chiudi | stampa

Raccolta di saggi di Giuseppina Bosco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Letteratura

La scuola ci salverà

La Scuola ci salverà L'ultimo libro di Dacia Maraini "La scuola ci salverà" (1) affronta il problema dell'istituzione scolastica, fondamentale agenzia educativa che non è stata mai valorizzata da quasi tutti i ministri che si sono succeduti a partire dagli anni 90, i quali hanno sempre privilegiato, nelle loro riforme, devastanti tagli alla scuola pubblica, e consistenti contributi, peraltro incostituzionali, alle scuole private . Ma è la scuola pubblica a fare la differenza nel caos totale della società di oggi, senza valori e punti di riferimento. La scrittrice, infatti, riconosce a quegli insegnanti che credono nel proprio lavoro, il merito di formare gli alunni, indirizzando la loro creatività e lo studio. Si sa che l'impegno degli insegnanti oggi è diventato sempre più oneroso, visto che la scuola si è sempre più burocratizzata, legata ad una mole di lavoro molto pesante che rischia di dare meno spazio all' “educere”. Per questo motivo, molti insegnanti si sacrificano per dare il meglio di sè in un ambiente che si fa sempre più competitivo e ostile e quelli che cercano di essere se stessi e di impegnare le proprie energie nella relazione educativa, sono i più coraggiosi. E’ anche vero, però, che in alcuni ambienti scolastici spesso dominano i luoghi comuni, gli stereotipi, le etichette, che fanno emergere solo alcune tipologie di insegnanti, conseguenza di quell'ottica aziendalista della scuola che si è imposta con la riforma (si fa per dire) di Renzi e con la legge 107 del 2015. Essa, infatti, ha contribuito a svalutare la scuola pubblica e il lavoro degli insegnanti, vessati e pressati su più fronti: dalle famiglie e dalle disfunzioni del sistema scolastico. Non dimentichiamo, a tal proposito, il famigerato “bonus” legato al merito, che di fatto era un escamotage per non dare una giusta remunerazione ai docenti e dividerli in "produttivi" e non, in "bravi" e "meno bravi". Nel saggio della Maraini infatti viene criticato questo meccanismo competitivo che si è innescato con la 107, giustificando e legittimando la rabbia di molti docenti, ormai stanchi e avviliti dal fatto che si crei un meccanismo selettivo tra i docenti e si continui a prendere a schiaffi la scuola pubblica: "una scuola intesa sempre più come azienda, che deve sfornare esperti, piuttosto che come luogo di formazione e di conoscenza" (2). Senza contare poi il degrado degli edifici scolastici che dovrebbero essere messi in sicurezza, perchè molti sono fatiscenti: questo è il frutto dei mancati investimenti nel settore scolastico, penalizzato dalla tanto declamata necessità di potenziare altri settori privati e dal bisogno di fare sacrifici per ripagare i debiti con l'Europa. Questo accade perchè ad essere taglieggiate dalle tasse sono sempre alcune categorie di lavoratori e quello che è più vergognoso è che la ricchezza è mal distribuita nel Paese, si favoriscono le grandi lobby finanziarie e non si fa una giusta lotta all'evasione fiscale. Per questi motivi si continuano a tagliare i fondi ad un settore nevralgico che è la scuola, e non si considera che quest'ultima rappresenti il più grande investimento sul futuro del nostro paese. Proprio perchè la società non è fondata sui valori del dare spassionatamente senza ricevere, ma sul dare per avere un "profit", nella scuola è fondamentale invece sapere creare un ambiente in cui ci deve essere comprensione, attenzione e intelligenza affettiva verso l'altro, al fine di arricchire il senso di comunità nella formazione scolastica. La scuola non è mai stata al centro delle politiche dello stato: l'istruzione non viene percepita come un tassello fondamentale per la realizzazione dei giovani e non viene valorizzata in vista della sua funzione, dato che, secondo la logica del guadagno facile basata sui disvalori trasmessi dalla nostra società edonista e globalizzata, i giovani non sono motivati a dare la giusta importanza all’istruzione come trasmissione dei saperi e della cultura. Pertanto, al fine di incentivare il processo di formazione culturale nelle giovani generazioni, bisognerebbe favorire un miglior funzionamento delle istituzioni scolastiche, anche se al loro interno continuano a convivere delle contraddizioni di fondo che contrastano con il raggiungimento degli obiettivi formativi degli allievi. All'interno delle istituzioni scolastiche vi sono infatti due tendenze: alcuni insegnanti tendono ad assumere un comportamento più selettivo e rigido nei confronti di allievi , che dimostrano difficoltà lungo il percorso scolastico, talvolta anche selezionandoli, senza addurre adeguati stimoli educativi, e senza includerli valorizzando le loro poche capacità; altri docenti invece, seppur con notevoli sforzi, si impegnano nel tentativo di far emergere le potenzialità, sebbene limitate, dell'allievo, al fine di garantirgli un'adeguata formazione. Difatti un passaggio significativo del saggio della Maraini è quando scrive “Chi prova solidarietà verso i diversi, verso gli sprovveduti, verso coloro che sono ai margini ,per me non è né buono né buonista, [……] ha solo un poco di immaginazione. Sapere immaginare il dolore altrui non è segno di gran cuore, ma di vitalità e ricchezza di pensiero”. (3) La sfida oggi a mio modesto parere consiste in questo: nell'includere i soggetti più deprivati culturalmente, linguisticamente e socialmente a cui le istituzioni scolastiche non sono realmente preparate. 1: D.Maraini “La scuola ci salverà”, Casa Editrice Solferino 2: ivi, p. 34 3 : ibidem pag . 59

*

- Letteratura

Accabadora

"Accabadora"

La scrittura di Michela Murgia (giovane autrice che con questo romanzo ha vinto il premio Campiello nel 2010) è ricca della magia e della sapienza della sua terra, la Sardegna. Fin dal titolo siamo introdotti in un mondo rituale e misterioso. Difatti Accabadora, che a sua volta deriva dal termine spagnolo “accabar”, finire, ha il significato di colui che finisce cioè che aiuta le persone a trovare una morte dolce: una sorta di eutanasia ante litteram. Il personaggio di “Zia Bonaria”, appunto zia di Maria, alla quale la ragazza era stata affidata fin da piccola, perché la madre naturale per l’estrema indigenza non poteva allevarla, è avvolta nel mistero, è la femmina Accabadora ,che però di mestiere faceva la sarta.

La storia è ambientata negli anni Cinquanta in un paesino della Sardegna: Soreni, di cui l’autrice ci dà ampie descrizioni di paesaggi di campagna coltivati a vigneto e divisi dai caratteristici muretti bassi a secco. E’ dunque rappresentata una società arcaica con i vari usi e costumi connotati dalla coralità: la festa della vendemmia, la festa di fidanzamento, in cui tutte le donne di casa si riuniscono a preparare amaretti e il pane nuziale da offrire a messa per l’offertorio, e altri dolci tipici: i gneffus (pirichittus – pabassinos).

Personaggio secondario è quello di Anna Listru, la vera madre di Maria che, rimasta vedova con quattro figlie da mantenere, divenute tre da quando la ragazza è fillus de anima, rivela una certa miseria morale e furbizia popolare. La donna non ha mai accettato la nascita di Maria, però è consapevole dell’utilità dell’adozione della figlia, che potrà ereditare tutto il patrimonio di Bonaria Urrai, alla quale la ragazza si lega, considerandola una vera madre. L’anziana donna insegnerà a Maria a cucire, a fare le asole, ma soprattutto a capire come la vita e la morte sono inserite in un ritmo biologico regolato da leggi che fanno parte di un mondo atavico, da scoprire e condividere.

