età della protagonista (il casting è di Laura Muccino e Sara Casani), così come l’assoluta credibilità dei tre Marc, da ragazzo interpretato da Marco Valerio Montesano e all’età di 10 anni da Alessandro Acampora.
Il tema del film è universale, è difficile perciò che non lasci un segno nello spettatore. Sarebbe bello poter rincontrare noi stessi da adolescenti e da bambini con la consapevolezza degli adulti che siamo oggi, e magari tenersi per mano. Ispirato alla storia di una sua amica, Comencini ha confessato che questo è il suo “film più libero” che scava “in un mondo interiore dove il tempo non esiste”, e nel finale, questo assunto ingarbuglia un po’ troppo le cose. Il tutto è calato in una Napoli inquietante e bellissima, lontana dai cliché, con i suoi luoghi insolitamente spopolati e le grotte sotterranee. Un film forse non facile, ma ammaliante.
Tornare è prodotto da Lumière & Co. con Rai Cinema. La distribuzione è affidata a Vision Distribution.
Id: 743 Data: 30/10/2019 04:40:43
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- Libri
La stella sibillina - un libro di Mario Nicolao
“La stella sibillina” – Un libro di Mario Nicolao – Archinto 2019
Nonostante lo scorrere del tempo, “ho desiderato il paradiso, mi sono accontetato dell’inferno”, sembra dirci ‘volando alto’ l’autore di questo prezioso cammeo che ripercorre le strade del Mito ctonio dell’Oscurità orfica, ripreso dal leggendario viaggio del poeta Orfeo nell’Ade alla ricerca di Euridice, che Mario Nicolao rintraccia, nelle tappe rilevanti della sapienza greca (del periodo arcaico VIII – VI sec. a.C.), attestandone il valore creativo, o meglio ‘la sua forza evocativa’, nell’ambito della scrittura poetica del Novecento.
Viene da chiedersi con quali occhi noi guardiamo oggi a quei cieli così gravidi di un passato senza avallo, concepito in amplessi furtivi per un misero aborto d’idee appassite, ancor prima d’esser rifiorita in noi la speranza di un futuro sagace? Con quale purezza crediamo di poter accedere alla sublimità di quell’empireo scomparso che pure ci è dato contemplare di qua dall’orizzonte, se in ultimo, ciò che alla vita compete è solo di scendere nell’immensa voragine del profondo, nell’incerto oscuro mondo che ci accoglierà furtivi?
Con quale sentire ci avvicineremo al riscatto mitico di Orfeo se l’insegnamento dei ‘grandi’ del passato sfugge alle nostre orecchie frastornate dal chiasso che fanno le dispute eccessive, i ferri battuti, gli scismi e gli squarci abbacinati delle guerre, cui pure siamo sopravvissuti e/o ancorché scomparsi, andiamo alla ricerca del carattere ‘orfico’ della liricità poetica, della bellezza onirica dell’arte, della purificazione iniziatica dell’anima, non meno del Mito che lo contempla? Ciò, per quanto l’autore non sembri in cerca di risposte ma di affermazioni, richiama alla nostra attenzione la necessaria discesa agli inferi che dobbiamo intraprendere per il suo raggiungimento.
Possiamo noi, in quanto neofiti, affermare con Mario Nicolao di essere seguaci, nonché oscuramente sibillini, di quel movimento poetico afferente all’Oscurità orfica che fin dall’antichità impone la sua presenza in molta produzione letteraria contemporanea, in cui annaspiamo al pari di clandestini in cerca di un approdo che non ci è dato? Siamo davanti alla mutazione dell’orfismo della parola, caratterizzata dalla dottrina della metempsicosi e da riti per la purificazione dell’anima riservati non più solo agli iniziati che nell’antica Grecia sceglievano (e/o erano scelti) nell’orphne la via da seguire; bensì alla copiosa ‘Oscurità orfica’ dei nostri giorni. Numerosi sono gli esempi di riferimento ‘colto’ che l’autore raccoglie nelle pagine del libro, nei quali Thanatos (potenza ctonia degli inferi) interferisce fra vita e immortalità, come sempre sarà «..nel rapporto prima positivo poi negativo con l’amore … a causa della morte.» Ciò, per quanto l’amore, come la morte, ha molte sfaccettature diverse, si riveste di molteplici maschere, è soggetta a numerose interpretazioni che, pur tuttavia non dissimula, non occulta la fine che incombe, di cui è ‘oscura’ portatrice.
Quale fosse l’oscuro ‘sibillino’ sentire di Stéphane Mallarmé, o di Marcel Proust, di Marina Cvetaeva o di Mario Richter e Tommaso Landolfi, tutti autori ‘interpreti’ di questo libro, le cui opere Mario Nicolao scandaglia fin nel profondo nell’intento di svelarne il segreto fluire poetico, sotto l’egida landolfiana: «Nulla significare, nulla dire», permette a noi lettori di inoltrarci in quel ‘mondo profondo’ che attraversa tutta la letteratura del Novecento e che giunge fino ai nostri giorni. Tant’è che viene da chiedersi perché non Boudelaire e tutti i ‘poeti maledetti’; perché non Bulgakov e Pirandello e/o Leopardi, perché non tanti altri … (?)
Ma questo non vuole essere un compendio di nomi da includere in una lista, bene ha fatto l’autore a limitare il campo di ricerca all’interno di un progetto letterario la cui intenzione precipua è quella di: “..avvicinarci al senso dell'Orfismo e di svelare la presenza dell’Oscurità orfica nella scrittura poetica del Novecento”; «Su cosa davvero cercavano i Greci (e dopo di loro gli altri popoli che vi hanno fatto riferimento per secoli)»; o del perché noi ancora oggi torniamo soventi al mito di Orfeo, non è dato sapere. Di certo facendo ad esso rirferimento, s'apre davanti a noi un futuro aspro che fin sulla soglia denota un oscuro sopito silenzio di morte. Di quali accordi – mi chiedo – noi (scrittori e poeti) instancabili cercatori d'oro e di perle, di muse e d'eroi, di meraviglie già viste, consumate fino allo stremo, che abbiamo ighiottito finanche le parole, fermate sul liminare del tempo, andiamo alla ricerca? Mario Nicolao ci rammenta, in esergo, che «Il mito è ciò che non è mai avvenuto ma è sempre», a cui aggiunge a mo’ di postilla: «Orfeo , il cantore privilegiato e solitario, (è) il vero e proprio archetipo della poesia lirica occidentale»,
e che noi, in limine, siamo i suoi sudditi.
L'autore: Mario Nicolao, nato a Pesaro, ha vissuto tra Milano, Parigi e Genova. Oltre a due libri di poesie, Carte perse e Falso Haiku, ha scritto con Vincenzo Consolo Il viaggio di Odisseo e con Aldo Buzzi Lettere sulbrodo. Ha pubblicato saggi su Tommaso Landolfi, Richard Burns, Stéphane Mallarmé, Marcel Proust e soprattutto sul poeta siriano Adonis di cui ha curato diversi libri narrativi.
Id: 740 Data: 26/10/2019 16:48:57
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- Poesia
Edeniche - raccolta poetica di Flavio Ermini
“Edeniche” - Configurazioni del principio – Raccolta poetica di Flavio Ermini - Moretti & Vitali Edit. 2019
"Prolegomeni alla ricerca del ‘mito’ perduto", Introduzione critica di Giorgio Mancinelli.
Nella concezione poetica di Flavio Ermini, autore di ‘Edeniche’, difficilmente si arriverebbe a una ‘dismissione del mito’ così come è giunto a noi contemporanei, per quanto gli effetti della sua ‘caduta’ si dimostrino oggi irreversibili, privata com’è della tesi che l’ha sostenuta fin dall’origine. Tesi che, dapprima Kant poi Jung e Kerényi hanno posto in evidenza, in quanto rappresentazione dell’inconscio collettivo primordiale, come “creazione mitica del pensiero umano”, d’appartenenza specifica alla sfera della psiche. Una ‘dismissione’ dubbia che pure c’è stata, e di cui oggi si tende a sminuire l’importanza, malgrado volenti e/o nolenti, non riusciamo ancora a fare a meno della ‘prestanza creatrice del mito’ che, come già Hegel a sua volta ha dimostrato, si palesa come essenza di “pura disciplina fenomenologica dello spirito”:
«non ha fondamento né gravità l’antro dei cieli / discosto com’è dal fuoco al pari del mondo abitato / che dalle acque creaturali viene circoscritto / per quanto non si tratti che di assecondare la caduta / consentendo così alle residue forze relittuali / di protendersi una volta ancora verso il principio / […] desituandoci dalle nostre abitudini cognitive / per esporci all’assoluto contrasto che si afferma / nel secondo principio di ascensione al cielo / […] nel varcare con reticenza il limite che ci separa / dalla superficie celeste dell’ultima terra / con la segreta illusione di rivelarne la natura».
Non mi è dato conoscere quanto consapevolmente ogni singolo autore citato, e lo stesso Flavio Ermini, “nel fondare il mondo sulla ragione”, abbiano visto negli effetti della ‘caduta edenica’, la perdita delle forme archetipe della psiche, attraverso le quali lo spirito umano pure s’innalza verso il sapere assoluto. Di fatto, con la compiuta ‘dismissione’ della pregressa mitologia senza uno scopo definito, seppure sostituita per ciò che riguarda l’attualità da nuovi ‘déi ed eroi’ di recente conio e piuttosto avulsi da virtù etiche ed estetiche “quale testimonianza dell’oscurità che si cela / nell’impreciso vuoto del presente”, si è creato un ‘nulla prepositivo’ nella conoscenza collettiva di non facile riempimento psicologico, che sta portando a uno sconvolgimento profondo di tipo esperienziale, pari quasi al trauma ‘immemore’ del Diluvio che in illo tempore sconvolse la terra:
«a causa dell’ostinato levarsi delle tenebre / se non proprio dell’annientamento cui porta l’apparire / sempre di nuovo si ripete l’ascensione al cielo / in omaggio al divenire che in terra si distende / sullo sfondo originario cui l’umano si sottrae / mettendo a soqquadro anche il sacro recinto / […] dove opera ogni notte un rivolgimento natale / l’incerta creatura da poco tempo generata / per la cui sacralità viene un mortale a garantire / in virtù della pietra e di un impossibile assentire».
Grandiosa l’immagine del ‘sacro recinto’ edenico, e della causa che ha portato alla dismissione dell’umana creatura da esso, in cui: «‘la terrena sostanza del giardino’ porta all’incompiutezza il graduale sottrarsi alle stagioni / che improntano senza posa il nostro incerto cammino / attraverso i gradini del tempo fino all’atemporalità / che diventa ostile alla terrena sostanza del giardino / rendendo inadeguato il consacrarsi al cielo della luce / così come il situarsi ai lati di una penosa dissoluzione / che (di fatto) mortifica l’essere umano per la vita che gli resta».
Nondimeno, nelle diverse sezioni autonome che distinguono questa silloge poetica al pari di un ‘unico lungo poema’, ritroviamo più o meno definiti tutti quei valori che il poetare si concede di trasformare in verso descrittivo, in cui si ravvisa una trama che non stento a definire ‘tragica’, se non ipotizzando una sorta di riabilitazione ‘al momento non formulabile’, che arresti il tempo della ‘caduta edenica’, in una sospensione a noi necessaria per ovviare quella ‘dismissione mitologica’ che pure fin qui ci ha accompagnati, «..se non ipotizzando l’aiuto delle ali», di nuove ali che ci permettano di tornare a volare:
«non l’interezza è all’origine del nostro apparire / ma un grido che ai viventi l’indiviso sottrae / quando è su loro impresso il marchio dell’obbedienza / anche se altro non fanno che sfuggire all’esilio / votati come sono all’illusoria condivisione della verità […] in collisione con l’orizzonte che lontano si configura / e con dolore fa pensare a molti uomini in catene […] nella relazione che i differenti mantiene separati / per un tempo che potrebbe anche essere indefinito / … il cui ‘paradiso perduto’ / rappresenta l’ultima luce per i mortali / spinti come sono verso la prima essenzialità / che nell’antiterra riconosce … / l’insopprimibile incedere di forze discordanti».
Per quanto il sottotitolo avverta trattarsi di ‘configurazioni del principio’, «nel carattere albale di vaghe sembianze», si ravvisa, almeno nelle intenzioni, un plausibile riferimento alla perdita delle ali da parte degli angeli caduti che ritroviamo sparpagliate un po’ dovunque. In ogni luogo dove, in contrasto con gli spostamenti tumultuosi che la ‘caduta’ dei corpi, al pari di meteore impazzite, di per sé conduce, si è ceduto a quella ‘pietas’ umana e divina insieme, atta a conservarne le spoglie e la memoria. È in questo senso che in “Edeniche” ogni locuzione va letta e ponderata a fronte di una forma poetizzante della trasformazione ‘divina’ dell’umano sentire:
‘la forma perfetta dei cieli’ (*)
nel carattere albale di vaghe sembianze proprie dello spirito che bagna la terra dove soffre ogni pena l’umano che appare è nota da tempo la compostezza dei morti pur se occultata sulla linea di faglia del moto affannoso di chi ancora vive ignaro della forma perfetta dei cieli
Ma noi non possiamo dismettere l’idea di una possibile intesa tra gli umani, propensi come siamo all’affrancamento della pena giustamente/ingiustamente inflitta, semplicemente perché non ci è concesso dalla violenza delle necessità cui siamo sottoposti, onde per cui ‘il cantiere dell’uomo’ “nell’atto di sottrarsi all’apparenza”, rimane attivo “per bandire il vuoto dal giardino”:
‘il cantiere dell’uomo’ (*)
ha voci ovunque il cantiere dell’uomo nel richiamare alla mente la casa natale che spinge l’esule a uno stato di sconforto in quanto elemento destinato alla fine mentre più inerte si va facendo il preumano per l’estendersi del male tra le forze discordanti la cui violenza impedisce al giusto di tornare privo di ali com’è alla volta del regno
Il presupposto di un ‘giardino indiviso’ appositamente creato da Flavio Ermini per questa silloge, riflette di una sorta di sovrapposizione architettonica tipica della costruzione spaziale della torre di Babele, di cui narra la Bibbia nel libro della Genesi, in cui l’uomo, nel tentativo di recuperare l’Eden perduto: “..volendo costituirsi quale superamento dell’illusoria preminenza sul mondo che lo circonda”, smarrisce definitivamente la propria dimensione (umana), per entrare «..nell’imperfetta sua aderenza al pietroso crinale / per un altissimo grado di estraneità alle tenebre»:
‘la parte indivisa del giardino’ (*)
nel crepuscolo cui guardiamo con molta apprensione perdono vigore i corpi cadendo su rovi inospitali e su se stessi si piegano e con l’uomo ancora cadono perché la luce è così fioca da spegnersi d’un tratto legata com’è alla parte indivisa del giardino
Scrive Kerényi (*): «Non si tratta qui di ‘spiegare’ il mito con un aspetto più o meno patologico della vita psichica di un individuo, ma di constatare come un tema mitologico altro non sia che l’espressione concreta di una struttura intemporale dell’inconscio umano». In altri termini, a differenza dell’intendimento della scuola psicoanalitica classica, «..la psicologia non è impegnata a ‘ridurre’ il mito a espressione di uno stato psicopatologico riccorente nell’uomo antico e moderno, ma tenta di mostrare come nella natura puramente formale dell’inconscio, si possano reperire le matrici universali dei temi mitologici che per la vastità e l’intensità del loro ricorrere debbono a ragione essere chiamati universali».
«L’autentica mitologia – scrive ancora Kerényi – ci è diventata talmente estranea che noi, prima di gustarla, vogliamo fermarci a riflettere [...]. Noi abbiamo perduto l’accesso immediato alle grandi realtà del mondo spirituale – ed a queste appartiene tutto ciò che vi è di autenticamente mitologico –, l’abbiamo perduto anche a causa del nostro spirito scientifico fin troppo pronto ad aiutarci e fin troppo ricco in mezzi ausiliari. Esso ci aveva spiegato la bevanda nel calice, in modo che noi, meglio dei bravi bevitori antichi, sapevamo già che cosa c’era dentro».
‘il giardino conteso’ (*)
su questa terra palmo a palmo depredata implacabilmente il tempo ci aggredisce in un devastante potere di annientamento tumulandoci sotto strati spessi di macerie che l’epoca sottrae alle aule del cielo nel far sì che l’umano essere sia sostituito da un susseguirsi ininterrotto di simulazioni […] da ‘la tomba guerriera’ (*) come accade alle rose sulla tomba guerriera nel fare spazio a figure d’indefinibili forme al cospetto di un chiaro verdetto di condanna
«Per Jung (*), l’immagine archetipica (il mito) non è l’archetipo, ma il prodotto del suo incessante operare. Spetta allo psicologo individuare la struttura formale che genera le infinite immagini che sorgono dall’inconscio, tentando di separare “ciò che compete all’operare della forma e ciò che compete al materiale investito da tale forza strutturatrice (percezioni, ricordi, contenuti mnestici sepolti e persino concrezioni complessuali)”. […] D’altra parte, il fatto che i motivi mitologici fino ad oggi venivano trattati abitualmente in campi di studio diversi e separati, come la filologia, l’etnologia, la storia culturale e la storia comparata delle religioni, non ha favorito molto il riconoscimento della loro universalità».
Scrive D. Verard(*):
«A guidare i due studiosi Jung e Kerényi è la medesima convinzione: secondo la quale lo spirito scientifico moderno ha privato l’uomo delle sue reali capacità di comprendere pienamente la realtà. D’altronde, come Jung ha modo di precisare in numerosi luoghi della sua opera scientifica, è la separazione tra esperienza interiore ed osservazione scientifica, frutto della nascita dello spirito scientifico moderno, ad aver prodotto quella dicotomia tra mondo interiore e mondo esteriore che, per lo psicologo, equivale alla “perdita dell’anima”».
«Noi preferiamo le vie tortuose per arrivare alla verità» – scrive Nietzsche (*) – una frase che Flavio Ermini sembra aver fatto propria, se non fosse per quel sottotitolo più che mai ponderato, che avverte il lettore: trattasi di ‘configurazioni’, cioè, morfologie di forme archetipe intrinseche nella natura, nonchè da rappresentazioni di figure umane, entrambe recuperate dalla memoria collettiva. Una tortuosità visualizzata in immagini ‘di non facile lettura’, (e non poteva essere altrimenti), e che s’avvale di una simbologia dotta tutta da scoprire, che “..non rinuncia al desiderio di tornare / agli stadi periferici dell’esperienza / […] all’insipienza della vita terrena / quando la spada del divino s’impone / con il flusso vorticoso del tempo / all’inerte cammino che porta alla fine”.
“Un altissimo grado di estraneità alle tenebre”, scrive ancora Flavio Ermini in un passo elucubrativo, in cui “prelude al pianissimo di un lamento il dolore”, così intenso da rasentare il silenzio “che non ama farsi udire così come in terra / non s’odono i morti incedere sul selciato / tanto che la verità può rendersi manifesta / solo in quanto simulacro del primissimo inizio”.