Gli altri personaggi che si relazioneranno con i protagonisti, a parte la madre di Maria e le sorelle, sono i componenti della famiglia Bastiu, laboriosi agricoltori e proprietari di piccoli appezzamenti di terreno; il più grande dei Bastiu, Nicola, si innamorerà di Maria, ma la loro storia è segnata dalla tragedia, perché Nicola subisce un infortunio dopo aver dato fuoco al podere di “Pran’e Boe” e come conseguenza aveva subito l’amputazione della gamba. Questa mutilazione lo fa sprofondare nella disperazione più cupa, fino a fargli desiderare la morte. Chiede così aiuto all’Accabadora, la quale, se in un  primo momento rifiuta sdegnosamente la richiesta di Nicola, successivamente all’insistente supplica del ragazzo, che è deciso a porre fine da se stesso alla sua vita, acconsente. Ma c’è un altro motivo più intimo e personale che ci viene rivelato attraverso un flashback:  Bonaria Urrai vent’anni prima, legge nello sguardo del fidanzato, Raffaele Zincu (chiamato alle armi nella Grande Guerra sul Piave), la stessa determinazione nel desiderare di morire, e non di restare mutilato, qualora fosse stato ferito, di Nicola Bastiu: “aveva la stessa luce di quegli occhi verdi che frugavano nell’anima altrui, come se non avessero paura del prezzo da pagare”. La verità sulla morte di Nicola Bastiu, Maria l’apprende dalla confessione convulsa e disperata del fratello “Andria”, che la notte del primo Novembre era rimasto sveglio per vedere le anime dei parenti morti che si aggiravano per la casa, a cui per tradizione si preparava la cena. Invece Andria si accorge di una donna “avvolta in uno scialle nero” che entrava furtivamente nella stanza del fratello e lo soffocava con il cuscino. In quella donna vestita di nero Andria Bastiu riconobbe Bonaria Urrai. Sarà dunque inevitabile il drammatico colloquio che poi Maria avrà con l’Accabadora, giudicando intollerabile aiutare le persone a morire, che è l’equivalente di ammazzarle: “io non sarei capace di uccidere solo perché voi lo volete”.

L’Accabadora rappresenta “quell’universo lontano”, regolato da leggi arcaiche che ne hanno determinato l’equilibrio: “chi aiuta a nascere aiuta anche a morire”, replica Bonaria Urrai, “e non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”. La partenza di Maria, che si separa dalla madre e accetta un lavoro di bambinaia a Torino, costituisce l’ultima parte del romanzo, che diventa una sorta di “Bildungsroman”negli ultimi due capitoli. L’infatuazione di Maria per il figlio maggiore della famiglia Gentili, che le confiderà un inquietante segreto, sarà il motivo del suo licenziamento, il quale è successivo alla notizia della malattia di Bonaria Urrai, per cui la giovane è costretta a tornare a Sorani. Maria assolverà e assisterà per qualche anno l’Accabadora con grande dedizione fino al punto di dover chiedere a Bonaria, come estremo atto di amore, se vuole essere liberata dalla sofferenza.

Lo stile semplice e asciutto fa emergere una terra primitiva e mitica: così la Sardegna della Murgia è simile alla Sicilia di “Conversazioni in Sicilia” di Vittorini e alla Lucania di Carlo Levi.

L’autrice, dunque, attraverso la letteratura, affronta alcuni temi di grande attualità: testamento biologico,  eutanasia e  maternità elettiva,  invitandoci a riflettere senza  pregiudizi tali da cadere nei luoghi comuni.

                                                                                     Giuseppina Bosco

 

 

*

- Storia

L’inquisizione in Sicilia

L’inquisizione in Sicilia:

l ‘organigramma del Sant’Uffizio siciliano a metà del Cinquecento

La Sicilia in pieno ‘500 si sentiva ormai integrata nella realtà della grande Spagna. L’economia siciliana si era ripresa dopo la crisi determinata dalla cacciata degli Ebrei (1492), così come aveva ormai conseguito il suo equilibrio sociale, dopo la cacciata del vicerè Ugo Moncada (1523) e dopo le rivolte dello Squarcialupo. (1) La venuta nell’isola dell’imperatore Carlo V, dopo l’impresa africana e il trionfale ingresso a Palermo (1535), determinò un secolo di tranquillità politica. Fra i tanti privilegi che i siciliani chiesero ed ottennero dall’imperatore vi fu anche quello della sospensione per un quinquennio, che venne subito rinnovato alla scadenza, delle prerogative della Santa Inquisizione. In Sicilia, durante il periodo dell’Inquisizione, tutte le categorie sociali furono a rischio e sottoposte a delazioni; i supposti colpevoli venivano imprigionati ed avevano i beni confiscati. Molti, sotto tortura, confessavano anche colpe non vere, e alla fine venivano “relaxati” all’autorità civile: “Coloro che si riconciliavano col pentimento erano condannati a portare un abito particolare che li facesse riconoscere, il “sambenito” oppure a camminare con un sacco in bocca e una corda al collo”. Coloro che fuggivano e si sottraevano all’arresto venivano simbolicamente bruciati in statua o in effigie. I riconciliati subivano anche la fustigazione a sangue e la condanna al carcere duro. Le accuse coinvolgevano famiglie intere (i Nava, i Carruba, ecc…); se le accuse dei delatori risultavano infondate, essi venivano condannati alla fustigazione. Tra le persone a rischio vi erano quelle diverse per religione e razza (Ebrei, Musulmani) e le streghe o megere. Nel 1555 fu noto, difatti, un processo “super magariam” o per magia contro la messinese Pellegrina Vitello (2). Il processo si svolse intorno al 1550, al cospetto di monsignor Bartolomeo Sebastian, vescovo di Patti. E’ da lui che fu condotta questa donna di origini napoletane, residente a Messina e moglie di un fedifrago setaiolo. La Vitello, abbandonata dal marito per un’altra donna, cerca di sbarcare il lunario millantando poteri divinatori e magici, però venne denunciata da alcune anziane donne come strega. Esse riferirono alle autorità giudiziarie che la “strega” in diverse occasioni aveva preparato fatture ed invocava i demoni, era capace di cadere in trance nel guardare una caraffa piena d’acqua e di preparare sortilegi e magie varie.

Dopo quattordici giorni di detenzione, la donna, nonostante fosse stremata da atroci torture, (come quella  della corda: da una robusta trave da cui pendeva una corda, la vittima era lasciata cadere con i polsi legati dietro la schiena, con il risultato che le sue braccia e le spalle si slogavano) continuò a dichiararsi innocente, affermando “non sacho nenti”.  Tuttavia, il 12 maggio 1555, Pellegrina Vitello è condannata al rogo nel solenne “autodafé” pronunciato nella piazza della Cattedrale di Messina, insieme ad un luterano e ad altre undici persone tra streghe, bigami e bestemmiatori. Successivamente la condanna è commutata e la “strega” Pellegrina Vitello è costretta ad andare in processione con un cero in mano ed una mitria in testa per le strade di Messina, fustigata senza pietà lungo il percorso.

Nell’ambito della lotta contro l’introduzione nell’isola dell’eresia luterana, specialmente dopo l’arrivo dell’inquisitore Giovanni Bezerra de la Quadra, fu posto sotto il controllo del sant’Uffizio tutto l’ambiente religioso e laico: insegnanti, maestri, librai e tutti quei forestieri che potevano essere veicolo di diffusione delle idee luterane.

Carlo Alberto Garufi (3) ha ben esaminato quest’aspetto dell’attività inquisitoriale in Sicilia, sottolineando il settarismo dell’Inquisizione che, affidata ai Domenicani, cercò gli eretici fra gli altri ordini religiosi: agostiniani, francescani, frati minori e i maestri di teologia.

Si temeva soprattutto la presenza di tedeschi e fiamminghi che potevano propagandare le idee luterane e a tal proposito l’inquisitore del tempo, nel 1569, riporta quanto lo scrivano genovese Nicolò dà testimonianza della discussione avvenuta tra fiamminghi e francesi,  a cui fu presente: “Persone fiamminghe e francesi discutevano della setta luterana affermando che le immagini sacre non dovevano essere venerate”.

La presenza dell’Inquisizione siciliana così, come in tutte quelle “terre” poste sotto il dominio spagnolo, costituiva una sorta di potere occulto, controllando la coscienza di tutti gli uomini, impedendo che le loro menti potessero allargare gli orizzonti conoscitivi al progresso della scienza del XVI secolo. È il periodo della Controriforma e della lotta all’eresia luterana: non solo la Chiesa si sente attaccata nel suo impianto dottrinario, ma soprattutto nei privilegi ecclesiastici. Ecco perché, con decreto del 16 marzo 1782, il sovrano napoletano Ferdinando--- “volendo togliere ai suoi vassalli l’occasione di essere ingiustamente oppressi, […] ha sovranamente risoluto che si abolisca il tribunale del Santo Ufficio in cotesto regno”. Difatti, il compimento di questa sentenza avvenne con una solenne cerimonia, alla quale il vicerè Caracciolo invitò tutte le autorità siciliane, presenziando egli stesso all’evento. In quell’occasione vennero dati alle fiamme tutti i documenti che avrebbero potuto nuocere ai membri dell’apparato inquisitoriale e, insieme ad essi, tutti i processi pendenti contro “presunti eretici”, come furono pure date alle fiamme le carceri dello Steri con tutti i graffiti dei condannati dal Santo Ufficio. Molti documenti però, soprattutto quelli che riguardavano l’archivio messinese, furono conservati  alla fine del Seicento dal vicerè conte di Santo Stefano quando lui requisì per ordine del sovrano “tutti i documenti della città” e dell’Archimandritato di Messina che fanno parte  dell’archivio ducale Medinaceli di Siviglia.