Ma non c’è dato sapere dove tutto ha avuto inizio: “vano fin dal principio è l’uso delle ali / nelle cavità malamente scavate dai fratelli / e impone di assentire alla crudeltà della vita / nell’incessante perpetuarsi di un destino di morte / giorno per giorno testimoniato dall’uomo in catene / che affida agli immemori la custodia della terra”…
Impetuoso l’oceano sconfinato che circonda la rupe all’estremità del mondo, dove Prometeo in catene s’abbandona al moto silenzioso delle stelle, per un viaggio interiore dei primordi che richiama la memoria volontaria degli spiriti ancestrali a dar luogo alla condizione esistenziale umana sulla terra: “significazione temporale che ci separa da una minaccia o una promessa nella rara elargizione di follia cosciente” (*) che riscontriamo in noi nell’incedere alla vita, nella lotta costante del progresso e della libertà che ci è cara, quale archetipo/metafora del pensiero umano … “che danza nel silenzio e nel mistero”.
‘le terre delle pietre d’onda’ (*) dà senso e forma al nostro esserci questo errare sulle terre via via emerse tra le pietre d’onda alla ricerca di un rifugio contro le illusioni cui l’umana avventura induce nell’oscillazione tra presenza e assenza in una sorta di estinzione che appare incessante davanti alla dimora della quale riconosciamo il vero fondamento unicamente negli strati periferici del vuoto.
L’autore:
Flavio Ermini, poeta, narratore e saggista, dirige la rivista di poesia e critica letteraria “Anterem” dal 1976, dopo aver ricoperto importanti ruoli editoriali presso Mondadori, è oggi consulente di varie case editrici. Collaborazioni e partecipazioni a seminari e convegni in molte istituzioni accademiche italiane e straniere ne fanno una eccellenza nel settore dell’editoria, al quale si deve l’annuale “Premio Lorenzo Montano” e numerose collane nell’ambito della ‘poesia’ e la ‘saggistica’, tra le quali “Narrazioni della conoscenza” per i titoli della Moretti&Vitali.
Collabora, inoltre, all’attività culturale degli “Amici della Scala” di Milano.
Tra le sue pubblicazioni: ‘Poema n. 10. Tra pensiero e poesia’, (poesia 2001; edito in Francia nel 2007 da Champ Social), ‘Il compito terreno dei mortali’ (poesia, 2010; edito in Francia nel 2012 da Lucie Éditions), ‘Il matrimonio del cielo con la terra’ (saggio e poesia, 2010), ‘Il secondo bene’ (saggio, 2012), ‘Essere il nemico’ (pamphlet, 2013), ‘Rilke e la natura dell’oscurità’ (saggio, 2015), ‘Il giardino conteso’ (*) (saggio di poesia, 2016), ‘Della fine’ (*) (prosa poetica, 2016).
(*) titoli recensiti da Giorgio Mancinelli sul sito www.larecherche.it
Sitografia: ANTEREM – Rivista di Ricerca Letteraria: www.anteremedizioni.it Premio Lorenzo Montano: premio.montano@antermedizioni.it
Note: Tutti i corsivi inclusi e le citazioni poetiche sono di Flavio Ermini, tratte da “Edeniche – Configurazioni del principio” – Moretti & Vitali Editori 2019.
Per gli altri autori di riferimento: (*) Kàroly Kérenyi, “Nel Labirinto”, Bollati-Boringhieri 1983 (*) Carl Gustav Jung, Kàroly Kérenyi, “Prolegomeni Allo Studio Scientifico Della Mitologia” - Bollati-Boringhieri 1999. (*) Verard D. in “L’albero filosofico. C.G. Jung e il simbolismo alchemico rinascimentale”, Psychofenia, 21, 2009. (cit. “Prolegomeni Allo Studio Scientifico Della Mitologia”). (*) Friedrich Nietzsche – “Ecce Homo”, Adelphi 1991. (*) Vittorino Andreoli ,”Il potere del silenzio”, Ediz. Corriere della Sera 2019.
Id: 715 Data: 06/07/2019 07:59:03
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- Cinema
CinEuropa News - prossimamente al cinema.
CINEUROPA NEWS
Ferzan Ozpetek sul set per 'La Dea Fortuna' Articolo di Camillo De Marco.
24/06/2019 - Stefano Accorsi, Edoardo Leo e Jasmine Trinca sono i protagonisti del nuovo film che il regista sta girando tra Roma e Palermo. Producono R&C, Faros e Warner Nella foto la squadra di La Dea Fortuna sul set.
Ferzan Ozpetek è attualmente su set per le riprese del suo nuovo film dal titolo La Dea Fortuna, per il quale il regista turco naturalizzato italiano ha voluto ancora Stefano Accorsi - protagonista de Le fate ignoranti nel 2001 e Saturno contro nel 2007 - affiancato questa volta da Edoardo Leo e Jasmine Trinca. Nel cast anche Filippo Nigro e la fedele Serra Yilmaz. Iniziate il 15 maggio, le riprese con la fotografia di Gianfilippo Corticelli si concluderanno a metà luglio e si svolgeranno tra Roma e Palermo. Nei giorni scorsi Ozpetek ha condiviso un post su Instagram con un selfie di tutto il cast. Scritto dal regista con Silvia Ranfagni e Gianni Romoli (quest'ultimo collaboratore di Ozpetek dai tempi de Le fate ignoranti), La Dea Fortuna racconta di Alessandro e Arturo, coppia legata da più di 15 anni ma ormai in crisi. L’improvviso arrivo nelle loro vite di due bambini lasciati in custodia per qualche giorno dalla migliore amica di Alessandro, potrebbe però dare un’insperata svolta alla loro stanca routine. La soluzione sarà un gesto folle. "Ma d’altronde l’amore è uno stato di piacevole follia", si legge nelle note di produzione. La scenografia del film è di Giulia Busnengo, i costumi di Monica Gaetani e Alessandro Lai. Le musiche saranno firmate ancora da Pasquale Catalano mentre il montaggio sarà realizzato da Pietro Morana. Producono come sempre di Tilde Corsi e Gianni Romoli per R&C Produzioni con Faros Film e Warner Bros. Ent. Italia. Il film uscirà in Italia il prossimo novembre con Warner Bros. Pictures ed è venduto da True Colours, che lo ha proposto nel proprio listino già al Marché du Film di Cannes a maggio (leggi la news).
Il 'Martin Eden' di Pietro Marcello è in post-produzione Articolo di Camillo De Marco.
27/06/2019 - La libera trasposizione del romanzo di Jack London è una coproduzione Avventurosa, IBC Movie, Match Factory, Shellac Sud. La data di uscita film conferma la presenza del film alla Mostra di Venezia.
Molto attesa l'opera seconda di Pietro Marcello, Martin Eden, attualmente in post-produzione, che molto probabilmente sarà presente nella selezione della Mostra di Venezia 2019. Con i suoi documentari prima (soprattutto La bocca del lupo [+], vincitore del Torino Film Festival nel 2009) e poi con l'opera prima Bella e perduta [+] (premiato dalla giuria dei giovani a Locarno 2015), Marcello si è accreditato come uno dei giovani registi più dotati, indipendenti e visionari del panorama italiano attuale. La sua seconda prova al lungometraggio di finzione suscita curiosità per il tema, una libera trasposizione del celeberrimo romanzo di Jack London, e la presenza di un attore straordinariamente versatile e talentuoso come Luca Marinelli. Il delegato generale del Festival di Cannes Thierry Frémaux avrebbe voluto il film sulla Croisette: "Ho parlato molto con Pietro Marcello del suo Martin Eden, che è il mio libro preferito. Non vedo l’ora di vederlo in autunno”, aveva dichiarato a maggio in un'intervista ad un quotidiano italiano. Ambientato in una città portuale ideale alla fine del secolo scorso, il Martin Eden di Pietro Marcello è un archetipo che viene reso e trasposto attraverso il congegno della fiaba. "Come i personaggi di Amleto e Faust, Martin Eden è un po' il fallimento dell'eroe", aveva spiegato a Cineuropa poco prima delle riprese il regista, che ha scritto la sceneggiatura assieme a Maurizio Braucci (La paranza dei bambini, L'intrusa tra le sue più recenti collaborazioni). "Abbiamo trasposto il romanzo nella società contemporanea, in una storia che attraversa le epoche". Per Pietro Marcello nel film "c'è il tradimento della classe di appartenenza", un tema che ci riporta al cinema di Ken Loach e di Jean-Pierre e Luc Dardenne, che definiscono un ordine economico odierno che punta ad un indebolimento dei diritti e spinge ad una disperata guerra tra i lavoratori stessi. Nel cast, accanto a Marinelli appaiono Marco Leonardi, Vincenzo Nemolato, Rinat Khismatouline, Pietro Ragusa, Aniello Arena, Lana Vlady, Jessica Cressy, Carlo Cecchi. La fotografia è di Francesco di Giacomo e Alessandro Abate, il montaggio di Fabrizio Federico e Aline Hervé. Luca Servino è accreditato per la scenografia e Andrea Cavalletto per i costumi. Marco Messina e Sacha Ricci curano le musiche del film. Martin Eden è una coproduzione Italia/Germania/Francia tra Avventurosa, la società del regista, IBC Movie, Match Factory Productions, Shellac Sud e Rai Cinema, con il contributo del MiBAC. The Match Factory cura le vendite internazionali. 01 Distribution ha già diffuso il giorno di uscita in Italia, il 4 settembre, una data che conferma la presenza del film a Venezia.
Fine riprese per 'Si muore solo da vivi' Articolo di Vittoria Scarpa
25/06/2019 - Il lungometraggio d’esordio di Alberto Rizzi ha come sfondo il terremoto in Emilia del 2012, con protagonisti Alessandro Roja e Alessandra Mastronardi. Produce K+ Si sono concluse a Gualtieri (Reggio Emilia) le riprese di Si muore solo da vivi, primo lungometraggio di Alberto Rizzi, già drammaturgo, regista teatrale e autore di cortometraggi. Scritto dal regista con Marco Pettenello (Io sono Li, Zoran, il mio nipote scemo, Finché c’è prosecco c’è speranza), il film si preannuncia una commedia romantica piena di colori e sentimenti, sullo sfondo del terremoto in Emilia del 2012, con protagonisti Alessandro Roja (visto di recente al cinema in Ma cosa ci dice il cervello e in tv ne La compagnia del cigno) e Alessandra Mastronardi (tra i suoi ultimi lavori, L’agenzia dei bugiardi [+] e la serie tv I Medici - Lorenzo il Magnifico).
'Si muore solo da vivi' ruota attorno a Orlando, che ha tutta l'aria del perdente: a quarant'anni vive alla giornata sulle sponde del Po, pigro, solitario e sulla via della resa. Finché il terremoto del 2012 non lo costringerà a rimettersi in gioco, tra nipoti a cui badare, una band da rimettere in piedi e soprattutto un grande amore, Chiara, che si riaffaccia dal passato. “Partendo da un evento drammatico come il sisma che ha colpito l’Emilia”, spiega il regista, “ho voluto realizzare, con profondità e leggerezza, un omaggio alla forza di questa terra e della sua gente: una commedia sulle seconde occasioni, ambientata in un mondo di musicisti di provincia, pescatori e balere color zafferano”. Nel cast, tra gli altri, anche Neri Marcorè, Francesco Pannofino, Ugo Pagliai e Amanda Lear. 'Si muore solo da vivi' è prodotto da Nicola Fedrigoni e Valentina Zanella per K+ (già dietro Finché c’è prosecco c’è speranza), con il sostegno di Emilia Romagna Film Commission e Mantova Film Commission.
Alessandro Rossetto torna con 'Effetto domino' Articolo di Camillo De Marco
21/06/2019 - Il business della terza età è al centro dell'opera seconda di fiction del documentarista veneto Alessandro Rossetto, che si era rivelato con Piccola Patria nel 2014 Dopo l'ottimo esordio al lungometraggio di finzione nel 2014 con Piccola Patria [+], presentato in Orizzonti alla Mostra di Venezia, il documentarista Alessandro Rossetto è tornato dietro alla macchina da presa per la sua opera seconda 'Effetto domino'. Attualmente in postproduzione con il montaggio affidato a Jacopo Quadri, il film è tratto dal romanzo omonimo dello scrittore padovano Romolo Bugaro, che racconta di un gruppo di persone coinvolte in un enorme investimento edilizio, nel bel mezzo del Nord Est italiano. Una banca decide di bloccare quel progetto ormai avviato e di conseguenza imprese edili, consulenti, fornitori, semplici camionisti si arrendono e crollano, uno dopo l’altro con l'effetto domino del titolo, per aver confidato ognuno nel proprio committente. Nel libro si trattava della costruzione di una “new town”, nel film si punta sul "business della terza età", trasformando 20 enormi alberghi abbandonati (che si trovano realmente tra Abano, Montegrotto e Galzignano) in residenze per anziani ricchi, per vivere gli ultimi anni in un contesto esclusivo e tecnologico. "Il romanzo mi aveva colpito anche per la sua struttura, che ha ispirato la sceneggiatura scritta in capitoli con Caterina Serra", ha spiegato il regista. "Era il racconto ideale per rischiare e sperimentare forme narrative nuove da quelle di Piccola patria anche se c’è una continuità tra i due film. I personaggi hanno la medesima provenienza: è come se si fossero evoluti per diventare i protagonisti di questa nuova storia". Rossetto si è affidato nuovamente a molti degli attori scelti per la sua opera prima: Diego Ribon e Mirko Artuso nei panni del costruttore e del geometra del progetto edilizio, Maria Roveran e Roberta Da Soller nel ruolo delle figlie dell'imprenditore edilizio e Nicoletta Maragno in quello della moglie. Lucia Mascino sarà il personaggio-chiave del dirigente bancario (nel libro di Bugaro era un uomo). Prodotto da Francesco Bonsembiante per Jolefilm con Rai Cinema e con il sostegno di IDM Südtirol – Alto Adige Film Fund & Commission, Effetto domino potrebbe puntare alla selezione in un festival internazionale come Venezia.
Globi d’Oro: Il traditore eletto miglior film Articolo di Vittoria Scarpa.
20/06/2019 - Assegnati i 59mi premi della stampa straniera in Italia. Jasmine Trinca e Alessandro Borghi migliori interpreti, Bangla è la miglior opera prima È Il traditore [+] di Marco Bellocchio il miglior film dell’anno secondo la stampa straniera in Italia. La pellicola con protagonista Pierfrancesco Favino nei panni del mafioso poi collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, si è aggiudicata il Globo d’Oro più importante, ieri sera alla cerimonia di premiazione ospitata a Villa Wolkonsky, residenza dell’ambasciatore britannico. “Incentrato su un personaggio altamente drammatico”, è la motivazione dei giornalisti dell’Associazione della stampa estera in Italia che assegnano il premio, “il film ne ricostruisce dall'interno, in modo coinvolgente e seduttivo la tormentata psicologia”, grazie alla capacità del regista di passare “magistralmente dalla cronaca minuziosa dei fatti e dei delitti di mafia visti nella loro cruda realtà, alla teatralità del maxi processo, alla dimensione onirica del protagonista senza mai rinunciare alla sua visione etica del mondo”. A Il traditore va anche il Globo per la miglior musica, firmata da Nicola Piovani.
Come miglior opera prima è stata eletta la pellicola di e con Phaim Bhuiyan, Bangla [+], “un'opera che aiuta l'integrazione reciproca di un Paese che oramai è sempre più multiculturale”, mentre i Globi dei migliori interpreti sono stati assegnati a Jasmine Trinca, per la sua interpretazione in Croce e delizia [+] di Simone Godano, dove l’attrice “conferma la sua bravura, rivelando di avere anche i tempi comici”, e ad Alessandro Borghi per la sua drammatica performance in Sulla mia pelle [+] che lo rende, secondo i giornalisti stranieri, “un attore che ha tutte le carte per una svolta internazionale”. Il film sulla tragica vicenda di Stefano Cucchi è stato premiato anche per la miglior sceneggiatura, scritta da Alessandro Cremonini e Lisa Nur Sultan.
Si segnala inoltre la miglior fotografia, opera di Daria D'Antonio, riconosciuta a Ricordi? di Valerio Mieli, il nuovo Globo per la miglior serie tv attribuito a Il nome della rosa guidata da Giacomo Battiato, e il Globo per il miglior documentario aggiudicato a Butterfly di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman. Olmo di Davide Calvaresi è il miglior corto.
Infine, come già preannunciato, sono stati consegnati il Premio giovane promessa a Ludovica Nasti, giovane e talentuosa protagonista della serie tv L'amica geniale, e il Premio alla carriera a Franco Nero e Vanessa Redgrave. I vincitori dei Globi d’oro 2019: Miglior film Il traditore - Marco Bellocchio (Italia/Francia/Germania/Brasile) Miglior opera prima Bangla - Phaim Bhuiyan Miglior attrice Jasmine Trinca - Croce e delizia Miglior attore Alessandro Borghi - Sulla mia pelle Miglior fotografia Ricordi? - Daria D'Antonio (Italia/Francia) Miglior serie tv Il nome della rosa - Giacomo Battiato Miglior musica Nicola Piovani - Il traditore Miglior sceneggiatura Sulla mia pelle - Alessio Cremonini, Lisa Nur Sultan Miglior documentario Butterfly - Alessandro Cassigoli, Casey Kauffman Miglior corto Olmo - Davide Calvaresi Premio giovane promessa Ludovica Nasti - L'amica geniale Premio alla carriera Franco Nero Vanessa Redgrave
Id: 714 Data: 27/06/2019 15:41:54
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- Filosofia
Popsophia - Filosofia del Contemporaneo
POPSOPHIA 2019 Filosofia del Contemporaneo
"É GIÀ IERI" ON-LINE IL PROGRAMMA DELL'EDIZIONE DI PESARO 2019
“Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo” F. Nietzsche “E’ già ieri” è il tema di Popsophia a Pesaro dal 4 al 6 luglio 2019: l’eterno ritorno del sempre uguale. I fenomeni della cultura di massa contemporanea riproducono costantemente cose già viste e già sentite. L’immaginario pop – dai revival musicali ai remake cinematografici, dalle politiche reazionarie alle mode retrò – ci traghetta in un paradossale futuro-passato. Nel corso della tre giorni, il festival rifletterà con due Philoshow, spettacoli filosofico musicali e prodotti distintivi della rassegna, incentrati sull'eterno ritorno dei Beatles e sul cosa è rimasto di Woodstock, a cinquant'anni dal concerto che stravolse il rock. Ma in programma ci sarà pure un tributo ai novanta di Sergio Leone e alla sconvolgente contemporaneità della serie televisiva già cult “Black Mirror”, con il pubblico che sarà tutt'altro che spettatore silente. Il nostro ragionare prende forma giovedì 4 luglio, alle 18, al cortile di Palazzo Mosca, dove inaugureremo “E' già ieri” con i saluti di apertura. Alle 18.30 c'è una doppia lectio pop. La prima conUmberto Curi che riflette su “Il circolo del tempo” e il suo eterno ritorno alla Nietzsche. Poi Nicla Vassallo interviene sull'eterno ritorno dell'ignoranza, fantasma che si profila con insistenza sul mondo contemporaneo. Al termine condivideremo un calice di vino con la Cantina Colonnara e Pisaurum. Alle 21.30, per POPism, il caporedattore del TGR Rai Maurizio Blasi racconta l'esperienza del giornalismo della nostra regione, tra luoghi e storie delle Marche. Alle 22 c'è una meditazione a partire da Black Mirror, con Andrea Colamedici e Maura Gancitano (Tlon) e la loro conferenza interattiva. Che verrà orientata dal pubblico presente e online. Venerdì 5 luglio ripartiamo dal cortile di Palazzo Mosca alle 18.30 con Fabio Camilletti e “Il ritorno degli spettri”, figure di una simbologia che non è stata mai elaborata. Alle 19 parliamo di felicità con Ilaria Gaspari, che vede nelle scuole filosofiche antiche ricette utili per il presente. Concludiamo il pomeriggio con un brindisi (che rinnoveremo alle 23.30) per darci appuntamento poi alle 21 con i saluti di apertura in Piazza del Popolo e con Simone Regazzoni, alle 21.10. A lui il compito di introdurci al Philoshow delle 21.30 su “Yesterday - Ieri è arrivato improvvisamente. L'eterno ritorno dei Beatles”, spettacolo ideato e diretto da Lucrezia Ercoli, con l'intervento di Massimo Donà e l'ensemble musicale Factory. Alle 23 torniamo al cortile di Palazzo Mosca con i Tiratardi, dove Riccardo Dal Ferro fa un passaggio nei mitici anni Novanta. Sabato 6 luglio l'apertura del cortile alle 18.30 è affidata a Cesare Catà, sul tempo e la perdita da Virginia Woolf e il film “A Star is Born”. Alle 19 Andrea Minuz celebra Sergio Leone a novant'anni dalla nascita, salutandoci con un calice alle 19.30 (brinderemo anche alle 23.30). Alle 21.10, in Piazza del Popolo, Salvatore Patriarca introduce con il mito dell'eterna giovinezza il Philoshow delle 21.30, che si intitola “Paradise Lost - A cinquant'anni da Woodstock”. Con ospite Alessandro Alfieri. Un requiem di un mondo perduto. L'ultimo Tiratardi al cortile è alle 23 con Tommaso Ariemma e un viaggio nella filosofia degli anni Ottanta. Tutti gli ingressi sono gratuiti e la frequenza ha valore di aggiornamento per docenti (prenotazioni a info@popsophia.it). “E' già ieri” è promosso dal Comune di Pesaro con la Regione Marche, organizzato dall'associazione culturale Popsophia con l'ideazione e la direzione artistica di Lucrezia Ercoli.www.popsophia.it POPSOPHIA - Che cos'è la Pop Filosofia? 10.059 visualizzazioni 7 anni fa Cosa si intende per "Popsophia"? Che significato hanno le serie tv, la pubblicità, la musica e i fumetti all'interno della società di massa contemporanea? Popsophia ha un unico obiettivo, quello di avvicinare il pensiero filosofico ai fenomeni di massa, costringendo la Filosofia ad indagare il Pop, e il Pop a raccontare la Filosofia. Montaggio a cura di Riccardo Minnucci e Lucrezia Ercoli.