Questo rogo fa pensare alla polemica sorta in Italia per quanto riguarda la distruzione delle carte del Sifar, i Servizi Segreti Italiani, affinchè non si conoscessero i nomi dei delatori e degli informatori dei nostri servizi, anche se gli storici hanno sempre sostenuto che qualsiasi documento degli archivi del Sifar, falsi o legittimi che fossero, dovevano essere sempre oggetto di studio e di analisi relativa alla veridicità della fonte. Però evidentemente troppi nomi di persone compromesse e insospettabili “collaboratori eccellenti” dovevano essere eliminati, come difficili e scomode potevano essere alcune verità sul rapimento di Moro e sulla contiguità fra Stato e mafia per un certo periodo della nostra Repubblica. Allo stesso modo, quel falò del 1783 cercò di proteggere quegli esponenti responsabili di contiguità del rapporto fra Inquisizione e mafia.

 Tuttavia, molti dati relativi all’organigramma di base di tutte le reti inquisitorie siciliane sono contenuti in questo documento (Carte de Legayo doc. n.03) (4), l’unico che sia stato salvato dal rogo ordinato dal vicerè D. Caracciolo.

 Questo documento, dagli studi effettuati dai docenti di Storia medievale dell’Università di Palermo, (5) conteneva  la “Matricula de los officiales y familiares de S.ta Inquisicion del Reyno de Sicilia”. Esso fu redatto dal segreto dell’Inquisizione Jan Perez De Aguilar per ordine del sovrano nel 1561. L’analisi del documento rivela, per 146 centri dell’isola, un numero di 539 affiliati all’Inquisizione e dal rapporto segreto del capitano Lopez Villegas Figueroa (1565) si sa che “En ciascun paese non devono esserci meno di quattro ufficiali e di  un familiare, cioè un luogotenente di capitano, un giudice e un luogotenente di maestro notaio, e un ricevitore e un familiare” (6). A Palermo, che era la sede ufficiale  del Sant’Uffizio, esisteva un organico completo ed articolato. Ne facevano parte quattro consultori, un avvocato dei carcerati, un giudice dei beni confiscati, un medico delle carceri, due medici generici, un chirurgo, una  barbiere e un aromatario. E poi i luogotenenti: di capitano, di maestro notaio, di ricevitore, ed un prete, lettore delle sentenze.

 

  1. Notizie storiche tratte dal testo: Dossier inquisizione Sicilia di Francesco Giunta Palermo, Sellerio, 1991

  2. Vicenda riportata da Leonardo  Sciascia, nel testo “Morte dell’inquisitore” Milano, Adelphi, 1967 pag. 60-61

  3. C.A Garufi, “Fatti e personaggi dell’inquisizione in Sicilia”, Palermo, Sellerio, 1977.

  4. I documenti citati sono quelli relativi a Matricula de los officiales y familiares de la S.ta inquisicìon del reyno de Sicilia Dyose dya de los Reyes de 1561 (6 gennaio) analizzati e studiati dal professore Francesco Giunta nel testo sopra citato.

  5. Ibidem

  6. Ivi pag. 35

Giuseppina Bosco

 

 

*

- Storia

Bonbon Robespierre

 

 “Bonbon Robespierre. Il terrore dal volto umano”1

 

 

 

È uno studio nuovo ed inedito sulla Rivoluzione francese, soprattutto perché approfondisce il profilo storico di un personaggio, quello di Augustin Robespierre, fratello di Maximilien, di cui i libri di storia non parlano, in quanto è legato ad un’altra fase della rivoluzione, considerata forse migliore.

 

E difatti, Augustin, deputato della montagna, uomo di legge, ha avuto un ruolo non secondario nel periodo rivoluzionario nell’intento di voler cessare la politica sanguinaria del terrore.

 

Il titolo che attribuisce ad Augustin l’appellativo di “Bonbon” non fa che riprendere in senso ironico il suo secondo nome di battesimo: Augustin Bon-Joseph quasi ad evocare qualcosa di leggero, di dolce ( che lo storico Luzzatto riprende da uno studio di G Walter pubblicato a Gallimard a Parigi nel 1946). Invece, molte biografie siu Maximilien Robespierre lo presentano come l’incorruttibile e l’intransigente moralista.

 

Nonostante le diverse personalità e le differenti posizioni politiche assunte dai due fratelli, il destino soprattutto nella fase del ’93 li vuole uniti nella morte durante il 9 termidoro dell’anno II, cioè il 27 luglio 1794.

 

Di lui Augustin Robespierre si fa riferimento negli annali della Convenzione solo per lo “stoico sacrificio”, e non per il suo ruolo parlamentare, perché lui chiede di essere ghigliottinato insieme al fratello.

 

Cosa avviene il 27 luglio 1974, nove termidoro dell’anno secondo?

 

Molte notizie su quella giornata sono attinte dall’autore dal “Moniteur2.

 

Nella sala delle Tuileries dove si riunisce la Convenzione nazionale, Maximilien Robespierre ha pronto l’elenco dei convenzionali denunciati come inaffidabili e quindi destinati alla ghigliottina. Ormai si è creato un clima di insofferenza nei confronti di Robespierre tra molti deputati della montagna che hanno già pronto il decreto d’arresto per “l’incorruttibile”.

 

In una confusione indescrivibile si alza Augustin detto il “RobespierreJeune”- come lui ha l’abitudine di firmarsi- e chiede un decreto d’accusa pure per se stesso, perché colpevole al pari del fratello. I termidoriani avrebbero potuto non prestar fede alle sue parole, ma in quella circostanza quello che lui dichiarò equivalse ad un vero e proprio suicidio politico.

 

È interessante apprendere dai documenti consultati dallo storico3 che il giorno dell’esecuzione di Maximilian Robespierre sale quasi agonizzante al patibolo, probabilmente perché ha tentato di uccidersi facendosi esplodere in faccia un colpo di pistola. Un’altra ipotesi potrebbe essere quella che a sparare sia stato un giovane dal cognome forse appropriato: Jean Andrè Merda.

 

Invece, il fratello Augustin tentò veramente il suicidio quando, prigioniero all’Hotel de Ville, si gettò dal balcone del primo piano che dava su Place de la Grève.

 

Nonostante fosse in fin di vita fu ghigliottinano insieme al fratello Robespierre, Sain Just e altri davanti a Place de la Revolution. È ancor più sorprendente scoprire che ci sia stata una volontà da parte dei termidoriani di evitare in tutti i modi che le sezioni di Parigi prendessero le difese di Maximilian Robespierre, mettendo in giro anche una leggenda metropolitana: il maggiore dei Robespierre progettava di sposare la figlia di Luigi XVI per fondare, attraverso il matrimonio, una propria dinastia.

 

In realtà la fine di Augustin è coerente con la sua dedizione al fratello, anche se nell’ultimo periodo non ne condividesse più i metodi.

 

Robespierre petit fin dal 1793 fu convinto che per salvare la rivoluzione bisognava attenuare la scristianizzazione, aprire la porte delle Chiese, scarcerare molti sospettati senza alcun motivo e non dare più seguito alle sentenze di morte.

 

Una testimonianza del “realismo politico” di Augustin è legata all’esperienza di Tolone, quando la Convenzione nell’estate del 1793 lo nominò “inviato in missione” presso l’Arme de l’Italie, stanziata a Nizza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Sergio Luzzatto, Bonbon Robespierre. Il terrore dal volto umano, Einaudi, Torino, 2009.

 

2 Moniteur, reimpression de l’ancien regime depuis la rèunion des Etats-Generaux jusqu’au Consulat,Plon, Paris, 1854-1863, vol.21

 

3Annales Historique de la devolution francaise

 

 

Era la leggenda di “Robespierre Roi4 e la conferma di tale storiella viene fornita dall’ultima sopravvissuta della famiglia Robespierre: Charlotte, la quale, interrogata il 13 termidoro dal Comitato di Sicurezza Generale5, non solo prende le distanze dai due fratelli che si stavano macchiando di un “infame complotto”, ma dà ulteriori notizie su Maurice Duplay, proprietario di falegnameria, il quale aveva coabitato con tutta la famiglia Robespierre, e nella casa di Duplay venivano preparate le liste di proscrizione contro i nemici della rivoluzione.

 

La Francia, in quel periodo impegnata a fronteggiare una guerra civile antigiacobina nel sud, ebbe non poche difficoltà per domare le rivolte, ma alla fine gli eserciti della Repubblica riportarono l’ordine. Durante la permanenza a Nizza, “Robespierre Jeune” svolse il lavoro di rappresentante in missione, dimostrando capacità politico-organizzative nella gestione dei rapporti con il club giacobino, nella sorveglianza del clero e nell’arresto dei nemici della Repubblica e in campo strategico-militare, cercò di abbozzare un disegno tattico ( di cui più tardi si approprierà Napoleone): quello di combattere l’imperatore d’Austria attaccandolo non dal fronte orientale, bensì da quello meridionale, attraverso la Liguria e il Piemonte6.