Il video del primo appuntamento di Popsound "Il secondo sesso, la donna tra opera lirica e musica pop" al Teatro Annibal Caro di Civitanova Alta. Il video finale del secondo appuntamento di Popsound, "Abbey Road, la filosofia dei Beatles e dei Rolling Stones", al Teatro Annibal Caro di Civitanova alta. Popsound 2019 - "Rock Revolution, a cinquant'anni da Woodstock" Il video dell'ultimo appuntamento di Popsound, "Rock Revolution, a cinquant'anni da Woodstock", che ha infiammato il Teatro Annibale Caro di Civitanova Alta, in compagnia del filosofo Alessandro Alfieri e delle performance musicali della band Factory.
Id: 713 Data: 20/06/2019 18:29:10
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- Musica
Rita Marcotulli insignita dellonoreficienza per la musica.
Rita Marcotulli riceve dal Presidente Mattarella l’onorificenza di Ufficiale della Repubblica Italiana
È una delle artiste italiane più illustri, e per i suoi innumerevoli meriti in ambito musicale il Presidente Sergio Mattarella le ha conferito l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: è Rita Marcotulli, pianista e compositrice di grande talento ed eleganza. Prima donna ad aver vinto un David di Donatello per la miglior colonna sonora (nel 2011, per “Basilicata coast to coast”), annovera tra gli altri suoi riconoscimenti il Ciak d’oro, il Nastro d’Argento e le due vittorie al Top Jazz della rivista Musica Jazz prima come miglior talento emergente e poi come miglior talento italiano.
Già ufficializzata, la prestigiosa nomina di Ufficiale della Repubblica Italiana sarà ulteriormente suggellata il 1 giugno al Quirinale con la sua partecipazione al ricevimento per la Festa della Repubblica.
Nel corso della sua carriera Rita Marcotulli è riuscita ad affermare il suo stile raffinato in numerosi progetti e generi musicali che l’hanno portata ad esibirsi in tutto il mondo con grandi artisti e nelle location più importanti a livello internazionale. Memorabili i suoi concerti con Pino Daniele (è suo il pianoforte e alcuni arrangiamenti dell’album “Non calpestare i fiori nel deserto” vincitore di 8 dischi di platino e della Targa Tenco), Ambrogio Sparagna, la sua esibizione al Festival di Sanremo 1996 con Pat Metheny, il tour mondiale come membro del gruppo del celebre batterista statunitense Billy Cobham, la sua sapiente rilettura dei Pink Floyd con un grande ensemble tra cui Raiz e Fausto Mesolella, il live multimediale dedicato a Caravaggio presentato nel 2018 al Festival Umbria Jazz.
Nel 2013, è stata chiamata come membro della Giuria di qualità per la 63esima edizione del Festival di Sanremo. In ambito jazz spiccano i progetti e le performance con Enrico Rava, Michel Portal, Javier Girotto, Jon Christensen, Palle Danielsson, Peter Erskine, Joe Henderson, Helène La Barrière, Joe Lovano, Kenny Wheeler, Norma Winston, Luciano Biondini, Charlie Mariano, Marilyn Mazur, Sal Nistico, Maria Pia De Vito. Per oltre 15 anni è stata membro del gruppo del sassofonista statunitense Dewey Redman - padre del noto sassofonista Joshua Redman - suonando in tutta Europa e in Sud America. Tra le sue recenti collaborazioni troviamo Max Gazzè, Gino Paoli, Peppe Servillo, Noa, Massimo Ranieri, Claudio Baglioni e John De Leo. In ambito teatrale e cinematografico: Lella Costa, Chiara Caselli, Stefano Benni, Rocco Papaleo (per cui ha scritto le colonne sonore di “Basilicata coast to coast” e “Una piccola impresa meridionale”), Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco, Gabriele Lavia, Paolo Briguglia, Daniele Formica, Michele Placido. Nella sua discografia, oltre 25 album tra cui “Woman Next Door - Omaggio Truffaut”, che nel 1998 il magazine inglese The Guardian ha nominato miglior disco dell’anno, e l’ultimo di Giorgio Gaber “Io non mi sento italiano”.
L’ultimo, appena uscito, è il live “Yin e Yang” (ed. Cam Jazz) in duo con il batterista e vocalist messicano Israel Varela, che a sua volta annovera collaborazioni con Pat Metheny, Charlie Haden, Bireli lagrene, Diego Amador, Bob Mintzer, Mike Stern, Yo Yo Ma, Jorge Pardo. Per questo nuovo progetto, Rita Marcotulli sarà impegnata nei prossimi mesi in tour con un eccellente quartetto europeo formato dal noto bassista Michel Benita, il sassofonista britannico Andy Sheppard (vincitore di numerosi British Jazz Awards) e lo stesso Varela. CONTATTI Ufficio Stampa: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 328.1743236 email info@fiorenzagherardi.com
Id: 712 Data: 07/06/2019 17:49:05
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- Società
Bla, bla, bla … Vincitori e vincitori, nessun perdente.
Bla, bla, bla … vincitori e vincitori, nessun perdente.
(Speciale elezioni 2019)
Vincitori e vincitori, chi più o chi meno, tutti hanno vinto, nel senso che chi ha stravinto è perché ha preso più voti; chi ha semplicemente vinto, non è perché ha preso meno voti, bensì perché ha sperperato i voti che erano suoi, facendo promesse in campagna elettorare che sapeva di non poter mantenere.
C’è poi chi non ha vinto, ma che non ha neppure perso (vaglielo a dire non lo ammetterà mai), poiché nessuno di quei Signori che occupano le poltrone del Parlamento perdono davvero qualcosa, semmai pensassero alla loro ‘reputazione’, ma di quella non gliene può fregare di meno.
Chi invece può dire veramente di aver perso Tempo e Denaro, siamo tutti noi che ce li abbiamo messi, ma come loro mai e poi mai lo ammetteremmo a noi stessi; e non certo per la loro stessa ragione, ma perché noi conosciamo la ‘vergogna’. Infatti siamo capaci di cambiare casacca (leggi partito) subito dopo le elezioni, allorché il nostro referente non rientri tra quelli vincenti o che hanno stravinto.
È quanto mai vero che all’occorrenza , siamo subito prenderci le nostre responsabilità (quando mai?), e facciamo esattamente come fece Pinocchietto, ve lo ricordate? Come no! È una storiella / conta in uso dei bambini, quando si voleva mettere alla berlina qualche compagno un poco ‘farfallone’ (per dire bugiardello). Beh, se proprio non la conoscete, allora ve la racconto io:
“Pinocchietto alla stazione prende il treno e se ne va, prende l’ultimo vagone per non farsi canzonar”. Ovviamente ogni riferimento è puramente casuale (mica tanto). Tuttavia il problema resta, così come resta (nel senso di rimane) ognuno di quelli che se ne dovrebbero andare. Non certo perché hanno perso, anzi perché pur avendo preso meno voti, hanno vinto lo stesso.
Quelli che restano invece con un pugno di mosche in mano siamo tutti noi che dopo tante chiacchiere al vento, tante promesse impossibili affogate in un fiume di bugie, una indescrivibile arroganza puramente nazionale e tanta strafottenza internazionale, avevamo sperato che qualcosa alla fin fine cambiasse davvero. Macché, non ci rimane che sperare che almeno i nostri figli ‘emigrino’ andando in cerca di una società migliore. E comunque, malgrado loro, saranno etichettati come ‘arroganti’, ‘imprevedibili bugiardi’, ‘insostenibili chiacchieroni’, ‘irriguardevoli improvvidi ’, ‘sconsiderevoli cialtroni’, sconvenienti pensatori di “io speriamo che me la cavo” e quant’altro.
E noi, noi mi chiedo, che restiamo a fare qui? Non ci rimane che una sola via di fuga verso quei paesi dove (sembra) ci aspettano per accoglierci a braccia aperte (ma quando mai?), e mandarli tutti quanti, senza escludere alcuno …
letteralmente a cagare.
Id: 710 Data: 28/05/2019 02:38:02
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- Cinema
Cineuropa a Cannes
CANNES 2019 I professionisti del cinema a Cannes incoraggiano i cittadini a votare alle elezioni europee.
Le News di Cineuropa. 21/05/2019 - CANNES 2019: La Société des Réalisateurs de Films, European Film Academy, FERA e SAA uniscono le forze per lanciare un manifesto e un invito all'azione dal 23 al 26 maggio Oggi, al 72° Festival di Cannes, i professionisti del cinema hanno partecipato alla presentazione di un manifesto per incoraggiare i cittadini a votare alle elezioni europee, che si svolgeranno tra pochi giorni, dal 23 al 26 maggio, in tutti gli Stati membri dell'Unione europea. Redatto dalla Société des Réalisateurs de Films (SRF), organizzatrice della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, la European Film Academy (EFA), la Federation of European Film Directors (FERA) e la Society of Audiovisual Authors (SAA), il documento è un invito all’azione in quello che un momento decisivo per l’Unione europea. La regista francese Céline Sciamma (che è anche in competizione per la Palma d'Oro di quest'anno con il suo nuovo film, Portrait de la jeune fille en feu), con il regista croata Hrvoje Hribar, alla presenza di diversi altri registi, ha letto il manifesto di fronte al Centre d'art La Malmaison, proprio accanto alle sedi principali del Festival di Cannes. Gli 500 firmatari includono registi come Céline Sciamma, Wim Wenders, Agnieszka Holland, Miguel Gomes, Luc e Jean-Pierre Dardenne, Valeria Golino, Jacques Audiard, Susanne Bier, Pawel Pawlikowski, Julie Bertuccelli, Alan Parker, Costa-Gavras, Julie Delpy, Stephen Frears, Stellan Skarsgard, Ralph Fiennes, e molti altri. Il manifesto: L'Europa non è perfetta, è vero. A volte le rimproveriamo, e a ragione, di trascurare anima ed emozioni e di utilizzare una lingua che pochi di noi capiscono. Le rimproveriamo di non essere all'altezza delle crisi ecologiche, sociali e politiche che al giorno d’oggi l’attraversano, di non essere all'altezza del dramma dei rifugiati. Eppure, nonostante debolezze e fragilità, troviamo in essa anche umanità e bellezza. E ci sforziamo di descriverla con la delicatezza delle immagini e con un linguaggio più accessibile a tutte me genti che la compongono. E non dimentichiamo che l'Europa si è unita per la pace. Dai sei membri iniziali, si è allargata fino ad abbracciare 28 paesi, che formano un'unione unica e fonte di ispirazione per tutta l'umanità. Questa Unione si è fondata sul superamento delle frontiere, la libera circolazione, lo scambio, la fratellanza e la solidarietà, valori oggi minacciati da ogni parte, anche al suo interno. Ma questa è anche l'Unione della cultura, vera e propria ambizione per un'Europa in cui innovazione e creazione sono da sempre le colonne portanti. Un'Europa libera e democratica è anche un'Europa caratterizzata da libertà di pensiero e di espressione. È nostro dovere difenderla da estremismi e da mentalità retrograde, che tornano a diffondersi come la peste. Questo equilibrio così fragile, dobbiamo consolidarlo, migliorarlo, e opporci a quanti intendono indebolirlo con fratture e rinunce, cercando di sottrarvisi o di isolarsi. Alla domanda: come costruire un'Europa desiderabile, un'Europa in grado di riunire, un'Europa aperta che offra uno spazio di libertà e di pace? dobbiamo rispondere con l'impegno, guidando la lotta delle idee per evitare quella delle armi. Dal 23 al 26 maggio, in occasione delle elezioni europee, andremo a votare. È in gioco il nostro futuro comune, anzi il nostro stesso futuro.
LEGISLAZIONE Europa I deputati europei approvano la riforma del copyright.
Articolo di Thierry Leclercq 27/03/2019 - Mettendo fine a più di due anni e mezzo di negoziati e di intensa lobbying, il Parlamento europeo ha approvato il 26 marzo a Strasburgo la direttiva che modernizza il diritto d'autore.
With 348 votes in favour of the text, 274 against and 36 abstentions, this directive is the product of an agreement reached between the European institutions at the end of their trialogue in mid-February. Its main aim is to strengthen the position of creators whose works are used by online platforms. All that remains is for the directive to be approved one last time by European ministers on 9 April – a mere formality –, after which member states will be granted two years to transpose the directive into national law. The main change this law brings is to oblige online platforms to negotiate licensing agreements with the representatives of right holders; if the former don’t want to be held responsible for copyright infringements committed by their users, they will have to do everything in their power to prevent this scenario, either by obtaining the necessary authorisations or by withdrawing illegal content so as to prevent future breaches. For those opposed to the text, there aren’t many other options available to operators, other than installing an automatic content filter which will seriously limit freedom of expression online. The directive will, however, leave users free to share protected works in the context of quotations, criticism, opinion pieces, caricature, parody or pastiche. A further clause also allows greater flexibility for smaller platforms which are less than 3 years old, with under 5 million users per month and with a turnover below €10m.
So as to enhance the accessibility and visibility of European works on VOD platforms, the directive provides for a new negotiation mechanism which will ensure a more straightforward process for obtaining film and TV series exploitation licences. This will also apply to protected works which are no longer commercially available; institutions such as film libraries will be able to negotiate with collective rights management organisations or lay claim to copyright exceptions for uses relating to teaching, preservation or research. Under certain conditions, collective management organisations will also be permitted to conclude licencing agreements for right holders who are not members of their respective organisations. Authors and creators will not only benefit from greater control over the online use of their content (films, music, articles...), but they will also be entitled to fair and proportionate remuneration; for their part, producers and editors will have to demonstrate transparency in their exploitation of works and allow authors and actors to receive a fair share of the proceeds. Creators should also be in a better position to (re)negotiate their contracts and to obtain redress where their rights are not respected.
According to German MEP Axel Voss (EPP, GE), who defended the initiative within the Assembly, "This deal is an important step towards correcting a situation which has allowed a few companies to earn huge sums of money without properly remunerating the thousands of creators and journalists whose work they depend on". For the Commission, "Today’s vote ensures the right balance between the interests of all players – users, creators, authors, press – while putting in place proportionate obligations on online platforms",declared commissioners Andrus Ansip and Mariya Gabriel. Creators (FERA, SAA, FSE), producers and film agencies (EFADs), meanwhile, believe the approval of this directive to be "a major victory for European authors".
LEGISLAZIONE Europa - Gli autori europei chiedono una remunerazione proporzionata nella direttiva sul diritto d'autore. Articolo di Cineuropa 21/01/2019 - 95 registi europei hanno firmato una petizione che invita le leggi sul mercato unico digitale a rispondere in modo efficace alle loro esigenze finanziarie.
As the trilogue negotiations on the proposed Directive on Copyright in the European Union's Digital Single Market are drawing to a conclusion, European authors are making the most of their last opportunity to effectively ensure benefit from the economic success of their works. As announced by the Society of Audiovisual Authors (SAA), 95 European filmmakers have signed a petition asking for a principle of proportionate remuneration to be enshrined in the Copyright Directive. The signatories fully support Article -14, which ensures they are to be fairly remunerated for the success of their works by establishing a fundamental principle of fair and proportionate remuneration for authors and performers in Europe. However, they have expressed their concern that it will have no positive effect in practice if the following elements are missing: an explicit reference to "proportionate" remuneration, since it is the only way for them to receive a fair reward for the success of their work by receiving a proper share of the revenues our works generate, a clear reference to the different collective mechanisms currently in place in various Member States in Art -14, i.e. collective bargaining agreements, collective management of rights and statutory remuneration mechanisms, and the need to make clear that lump-sums, while technically possible, should be the exception, given that the idea of a one-off payment contradicts the idea of proportionate remuneration and the prospect of claiming additional payment under Article 15.
Authors have expressed that as global distribution players are emerging in the EU audiovisual market, they are becoming painfully aware of the contrast of their situation with that of our US screenwriters and directors' colleagues, who are compensated for the distribution of their work worldwide. For this unlevel playing field, both within the Digital Single Market and worldwide, to come to an end, authors are calling on public support to strengthen the creative community so that they can keep on developing new creative visions at the heart of our flourishing creative industries, to grow Europe's cultural diversity in the digital era. Signatories include well-known filmmakers such as Spain's Alejandro Amenábar, Icíar Bollaín and Isabel Coixet, Italy's Marco Bellocchio, France's Stéphane Brizé, Costa-Gavras and Bertrand Tavernier, Belgium's Jean-Pierre and Luc Dardenne and Jaco Van Dormael, Poland's Agnieszka Holland and Pawel Pawlikowski, Portugal's Miguel Gomes, Romania's Cristian Mungiu, Germany's Volker Schlöndorff and Bosnia-Herzegovina's Danis Tanović.