 

L’esperienza di Tolone fece inoltre maturare ad Augustin un’intuizione davvero profetica quando, in una sua corrispondenza ufficiale indirizzata al Comitato di salute pubblica, affermò: “Non si doveva più rivoluzionare un paese già rivoluzionato e per salvare la rivoluzione occorreva terminarla”, soprattutto nell’aspetto più degenerativo del terrore e dell’intolleranza.

 

Giuseppina Bosco

 

 

 

 

 

 

 

4 Tesi su Robespierre Roi è presente nel testo consultato dall’autore B. Baczko (1989), Come uscire dal terrore. Il termidore e la rivoluzione, Milano, Feltrinelli.

 

5 Sull’arresto di Charlotte Robespierre sono state esaminate le pagine di G. Lenotre”Mille de Robespierre”.

 

6 L’autore su questi aspetti si rifà agli studi di Le Febvre “La France sous la Directoire”, Edizioni sociali, Parigi, 1984

 

*

- Letteratura

La Sicilia di Livia De Stefani tra mito e modernità

 

La Sicilia di Livia De Stefani tra mito e modernità 

 

Livia De Stefani,scrittrice palermitana, vissuta tra il 1913-1991,è una letterata che si è affermata nel panorama italiano dei primi del Novecento. Figlia di ricchi proprietari e di intellettuali, il suo esordio letterario avviene con la raccolta “Preludio” in cui si risente molto della poesia di D’Annunzio,Pascoli e Gozzano.

Ha collaborato a vari giornali e riviste ed  ha successivamente pubblicato romanzi e racconti : La vigna di uve nere, 1953 (n. ed. 1968); Gli affatturati, 1955; Passione di Rosa, 1958; Viaggio di una sconosciuta, 1963; La signora di Cariddi, 1971; La stella Assenzio, 1985; La mafia alle mie spalle, 1991), che si riallacciano alla tradizione narrativa siciliana.

La sua sicilianità si manifesta soprattutto nell’opera “La vigna di uve nere” ,romanzo che viene considerato dalla critica come uno dei più interessanti per la sopravvivenza di miti ancestrali,di simboli rituali in controtendenza con il Neorealismo di quel periodo.

IL romanzo parla di due ragazzi,Nicola e Rosaria allevati lontano da casa, ignari l' uno dell' esistenza dell' altra. Si ritrovano già adulti, e tra loro nascerà una passione  incestuosa che culminerà nella tragedia. Infatti il padre costringerà Rosalia al suicidio mettendo in salvo in tal modo Nicola il quale, in quanto maschio, potrà garantire la continuazione del nome della famiglia.  La vicenda narrata ha come sfondo la Sicilia del ventesimo secolo che però sin da subito si configura come un' isola mitico-favolistica, ma con elementi descrittivi  realistici.

In questa prima opera della De Stefani  diversi sono i riferimenti alla cultura greca della colpa e della vergogna, per cui i peccati commessi da Casimiro Badalamenti,coinvolto in loschi affari mafiosi,e della moglie Concettina, ex prostituta,non possono che ricadere e segnare il destino dei loro figli.

Come la stessa De Stefani ha scritto in una lettera inviata da Roma il 10 novembre 19831Se nella vigna di uve nere è lampante il riferimento al congegno della tragedia greca,è perché per decenni mi ero dedicata alla ricerca del dove e del come applicare i contenuti di passioni madri a individui e luoghi in cui esse potessero verosimilmente resuscitare nel pieno vigore della loro rudimentale  logica originaria. Ricerca non facile,data la rarità d’un caso di loro equivalenza motoria in almeno quattro consanguinei che ,vincolati l’uno all’altro da un nodo di fatalità,debbano inevitabilmente precipitare,tutti insieme nell’abisso.” “L’hamartia,dunque,investe gli esseri dall’interno e,come una malattia contagiosa,si propaga ai loro discendenti,non dando spazio alla catarsi.”2

Altra importante raccolta di racconti è quella che ha per titolo“Gli affatturati”3che ritraggono individui appartenenti a classi aristocratiche medio-alte affetti da manie ossessive,vizi:sono morfinomani  e vivono separati dalla realtà. Nei racconti emerge soprattutto il carattere grottesco dei personaggi.

L’opera che ha reso però  Livia De Stefani una scrittrice moderna è “Viaggio di una sconosciuta”4 pubblicato nel 1963.Si tratta di una serie di racconti,i cui protagonisti sono per lo più personaggi femminili,vittime della mostruosità della psicologia maschile e delle differenze dell’ambiente sociale che non sono state analizzate  secondo parametri sociologici. In questi racconti si nota la modernità della scrittrice soprattutto per il ricorso ad alcune tecniche narrative dal flashback come riferimento temporale,al monologo interiore, ai flussi di coscienza,per cui non c’è una struttura sintattica che rimanda a nessi logici ma troviamo una disorganicità dei collegamenti. Anche le tematiche affrontate sono diverse, dal rifiuto dell’identità maschile di alcuni personaggi per il desiderio di essere donna, fino all’autocastrazione nel racconto “Ferdinando”;l’amore possessivo di Paolino  per Armanda (in Sorte di Armanda) in cui l’assurdità delle situazioni che rasentano il grottesco causeranno la morte della donna.

Maggiore originalità si può notare nel primo lungo racconto “Viaggio di una sconosciuta”,che dà il titolo all’intera raccolta ,in cui si narra di una ragazza, probabilmente una servetta sedotta ed abbandonata la quale, aspettando un figlio dal suo approfittatore ,abortisce  custodendo il “macabro fardello” in una valigetta, vagando disorientata per le vie di Roma. Non vi è una vera  e propria trama narrativa o un particolare intreccio. Gli eventi si susseguono attraverso la coscienza della protagonista sin dall’incipit con il ricorso al monologo interiore e all’indiretto libero della servetta, la quale associa il nome che avrebbe voluto mettere al figlio Agostino a quello di Agostino Amirru, il quale sosteneva che i nati ad agosto hanno carattere da leone “Su per la salita 5dell’Acqua Acetosa la valigetta si fece pesante. La passò nell’altra mano. Con grande cautela. Agostino,l’avrei chiamato Agostino. Agostino Amirru dice che i nati d’agosto sono leoni. Ma lui ha la faccia da cavallo,lunga,lunga,i dentoni gialli .E il cuore di un cavallo”.

Un altro indiretto lo troviamo nelle righe “Tutto quel sangue,nel letto e a terra. Si partorisce così. Le donne ,le pecore,le cavalle,tutte nello stesso modo”6.

Infine in un monologo quasi surreale il  flusso di coscienza è evidente in questo passo “Jumbo, l’elefante Jumbo. che ubbidisce agli ordini: Alberto gli mostra la carota poi comanda: Jumbo,in ginocchio!L’elefante piega quelle due colonne di zampe,ci casca sopra come un masso,poi si alza ed allunga la proboscide in cerca della carota […]”7.

In un altro indiretto libero le  associazioni di idee seguono il ritmo delle onomatopee in posizione anaforica  e notiamo  frasi mono proposizionali ,sintatticamente interrotte,per l’omissione dei segni di punteggiatura propri di un’interrogativa . Si nota quasi uno sperimentalismo linguistico, che sembra riecheggiare Gadda  , “le voci della radio…conducevano…discorsi incantati,come quelli che nascevano dai campanacci delle vacche pascolanti nel pianoro,quando, fantasticava del mondo sotto il querciolo [… ]Don,don,don don. Mentuccia,Rosina ,Badessa. Don don don. Il mare è tutt’acqua,dice zio Cosma.Ha fatto il marinaio”8

“Lo sapevo che eri un maschietto .Dai calci,lo sapevo. Quanti calci mi hai dato,Agostino. Tum. Tu tum. Tututum. Nessuno li vedeva. Nessuno poteva sentirli. Io sola. Tum. Tutum Io ti parlavo da dentro. E tu mi rispondevi. Dormi? Dimmi che dormi,Agostino”9

la ragazza nel voler giustificare il suo atto orribile allude al dramma personale che è la conseguenza della tipica  mentalità maschilista dell’uomo sposato che inganna una povera ragazza di campagna con promesse di matrimonio e poi l’abbandona quando non vuole assumersi le sue responsabilità.

La visione della città con gli occhi della piccola serva è tutt’uno con la valigetta dal macabro contenuto  e condiziona le relazioni con gli altri uomini che incontra in questo suo peregrinare per Roma“Al raspio dell’unghie sulla valigetta,spalancò gli occhi e rimase attonita… Attraversato il viale di Liegi si trovò tra gente che aspettava l’arrivo dell’autobus. Sudava. La faccia,il collo,giù per il seno,la mano,che sentì malferma intorno al manico della valigetta. Arrivava l’autobus,si portò la valigetta contro il petto,fra le braccia incrociate a riparo;e salì il gradino,piegata in due”10

Inoltre si può notare un riferimento a Pirandello,soprattutto per quanto riguarda il tema dello specchio e della doppia identità quando l’io della ragazza si sdoppia  accusando “un qualcuno”, forse quell’Alberto che è presente nei suoi ricordi, responsabile del mostro che è in lei, ma rientrando nel suo ruolo di madre dialoga con il “macabro fardello” : “Depose la valigetta contro la parete[…]Fece ogni cosa con grande precisione e sicurezza,sebbene ad ogni rialzarsi all’altezza dello specchio vi si scorgesse stravolta <<Assassino,assassino.Muori,crepa.Ei tuoi figli>>.Ogni parola una esplosione nel petto,le scintille dello scoppio fin nelle unghie e nelle radici dei capelli .Nello specchio due lame nere al posto degli occhi. Un gattino bianco, sul davanzale della finestrella.<<eccomi,Agostino,ho finito>>” 11.

Un’enumerazione dei luoghi della città nel crescendo” dell’inner flux” rende meglio il dato memoriale tra presente e passato: “Negozi,negozi.Questo col vaso di tuberose  in cima alla scaletta di cristallo. C’è un reggiseno su ogni gradino.<<una pensione rispettabile,vedrai. Entriamo e buona notte al secchio>> Piumini di cipria. Occhiali e binocoli <<Allora a casa mia. E’ fresca,sentirai quanto è fresca>>l’acqua sgorga dal palazzo,scende fra statue e alberi  di pietra […]<<Buttaci dieci lire. E perché non ci vorresti tornare a Roma? Ma a che fare in Sardegna .A sprecare ‘sta grazia di Dio di ciccia e gioventù? a’scema.>> Quest’altra fontana con quattro donne sdraiate nude.<<Belle ciccion come te .Che c’è di male? Pure i ciechi ce lo sanno come so fatte le belle femmine sotto ai vestiti>> 12

Attraverso i   dati memoriali la protagonista ripercorre il trauma dello stupro subìto e vede un nemico in ogni uomo anche in quello con il cappotto marrone che tenta di avere un rapporto sessuale con la sconosciuta (la servetta).lei però non si concede e tenta  di sfuggirgli. Trascina in ogni istante,nei luoghi e nelle varie situazioni ,la sua ombra fino all’epilogo finale: l’annullamento di se e della sua colpa contenuta nella valigetta “La nebbia si ricompose tra i rovi, discese sul fiume e invase la riva,cancellando ogni cosa. Rimase soltanto il silenzio,reso più profondo dal fruscio dell’acqua invisibile che lo attraversava e lo avvolgeva,rimanendo immobile. Che pace. Non vedeva e non udiva più nulla,credette di dormire”13.

 Giuseppina Bosco

 

 

 

 

1   Da “Letteratura siciliana al femminile:donne scrittrici e donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla Muscarà,Salvatore Sciascia editore

2  Gisella Padovani in “Letteratura siciliana al femminile:donne scrittrici e donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla      Muscarà,Salvatore Sciascia editore, pg.269.

3  “Gli affatturatturati”, Medusa, Mondadori, 1995,1^Edizione.z

4 Livia De Stefani,in “Viaggio di una sconosciuta”,Mondadori,1963.

5 Livia De Stefani,in op. cit.pag. 9

6 Livia De Stefani,in op. cit.pag10

7 Ivi Pag. 11

8 Ivi pag.15

9 ivi pag.28     

10 Ivi pagg 17-18

11 Ivi pag .39

12  ivi pag45        

13 ivi pag51

*

- Letteratura

Maria Messina : una scrittrice da poco riscoperta

           

           Maria Messina : una scrittrice dimenticata e da poco riscoperta.

 

Maria Messina è una donna che ha trovato nella scrittura uno strumento per esprimere la sua arte narrativa e la sua grande sensibilità.

 Nasce nel 1887 ad Alimena ,uno sperduto paese della Sicilia in provincia di Palermo. Il padre Gaetano era un maestro elementare ,invece la madre Gaetana Valenza Traiana apparteneva ad una famiglia baronale ,e come era consuetudine in quel tempo ,ricevette un’educazione domestica e da autodidatta iniziando a formarsi come scrittrice a partire dalla narrativa moderna leggendo  gli scrittori realisti russi quali  Turghenev e  Cecov.

Dell’autrice il critico Borgese ,in un’opera dice :“di onesta e modesta fantasia, aliena da pervertimenti sensuali ,da smanie teoriche1..

Esordisce con la raccolta  “Piccoli gorghi” inserendosi in quel filone narrativo verista inaugurato da scrittori siciliani quali Capuana, Verga, De Roberto. Ma di lei nelle antologie scolastiche non c’è traccia. Un tentativo di riconoscimento sarà l’inserimento negli atti del convegno “Letteratura siciliana al femminile, donne scrittrici, donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla Muscarà,-docente dell’università di Magistero di Catania- e la pubblicazione da parte della casa editrice Sellerio di Palermo di tutti i romanzi e le novelle della scrittrice, tradotte in diverse lingue e perciò conosciuta all’estero  oltre alle iniziative culturali,  che la città di Mistretta le ha tributato.  Diversi sono stati a partire dagli anni Ottanta gli studi critici su tutta la sua produzione letteraria, di cui  sono stati approfonditi alcuni nuclei tematici, soprattutto in un recente studio di Maria Serena Sapegno, quali il rapporto tra società patriarcale e condizione femminile, coscienza della condizione marginale della donna e desiderio di libertà, costruzione di un’identità sociale. 2

L’esordio letterario di Maria Messina è legato ad alcune novelle ambientate a Mistretta ,dove il padre si era trasferito nell’estate del 1903,per cui la scrittrice dovette abbandonare la città di Palermo per quel paese di provincia e nella novelle “L’ideale infranto” e “Sotto tutela” si può scorgere  il  disagio della scrittrice per un ambiente paesano  privo di qualsiasi stimoli    culturale : non arrivavano i giornali, non c’erano biblioteche, teatri, ecc... quasi a sottolineare  la sua insofferenza per quel mondo popolato oltre che da persone umili , da figure femminili silenziose  e rese schiave da una cultura maschilista dominante; nella raccolta di novelle “Pettini fini” (pubblicato per la prima volta nel 1909) , Maria Messina  ci offre così un affresco del paese di Mistretta  con i suoi umili protagonisti ,i loro vissuti ,le vie del paese in cui si rivela l’attaccamento alla scuola verista e il canone dell’impersonalità difatti Giovanni Verga ne ricevette una copia dall’autrice in quanto egli rappresentava per lei una “guida sicura, un padre da cui ricevere insegnamento e protezione”3 ……e da quel momento ha inizio una corrispondenza col grande scrittore catanese che durerà una decina d’anni.

Durante i primi anni del Novecento  la scrittrice si trasferisce ad Ascoli Piceno perchè il padre era stato nominato ispettore scolastico. Questo è il periodo in cui dalle novelle rusticane la scrittrice passa a quelle di ambientazione borghese. Nelle successive raccolte di novelle, Le briciole del destino (1918), Il guinzaglio (1921) eRagazze siciliane (1921), il verismo di Maria Messina comincia  a spostarsi dal mondo rusticano dei " vinti" all’analisi della piccola borghesia. Ma i "vinti" sono per lo più le donne,le quali "non posseggono la forza di offendere né quella di difendersi": sia nella condizione di mogli recluse tra le mura domestiche sia in quella di nubili  che sprecano le loro esistenze  sacrificandosi per gli altri e consumando la propria giovinezza tra fatiche e lavoro.

Emblematico è il racconto "Casa paterna”6 , in cui si rivela una struttura compositiva più matura,  in un abile gioco di architettura letteraria di trama e di intreccio. La protagonista,  Vanna, è una giovane siciliana sposata da poco tempo ad un avvocato romano, la quale ritorna alla casa paterna, dopo aver deciso di lasciare il marito e la città in cui vivono, perché non sopporta la solitudine e l’indifferenza sia della grande città che del marito stesso.
Mentre il viaggio si sta concludendo, la ragazza è sopraffatta dai ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, rievoca le speranze ed i progetti, ritorna a quel nido pensando di ritrovare la stessa pace e lo stesso amore di allora:  tante cose però sono ormai cambiate, i fratelli sono sposati, e le cognate  non accettano la vergogna che lei porta  in famiglia perché ha osato separarsi dal marito, nemmeno il padre e la madre - ormai succubi delle nuore - possono più aiutarla e pertanto l’epilogo sarà tragico.