Id: 709 Data: 22/05/2019 06:53:43
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- Società
Bla, bla, bla … “Giro girotondo...
Diretta dagli scranni del Parlamento.
Bla, bla, bla … “Giro girotondo, gira il mondo, gira la terra, tutti giù per terra”…
Chi pensa che gli uomini possano cambiare il proprio destino, si sbaglia di grosso. Ognuno fa ciò che può, s’inventa, s’arrabatta, si scazza, finché il suo destino non si rivela, “..allora m’è dolce naufragar in questo mare” dice il poeta pensando all’ ‘Infinito’, in cui s’annega il pensiero di libertà, di democrazia, di solidarietà, di convivenza pacifica tra i popoli. Si sa, la storia la racconta bene chi la scrive, ma come tutti sappiamo la si può scrivere in tanti modi, anche falsandola, spandendo ‘bugie’ a profusione a destra e a manca, incolpandosi reciprocamente degli scheletri nell’armadio: “l’hai messo tu”, “no ce l’ho trovato”,, “l’hanno lasciato quelli che c’erano prima!”.
O, anche, solo parlando in modo sporco dell’energia pulita, per poi essere scoperto a causa di qualche difettuccio di pronuncia rivelatore. E sono davvero in molti: c’è chi ostenta un’appartenenza del Nord rivelando poi nel parlare la sua origine del Sud; chi, al contrario, parla addirittura in dialetto grezzo (greve); chi dice ‘O’ al posto di ‘o’, chi si parla addosso arrotando la ‘r’, chi scivola sulla ‘s’ prolungata in un guazzabuglio incomprensibile, e chi azzarda la ‘z’ come in quello scioglilingua che mi ricorda tanto mio figlio quando tornava dall’asilo e mi chiedeva: “Papà, che ci fa una Zanzara a Zanzibar?”, e tutto proseguiva con una profusione di zeta del tipo di ‘zizzica’ al posto di ‘pizzica’.
Tant’è che nessuno comprende quello che dicono dagli scranni del Parlamento e hanno bisogno degli interpreti come parlassero lingue straniere. Per non dire di chi li ascolta, cioè nessuno, perché, fateci caso, (e le riprese televisive lo rivelano), stanno tutti col telefonino in mano a farsi i c…i propri. Vi risparmio la doppia ‘z’. Solo alcune frasi travalicano gli scranni da entrambe le parti governative e dell’opposizione, (che poi è la stessa cosa): “ lo richiede l’Europa”, “ce lo chiede la gente”, ma la gente dovremmo essere noi, o mi sbaglio? Io a questi signori (si fa per dire) non ho mai chiesto niente, e voi? Da povero ignorante che sono (non stupido però) sarebbe difficile per me rivolgermi a degli azzeccagarbugli, che non ne azzeccano una, o sbaglio?
Rammento che anche Pinocchio della nota favola raccontava bugie, ma almeno quello era un burattino autentico; mentre questi altri, che pure sono burattini contraffatti (leggi fasulli per non dire paraculi), raccontano bugie (leggi falsità) senza averne la cognizione di ciò che dicono. Ah, beata ignoranza! Di fatto s’ingarbugliano nelle dichiarazioni, si smentiscono l’un l’altro, baruffano e arrotano i coltelli, per poi abbandonarsi a un ‘niente di fatto’. Stando alle promesse fatte: «Avevo l’idea dell’etica come di un bivio, di un aut-aut. Qualcosa doveva essere reciso, qualcosa doveva essere deciso. Uno scatto, un movimento in avanti, un atto che mi oltrepassasse. Restava di fronte a me una biforcazione radicale: rispondo alla chiamata della mia coscienza, o mi distraggo proteggendomi nell’affaccendamento spensierato, nella dittatura anonima e impersonale del Man-(Sì), del Si parla, Si dice, Si vive, Si muore? […] Oppure occulto questa apertura, richiudo l’esposizione alla contingenza della scelta e della decisione?» (*) Ma le promesse dei bugiardi si sa, hanno le gambe corte, e infatti si rivelano fasulle già nel dire, come quei ‘Ladri di Pisa’ che di giorno se la spassano (facendo finta di lavorare per noi) e di notte saccheggiano la buona fede della ‘gente’ (che siamo sempre noi). Di giorno dicono: “non si toccano le pensioni”, “non di aumenta l’IVA”, “non si mettono le mani nelle tasche degli italiani”, ecc. ecc.. Nel frattempo, di notte, ruspano sulle pensioni, aumentano la benzina, accrescono le detrazioni fiscali sulla sanità, sui tiket dei medicinali, ecc. ecc.; mandano in pensione, con tanto di bonus d’uscita, chi non ha mai lavorato e non ha nessuna intenzione di farlo. Il tutto alla faccia di quanti hanno versato contributi allo stato per 30/40 anni per lavori spesso mal retribuiti.
Mi fermo qui, anche se ce ne sarebbe da aggiungere, perché nel ‘girotondo’ tra i buoni e i cattivi, tra i bugiardi e i falsi, dobbiamo fare attenzione a non essere sospinti da quei “cattivi venti di propaganda” che non molto tempo addietro, ci hanno portato alla rovina. E che, seppure) da una parte contribuiscono a far girare il mondo, come i più pensano erroneamente; d’altra parte fanno girare la terra (e i coglioni) controvertendo la buona creanza degli italiani che, se ancora non se ne sono accorti, sono (siamo) già tutti col ‘culo per terra’.
Bla, bla, bla … canta il poeta: “Giro girotondo, gira il mondo, gira la terra, tutti giù per terra”…
Nota: (*) Massimo Recalcati, A libro aperto”, Feltrinelli 2018.
Id: 708 Data: 27/04/2019 09:12:29
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- Cinema
A Cannes con Cineuropa News
CANNES 2019
Nella foto: une fille facile di Rebecca Zlotowski
Quinzaine des Réalisateurs.
Nuova linfa per la Quinzaine des Réalisateurs di Cannes di Fabien Lemercier. 23/04/2019 - Sedici dei 24 cineasti selezionati saranno per la prima volta sulla Croisette. L’Europa domina un cartellone in cui brillano Lav Diaz, Bertrand Bonello, Rebecca Zlotowski e Takashi Miike
"Il ruolo della Quinzaine è quello di portare a Cannes nuovi autori e nuove proposte per il cinema, testimoniare la modernità di certe scritture, mettere in evidenza frammenti visionari". Per la sua entrata in scena, Paolo Moretti, il nuovo delegato generale della Quinzaine des Réalisateurs, la cui 51ma edizione si svolgerà dal 15 al 25 maggio nell'ambito del 72°Festival di Cannes, non nasconde il suo desiderio di dare nuova linfa alla celebre sezione parallela, come dimostra il numero impressionante di 16 registi (dei 24 in lizza con altrettanti lungometraggi selezionati nel menù principale) che faranno i loro primi passi sulla Croisette.
Presentato questo pomeriggio a Parigi, al Forum des Images, il programma è dominato da opere europee con 14 produzioni delegate. Tra loro ci sono sei registi francesi: Rebecca Zlotowski con Une fille facile, Bertrand Bonello con Zombi Child, Nicolas Pariser con Alice et le maire, Erwan Le Duc con Perdrix, Benoît Forgeard con Yves e Quentin Dupieux con Le Daim che farà l’apertura. Sei rappresentanti a cui va aggiunto il documentario 100% francese On va tout péter del cineasta americano di origini polacche Lech Kowalski. Per il Vecchio Continente, sono presenti anche il Belgio con Ghost Tropic di Bas Devos, la Svizzera con Les Particules di Blaise Harrison, la Svezia con And Then We Danced di Levan Akin (di cui avevamo visto un estratto al Work in Progress di Les Arcs), la Finlandia con Dogs Don’t Wear Pants di Jukka-Pekka Valkeapää, la Lettonia con Oleg di Juris Kursietis e l’Austria con Lillian di Andreas Horwath. Senza dimenticare la Danimarca che ha prodotto in delegato The Orphanage della giovane afgana Shahrbanoo Sadat.
L’Asia conta tre produzioni in vetrina con le nuove opere di registi affermati come il filippino Lav Diaz (vincitore dell’Orso d’Oro e del Leone d’Oro) e il giapponese Takashi Miike, e un lungometraggio cinese (coprodotto con la Francia) del canadese Johnny Ma. L’America del Nord è presente con tre film di cui due diretti da americani (Robert Eggers e il cineasta di origine russa Kirill Mikhanovsky) e uno dal britannico-iraniano Babak Anvari.
Anche il Sud America punta su tre rappresentanti con i lungometraggi firmati dalla peruviana Melina León (coprodotto dalla Svizzera), l’argentino Alejo Moguillansky e la brasiliana Alice Furtado (con coproduzione olandese e francese). Infine, il Nord Africa è in cartellone con Tlamess del tunisino Ala Eddine Slim (un film coprodotto dalla Francia), che conferma l'emergere di un cinema proveniente da un'area geografica molto visibile quest'anno nelle varie selezioni di Cannes.
In totale, la selezione 2019 comprende quattro opere prime e quattro film diretti da donne, ma anche un gran numero di opere seconde. Oltre ad alcuni nomi molto noti (tra cui Diaz, Bonello e Miike), è soprattutto uno spirito di scoperta che emerge dall’insieme, che non manca di destare la curiosità e che segna anche un interessante assunzione di rischi, in quanto il programma sembra essere molto diversificato in termini di genere. Si segnala infine che il cineasta americano di origine messicana Robert Rodriguez terrà una masterclass e che sarà presentata la sua nuova opera Red 11 in proiezione speciale, così come il mediometraggio The Staggering Girl dell’italiano Luca Guadagnino.
La lista dei titoli annunciati: Quinzaine des Réalisateurs Lungometraggi Le Daim - Quentin Dupieux (film di apertura) Alice et le maire - Nicolas Pariser And Then We Danced - Levan Akin The Halt (Ang hupa) - Lav Diaz Dogs Don't Wear Pants - J-P Valkeapää Canción sin nombre - Melina León Ghost Tropic - Bas Devos Give Me Liberty - Kirill Mikhanovsky First Love (Hatsukoi) - Takashi Miike The Lighthouse - Robert Eggers Lillian - Andreas Horwath Oleg - Juris Kursietis On va tout péter (Blow It to Beats) - Lech Kowalski The Orphanage - Shahrbanoo Sadat Les Particules - Blaise Harrison Perdrix - Erwan Le Duc Por el dinero - Alejo Moguillansky Sem seu sangue (Sick Sick Sick) - Alice Furtado Tlamess - Ala Eddine Slim To Live to Sing (Huo zhe chang zhe) - Johnny Ma Une fille facile - Rebecca Zlotowski Wounds - Babak Anvari Zombi Child - Bertrand Bonello Yves - Benoît Forgeard (film di chiusura) Proiezioni speciali Red 11 - Robert Rodriguez The Staggering Girl - Luca Guadagnino (mediometraggio) Cortometraggi Two Sisters Who Are Not Sisters - Beatrice Gibson The Marvelous Misadventures of the Stone Lady - Gabriel Abrantes Grand Bouquet - Nao Yoshigai Je te tiens - Sergio Caballero Movements - Dahee Jeong Olla - Ariane Labed Piece of Meat - Jerrold Chong & Huang Junxiang Ghost Pleasure - Morgan Simon Stay Awake, Be Ready - An Pham Thien That Which Is to Come Is Just a Promise - Flatform
CANNES 2019 Semaine de la Critique Cinque cineasti europei per la Semaine de la Critique di Cannes di Fabien Lemercier
22/04/2019 - Jérémy Clapin, Hlynur Pálmason e Lorcan Finnegan in concorso, Aude Léa Rapin e Hafsia Herzi in proiezione speciale. Spiccano anche l'America Latina e il Nord Africa Tre cineasti europei parteciperanno al concorso della 58ma Semaine de la Critique che si svolgerà dal 15 al 23 maggio nell'ambito del 72° Festival di Cannes. Svelato oggi tramite una conferenza stampa online del delegato generale Charles Tesson (visionabile sul sito web della Semaine), il programma dell'edizione 2019 include sette titoli in concorso (di cui cinque opere prime) che verranno valutate da una giuria presieduta da Ciro Guerra. Sarà in lizza per il Grand Prix della Semaine il francese Jérémy Clapin con il film d'animazione J’ai perdu mon corps [+], l'islandese Hlynur Pálmason con A White, White Day (suo secondo lungo dopo il tanto acclamato Winter Brothers [+]) e l'irlandese Lorcan Finnegan con Vivarium (suo secondo lungometraggio dopo Without Name [+], presentato a Toronto nel 2016).
Il concorso proporrà anche due opere prime di registi del Nord Africa (l'algerino Amin Sidi-Boumédiène con Abu Leila e il marocchino Alaa Eddine Aljem con Le Miracle du Saint Inconnu) e altri due diretti da registi dell’America Latina (l’argentino-costaricana Sofia Quiros Ubeda con Ceniza negra) e il guatemalteca Cesar Diaz con la produzione franco-belga Nos mères). La selezione 2019 include anche quattro film fuori concorso: Litigante del colombiano Franco Lolli (rivelatosi alla Semaine del 2014 con Gente de bien [+]) che farà l’apertura, i primi lungometraggi Les Héros ne meurent jamais della francese Aude Léa Rapin, Tu mérites un amour della sua connazionale Hafsia Herzi e Dwelling in the Fushun Mountains del cinese Gu Xiaogang che farà la chiusura e che sarà l'unico rappresentante asiatico dell'edizione di questa Semaine segnata anche dalla totale assenza di produzioni nordamericane.
I film selezionati: Concorso lungometraggi
Abou Leila - Amin Sidi-Boumédiène (Algeria/Francia) Ceniza negra - Sofia Quiros Ubeda (Costa Rica/Argentina/Francia) A White, White Day - Hlynur Pálmason (Islanda/Danimarca/Svezia) J’ai perdu mon corps [+] - Jérémy Clapin (Francia) Nuestras madres - Cesar Diaz (Belgio/Francia) Le Miracle du Saint Inconnu - Alaa Eddine Aljem (Marocco/Francia/Qatar/Germania/Libano) Vivarium - Lorcan Finnegan (Irlanda/Belgio) Proiezioni speciali lungometraggi Litigante - Franco Lolli (Colombia/Francia) (film d’apertura) Tu mérites un amour - Hafsia Herzi (Francia) Les Héros ne meurent jamais - Aude Léa Rapin (Francia/Belgio/Bosnia-Erzegovina) Dwelling in the Fushun Mountains - Gu Xiaogang (Cina) (film di chiusura)
Concorso cortometraggi Party Day - Sofia Bost (Portogallo) The Trap (Fakh) - Nada Riyadh (Germania) Ikki illa meint - Andrias Høgenni (Danimarca/Isole Faroe) Journey Through a Body - Camille Degeye (Francia) Community Gardens (Kolektyvinai sodai) - Vytautas Katkus (Lituania) Lucía en el limbo - Valentina Maurel (Belgio/Francia/Costa Rica) The Manila Lover - Johanna Pyykkö (Norvegia/Filippine) Mardi de 8 à 18 - Cecilia de Arce (Francia) She Runs - Qiu Yang (Cina/Francia) The Last Trip to the Seaside (Ultimul Drum Spre Mare) - Adi Voicu (Romania)
Proiezioni speciali cortometraggi Demonic - Pia Borg (Australia) Naptha - Moin Hussain (Regno Unito) Please Speak Continuously and Describe Your Experiences as They Come to You - Brandon Cronenberg (Canada) Invisible Hero - Cristèle Alves Meira (Portogallo/Francia) Tenzo - Katsuya Tomita (Giappone)
La lista dei titoli annunciati per: UN CERTAIN REGARD
Invisible Life - Karim Aïnouz (Brasile) The Beanpole - Kantemir Balagov (Russia) Les Hirondelles de Kaboul - Zabou Breitman, Eléa Gobé Mévellec (Francia/Svizzera/Lussemburgo) La Femme de mon frère - Monia Chokri (Canada) The Climb - Michael Covino (Stati Uniti) Jeanne - Bruno Dumont (Francia) O que arde - Óliver Laxe (Spagna/Francia/Lussemburgo) Chambre 212 - Christophe Honoré (Francia/Belgio/Lussemburgo) Port Authority - Danielle Lessovitz (Stati Uniti) Papicha - Mounia Meddour (Francia/Belgio/Argelia) Adam - Maryam Touzani (Marocco/Francia/Belgio/Qatar) Zhuo ren mi mi - Midi Z (Taiwan) Liberté - Albert Serra (Spagna/Francia/Portogallo) Bull - Annie Silverstein (Stati Uniti) Summer of Changsha - Zu Feng (Cina) Homeward - Nariman Aliev (Ucraina)
CANNES 2019 Maestri e volti nuovi per la Palma d’Oro cannense 2019 di Fabien Lemercier 18/04/2019 - Otto cineasti per la prima volta in concorso a Cannes, affiancati da nove registi già premiati e ancora suspense per Tarantino e Kechiche Gli osservatori avrannno potuto pensare che l'audace selezione messa a punto l'anno scorso con successo dal delegato generale di Cannes Thierry Frémaux fosse solo una questione di congiuntura, ma l’annuncio oggi a Parigi della Selezione ufficiale del 72° Festival di Cannes (14-25 maggio), in particolare la composizione della line-up della competizione, smentisce nettamente coloro che predicevano che il vento del rinnovamento sarebbe calato a favore dei cineasti “habitué“ alle più alte sfere della Croisette. Certo, ci saranno ancora grandi nomi, tra cui almeno quattro ex vincitori con il britannico Ken Loach (Palma nel 2006 e 2016 - 14a partecipazione), i belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne (Palma nel 1999 e 2005 - 8a partecipazione) e l’americano Terrence Malick (Palma d’Oro nel 2011 - 3a partecipazione), e le settimane a venire potrebbero vedersi aggiungere alla lista il francese Abdellatif Kechiche (Palma d’Oro nel 2013) e l’americano Quentin Tarantino (Palma d’Oro nel 1994) i cui film sono ancora in fase finale di montaggio. Ma è comunque un’aria di novità molto forte quella che soffia con otto cineasti per la prima volta in concorso: le francesi Céline Sciamma e Justine Triet, il franco-maliano Ladj Ly, la franco-senegalese Mati Diop, l’austriaca Jessica Hausner, il rumeno Corneliu Porumboiu, l’americano Ira Sachs e il cinese Diao Yi’nan (Orso d’Oro a Berlino nel 2014). A questi autori già incoronati e a questa ondata di neo partecipanti si aggiunge un gruppo di registi di talento consolidato, tra cui cinque cineasti già premiati (direttamente o tramite i loro interpreti) sul grande palcoscenico del Théâtre Lumière: l'americano Jim Jarmusch (8a partecipazione), lo spagnolo Pedro Almodóvar (6a partecipazione), i francesi Arnaud Desplechin (6a partecipazione), il palestinese Elia Suleiman (3a partecipazione) e il canadese Xavier Dolan (3a partecipazione). Sono nuovamente in corsa per la Palma d’Oro anche l’italiano Marco Bellocchio (7a partecipazione), il sudcoreano Bong Joon-ho (2a partecipazione) e il brasiliano Kleber Mendonça Filho (2a partecipazione, che ha co-diretto stavolta con Juliano Dornelles che, dal canto suo, debutterà in competizione). Questo equilibrio generazionale della competizione (19 titoli per ora) si annuncia molto attraente ed eccitante in termini di qualità e diversità di stili e generi: Thierry Frémaux (affiancato dal presidente del Festival, Pierre Lescure) ha evocato un gusto tematico globale che ruota attorno al romanticismo e alla politica. Sul piano geo-cinematografico, l'Europa domina la line-up quest'anno con dieci titoli in gara per la Palma d'Oro: quattro francesi (Sciamma, Triet, Desplechin, Ly), uno spagnolo (Almodóvar), un italiano (Bellocchio), un inglese (Loach), il duo di fratelli belgi (i Dardenne), un rumeno (Porumboiu) e un’austriaca (Hausner). L’America del Nord punta per ora su quattro film (Malick, Jarmusch, Sachs, Dolan), mentre l’Asia schiera tre rappresentanti (Diao Yi’nan, Joon-ho e Suleiman), l’America Latina solo uno (il duo Mendonça Filho - Dornelles). L’Africa sarà presente con il primo lungo di Mati Diop, girato a Dakar. Da notare infine che quattro registe saranno in competizione quest’anno.