In questa raccolta è inserita, anche, la novella “L’ora che passa”. La protagonista è Rosalia, maestra elementare che sacrifica se stessa per la cura della famiglia, la quale si trova in condizioni economiche disagiate. Non riesce ad uscire dal “carcere” del suo ruolo, dalla non- vita. Questa estraneità a se stessa rispetto a quella parte di sé che avrebbe voluto vivere ed amare, invece, di guardarsi vivere, sembra riecheggiare il personaggio di Adriano Meis - Pascal, di Luigi Pirandello, meno giocato però sull’assurdità delle situazione, sul grottesco e sul sottile ragionamento, (che caratterizza le opere pirandelliane) e in ciò si rivela l’originalità e la linearità dell’arte narrativa di Maria Messina. Non a caso Leonardo Sciascia, in una nota critica,  l’ accosta alla grande scrittrice inglese Katrin Mansfield definendola una “Mansfield siciliana” forse perché Maria Messina al pari della Mansfield riesce a rappresentare con poche immagini un universo femminile succube dell’egoismo e del degrado morale di una società maschilista e sa descrivere con brevi squarci momenti di vita quotidiana  e stati d’animo femminili, resi dal punto di vista delle tecniche narrative, da una struttura sintattica semplice e con diversi  ricorsi all’indiretto libero ,.

Anche la scrittrice  Ada Negri dedicò una prefazione alla raccolta “Le briciole del destino”, cui fa parte la novella “Casa paterna,” e dell’opera dirà “  Tu hai voluto studiare questi cantucci di umanità, che sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di vecchie ragnatele, di vecchie lagrime rancide. Tu vi sei riuscita, piccola sorella Maria”.7

La rassegnazione e l’impossibilità di un riscatto per la condizione femminile sono i temi dei romanzi, presenti soprattutto in “Casa del vicolo”, di cui

 Nei  romanzi  “Casa del vicolo”, di cui la Sapegno fornisce chiare chiavi interpretative e tematiche.  , e “Amore negato” si rivela una maggiore maturità compositiva della scrittrice, difatti in quest’ultimo romanzo si nota un maggiore scavo  riguardo alle  psicologie femminili, e l’attenzione si sposta verso la città ,  descrivendo  un ambiente piccolo borghese, (Il romanzo è ambientato ad Ascoli Piceno) in cui si  deve sopravvivere alle difficoltà materiali e all’estraneità degli affetti. Sembra quasi riecheggiare lo Svevo dei romanzi giovanili,  la cui analisi dell’inettitudine è più legata all’inconscio maschile.

È comunque interessante fornire strumenti interpretativi delle opere di esordio  di Maria Messina, analizzando le cinque novelle che la casa editrice Sellerio ha raccolto in  un volume del 1998 dal titolo  “Dopo l’inverno”,grazie alle ricerche di Roswita Shoell-Dombrowsky che le ha raggruppate , poiché erano state pubblicate in diverse riviste letterarie del primo Novecento.

La novella “Dopo l’inverno” risente della scuola verista  in cui domina la descrizione dell’ambiente rurale siciliano gravato dalla miseria, dall’ignoranza degli umili e dal dramma dell’emigrazione .

Il protagonista, “Ssu Vanni”, un contadino oppresso dalla povertà, dall’ignoranza tenta ,nonostante gli anni e la salute malferma, di lavorare in campagna. Ha un solo figlio, “bello e grande come una  bandiera”, il quale è partito dal paese in primavera con l’intenzione di andare in America.

‘Ssu Vanni ,era divenuto per quella solitudine, asprigno ed irascibile,” e se qualcuno gli si accostava egli se l’aveva a noia”, aveva ricevuto ,dopo poco tempo dalla partenza del figlio, alcune lettere. Con l’inizio dell’inverno quelle lettere non arrivarono più, quasi a voler simboleggiare la ciclicità delle stagioni presente nel mito di Persefone e kore .Quado Ade rapisce Core ,che stava sottoterra  , la madre Persefone per la disperazione  rende infertile la terra, che non dà più i suoi frutti (periodo della stagione invernale),e quando Core poteva tornare libera sulla terra per sei mesi, la dea la rendeva fertile e lussureggiante.

 A metà inverno, verso l’anno nuovo, dopo tanto silenzio, arriva una lettera di Turiddu. E  Ssu Vanni, analfabeta, corse dal Rosso, il falegname, per farsela leggere così  seppe che il figlio era partito dall’America e si trovava a combattere in Turchia, a Bengasi.

La novella , pubblicata nel 1912 nel quindicinale “La Donna” , è ambientata in un preciso momento storico, quello di Crispi, e della politica coloniale dell’Italia volta alla conquista della Libia. Anche il Meridione è coinvolto in questa propaganda patriottica, per cui Turiddu combatte per la gloria della patria. Anche l’atteggiamento dei paesani cambia nei confronti del contadino che non sarà più deriso ma rispettato: il figlio è un eroe, non uno squattrinato in cerca di fortuna in America. Quando lo’ Ssu Vanni apprende la notizia che un gruppo di feriti della guerra in Libia erano stati    rimpatriati e sarebbero ritornati in paese, inizia a sperare di poter rivedere Turiddu proprio nel periodo in cui “il grano accestiva e le rondini tornavano a stridere sul cielo luminoso(…) e la terra sapeva di tanti buoni aromi (ritorna il mito di Proserpina). Difatti “è festa grande in paese, in quel pomeriggio odoroso di primavera per i soldati reduci.” 8 Il contadino che non osava pensare che tra di loro vi fosse il suo Turiddu, improvvisamente  lo vide tra la folla festante ,accolto dalla banda e dal sindaco del paese che aveva fatto imbandire un tavolo nella piazza per onorare i reduci della guerra “E Ssu Vanni chiedeva perdono a Dio del corruccio germinato nel suo cuore di uomo meschino, di uomo che, roso dalla fatica, non distingue più un bruco dalla foglia; e ora pensava con gioia che quel figlio era suo ,era sangue suo…”9

La novella “Il violino di Sandro”, pubblicato nel 1913 nello stesso quindicinale, è centrata sulla psicologia del protagonista, di nome Sandro, musicista e violoncellista, il quale,convalescente per una malattia dovuta a continue febbri debilitati, è costretto alla quasi inattività.

La sua malinconica quotidianità è interrotta dall’arrivo dei nuovi vicini della casa gialla : una famiglia che abitava di fronte. La figlia, era una giovane fanciulla dal viso da bambina e dai capelli biondi che brillavano al sole  come “pagliuzze d’oro”. Però la separazione tra le due  abitazioni era colmata dalla finestra da cui spesso Sandro si affacciava per osservare le abitudini della fanciulla dirimpettaia . Il giovane ,invaso da mille fantasie ed emozioni verso di lei, cerca di stabilire un intimo contatto attraverso la musica “La voce umana del violino si diffondeva nella piazza deserta, saliva verso il cielo stellato col profumo dei calicanti ,nelle note lunghe ed appassionate vibrava tutta la tenerezza contenuta nell’anima romantica del convalescente, affinata dalla malattia…gli occhi di tanto in tanto si levavano a cercare colei che restava davanti alla finestra aperta”.10                            

Un giorno mentre il medico parlava sommessamente con la sorella Clara seppe della menomazione della ragazza dal viso di bambina: la sua sordità. La rivelazione lo fece impallidire e tremare perché aveva cercato di comunicare con lei attraverso l’unica voce e l’unica parola che potesse esprimere i suoi nobili sentimenti. Ma lei non aveva potuto sentirli e così, all’improvviso, il ragazzo decise di uscire dalla stanza. La casa ,che simbolicamente rappresenta la segregazione, la non vita, l’inazione, la soglia tra ciò che è conosciuto e” l’altrove” da scoprire e da conoscere.

Così Sandro cerca di stabilire un contatto vero con la fanciulla per manifestarle il suo amore e lei, se non potè sentire da lontano la dolcezza di quelle note musicali, poteva vedere ed ascoltare da vicino  le parole di Sandro.

“Vincere” è la più assurda ed anche un po’ grottesca novella di Maria Messina in cui si avverte il suo pirandellismo. Intanto la storia ha quasi un impianto teatrale ;due spazi interni, i balconi, mettono in relazione due famiglie nello stesso palazzo baronale. La moglie del professore di disegno (da poco trasferitasi in quel luogo)con la signora Panebianco. La figlia del professore, Carmelina, sarà la novità per il giovane aristocratico Giorgio, il quale imporrà subito alla ragazza il suo potere di classe e di maschio “Giocavano a fare il ritratto e le comandava di stare ferma: Carmelina si metteva nella posa che voleva lui davanti la macchina….,e sul più bello si allontanava ,distratta… Giorgio, che abituato a essere contentato dalla mamma, o contrariato dal papà, obbedito dalla serva, diventava rosso sino alla radice dei capelli”. 11

Il desiderio adolescenziale di Giorgio di autonomia dalla famiglia lo portano a fantasticare sul desiderio di sposare Carmelina ,sfidando anche la leggenda di famiglia dello zio ricco che si suicida perché gli fu impedito di sposare una popolana.

La sottomissione di Carmelina nell’accettare di sposare Giorgio, spinta da entrambe le famiglie, la condurrà a recitare il ruolo di moglie felice ed arrogante-che tutti credevano che fosse ,ma che in realtà non lo era. Giorgio assume il suo ruolo all’intero di una gerarchia patriarcale e di classe e si occuperà solo delle sue proprietà, trascurando Carmelina. La donna ,cosciente della sua condizione infelice, girellava  attorno alla vasca del “ giardino” . “Certe volte  sedeva sull’orlo. Brutta abitudine quella di sedere sull’orlo…Andò a finire che un giorno, dopo averla cercata qua e là nel giardino…Disgrazia…oppure…ma no! Era stata una disgrazia! Una donna fortunata come lei! Se lo dicevano tutti a una voce: le amiche, le vicine. Che le mancava per essere felice?”12

Un suicidio, una disgrazia, qual è la verità? Ecco riecheggiare un certo piradellismo, nel  contrasto tra apparenza e verità. Cosa le mancava per essere felice? Anche Giorgio, avvisato della disgrazia rispose rinfrancato “Una casa spezzata…forse non era destino…”

Lo stile e la lingua di queste novelle può essere definito minimalista ,con un ricorso ad un periodare breve, lontano da complessi costrutti sintattici.  Il linguaggio è colloquiale  e risente di espressioni del parlato.

                                                                                                                                                               

1 Bartolotta , “ Literary” , studio su  Maria Messina.

2 Maria Serena Sapegno, Sulla soglia : la narrativa di Maria Messina, in “altrelettere”, 14-03-2012

3  Bartolotta ibidem

4 Cfr.Palermo,Sandron. 1911. Così scrive al Verga da Ascoli Piceno

5 Bartolotta ibidem                                                                                                                     

6  M. Messina, Casa paterna. Palermo, Sellerio 1981

7 Bartolotta, ibidem

8 Maria Messina, “Dopo l’inverno”. Sellerio 1998, Palermo,  pag 16

9 Maria Messina, ibidem,  pag 20

10 Maria Messina, ibidem, pag 25

11 Maria Messina, ibidem, pag 63

12 Maria Messina, ibidem, pag 77

*

- Letteratura

L’inferriata

La  modernità del romanzo “L’Inferriata” consacra  Laura Di Falco,   autrice siciliana, una voce autorevole del panorama letterario del Novecento.

 

L’eleganza espressiva della prosa di Laura Di Falco ed il linguaggio metaforico la rendono una scrittrice moderna se per modernità si intende assumere un punto di vista critico nei confronti dell’esistente ed individuare nei personaggi non i depositari di certezze,ma di problematiche relative alla complessità del vivere.

Difatti l’anticonformismo,la ricerca del vero sono assunti significativi dell’opera della scrittrice siciliana  a lungo dimenticata, il cui vero nome era Anna Lucia Carpinteri.

L’autrice ,figlia dell’ingegnere Francesco Carpinteri  e di Clelia Alfieri,ricca proprietaria ,è una delle voci più interessanti della letteratura del ‘900. Laureata in filosofia alla scuola normale di Pisa,  conobbe i più grandi intellettuali antifascisti. Alunna di Momigliano,ebbe contatti con letterati di spicco quali Walter Binni,Claudio Varese e altri. Nel 1985 si trasferì a Roma dove potè dedicarsi all’insegnamento e conoscere Felice Di Falco,funzionario dell’istituto per il commercio ,che sposerà ben presto, aderendo con il marito al partito d’azione. Nell’immediato dopoguerra inizia la sua attività di scrittura con la pubblicazione, sulla prestigiosa rivista “Il mondo”,diretta da Mario Pannunzio,  dei racconti “La vicina viene in visita” e “Fra giugno e luglio”.

La produzione narrativa è costituita da otto romanzi,le cui  protagoniste sono  donne.

In realtà l’intera produzione  della Di Falco è centrata sul tema della marginalità della donna e del suo difficile  rapporto con la propria terra,la Sicilia. Ed è opportuno a tale proposito riportare il giudizio di Donatella La Monaca,in “Scrittrici siciliane del 900” <<Con intuito e profondità la scrittrice si inoltra nell’universo femminile esplorandone le fasi evolutive più delicate,dall’adolescenza alla maturità cogliendone insicurezze e contraddizioni nell’ottica di una rassegnata constatazione. Quanto in prospettiva di una voluta reattività,che pur approda ad una desolata solitudine>>2.

Il lungo viaggio  di Laura Di Falco nel microcosmo femminile trae l’avvio dall’opera narrativa “Paura del giorno”,a proposito della quale Montale dirà <<un talento narrativo più che autorevole»3.

Difatti il poeta ligure  a proposito delle due protagoniste femminili del romanzo,(Erina ,trascurata dai suoi genitori,piena di dubbi,introversa, e l’altra,Noemi, piacente e volitiva) affermerà:<<Due destini di “doppia e diversa innocenza” diversamente violati da un ambiente familiare “Sciocco e corrotto”>>4.

Nel 1971 la Di Falco, pubblica per Rizzoli “Miracolo d’estate ;  ma l’opera da cui possiamo trarre tematiche attinenti all’attualità è il romanzo di formazione “L’inferriata” , finalista al Premio Strega, vincitore del premio “Sybaris Magna Grecia”, pubblicato per la prima volta nel 1976 e nel 2012 a cura della nipote Fausta Di Falco, con l’intenzione di far conoscere un’opera che, seppur ambientata alla fine degli Anni ’50,  sia per la scrittura sia per i temi affrontati, è senza tempo.

Il centro della storia  è l’antico nucleo di Siracusa che con il passare degli anni si va spopolando sempre di più. In questo luogo si svolge la vita del personaggio più interessante e problematico costruito dall’autrice: Diletta,studentessa liceale che abita un antico palazzo nello “scoglio di Ortigia”. I luoghi descritti diventano i punti focali della narrazione.

La decadenza di molti palazzi è il simbolo del degrado ambientale dell’area dello scoglio che diventa il luogo destinato ad essere abbandonato da molte famiglie di tradizione nobiliare e alto borghesi per andare ad abitare la città di cemento con i primi insediamenti industriali. Questa distruzione  di Ortigia,che è destinata all’incuria e al disinteresse dei notabili del tempo è simboleggiato dal lampadario di Murano della camera gialla che era caduto e si era frantumato “…la sorte dell’immenso lampadario di Murano,gioia degli occhi al primo risveglio del mattino degli antichi marchesi che avevano abitato tanto tempo prima nel palazzo,era segnata .Una caduta di garofani gialli e di rose di vetro dello stesso colore,variegate da un leggero tono amaranto che… risplendevano ai raggi del sole con uno scintillio perfino crudele.”5