La Selezione ufficiale include inoltre un’interessante ramo fuori concorso con due episodi della serie Too Old To Die Young del danese Nicolas Winding Refn, Rocketman [+] dell’inglese Dexter Fletcher, il documentario Diego Maradona del suo connazionale Asif Kapadia, e i titoli francesi Les plus belles années d’une vie [+] di Claude Lelouch e La Belle époque del suo connazionale Nicolas Bedos. Senza dimenticare in proiezione speciale i film di Werner Herzog, Abel Ferrara, Alain Cavalier e Pippa Bianco, e i 15 titoli del Certain Regard (tra cui i lungometraggi di Bruno Dumont, Christophe Honoré, Olivier Laxe, ecc.
La lista dei titoli annunciati finora in Concorso: The Dead Don't Die - Jim Jarmusch (Stati Uniti/Svezia) (Apertura) Dolor y gloria - Pedro Almodóvar (Spagna) Il traditore - Marco Bellocchio (Italia) The Wild Goose Lake - Diao Yinan (Cina/Francia) Parasite - Bong Joon-ho (Corea del Sud) Le Jeune Ahmed - Jean-Pierre & Luc Dardenne (Belgio/Francia) Roubaix, une lumière - Arnaud Desplechin (Francia) Atlantique - Mati Diop (Francia/Senegal/Belgio) Matthias et Maxime - Xavier Dolan (Canada) Little Joe - Jessica Hausner (Austria/Regno Unito/Germania) Sorry We Missed You - Ken Loach (Regno Unito/Francia/Belgio) Les Misérables - Ladj Ly (Francia) A Hidden Life - Terrence Malick (Germania/Stati Uniti) Bacurau - Kleber Mendonça Filho, Juliano Dornelles (Brasile/Francia) La Gomera - Corneliu Porumboiu (Romania/Francia/Germania) Frankie - Ira Sachs (Francia/Portogallo/Belgio/Stati Uniti) Portrait de la jeune fille en feu - Céline Sciamma (Francia) It Must Be Heaven - Elia Suleiman (Francia/Germania/Canada/Turchia) Sibyl - Justine Triet (Francia/Belgio)
Fuori concorso Les Plus belles années d'une vie - Claude Lelouch (Francia) Rocketman - Dexter Fletcher (Regno Unito/Stati Uniti) Too Old to Die Young - Nicolas Winding Refn (Stati Uniti) (serie TV) Diego Maradona - Asif Kapadia (Regno Unito) La Belle époque - Nicolas Bedos (Francia)
Proiezioni di mezzanotte The Gangster, the Cop, the Devil - Lee Won-Tae (Corea del Sud)
Proiezioni speciali Share - Pippa Bianco (Stati Uniti) For Sama - Waad Al Kateab & Edward Watts (Regno Unito/Stati Uniti) Family Romance, LLC. - Werner Herzog (Giappone/Germania) Tommaso - Abel Ferrara (Italia) Être vivant et le savoir - Alain Cavalier (Francia) Que sea ley - Juan Solanas (Argentina)
Id: 707 Data: 25/04/2019 05:22:12
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- Religione
La morte che vince la morte - meditazione di don Luciano.
Meditazione di Don Luciano afferente al Vangelo della prossima Domenica delle Palme.
LA MORTE CHE VINCE LA MORTE : Quanta distanza da Gesù! Luca 22,14—23,56
L’ascolto di questo racconto della passione ci fa prendere nuova e più profonda coscienza di quanto il Signore ci abbia amato e di quanto egli ci sta amando. Amore chiede amore; un dono così immenso chiede gratitudine; una fedeltà così estrema esige la nostra fedeltà. Ma quanta infedeltà tra Gesù e i suoi discepoli, quanta distanza tra i suoi sentimenti e i miei sentimenti. Tra me e il Signore non c’è solo distanza, c’è di più, c’è infedeltà, incoerenza e incomprensione. Il Vangelo di Luca ci invita a meditare sul contrasto profondo che divide il comportamento dei discepoli da quello del Maestro. Da parte dei discepoli c’è un’aperta resistenza a comprendere quello che Gesù sta vivendo. Già la sera della cena durante la quale Gesù ave-va spezzato e offerto il pane perché, mangiandone, si immedesimassero con tutta la sua vita, in particolare con quel gesto di donazione suprema che stava per compiere, vediamo che i discepoli sono ben lontani dal considerare i pensieri e i sentimenti del Maestro. Mentre Gesù si pre-senta come ‘colui che serve’, i discepoli vengono sorpresi in discussio-ni meschine ‘su chi di loro poteva essere considerato il più grande’.
Ma ciò che veramente commuove in questo episodio è che, nonostante la meschinità degli apostoli, Gesù non solo non li rimprovera, ma addirittura prende l’occasione per fare loro la più grande promessa che avrebbe potuto fare. Egli, infatti, prepara per loro un regno perché possano mangiare e bere alla sua mensa e sedere in trono a giudicare le dodici tribù di Israele. La bontà, la gratuità di Gesù supera infinitamente la durezza e la meschinità umana. Egli non si ferma mai, nemmeno di fronte alla mia indegnità. Proprio nel momento in cui gli apostoli si mostrano estrema-mente lontani dalle categorie di pensiero del Maestro e impermeabili al suo insegnamento, Gesù, noncurante di questo, prospetta e promette loro le gioie, l’abbondanza e la gloria della vita senza fine. Gesù è come una mamma paziente con i suoi figli un po’ difficili, compatisce la debolezza, la fragilità, l’incostanza e la superficialità dei suoi amici, li prende per mano, li sostiene, ma non rinuncia ad accompagnarli fino alle altezze che ha preparato per loro.
Il Getsemani. Arrivato sul posto Gesù comincia a pregare, a provare angoscia e a sudare sangue; quest’ultimo particolare è solo di Luca. Gesù non è un eroe come lo intendiamo noi, non affronta la morte con quella spaval-deria stoica che fa la fortuna di tanti personaggi mitici della storia. Gesù è uomo vero e intero e quindi ha paura del dolore e della morte perché questa non appartiene all’umano. Gesù prova il sentimento terribile dell’angoscia. Senza addentrarci in analisi che non ci competono, il sudore di sangue è certamente il segno di una sofferenza inaudita e in-contenibile. Ma improvvisamente la scena cambia; si avvicina una folla di gente guidata da Giuda, uno dei dodici. ‘Uno dei dodici’ è l’espressione che sottolinea la costernazione dell’evangelista: proprio uno dei dodici ha consegnato l’amato Maestro ai suoi persecutori. Cosa inaudita! È la stessa costernazione di Gesù: ‘Giuda con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?’. Proprio con un bacio? Tutto questo avviene di notte. La notte è l’ora delle tenebre, della vigliaccheria, l’ora di coloro che non hanno il coraggio di compiere i loro misfatti alla luce del giorno. Pietro lo segue da lontano. Dapprima dimostra un certo coraggio, ma poi vacilla e cade: ‘Non lo conosco!’. ‘Il Signore, voltatosi, guardò Pietro’. Il suo sguardo non è di giudizio e di condanna. ‘Pietro scoppiò a pian-gere!’. Dobbiamo imparare a sentire su di noi questo sguardo intenso e tene-rissimo di Gesù. Questo sguardo ha provocato uno sconvolgimento e un pentimento profondo nel cuore di Pietro. Un pentimento così lo vive chi guarda a lui, non chi guarda solo a se stesso. Oggi sarai con me in paradiso!Il Signore Gesù si preoccupa, fin dentro l’ultima agonia, della sal-vezza di chi gli muore a fianco e non della propria salvezza. Le sue ultime parole per gli uomini sono indirizzate ad un malfattore, ma an-che a tutti noi che rischiamo di arrenderci ad una cultura di morte. Lì, in quel malfattore, c’è tutto il mistero della persona umana. L’uomo, nel suo limite più basso, è ancora amabile, la persona è ancora sal-vabile e salvata, anche nel suo limite ultimo.Questo vuol dire che nessuno è perduto per sempre, nessuno potrà andare così lontano dalla casa del Padre, da non poter essere raggiunto.Sarai con me! Le braccia di Gesù, distese e inchiodate in un abbraccio perenne, dicono accoglienza che non esclude nessuno. Il suo cuore è dilatato fino a lacerarsi. L’amato nasce dalla ferita del cuore di chi lo ama. L’uomo, ciascuno di noi, nasce dal cuore trafitto del suo creatore.
Sarai con me in paradiso! Parla di uno spazio felice e immenso, lui che ha come spazio appena quel po’ di legno e di terra che basta per morire. Non c’è nulla che possa separarci da Cristo, né male, né tradi-menti. Io vengo a prenderti anche nelle profondità dell’inferno, se tu mi vuoi. Solo se tu mi vuoi. Ma io continuerò a morire d’amore per te, anche se tu non mi vorrai e appena girerai lo sguardo troverai uno eter-namente inchiodato in un abbraccio che grida: ‘Ti amo!’. La crocifissione e la morteCi colpisce la sobrietà dell’evangelista Luca nel narrare la crocifis-sione. Il supplizio più crudele e umiliante che la malvagità umana abbia mai potuto concepire viene presentato in un linguaggio asciutto ed es-senziale da dare quasi l’impressione di qualcosa di normale, di ordina-rio, come se nulla fosse. Alla feroce crudeltà del supplizio fa contrasto la misericordiosa preghiera di Gesù: ‘Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno!’. Luca non registra il grido angosciato: ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?’.
Di Gesù crocifisso vuole sottolineare la misericor-dia infinita che non solo arriva a perdonare un crimine così efferato, ma addirittura lo scusa. Egli vuole mettere in evidenza l’infinita bontà di Gesù che non pensa a sé nemmeno in questa tremenda circostanza. Il contesto, però, intorno a Gesù, anche di fronte a tanta bontà, continua ad essere di ostilità e di disprezzo. I capi e i soldati lo schernivano. L’amore è circondato dall’odio.I segni poi che accompagnano la morte di Gesù sono il buio su tutta la terra e il velo del tempio squarciato. Il buio è simbolo dell’oscurità della morte. Senza Cristo il mondo tutto è avvolto dal buio; il velo squarciato è il segno che il tempio non serve più. Ormai tutto il mondo, tutta la storia è il luogo dove l’uomo può incontrare il suo Dio. Alla fine di tutto Gesù muore gridando ad alta voce, con il suo dolo-re, ma la sua speranza, il suo abbandono fiducioso e filiale: ‘Padre nel-le tue mani consegno il mio spirito!’. Gesù muore da Re. Sulla croce la sua regalità si manifesta in tutto il suo splendore. Gesù muore, ma il racconto della passione non si chiude con lo scon-forto di un totale fallimento. La sua morte sembra produrre subito alcu ni cambiamenti.
Lo scenario improvvisamente si trasforma. ‘Il centurione glorificava Dio’! Le folle se ne ritornavano battendosi il petto, riconoscendo dunque il loro peccato. Anche i suoi conoscenti e le donne che lo avevano assistito fin dalla Galilea, insomma quelli più vicini, forse parenti e amici, hanno partecipato a questi avvenimenti con amore e trepidazione. Il racconto si conclude non a caso, con un accenno alle luci del saba-to che già splendevano, annunciando non solo il nuovo giorno, ma il giorno eterno che di lì a poco la risurrezione di Gesù avrebbe inaugura-to. Gesù è l’immagine dell’homo patiens, dell’uomo solo, dell’uomo sofferente, ma bisogna subito aggiungere che la sofferenza lui non l’ha mai amata. La sofferenza è un male!La croce non è stata una scelta di Gesù. Era infatti pienamente convinto che a salvare non fosse la sofferenza, ma soltanto l’amore. È stato il suo amore verso il Padre e verso le persone più umiliate a procurargli l’opposizione dei capi religiosi e a fargli subire il tormento della croce. La croce è stata la conseguenza della sua fedeltà.
Ma proprio dall’amore che portava nel cuore egli ha potuto attingere quella pace profonda che, nel racconto di Luca, lo accompagnerà fino al mo-mento estremo della morte. Gesù ama fino alla fine morendo sulla Croce. Sulla Croce Gesù è l’illustrazione vivente dell’amore ostinato di Dio, di cui parla tutta la Scrittura. Ci rivela quanto siamo amati e a quale prezzo. L’amore conosce molti doveri, ma il primo di questi è essere insieme con l’amato, vicino e unito a lui. Gesù è salito sulla Croce per essere con me e come me e perché io possa essere con lui e come lui. Come una madre che vuole prendere su di sé il male del suo bambino, ammalarsi lei per guarire suo figlio. Solo un Dio non scende dal legno, solo il nostro Dio. Il nostro è il Dio ‘differente’; è il Dio che entra nella tragedia umana, entra nella morte, perché là va ogni suo amato figlio. La Croce è l’abis-so, dove Dio diventa l’amante. Incredibilmente e imprevedibilmente Gesù rivela la sua divinità, proprio nell’annientamento della croce. È in questa prova suprema del suo amore che egli rivela la sua ineffabile divinità. In questa morte che vince la morte, in questa morte che annunzia la risurrezione egli si rivela il Signore della vita.
Contatti: Mirella Clementi miry.clemy@gmail.com
Id: 705 Data: 10/04/2019 06:44:36
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- Teatro
Progetto Demoni - prime date in Campania
Stagione Mutaverso Teatro
Prime date in Campania del "Progetto Demoni" Top secret per la location dello spettacolo 'Come va a pezzi il tempo'di e con Alessandra Crocco, Alessandro Mielein coproduzione con Capotrave / Kilowatt, Infinito srl.
Per il penultimo appuntamento della Stagione Mutaverso Teatro, il direttore artistico Vincenzo Albano di ErreTeatro, propone lo spettacolo "Come va a pezzi il tempo", prime date in Campania – messo in scena da Progetto Demoni, che potrà essere visto solo in tre date, dal 5 al 7 aprile. La pièce, di e con Alessandra Crocco e Alessandro Miele, si terrà in una location top secret, fuori dai teatri, che sarà comunicata solo al momento della prenotazione, obbligatoria anche per gli abbonati. Lo spettacolo prevede 5 repliche giornaliere, per massimo 5 spettatori alla volta, per rappresentazioni che si terranno ai seguenti orari: h. 17| 18 | 19 | 21 | 22. Lo spettatore entra in una casa abbandonata da poco. Ogni cosa è ancora al suo posto e il tempo sembra essersi fermato. Ma quella casa è stata vissuta ed è carica di segni che a poco a poco iniziano a parlare. Dal silenzio riaffiorano ricordi, momenti differenti, legati eppure distanti. Le porte, le stanze, gli oggetti, gli odori raccontano una storia, evocano le persone che hanno abitato quel luogo, le chiamano a ripetere scene già vissute. È una storia ridotta in pezzi, come la memoria di una vita, come un sogno ripercorso con la mente al risveglio. È l’ultimo canto di un luogo prima che il tempo lo faccia lentamente decadere. Lo spettatore viene condotto dentro la storia, attraversando le stanze e nello stesso tempo le vite di chi le ha abitate, testimone discreto dell'eco di un passato che risuona ancora una volta. Tenuto sul limite tra mondo reale e mondo immaginario, potrà solo andare con gli attori alla "ricerca del tempo perduto" e quasi toccare i due protagonisti ma non intervenire, perché ormai tutto è già accaduto. Vedrà i due rincorrersi, incontrarsi e separarsi nelle diverse stanze e infine lasciare l’appartamento per sempre. Il visitatore si ritroverà quindi di nuovo solo, nel silenzio irreale della casa inanimata eppure ormai familiare. Il distacco provato all’ingresso cederà il passo alla sensazione che si prova quando si abbandonaun luogo pieno di ricordi. Come va a pezzi il tempo è un ritorno ai luoghi non teatrali che erano stati al centro di Demoni-frammenti, il nostro primo progetto. Di questa modalità di lavoro ci interessa la vicinanza tra attori e spettatori e la ricerca di una recitazione fatta di piccole sfumature, quasi cinematografica. In Demoni-Frammenti avevamo estratto da Dostoevskij tre episodi che venivano programmati in giorni diversi, offrendo allo spettatore un appuntamento quotidiano con i personaggi del romanzo.
In "Come va a pezzi il tempo" invece proviamo a riunire i frammenti di una storia in un unico piano sequenza considerando l’occhio dello spettatore come l’obiettivo di una telecamera.5- 6- 7 aprile 2019, ore 17| 18| 19 | 21 | 22 per 5 repliche giornaliere per n. 5 max spettatori alla voltaIl luogo sarà comunicato al momento della prenotazione (obbligatoria anche per gli abbonati)
ALESSANDRA CROCCO Nata nel 1981 a Salerno, dove ha iniziato la sua formazione teatrale con Claudio Di Palma e Ruggero Cappuccio. Dopo la Laurea in Lettere Moderne all'Università di Napoli, si è trasferita a Milano per frequentare la Scuola del Teatro Arsenale diretta da Kuniaki Ida e Marina Spreafico. Ha seguito seminari con diversi maestri tra cui Leo De Berardinis, Elena Bucci, Marco Martinelli, Marco Baliani, Claudio Morganti. Nel 2006 è autrice e attrice con la compagnia “Fuori Quattro” dello spettacolo Chiamiamo a testimoniare il barone di Munchausen, finalista al Premio Scenario Infanzia. Nel 2007 partecipa al Corso di Alta Formazione “Progetto Interregionale Teatro”, organizzato dai Cantieri Teatrali Koreja a Lecce, che si conclude con lo spettacolo Lezioni d'amore – Studio per un Barbablù di Antonio Viganò. Nel 2009 è autrice e interprete di Non ti ho mai tradito, progetto finalista al "Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti". Collabora con i Cantieri Teatrali Koreja come attrice negli spettacoli La parola padre di Gabriele Vacis, Giardini di Plastica, Alice e Il calapranzicon la regia di Salvatore Tramacere, e Mangiadisk, con la regia di Enzo Toma.
ALESSANDRO MIELE Nato a Pompei nel 1983. Dopo la scuola di mimo corporeo diretta da Michele Monetta, ha partecipato al corso di formazione “Epidemie” con il Teatro delle Albe e alla creazione dello spettacolo Salmagundi per la regia di Marco Martinelli (produzione: Ravenna Teatro, Emilia Romagna Teatro Fondazione). Ha seguito seminari diretti da Ermanna Montanari, Fiorenza Menni, Marco Martinelli, Marise Flach, Riccardo Caporossi, Roberto Latini, Roberto Bacci, Claudio Morganti. Nel 2005 è autore e interprete di Sono solo un uomo, testo vincitore del Concorso di Drammaturgia Sportiva indetto dal Festival SportOpera 2005. Nel 2006 è finalista con la compagnia “Fuori Quattro” al Premio Scenario Infanzia 2006 con lo spettacolo Chiamiamo a testimoniare il Barone di Munchausen. Ha fondato con Consuelo Battiston e Gianni Farina la compagnia “Menoventi” (Premio Rete Critica 2011, Premio Hystrio-Castel dei Mondi e Premio Lo Straniero 2012), realizzando come co-autore e attore gli spettacoli In festa, Invisibilmente (produzione: Menoventi – Emilia Romagna Teatro Fondazione), Postilla, Perdere la faccia, L'uomo della sabbia(produzione: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival delle Colline Torinesi, Programma Cultura dell'Unione Europea nell'ambito del Progetto Prospero)website: www.progettodemoni.it
MUTAVERSO TEATRO(LA) QUARTA STAGIONEIDEAZIONE E DIREZIONE ARTISTICA VINCENZO ALBANO/ ERRE TEATROANNO 2018-2019 UFFICIO STAMPA CLAUDIA BONASI|RENATA SAVOcomunicazione@puracultura.it- 339 7099353rensavo@gmail.com- 320 1915523INFO E PRENOTAZIONI info@erreteatro.it - 329 4022021
Da venerdì 5 a domenica 7 aprile Il luogo sarà comunicato al momento della prenotazione obbligatoria (anche per gli abbonati) cinque repliche giornaliere per 5 spettatori alla volta (durata: 40 minuti) turni ore 17:00, 18:00, 19:00, 21:00, 22:00 biglietto unico intero: € 10,00
Ufficio Stampa
Id: 704 Data: 03/04/2019 11:56:39
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- Musica
“Emozioni private,Lucio Battisti, una biografia psicologica
“Emozioni private. Lucio Battisti, una biografia psicologica”:
è questo il titolo della nuova biografia su Lucio Battisti in uscita giovedì 28 marzo, scritta dalla giornalista e critico musicale Amalia Mancini ed edita da Arcana. A 20 anni dalla morte del celebre autore, avvenuta il 9 settembre 1998, questo nuovo volume si discosta dalle precedenti biografie indagando nei meandri più nascosti della vita e della psicologia del “primo” Battisti, rivelando l’intima essenza di un uomo molto diverso dal personaggio pubblico che tutti conoscono, ma così bene trasmessa dalla sua musica. Reatina come Battisti, Amalia Mancini ha affrontato una lunga fase di ricerca nei luoghi e nel passato dell’artista, culminata con un’intervista esclusiva a Giulio Rapetti, in arte Mogol: l’autore dei testi che hanno contribuito a rendere immortali i brani di Battisti. Il loro è stato il sodalizio più celebre e controverso della canzone italiana: legati da una profonda amicizia, all’inizio degli anni ’80 i due artisti hanno deciso bruscamente di interrompere il loro rapporto, proseguendo su strade diverse. Nella lunga conversazione con Amalia Mancini, Mogol svela molti segreti dell’amicizia e della fertile collaborazione con Lucio, un artista tanto discreto nella vita pubblica quanto espressivo e sincero in quella musicale. Nel libro, i temi ricorrenti nelle canzoni di Battisti: l’amore, la malinconia, la libertà, la natura, l’ecologia, la paura, l’alienazione, la solitudine, il timore di una catastrofe naturale e umana.
“Ascoltare significa qualcosa” diceva Lucio, e riascoltare la sua musica, con il punto di vista di questa nuova biografia, può essere un’operazione stimolante e coinvolgente. Sabato 30 marzo a Roma un evento speciale per festeggiare l’uscita del libro in collaborazione con Honda Moto Roma: dalle 12, presso la filiale Honda di via Tiburtina 1166/1168, il libro autografato dall’autrice andrà in omaggio a tutti coloro che effettueranno un Test Ride dei nuovi modelli Honda in presentazione. Dalle 12, la musica di Lucio Battisti sarà reinterpretata dalla cantante Jen V Blossom.
Amalia Mancini è una giornalista, scrittrice, sceneggiatrice e critico musicale reatina. Collaboratrice di varie testate, ha iniziato giovanissima la sua carriera di scrittrice, aggiudicandosi diversi premi tra cui il Premio Capit Terzo Millennio e il Premio Viareggio Carnevale. E’ autrice di 20 Sillogi Poetiche inedite e dei volumi “Lucio Battisti l’enigma dell’esilio”, “L’amore piace a tutti”, “La Tata dei Divi”; è coautrice del volume “Giovani e Droga, Perché?” e curatrice del libro “Le mie Prime vere Scarpe”. Ufficio Stampa MArtePress: Fiorenza Gherardi De Candei – tel. 328.1743236 email fiorenza.gherardi@martelive.it Francesco Lo Brutto – tel. 331.4332700 email francesco.lobrutto@martelive.it
Id: 703 Data: 27/03/2019 18:02:58
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- Psicologia
La forza del desiderio - un libro di Massimo Recalcati
“LA FORZA DEL DESIDERIO” – un libro di Massimo Recalcati – Qiqajon/Sympathetika 2014
Del perché leggere Massimo Recalcati, psicanalista e saggista, è un’esperienza davvero singolare, lo apprendiamo dalle pagine di ogni suo nuovo libro, sia del singolo argomento trattato in ogni suo intervento televisivo (“Lessico amoroso” in onda su RAI3), dal modo in cui riesce ad attrarre l’attenzione di un pubblico sempre più numeroso e affascinato dal suo linguaggio accattivante. È un fatto che le argomentazioni di ogni suo intervento si basino sull’uso orale e colloquiale della parola, solo qua e là forbita dalla colta conoscenza dell’intelletto umano di cui non fa ostentazione e, per lo più, scandita con voce suadente e specifica nelle risposte, alle domande che il pubblico gli rivolge direttamente. Ciò, proprio perché sono argomentazioni che riguardano il nostro conscio / inconscio, ci si sente pienamente coinvolti in trattazioni professionali. Non certo allo stesso modo in cui si viene ‘curati’ dallo psicanalista che ci vuole sdraiati sul lettino apposito, sconvenientemente alla stregua delle sue ossessioni interlocutorie che, per quanto ci riguardino da vicino, ci fanno sentire scavati nell’intimità di quella ‘privacy’ che non riveleremmo neppure a noi stessi. È questo il lavoro che l’autore di questo piccolo (ma assai grande) libro che tratta della ‘forza del desiderio’ che improvvisamente scopriamo avere la connotazione del nostro (pur assai grande) essere nascosto: il nostro inconscio.
Massimo Recalcati riflette qui sulle contraddizioni che attraversano quella che secondo lui è “innanzitutto una esperienza” (umana e corporale) che, strutturata com’è dal rischio dello smarrimento e della perdita di qualcosa e/o di qualcuno, ha come effetto l’essere dominati dal desiderio che, talvolta, prende forma di esperienza necessariamente negativa. La direste una contraddizione in termini, ma non è così, non c’è violenza nelle parole, per quanto esse possano avere effetto vessatorio, che non risparmiano né i sentimenti, né la sensibilità dell’individuo. Ciò non toglie che le parole possano far male nel profondo anche al solo evocarle ma, c’è pur sempre un altro aspetto da considerare, per effetto dei loro ‘sinonimi e contrari’, con cui avvalersi della ragione, (qualunque essa sia), ed è il compromesso che facciamo e/o accettiamo con noi stessi, che già Jacques Lacan, qui ripreso più volte da Recalcati, esprimeva come: ’responsabilità senza padronanza’ e che riguarda l’apertura al desiderio. Quel desiderio che spesso abbiamo tenuto nascosto e/o segregato, perché avevamo e/o abbiamo ‘paura’ di esternarlo, e che guarda caso, come un tarlo continua a condizionare la volontà dei nostri sentimenti e le nostre azioni. Al punto che tradire di fare l‘esperienza del ‘desiderio’ è un po’ come tradire noi stessi, ma poiché siamo esseri antropici, diversi dagli animali che provano solo istinti, dovremmo anche ammettere a noi stessi di non essere perfetti, anzi di essere imperfetti e quanto più diversi, per questo considerati ‘umani’ e alquanto meravigliosi. Se pure alla stregua di una transumanza d’intenti (di desideri) da considerare senza alcuna colpa e/o responsabilità; nella possibilità di fare d’ogni eventualità un’esperienza: "Finché c’è desiderio, c’è vita; il desiderio allunga la vita, nella misura in cui il desiderio ci attraversa, dilata l’orizzonte della nostra vita". Dunque, la prima considerazione da fare è che: “Noi siamo portati dal desiderio, […] (o meglio), siamo posseduti dal desiderio, non nel senso negativo del termine”,(bensì) “il desiderio ci attraversa, […] che non è la forza dell’io semplicemente, ma che è qualcosa di ulteriore rispetto all’io; […] l’esperienza di una forza che mi supera.” “Dove c’è l’io, dove c’è la supponenza dell’io di governare il desiderio, non c’è desiderio. Viceversa, esso appare quando l’io si indebolisce, quando l’io riconosce la sua insufficienza. È per questo che l’io è in fondo la malattia mentale dell’uomo: credersi un io è veramente la ‘follia più grande’, (J. Lacan). Credersi un io è una follia, e questa follia adombra l’esperienza del desiderio.”
Si è detta ‘paura’ utilizzando un termine che può sembrare scorretto, ma è questo il vero paradosso: la paura d’essere dominati dal desiderio e/o assoggettati, quanto più permettiamo al desiderio di soppraffarci. È allora che quello che doveva essere “il desiderio del -e/o nel- desiderio dell’altro” (Lacan), diviene la negazione del desiderio stesso. Mentre, invece, il desiderio deve far appello e/o congiungersi con il desiderio dell’altro per avere una sua valenza intrinseca:
“Ed è quando la vita umana prende la forma dell’appello all’altro, dell’invocazione dell’altro, - potremmo dire radicalmente - della preghiera: che la vita umana può dirsi ‘vita che si rivolge all’altro’. Quando ciò che noi siamo, è tradotto in domanda d’amore, in domanda di presenza”; quando cioè il desiderio si fa corrispondenza con l’altro nell’assunzione di corresponsabilità. Paura che nella notte (dei nostri giorni) possa non rispondere nessuno al nostro grido di desiderio: “La vita umana per umanizzarsi ha bisogno di questo sì, (corrispondente all’ammissione di presenza), ha bisogno di essere adottata (dall’altro), e dunque che qualcuno dia senso alla nostra vita.”
Nel volervi vedere una qualche contraddizione, se di questa si tratta, sta nel fatto che “il desiderio esige al tempo stesso di realizzarsi in proprio”; mentre è pur vero che “il desiderio dipende dal desiderio dell’altro, […] dall’accoglienza dell’altro”, quasi che il nostro desiderio fosse il desiderio dell’altro e/o, comunque, dipendesse dall’altro. Ma se escludiamo che ciò possa sussistere, il nostro desiderio risulterebbe acefalo, strettamente legato al nostro individualismo, al nostro narcisismo quanto al nostro egoismo. Semmai dovremmo imputare al nostro desiderio una fuga dalle emozioni, la cui assenza sfocia nella solitudine, nella volontà di non misurarci con gli altri, né con la società, né col mondo che ci circonda; una sorta di patologia malata che non ci mette al riparo dalla sofferenza:
“Il desiderio si nutre del desiderio dell’altro, ma il desiderio esige anche di avere un proprio oggetto (presenza), una propria vita (da spendere e scambiare), un proprio percorso (esperienza), e in questo si manifesta come fuoco (possessione), come forza (volontà). Ciò va riferito agli atti che compiamo e che compiremo, e che “spiega, per esempio, tutta la turbolenza della giovinezza”: le inquitudini, le ripetute crisi, i fallimenti, gli abbandoni, i sensi di colpa e di sbandamento cui si è soggetti in gioventù, e non solo. Ci sono età in cui la giovinezza ostinata, l’invecchiamento, la non accettazione del decadimento fisico, creano quelle ‘paure’ insospettate (spesso inconsce) cui solo la psicoanalisi ha saputo e può dare risposte valide. La fuga in avanti e/o dalla realtà attuale, ad esempio, ha determinato l’attaccamento morboso all’uso del cellulare, la cui ‘presenza’ è qualcosa che nel bene e nel male ci rassicura; così come i video-giochi ci danno la dimensione della nostra potenza di riuscire ad essere ciò che (ancora) non siamo, o che ‘forse’ non abbiamo il coraggio né la volontà di essere: cioè despoti di noi stessi. Ma attenzione, non saper tenere sotto controllo i sentimenti può anche scatenare in manifestazioni violente di quell’io che crediamo di essere, dacché l’arroganza, la violenza, lo stupro, il masochismo che ci rende comunque schiavi di noi stessi.
È dunque questa, in assoluto, la ‘forza’ cui detenere il controllo, saperla conformare alle esigenze reali, non utopistiche di ciò che non ci è dato, ma, per fare ciò, in primis bisogna conosce se stessi, chi siamo, cosa vogliamo, dove vogliamo andare, cosa vogliamo costruire, che sono poi i segni di una maturità per certi casi irrangiungibile. Sia nei casi in cui “la vita si dà come esigenza di separazione” da un precedente status; sia in cui necessita di una rottura col passato e/o con l’attuale status, e si da inizio a una forma di ‘erranza’ dove, oltre ad incontrare se stessi, si va incontro all’altro, in termini di instaurare un rapporto con l’altro, scavalcando le differenze di genere (sesso) che le diversità d’intenti (comunità, famiglia allargata ecc.). Da cui si evince che, per non entrare in conflitto con se stessi, per continuare a soddisfare il (solo) desiderio dell’altro, veniamo a mancare di quella ‘volontà’ che altresì dovrebbe dare corso alla naturale esposizione dei nostri sentimenti, mancando così di affermare il nostro desiderio di intima soddisfazione:
“Al contrario la vita soddisfatta è la vita che si incammina con decisione (determinazione) lungo la via del proprio desiderio, e il desiderio esige rottura, conflitto. […] Essere ostinati con il proprio desiderio è una buona cosa: rende la vita felice, soddisfatta, e dunque la rende anche generosa, perché vita generosa è la vita soddisfatta.”
Rammento un vecchio detto in cui si affermava con saggezza che «non si vive di solo pane», e questo è il caso più lampante che abbia annotato negli anni della mia lunga esperienza in vita: “Certo, perseguire con determinazione il proprio desiderio significa anche far soffrire”, per quanto le risposte che Recalcati dà su questa argomentazione filosofica prima ancora che scientifica, si avvalgono di esempi maturati nel tempo, vuoi sulla sua persona, vuoi basate sull’esperienza di tanti anni passati a contatto con i giovani presso l’Università di Pavia in cui insegna ‘psicopatoloia del comportamento’. Ciononostante mette in guardia sull’uso sconsiderato della psicanalisi:
È indubbio –scrive l'autore– che “la psicanalisi è una possibilità di traduzione dell’inconscio, ma rimane il fatto che il desiderio fa fatica a essere accolto, perché straniero a noi stessi, […] parla appunto un’altra lingua – una lingua straniera – che dobbiamo tradurre. Il desiderio non parla la lingua dell’io: è per questo che è difficile coglierlo e avere un rapporto diretto con il proprio desiderio”. E aggiunge che per certi versi l’analista permette di tradurre metaforicamente la lingua cifrata in cui parla l’inconscio, ma che una volta tradotta, la difficoltà sta nell’indurre il paziente a decidere di andare nella direzione in cui il desiderio spinge; aggiungendo che paradossalmente, il desiderio spinge, ad esempio nei giovani, verso la dipendenza necessaria di andare incontro “all’appartenenza e all’erranza, al desiderio dell’altro e al desiderio di avere un proprio desiderio”.
Si direbbe una forma di realizzazione alquanto singolare, ma è proprio così che accade, almeno per una grossa percentuale di casi, allorché ‘incarniamo il desiderio’: “Ora, il desiderio è sempre incarnato. Non c’è desiderio separato dal corpo. In questo senso il desiderio è sempre erotico […] in quanto porta con sé il corpo. Il desiderio non è l’io, è più dalla parte del corpo che dalla parte dell’io. Pensiamo all’arte: quando un musicista suona, uno scrittore scrive, un attore recita, quando c’è vocazione nell’arte, lì c’è il corpo, il corpo erotico”. Ovvero, la piena soddisfazione del corpo, qui inteso anche come forma intellettiva. In fondo il cervello per quanto elastico sia va comunque considerato una parte del corpo, ciò che muove i sentimenti, da cui si sprigiona il desiderio, quell’eros corporale implicito nello spirito che possiamo distinguere in diverse espressioni intellettive consequenziali: nel dare oggettivo (donarsi) e/o nel ricevere (soddisfarsi); nel creare (generare) e/o distruggere (de-strutturare); ma ed anche nell’amore (elettivo - dinamico) e/o nell’odio (destitutivo – distruttivo).
In questo senso ogni evoluzione intermedia è, nel rapporto con il desiderio in quanto: “manifestazione del corpo, della dimensione vivente del corpo, apertura degli orifizi del corpo”; cioè apertura a/del desiderio “perché il desiderio esige l’apertura dei mondi (verso la natura umana, verso gli altri esseri antropici ecc.), perché in questo (e solo in questo) si respira la trascendenza del desiderio”. “Anche il desiderio di Dio porta con sé il corpo …”, ma questa è un’altra parentesi che si apre dalle pagine di questo libro e in altro modo, più ampio, è documentata dall’autore in altre sue pubblicazioni: “Lacan suggerisce di andare al fondo di questo desiderio come desiderio d’altro. […] Possiamo dire che il desiderio, attratto com’è dall’illusione del nuovo, si trova anche la dimensione di apertura del desiderio”, da cui “emerge una responsabilità irriducibile” (specifica dell’essere). Responsabilità che si traduce in ‘vocazione’: “ una spinta, un orientamento fondamentale e singolare della vita, di una vita”.
Onde ciascuna vita è animata e/o orientata dalla vocazione del desiderio: “una legge che è fondamento di tutte le civiltà, della possibilità del vivere insieme, della possibilità della comunità, che inscrive nel cuore dell’umano l’esperienza dell’impossibile, legge che veicola l’esperienza dell’impossibile. È nella misura in cui la vita fa esperienza del limite (di quel tutto che ci è negato), che diventa possibile generare il desiderio”. Ma c’è una frase in questo libro che più mi ha sconvolto al pari di un’onda d’urto in pieno petto, e che pur mi affascina e mi sorprende: “C’è un solo peccato, un solo senso di colpa giustificato, ed è quello di cedere, nel senso di indietreggiare, sul proprio desiderio”; che riscatta tutta l’argomentazione dall’essere fin troppo filosofica, per la parte in cui la filosofia infuenza la psicologia e anche la psichiatria. “Non ci sono altri peccati – ci dice ancora l’autore – il che la futilità del capriccio, quando sentiamo che nella scelta che siamo chiamati a comnpiere, lì c’è la dimensione del desiderio e – come direbbe il filosofo – ne va di tutta un’esistenza, della stessa vita”.
Massimo Recalcati, psicoanalista e saggista tra i più nori in Italia, è membroanalista dell’Associazione lacaniana italiana di psicoanalisi. Dirige l’Irpa (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata) e insegna presso l’Università di Pavia. Tra i suoi libri tradotti in numerose lingue, oltre a quello qui recensito, vanni segnalati: “L’ora di lezione” (2014), “Le mani della madre” (2015), “Il mistero delle cose” (2016), “Contro il sacrificio” (2017), inoltre a “Il segreto del figlio” (2017).
Id: 702 Data: 03/03/2019 07:09:12
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- Letteratura
Euterpe Rivista di Letteratura n.28
EUTERPE Associazione Culturale, è lieta di comunicare l’uscita del n°28 della Rivista di Letteratura rivolta al tema “Musica e letteratura: influenze e contaminazioni”, con particolare interesse all’attualità delle argomentazioni messe in campo da quanti, poeti e scrittori, hanno inteso partecipare con articoli e saggi di rilievo.
L’apertura di questo numero vuole essere un omaggio al poeta Guido Oldani, padre del ‘realismo terminale’, con alcuni suoi inediti e un commento a cura del critico letterario Lucia Bonanni.
ARTICOLI Mario De Rosa – “Una mistica fra rock e poesia: Patti Smith” Iuri Lombardi – “Gli scrittori nella canzone d’autoreitaliana” Fabia Baldi – “La querelle del Premio Nobel a Bob Dylan” Corrado Calabro’ – “Musica e poesia” Bruno Centomo – “Buonaterra e Centomo: la parola in musica” Cinzia Perrone – “Bob Dylan il menestrello del rock” Giorgio Mancinelli – “Musicologia all’origine della cultura globalizzata” Francesca Camponero – “La poetica, cuore del melodramma” Paolo D’arpini – “Musica come espressione ecologica dell’anima” Denise Grasselli – “Dalla letteratura alla musica: l’enigmatica storia di Orfeo e Euridice” Cetta Brancato – “Canto per Francesca” Vincenzo Prediletto – “Beat in rosa: musica beat ed emancipazione femminile” SAGGI Cinzia Baldazzi & Adriano Camerini – “Bob Dylan tra Keats, Leopardi e Shelley” Luca Benassi – “Del testo e della musica. Un approccio storico ai problemi relativi al rapporto tra poesia e musica” Stefano Bardi – “La nuova frontiera della poesia in Italia: Rap & Company” Lucia Bonanni – “Da La terra del rimorso di Ernesto De Martino alla “cinematografia sgrammaticata” di Pier Paolo Pasolini per un percorso interdisciplinare tra etnomusicologia, letteratura popolare e cinema etnografico” Franco Buffoni – “Ritmo sopra tutto” Cinzia Demi – “La voce della fontana in Fogazzaro, D’Annunzio, nei Crepuscolari. Una musica per immagini” Lorenzo Spurio – “Approcci comunicativi e sovrapposizioni di voci nel delirio di Alice nel Paese delle Meraviglie” Maria Grazia Ferraris – “Fryderyk Chopin e George Sand. La goccia d’acqua” Gabriella Mongardi – “Letteratura e musica in La morte a Venezia di Thomas Mann” Valtero Curzi – “Letteratura e musica: influenze e contaminazioni” Marco Tabellione – “La Musica silenziosa. La poesia e la sua musicalità” Angelo Ariemma – “Les Chansonniers ovvero poesia permusica” Graziela Enna – “Due poeti francesi reinterpretati da Fabrizio De André: François Villon e Pierre de Ronsard Carmen De Stasio – “Pienezza espressiva tra musica e letteratura” Francesco Martillotto – “La musica, “dolcezza e quasi anima de la poesia” in Torquato Tasso RECENSIONI Gabriella Mongardi – “Come se di Luigi Santucci” Laura Vargiu – “Cattivi dentro. Dominazione, violenza e deviazione in opere scelte della letteratura straniera di Lorenzo Spurio” Laura Vargiu – “Quadro imperfetto di Stefania Onidi” Carmelo Consoli – “Così è. Colloqui con Dio di Ermellino Mazzoleni” La rivista può essere letta e scaricata in formato pdf collegandosi al bottone del sito dell’Ass. Euterpe (www.associazioneeuterpe.com). Segnaliamo la possibilità di poter visualizzare e leggere la rivista anche in altri formati compatibili con altri dispositivi: ISSUU/ Digital Publishing Formati e-book: Azw3 per Kindle di ultima generazione Mobi per compatilità con tutti i Kindle Epub per tutti i lettori non Kindle
Si ricorda inoltre che il tema del prossimo numero della rivista al quale è possibile ispirarsi sarà “I drammi dei popoli in letteratura: genocidi, guerre dimenticate, questioni irrisolte, rivendicazioni e speranze deluse”. I materiali dovranno essere inviati alla mail rivistaeuterpe@gmail.com entro e non oltre il 31 Maggio 2019 uniformandosi alle “Norme redazionali” della rivista.
È inoltre gradita la partecipazione al 4° Concorso di Letteratura “Storie in viaggio” di cui il bando sul sito concorsostorieinvigaggio@gmail.com entro e non oltre il 30 giugno 2019.
Dopo le precedenti edizioni che hanno avuto la loro cerimonia di premiazione rispettivamente nei comuni di Cingoli (MC), Camerata Picena (AN) e Corinaldo (AN), ed essendo il Concorso volutamente itinerante, l’Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN), con il Patrocinio del Comune di Morro d’Alba e della Provincia di Ancona, indice la quarta edizione del Concorso “Storie in viaggio” cambiando denominazione da “Concorso di Racconti brevi” a “Concorso di Letteratura” a ragione dell’ampliamento delle sezioni di partecipazione. La partecipazione al concorso è regolamentata dal bando pubblicato sul sito suddiviso nelle seguenti sezioni:
1.Racconto a tema il viaggio 2.Racconto a tema libero 3.Libro edito (poesia, saggistica, fotografico, altro riconducibile al tema “il viaggio” e diari di viaggio) 4.Video-poesia / video-racconto riconducibile al tema del viaggio.
Per quanto attiene alle sezioni A e B si partecipa con racconti editi o inediti, ma in quest’ultimo caso è richiesto di indicare in che libro o antologia sono stati precedentemente pubblicati. L’autore, comunque, deve essere l’unico detentore dei diritti sul testo che invierà. Riguardo alla sezione C si partecipa con un libro edito (appartenente ai generi sopra indicati) pubblicato regolarmente con casa editrice o autoprodotto dotato di codice identificativo ISBN.
Relativamente alla tematica del “viaggio” (sezioni A, C e D) si fa presente che può essere interpretata liberamente a intendere viaggi fisici, di spostamento sul territorio nazionale o internazionale e di viaggi interiori, percorsi di approfondimento e di crescita personale, educativo, morale, spirituale o di altra tipologia.
Ass. Culturale Euterpe c/o Lorenzo Spurio Via Toscana n°3 - 60035 – Jesi (AN) Per info rivistaeuterpe@gmail.com
Id: 696 Data: 01/02/2019 10:49:48
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- Arte
Matera: Capitale Europea della Cultura
La Lucania, terra di sentimenti nascosti. Matera, città d’arte, designata dall’UNESCO ‘Capitale Europea della Cultura 2019’.
“Come amorevolmente protetta da robuste braccia, fra le due estreme penisole della Iapigia e della Calabria, regni delle Murge e delle Sile, si apre la classica costa ionica dela Basilicata, alla quale fanno corona la tragica Metaponto, bella ancora di templi dorici, la bianca Pisticci ricca d’industrie, Montalbano Ionico, centro agricolo e la fiorente Policoro, vicina ai resti di Heraclea che col castello dei Berlingieri, attorniato da umili abituri, domina la sua opulenta pianura e il mare. […] La spiaggia e la circostante silenziosa pianura, sembra ora ridestarsi da un sonno che si perde nei tempi ed avvince per il suo vero e molteplice aspetto antico e storico, artistico, culturale e pittoresco: contrada che meglio custodisce il tipo del paesaggio classico, solenne e suggestivo. Proprio in questo sacro silenzio emergono le linee di una energia primaverile, in cui il soffio stesso è il caldo alito di una febbre di altezze e di aspirazioni sante. E la campagna racchiude in sé i segni possenti delle età passate”.
Inizia così il bel libro postumo “La mia Basilicata” in memoria di Concetto Valente che il figlio Giuseppe Valente ha voluto dedicargli nel centenario della sua nascita. Ben poco rimane all’immaginario da fantasticare, la colta descrizione parla da sola, ancor più quando lo scrittore si abbandona al canto lirico del poeta che lo insigna, e che ritroviamo nelle pagine seguenti:
“Dal golfo s’inerpica la terra lucana tra colli e monti, le cui vette brulle ed immacolate immerse nell’azzurro formano la gradinata gigante dinanzi alla immensa valle solitaria ed all’arco aurato della spiaggia. Dalle schiere di colline e monti, interrotte da strette pianure ubertose e da fresche valli, s’innalza repentino, come nube a Mezzogiorno, a confine con la Calabria, il massiccio del Pollino, dalla cui vetta l’occhio abbraccia un vastissimo orizzonte che comprende la visione di mezza Basilicata e spazia dal Tirreno, fino al porto di Taranto ed oltre. [...] E già emergono terre più ricche e sane, specie intorno all’oasi di Policoro, già bella di superbi e fregranti frutteti, e così in tutta la pianura ionica stanno estendendosi più fitti aranceti, albicocchi e pescheti, salutati sulle prime colline dall’antico fluttuare di ulivi, di potenti carrubi, di grandi quercie, di favolosi pini, di pruni, fichi, mandorli ed ancora aranceti e cedri”.
“Le montagne della Basilicata hanno una caratteristica tutta particolare: vette superbe dominanti panorami meravigliosi e vari, profili staglianti ed ora armonici, che a guisa di anfiteatri racchiudono ridentissimi piccoli laghi selvaggi. Spesso città antiche, belle e custodi di opere d’arte d’immenso e pregevole vale subliminano queste alture; l’antichissima Matera dei Sassi, ricca di opere d’arte di ogni tempo d’inestimabile valore, Montescaglioso, Irsina, Tricarico, Acerenza, Venosa, Lavello, Melfi e l’aerea Potenza, che dalla sua altezza giganteggia sull’antica e gloriosa Valle del Basento e su quella ampia di rione S. Maria, verde di boschi, ‘boschetti’, ‘macchie’ e giardini”.
“La Basilicata non è terra improvvisata, cova dentro il suo fuoco ed ha il pudore e la gelosia dei suoi sentimenti più profondi. La bontà gli è riconosciuta; la giustizia presiede a qualsiasi giudizio delle moltitudini. Capace d’impeti mistici e di lunghe vigilie, la sua gente è ragionatrice, ponderata per indole, è vigile nelle analisi e si eleva a mirabili sintesi. Vuole essere epicurea ed è di natura nostalgica. Il suo custico umorismo non uccide ed è edificatore. Vuol ridere e si accora di un niente. Ascoltatela nelle ore gravi, terra sacra ai campi; terra sacra alle opere eterne. La sua gente vi fatica senza amarezza: la stella dell’alba è salutata dal canto del boaro; quella del crepuscolo ancora sente cantare gli uomini che ritornano verso le case disperse, che il monte cova ed il cielo inazzurra. La divina natura spesso inspira il cantore popolare, che commosso trova un’alta espressione sulle labbra per la terra madre”:
“Sienti,sienti! La terra mi parla chiani / sienti sta mamma antica / ca mi chiami e mi vole se songh luntani!”
“Per la gente lucana la maggior vita è all’aperto, la sua primavera è gagliarda, tutta vissuta nei riti agresti della semina, della mietitura, della vendemmia.I contadini di Maratea e di Acquafredda, a breve distanza dal classico lido dei templi pelipteri immortali di Paestum, come quelli delle colline del Mare Ionio, così del Pollino, Volturino, Areoso e Vulture o lungo il Bradano, Basento, Agri, Sinni e Ofanto, al tempo della mietitura del grano, verso sera quando il sole sta per giungere al tramonto, sospendono il lavoro e si inginocchiano dinanzi al sole che muore. Nella dolcezza dell’ora il massaro intona una Ave Maria alla quale i mietitori rispondono in coro sollevando le falci verso il sole”.
“Le tradizionali visioni mistiche ridestano la gente nei campi il contadino è tutt’uno con la sua terra, alla quale la sua vita è connessa immutabilmente. La ama profondamente. Conosce il cammino della sua casa, conosce l’ombra dei suoi pagliai. Ogni angolo dei suo campi, ogni fossatello, ogni vite, ogni olmo gli sono familiari ancor più della faccia della donna sua. E questo gli basta. Egli non può far passare il giorno che non percorra i suoi campi fra le siepi ben tenute; va fra la nebbia o la neve; studia i frusoli delle sue viti, le gemme dei suoi peschi, il verde dei grani pallidi, che debbono cespire. Non chiede di più. Emigra; arricchito ritorna in patria e riprende a lavorare il suo lembo di terra, al quale ha dato una fisionomia, un nome e un cuore. Riprende l’opera di rinascita a favore del suo tempo”.
“Risuonano nel suo cuore di uomo antiche melodie. E così nei vecchi orti di Venosa ove grandi massi poligonali, fra torri, dominano il Vallone Ruscello, formando insieme il loro miracolo di poesia e di realtà, di presente e di passato, di rovine classiche e di architetture medievali, io potetti ascoltare un canto leggere, fresco, di seminatori”:
“Lu cieli si inondava di grazia / mentre la selva mormorava cupa. / A Vergine Maria s’assettò / all’ombra dell’auliv; tutt’e frasche / abbasciannisi vasaren’a Gesù. / Evviva Maria / e chi la creò. / Lu cieli si inondava di grazia / mentre la selva mormorava cupa”.
“La bella strofa mistica, come per un canto umbro, pareva munita, pel suo volo, di candide ali, fra i severi ruderi latini. Un altro canto mistico nel periodo dei pellegrinaggi a San Miche le del Gargano ed alla grotta di San Michele di Monticchio, richiama il culto bizantino per San Luca Corleone e per San Vitale – che dopo aver difeso leoninamente Armento contro i Saraceni, maceravano le loro carni nelle grotte basiliane del torrente Melfia (Vulture), ove dipinsero santi ieratici e simboli del Cristianesimo – e ricorda ancora la tradizione dei cavalieri longobardi e dei loro rappresentanti spirituali, i monaci latini, che ne arricchirono la leggenda introducendo nell’Italia meridionale il culto per San Michele Arcangelo, il cristianizzato giovane Sigfried uccisore del drago, al quale furono dedicati santuari sulle cime dei monti della Lucania”.
Qualcuno leggendo si chiederà dove poter trovare la Lucania, oppure il Cilento, paradossalmente ‘inesistenti’ su gran parte delle carte geografiche, dopo l’avvenuto accorpamento di queste regioni con altre o la cancellazione dai flussi di comunicazione di zone del territorio rurale, ritenute di scarso interesse turistico ed economico. Per trovare alcune notizie interessanti sono tornato a sfogliare la Treccani con davvero scarsi risultati, se non che si tratta di una sub-regione la cui popolazione è dedita alla pastorizia e all’agricoltura. Mentre ho trovato qualcosa in una ‘Guida d’Italia’ del Touring Club Italiano nientemeno che del 1928 in cui si annovera la Lucania, come un’antica regione italica successivamente compresa nella Calabria e, infine, annessa alla Basilicata. Ma solo perché la sua storia è legata alle numerose guerre combattute da Greci e Lucani, fra Lucani e Romani contro Pirro e Annibale seguite da grandi devastazioni del territorio, niente di più.
Quel che verosimilmente rimane di questa regione, è infine un ‘amaro’ che viene regolarmente pubblicizzato in TV. Ovviamente non può essere solo questo, mi sono detto, ne vale la dignità di un popolo autoctono già famoso nell’antichità per la produzione artigianale della ceramica, sono famosi i vasi lucani, in cui si distinse per la sua qualità e il livello artistico. Poco o quasi niente rimane della conoscenza degli usi e costumi dei Lucani e dei Cilentani, letteralmente ignorati nella grande “Storia d’Italia” dell’editore Einaudi che, nei volumi dedicati a ‘I caratteri originali’ e ‘I documenti’ fa riferimento solo alle popolazioni della Basilicata e distrattamente alla Lucania in quanto agglomerato della prima, dacché la Lucania e il Cilento verosimilmente non esistono:
“Non si deve certo disconoscere che vaste aree contadine e pastorali del Sud sono rimaste sostanzialmente escluse dal contatto con le egemonie urbane e con le ‘città contadine’ ed altre ne abbiano subito solo marginalmente la pressione, ma è tuttavia ipotizzabile che il particolre ordinamento socio-economico del Sud abbia potuto mettere in movimento processi trasformativi della cultura tradizionale in grado di riprodursi attivamente lungo un arco temporale assai lungo, considerando la compresenza di altri elementi e il fatto che la tendenza a organizzare su base urbana la società contadina permane, nel Meridione, fino a noi. A questo elemento un altro può essersi congiunto nel determinare una particolare disposizione della comunicazione orale del Sud verso moduli che oggi ci appaiono assai prossimi a forme della ‘poesia culta’ della prima età della nostra storia letteraria.”
“Se infati osserviamo come quei caratteri ‘culti’ paiono essere emergenti più in Sicilia che nelle altre regioni meridionali e come la connotazione più ‘profonda’ e ‘primitiva’ il nostro Sud la trova non già nei suoi territori più meridionali ma piuttosto in un’area, per lo più interna, che comprende Campania, Puglia, Lucania e Calabria settentrionale, possiamo immaginare che anche quel processo di tardiva rilatinizzazione, che i linguisti hanno rilevato in Sicilia e nella Calabria meridionale, possa aver agito nel senso di caratterizzare in modo più ‘moderno’ una parte almeno degli oggetti comunicativi. In una simile prospettiva si può allora ipotizzare un duplice indirizzo d’influenza (dalle città meridionali verso le campagne e dalla Sicilia verso il continente) sulla cultura ‘arcaica’ del nostro Sud, con le conseguenze abbastanza sorprendenti che oggi ci è dato di osservare.” Ciò per quanto concerne le informazioni contenute in “Enciclopedia” (Einaudi 1973).
Tuittavia ritengo autorevole quanto scritto da L. M. Lombardi Satriani (*) sulle possibile ‘tecniche di distruzione di una cultura’ cioè, di un vero e proprio etnocidio a discapito di alcune popolazioni che assistono alla negazione e spogliazione della propria espressione culturale. Quando, a fronte di una cultura sommersa pur comprensibilmente autentica che pur andrebbe finalizzata alla comprensione di un ‘vissuto’, anche se in certi casi inconsapevole, da tutti, in ragione d’una sua comprovata esistenza territoriale.
Sommersa come lo è una certa religiosità commista di antiche superstizioni che sopravvivono nel sacro e nel divino che, ancora oggi sono parte integrante del quotidiano, sintomi di una tensione verso il sacro che il cristianesimo ha storicamente individuato e da sempre incanalato verso una religiosità autentica che si professi più autentica. Per quanto è altrettanto vero che questi agglomerati esistono e sono sempre esistiti, come bisogni non materiali che il godimento di sempre maggiori beni di consumo non riesce a soddisfare, anche se la cultura industriale li ha spinti ai margini, svalutati, soffocati, bollati dentro il loro stesso alone del ridicolo che verosimilmente li ha maturati.
Ma è tempo questo di restituire allo spirito quello spazio che gli concerne con un canto tradizionale raccolto presso un bracciante agricolo di S. Marzano, in cui la discendenza da antichissimi riti di morte e resurrezione, accentuate dall’uso melodico e una metrica insolita, fanno di alcuni canti veri esempi di grande rilevanza dell’espressività popolare:
“Né Carnuvà, pecché si’ muorto” (tipico lamento rituale per la morte del Carnevale)
“Né Carnuvà pecché si’ muorto / che nce vogliono ‘e sorde belle p’e schiattamuorte / che ggioia / t’aggio sentut’o o rummore r’re campanielle / mo se me vene ‘o cavallo ‘e puleciello /che ggioia / t’aggio sentut’o o rummore r’re carrettelle / mo se me venen’ ‘e femmene co’ ‘e canestrelle / che ggioia”.
L’espressività dionisiaca del ritmo, caratteristica di alcune danze più antiche relative alle feste organizzate in onore della divinità pagana, può essere ricondotta alla funzione originaria di scansione musicale e coreutica all’interno del Carnevale sotto la denominazione generica della ‘tarantella’, accomunata ad altre danze ‘taranta spagnola’, ‘tarantulata pugliese’ ecc. in cui la particolare diffusione dell’organetto come strumento d’accompagnamento la fa da padrone. L’originalità del canto che segue sta nel fatto di elencare una serie di strumenti che variano da luogo a luogo e che ci permette di connotarne l’uso:
“Caro cumpare” (canto sull’organetto, chitarra, tamburello, campanelli)
“Caro cumpare che bai sunanno vaco sunannu lu viulinu comme lu suoni lu viulinu (uè cumpà) minghillu-minghillu fa ‘u viulinu don-don-don fa ‘u campanone dan-dan-dan fa la campana din-dindin fa ‘u campaniello e dipidindà fa ‘u tamburiello … Caru cumpare che bai sunanno vaco sunannu la rancascia comme la suoni la rancascia (uè cumpà) t’ ‘o ‘ncascio t’ ‘o ‘ncascio fa la rancascia te ‘mponno te ‘mponno fa le zampogne bai e bbene l’urganettu nze-nze-nze fa la chitarra minghillu-minghillu fa ‘u viulinu don-don-don fa ‘u campanone dan-dan-dan fa la campana din-dindin fa ‘u campaniello e dipidindà fa ‘u tamburiello … Caru cumpare che bai sunanno vacu sunannu lu cuornu re caccia comme lu suoni lu cuorno re caccia (né cumpà) e musciu e bbuono t’ ‘o sbattu ‘mpaccia ecco ca suona lu cuorno re caccia”.
Ed ecco cosa ci dice un vecchio libro scolastico sulle “Regioni d’Italia” sulla Basilicata allorché, superate le informazioni sul clima, la flora, la fauna e l’aspetto orografico del territorio, l’industria e l’artigianato, ci ricorda le principali città come Potenza, Matera, Avigliano, Melfi, Maratea, Piosticci, Tursi, Acerenza, Tricarico Montescaglioso con le rovine della Magna Grecia, così come Metaponto (dove insegnò Pitagora), e che sulle monete rinvenute (Lucania) appare il simbolo della spiga d’orzo, un tempo sacra a Cerere e simbolo della regione. Un solo sporadico accenno è dato sulla Lucania:
“isolata fra i suoi monti, percorsa da profonde vallate di difficile accesso che in tempi antichissimi vide giungere gruppi di ‘coraggiosi’ che spingevano avanti le loro mandrie e trasportando gli utensili agricoli, e che quindi vi si stabilivano attratti dalla bellezza naturale del luogo. Mille anni prima di Cristo giunsero i Lucani; più tardi i Greci, i Goti, i Longobardi, i Bizantini che ne cambiarono il nome in Basilicata da ‘basilikos’ che in greco significa ‘funzionario imperiale’.
Ancora oggi la più grande personalità lucana è il poeta latino Orazio Flacco (Venosa 65 a.C. - Roma 8 aC.) autore di Epodi e Odi, Satire ed Epistole appartenenti al genere lirico. Per saperne di più ho sfogliato quell’incredibile documento storico in due volumi che “Antica Madre” (AA.VV. Garzanti-Scheiwiller 1989) ha dedicato alle genti italiche: “Italia: Le genti della Basilicata antica”, che ci informa sui Lucani anche detti Enotri o Coni di origine arcade, forse discendenti da Sparta, già presenti attorno al 1800 a.C. quindi agli inizi dell’età del bronzo. E successivamente allo spostamento di gruppi etnici dalla Campania alla Sicilia a partire da un certo momento (e dunque da un certo mutamento culturale profondamente ellenizzato), in cui si identifica la fisionomia culturale delle rispettive popolazioni insediatesi nelle regioni meridionali, fra cui i Sanniti in Campania e i Lucani nell’area di Metaponto.
Poco o nulla è detto delle profonde trasformazioni avvenute nell’espressione del sentimento religioso e ancor meno degli strumenti musicali utilizzati nei rituali funebri e nelle feste calendariali in questa zona così sentite profondamente. Tuttavia, per quanto concerne la grande permeabilità culturale che ormai accomuna tutto il mondo italico meridionale, corrisponde una sostanziale unificazione dello scenario culturale si conosce l’esistenza di qualche sporadico flauto di canna (Eboli), della ciaramella (Auletta), dell’aulos a due canne forate, delle nacchere cilentane d’importazione ellenistica, e la cosiddetta ‘tromba degli zingari’ detta anche ‘marranzano’ presente in tutta la Magna Grecia.
Lo strumento importato probabilmente dall'Asia dalle popolazioni nomadi è conosciuto anche con il nome di ‘scacciapensieri’, è costruito in metallo a forma di un piccolo ferro di cavallo, con al centro una linguetta pur’essa di metallo fissata ad una sola estremità al telaio, viene fatto suonare tenendolo tra i denti e facendo vibrare con un dito la linguetta, la cui ‘nota’ può essere in parte modulata variando la forma della cavità orale attraverso il movimento delle guance e della lingua ed usata come accompagnamento negli intervalli musicali nel canto, insieme alla chitarra battente e al tamburello.
Sebbene la trascrizione dei canti non tiene conto delle riprese e delle ripetizioni di temi pur numerosissime, sia nella sua complessità e sia nella varietà, ciò avviene per nuclei musicali separati da brevi pause, attraverso una peculiare successione per ripetizione-cumulazione di un verso dopo l’altro, per cui si collegano in modo frequente di esecuzione, ma spesso anche per bruschi scarti su altro tema o, con improvvisazioni occasionali, tipici del cantare popolare che prevede l’intervento dei presenti secondo la disposizione soggettiva dei cantanti. Tutto ciò spiega in parte la variabilità del contenuto delle sequenze e la successione ininterrotta, ad esempio nella ‘tammurriata’ (canto e ballo alla tammorra) e/o della ‘pizzitata’ eseguita sulla chitarra battente. La nota ‘pizzitata’, termine che designa la tarantella utilizzata nel Salento per l’esorcismo coreutico-musicale nella terapia del ‘tarantismo’, anche conosciuta col nome di ‘pizzica’.
Allo stato della ricerca etnomusicologica si ignora se e quali connessioni e interrelazioni possano essersi sviluppate in passato fra ‘pizzica’ e ‘pizzitata’, la cui esecuzione tuttavia risente idealmente di un solo organico strumentale in accumulo di una serie di strumenti diffusi nell’area cilentana, sui quali una volta la ‘pizzitata’ veniva quasi certamente suonata durante le cerimonie pubbliche lucane: “..una mescolanza di cattolicesimo popolare e di relitti di forme religiose antico-arcaico connessi con i diversi momenti che regolano il mondo agricolo.
“ Tra le feste del ciclo dell’anno ‘carnevale’ e ‘capodanno’ hanno in gran parte hanno conservato caratteristiche abbastanza integre ed autonome. […] Tra queste ultime si pone il ‘giuco della falce’ che ha luogo (almeno fino a pochi anni fa) a San Giorgio Lucano, in provincia di Matera, e che appartiene a quelle feste di mietitura diffuse in gran parte dell’Europa. Elemento essenziale di questo ‘giuoco’ è il mascheramento dell’atto del mietere con quello di una battuta di caccia a un caprone, personificato da un uomo ricoperto da una pelle d’animale. I contadini, fingendo la battuta, in effetti mietono il grano e stringono sempre più il cerchio intorno al capro fino a raggiungerlo e ad ucciderlo simbolicamente”. (C. Valente, op.cit.)
Le cerimonie a carattere privato più diffuse sono quelle magiche, soprattutto la ‘fascinazione’, la pratica ancora presente e soprattutto la memoria culturale ancora viva, nonché l’importanza dell’aspetto etnomusicologico, dovrebbero essere di stimolo per gli operatori culturali e di quanti sono alla ricerca di stimoli musicali, che dal ‘vivo’ del passato, giungono fino a noi a insegnarci quel certo virtuosismo creativo mai dismesso, e che ritroviamo in ogni regione limitrofa. Tuttavia un aspetto particolare e una certa diversità distinguono l’assetto della Lucania/Basilicata dalle altre regioni come la Sicilia o la Campania, pur dividendo con queste talune somiglianze e evidenti scambi, se vogliamo, invevitabili con la Iapigia per il grande dominio culturale che sul litorale ionico ebbero con le città della Magna Grecia, le cui superstizioni sopravvivono nel sacro e nel divino di oggi.
Con ciò si vuole qui offrire un prezioso materiale di demopsicologia con l’intento di studiare l’anima popolare e di offrire alcuni documenti dei valori spirituali della razza, senza escludere quelle che sono le tradizioni pagane tutt’ora ‘vive’ sul territorio. Molti paesi sappiamo, offrono un largo campo di osservazione per quanto riguarda i costumi, i canti, i riti occulti e l’arcano dei ricordi orali, che attraversano la favolosa antichità del medioevo.
“Una usanza senza dubbio del periodo di Metaponto, di Siris, di Heraclea, di Paestum, è il rito che si pratica lungo la costa jonica di Pisticci, di Policoro, di Nova Siri e sui colli del Senise, di Sant’Arcangelo, di Ferrandina, Colobraro (in Lucania), e di Calimera, di Melpignano e di Castrignano (nella Iapigia) e che consiste nella celebrazione delle ‘prefiche’ sui morti, anche dette ‘repite’ che, a somiglianza delle antiche ploratrici, piangono e cantano lungamente sui cadaveri dei defunti” (C. Valente, op.cit.).
A questa usanza l’etnografo Ernesto de Martino dedica nel libro “Morte e pianto rituale” (Boringhieri 1975), un intero capitolo: “Il lamento funebre lucano”: “Può sembrare strano che una ricerca storico-religiosa sull’antico lamento funebre rituale si apra con una giustificazione metodologica che riguarda una particolare indagine etnografica. […]Un procedimento così eccezionale, e a prima vista così discutibile, è certamente bisognoso di una giustificazione che riguarda la determinata ‘tecnica del piangere’ come quella messa in atto nel Sud, cioè un modello di comportamento che la cultura fonda e la tradizione conserva al fine di ridischiudere i valori che la crisi del cordoglio rischia di compromettere. In quanto tecnica (quella del pianto rituale) che riplasma culturalmente lo strazio naturale e astorico (lo strazio per cui tutti piangono ‘ad un modo’), il lamento funebre è azione rituale circoscritta da un orizzonte mitico”.
“Al contrario i relitti folklorici del lamento antico ci permettono ancor oggi di sorprendere l’istituto nel suo reale funzionamento culturale: e ciò che la documentazione antica ci lascia soltanto intravedere o immaginare, cioè il lamento come rito in azione, la documentazione folklorica ce lo pone sotto gli occhi in tutta la sua evidenza drammatica, offrendoci in tal modo non sostituibili opportunità di analisi. […] Tuttavia anche se il lamento funebre folklorico ha perso il nesso organico con i grandi tempi della religiosità antica, e anche se i suoi orizzonti mitici sono particolarmente angusti e frammentari, esso può fornire ancora, almeno nelle aree trattate e di migliore conservazione, utili indicazioni per ricostruire la vicenda rituale che, nel mondo antico, strappava dalla crisi senza orizzonte e si reinseriva nel mondo della cultura autoctona.” (De Martino, op.cit.)
A questo proposito, per meglio comprendere la lezione di De Martino, riporto qui un passaggio riferito alla ‘morte’ di Vincenzo Boda (*) “La religione sommersa” (Rizzoli 1986): “La ripercussione attraverso la parentela (che pure si esplicitava come dolore per la perdita, diventava, ed era, un ‘crisi di gruppo’ di appartenenza. Ciò scaturiva da certi comportamenti rituali (mitici e sociali) nei quali certamente agivano , e interagivano, componenti diverse da quelle mortuarie. Ma non c’è dubbio che in tali mitologemi e in tali comportamenti rituali, sia a livello di crisi collettiva che accompagnava ogni morte, sia a livello della tensione e dell’angoscia che apparivano radicate nel sentimento dell’incertezza e della precarietà esistenziale. La vicenda ‘morte’ aveva ed ha una motivazione predominante e prevalente, tanto che non mancano studiosi i quali, a livello di ipotesi, fanno risalire l’origine della religione al tema della morte. In questa prospettiva, le mitologie dell’al di là, della sopravvivenza, dell’immortalità, i riti di seppellimento, di placazione, di venerazione dei morti e degli antenati si fondevano nella comune funzione di risposta all’illogicità della morte; diventavano tentativi per sostituire la sicurezza alla precarietà. Così il mito assolveva una funzione salvifica nel senso che, reagendo attraverso l’ideazione mitica, l’uomo e il gruppo si riscattavano dall’angoscia esistenziale e risolvevano la crisi emergente da ogni singola morte.”
“Il rito – prosegue Vincenzo Boda – doveva invece soddisfare sia l’esigenza istintiva, immediata, di esprimere il dolore e il dramma del distacco (che era più intensa e naturale quanto più prossimo era il grado di parentela o il rapporto di convivenza e di consuetudine), sia quella di risolvere il problema di fondo che stava nella crisi e nell’angoscia provocata dall’evento. Entro queste linee vanno pure riletti i miti dell’origine della morte e dell’immortalità primordiale, i miti di trasformazione della morte in passaggio all’immoertalità (si pensi, per esempio, nell’ambito dei miti più conosciuti ed elaborati, all’Ade pagano, ai misteri orfici, alla trasmigrazione delle anime ecc.), i miti della sopravvivenza (si pensi ai fantasmi, agli spettri, ma anche ai morti che ritornano, alle anime, alle ombre). Entro tali linee vanno pure riletti i fenomeni di ritualizzazione del duolo e del lutto, trasformati da ‘fatto primario istintivo’ (dolore per la morte e per il distacco) in una manifestazione che, seguendo schemi obbligati, tradizionali che, non solo si rende necessaria anche quando il fatto istintivo viene meno, ma può essere delegata a terzi, come a detentori delle giuste tecniche del duolo, appunto: la prefiche.”
Scrive ancora C. Valente: “Ma, oltre alle laudi severe della Settimana Santa, fra i monti della Lucania risuonano altri canti mistici, lì ove c’è anima, c’è sentimento, c’è dolore, ove c’è finalmente poesia. [...] Come nelle laudi dei poeti umbri, nei canti mistici l’espressione nuda del sentimento ha tutto l’impeto e il singulto della pura verità umana e l’amore divino non è che un riflesso dell’amore umano.” Richiamo qui di seguito un leggero e fresco canto mistico della gente lucana:
“Stedda Mattutina”
“È fatte juorne e sie lu benvenute / beneditte sia Die ca l’ha criate / Ti preje Gesù mje de darme aiute / concedami la pac’e la virtute / inta a chesta santa sciurnate.”
Famosi sono anche i riti nuziali, quelli per il Calendimaggio, le Cavalcate, le Processioni e i Pellegrinaggi che vengono talvolta riproposti con grande partecipazione popolare, come: “Il carro trionfale di Matera”, “Il pellegrinaggio di Fondi” e “La processione dei Turchi a Potenza”; quella per il “Corpus Domini al Santuario di Viggiano”, e la “Leggenda dei petali” (I pip’l): È questa una leggenda di alta ispirazione mistica in cui si narra: che nei tempi del martirologio cristiano una popolana di Potenza, nel lavare la biancheria giù al fiume Basento, ricordandosi che là vicino era stati suppliziati dodici martiri cristiani venuti dall’Africa, volle prendervi qualche loro reliquia – come scrive Paolo da Grazia (cit. Valente): “Raccolse dei fiori inzuppati del loro sangue e se li portò a casa e li conservò in una pezzuola di candido lino. Dopo parecchi anni trovò i fiori ancora verdi come se fossero stati colti allora. Stupita li portò ad una asceta perché li conservasse in chiesa. Il ministro di Dio così fece e li conservò. E da allora ogni anno, il primo di settembre, in occasione della festa per i Dodici Martiri, si mostranvano al popolo i fiori verdi che aprivano i loro bocciuoli o petali, detti “pip’l”. Per questa tradizione d’ispirazione religiosa e di candida fede migliaia di giovinette del popolo, per la festa del Corpus Domini, dalle finestre e dalle terrazze di via Pretoria, adorne di damaschi, di tappeti e di coperte di seta, come un leggiadro e fantasioso mosaico di broccati, di oro e di ricami, salutano il passaggio del Santissimo sollevato dal Vescovo sotto una pioggia di fiori.”
Propongo quindi un canto ‘umoristico’ legato a “Lo scaricavascio” di Melfi con significazione storica risalente al 1799, epoca in cui i maggiorenti melfitani, in luogo di organizzare una strenua difesa della città, preferirono aprire le pèorte di casa propria alle orde devastatrici del Cardinale Ruffo. L’atto ritenuto vile, urtò il sentimento della popolazione che, non potendo altrimenti esprimere la propria indignazione in quei tempi di scarsa libertà, riuscì a significare nel canto detto dello ‘scaricavascio’, la insicura stabilità del dominio paesano che i maggiorenti, i sanfedisti, avevano ottenuto dal favore del Ruffo in cambio della resa. Il gaio ritornello – (come scrive A. Cantela nel libro di Valente) – è cantato da otto giovani contadini, quattro dei quali danzando sostengono il |