Si crea,quindi,tra la nuova e la vecchia Siracusa una sorta di “inferriata” tra  mondi e realtà sociali diversi e la protagonista, in tutto l’arco della narrazione, ha un ruolo positivo. Il suo anticonformismo nei confronti di una famiglia alto borghese e “perbenista” è una denuncia delle ipocrisie e speculazioni industriali della Siracusa degli anni Sessanta. Gli altri personaggi,dal padre, amministratore dell’industria petrolchimica legato alle apparenze ,alla nonna ,la vera patriarca della famiglia  la cui opinione era legge,alla madre,pervasiva nei confronti della figlia,sono lo spaccato di una società legata ad alcune convenzioni sociali, tant’è che i genitori della ragazza non tollerano il suo fidanzato, Mario,ritenuto di condizione sociale inferiore. Però, quando  verrà accettato dalla famiglia , conformandosi a quella mentalità tradizionalista e maschilista, secondo cui doveva prevalere la volontà dell’uomo,  Diletta comincerà a respingerlo, e  ad allontanare da sé l’idea di sposarlo .Le ritornò alla mente la figura di Roberto, un suo vecchio amico : “Era stato con lui e non con Mario, che aveva fatto le prime gite in macchina, verso le rive del Ciane, fra i papiri e l’odore fresco delle piante; era con lui che aveva sperimentato i primi baci , i primi smarrimenti nelle salette pericolanti di palazzo Montalto, o nelle viuzze di Ortigia piene di malinconia.6 Nel romanzo difatti,  prevale il punto di vista di Diletta,io narrante, a metà strada tra realtà ed immaginazione ,caratterizzato da una serie di flashback,che rimandano ad un passato storico del periodo romano ai tempi di Verre o alla vicenda di Lucia che si converte a far del bene   ,dopo il suo incontro con il Galileo. Il passato della vita di Lucia, che Diletta conosceva fin da bambina, affiorò nella sua mente dopo una visita all’agrumeto di famiglia, proprietà che si contendevano il padre e i suoi fratelli e lei, quando si diresse  verso il pozzo :   Bastò quel breve accenno al passato per liberare ai suoi sogni la fantasia di Diletta. (…)”Lucia abbandonò il secchio con cui aveva dato da bere allo sconosciuto e corse giù lungo la vallata fino al vicolo dove sua madre la strapazzò per l’attesa”>>(…),”Lucia non l’ascoltava neppure. Si aggirava ancora in cerca dello straniero.”Gli ho dato da bere con le mie mani” ed indicava il secchio sull’orlo del pozzo.”Scottava dalla febbre .Diceva che erano stati in molti a torturarlo,e tanti altri ancora avrebbero seguito a fare lo stesso”[…]”Non è  possibile ripeteva Lucia,e l’immagine dello straniero diventava sempre più vivida ai suoi occhi,ne avvertiva l’alito accesso della febbre sul dorso della mano mentre lo aiutava a bere,rivedeva gli occhi carichi di un potere magnetico.7.

Questa “fuga nella storia  antica di Ortigia”rappresenta un momento introspettivo di ribellione  ed evasione dalla realtà verso il passato mitico e classico della storia della sua città.  Ormai Siracusa è  una città segnata dallo sviluppo industriale selvaggio con problemi di degrado ambientale a causa dell’insediamento del gruppo petrolchimico nella zona di Priolo, a cui la Di Falco fa esplicito riferimento in una successiva sequenza del romanzo “ lungo la strada fiancheggiata dagli opifici degli stabilimenti e dalle ciminiere che lanciavano fuoco e fumo velenoso sua madre non smetteva di enumerare al futuro genero le varie industrie in cui il marito faceva parte del consiglio d’amministrazione”8e in un’altra descrive il disastro ambientale causato dall’esplosione di diversi serbatoi  dello stabilimento petrolchimico, contenenti liquido infiammabile : “le onde erano diventate tutta una fiamma […] una nave cisterna, accostata al pontile per il pieno, era stata coinvolta anch’essa nell’incendio, ed ora uomini e pesci morivano insieme nell’acqua diventata incandescente.” 9

La modernità del romanzo consiste non solo nel ricorso ad originali tecniche narratologiche,alle diverse immagini oniriche ,ma principalmente nel dilemma finale Di Diletta: se rimanere o andare via dallo scoglio,simbolo della tradizione culturale e nobiliare di Siracusa, rifiutando il prevalere di loschi interessi politici , il disfacimento ambientale per vivere in una realtà diversa, lontana dai compromessi e dalla corruzione, anche  a costo della solitudine.  Dilemma superato nel romanzo successivo ,del 1984,  Piazza delle quattro vie” in cui si avverte maggiormente l’esperienza autobiografica della scrittrice, attraverso la narrazione dell’evoluzione intellettuale e sentimentale della giovane protagonista, Luisa . Nelle opere”La spiaggia di sabbia nera” del 1991 e  Figli e fiori”, pubblicato nel 2000 , l’autrice rivela una maturità ideativa sia nell’impianto narrativo sia in un più profondo scavo psicologico ed espressivo, vicini quasi al romanzo contemporaneo.

 

1 Laura Di Falco,”L’inferriata”,1976,Rizzoli editori,Milano

2 Donatella La Monaca,”Scrittrici siciliane del Novecento”,Flaccovio editore,2008

3 E.Montale,Laura Di Falco,Paura del giorno in Il secondo mestiere. Prose,I,Mondadori,Milano,1996,pp.1719-1720.

4  Ibidem

5Laura Di Falco,”L’inferriata”,1976,Rizzoli editori,Milano,pag.3

6 ivi  pag.265

7 Ivi pag. 172-173

8 ivi pag 170

9 ivi pag.268

 

Fi.to  Giuseppina Bosco

*

- Letteratura

I bambini della ginestra

I bambini della Ginestra”di Maria Rosa Cutrufelli è un romanzo d’impegno civile che rievoca la strage di Portella della Ginestra, ancora coperta dal Segreto di Stato.”

 

 

“I bambini della Ginestra” pubblicato nel 2005 è la storia di due ragazzi, Enza e Lillo, le cui esistenze sono segnate dalla tragedia di Portella della Ginestra, avvenimento centrale che determinerà nuovi  equilibri nella storia del Dopoguerra. Il romanzo presenta due piani di lettura: uno legato alla ricostruzione delle vicende storico-politiche del 1947, l’altro riferito alle storie parallele dei protagonisti. L’intreccio però,  tra verità e finzione si distacca dal tradizionale romanzo storico ottocentesco, caratterizzato da ampie scenografie descrittive nella ricostruzione di un’epoca, ma fa emergere tutta la drammaticità  della strage di matrice politico-mafiosa nell’essenzialità ed asciuttezza della narrazione. Difatti, nella nota dell’autrice a margine come postfazione del romanzo, si dice ”Raccontare storie è in ogni modo un’arte delicata che richiede un alto grado di responsabilità. Soprattutto quando, dietro i personaggi d’invenzione (come i protagonisti di questa storia), si muove la Grande Storia, con le sue questioni irrisolte, le sue menzogne e i suoi vicoli ciechi. E Portella della Ginestra è “un fatto storico di primaria importanza, perchè il giorno dopo niente fu più come prima ”Così afferma lo studioso che fu anche testimone della strage, Francesco Renda…Portella della Ginestra fu “la sanzione scritta col sangue, di un nuovo equilibrio dinamico destinato a durare nel tempo”(pag. 267).

Su questa strage, come su tante altre degli anni Settanta (periodo della strategia della tensione, quando per scongiurare un’avanzata della sinistra si voleva imporre uno stato forte, autoritario con lo stragismo) c’è ancora il segreto di stato per cui sarà difficile arrivare alla verità dei fatti. Se si vuole tentare poi un altro confronto si può affermare che  se la Lombardia del Seicento è lo scenario della storia de I Promessi sposi, la Sicilia del dopoguerra lo è per i  Bambini della Ginestra, non solo per i luoghi, che fanno da sfondo alle vicende narrate: Palermo, Sciacca, Piana degli Albanesi, ma anche per gli odori ,i sapori e la parlata tipica siciliana: “…dai canaloni arrivava un sentore di piante selvatiche, di pietra calda e sterco asciutto. Ancora non era il soffio abbruciante dell’estate, ma qualcosa di più sottile. Quasi intimo…”,”Succede a Palermo. Esci dalla cattedrale, fai duecento metri e sei fra le baracche del cortile Cascino(…) Esci dal Teatro Massimo, di nuovo fai duecento metri, svolti e ti ritrovi fra bambini nudi e vecchi chiusi dentro cancelletti a sbarre”(…) (pag.168).  Gradivo pure la tua parlata siciliana, l’accento, il ritmo ,(…)l’uso costante del passato remoto e lo sprezzo assoluto per il passato prossimo

La vita di Lillo ed Enza cambia quel giorno del 10 maggio 1947,quando molte famiglie di vari paesi vicini, San Giuseppe Jato, Piana dei Greci (Piana degli Albanesi), San Cipirello, Partinico , Belmonte Mezzagno, scesi a Portella della Ginestra per festeggiare l’occupazione delle terre e la vittoria della coalizione tra socialisti e comunisti sulla DC, nelle elezioni dell’Assemblea regionale, furono massacrate dal bandito Salvatore Giuliano dall’alto delle montagne della Pizzuta e del Kumeta.

Su  queste montagne circostanti erano appostati i suoi  complici, con fucili, lupare e mitragliette, che in poco tempo uccisero uomini, donne, bambini e animali, colorando di rosso tutta la piana. Quel rosso non era più il colore delle bandiere sventolanti per la festa dei lavoratori, ma il colore del sangue delle vittime.

 Lillo perde il padre, invece Enza arrivata tardi all’appuntamento vede in faccia i “picciotti” di Giuliano. La storia viene narrata attraverso un carteggio tra i  due protagonisti. Si costituisce così un sapiente equilibrio narrativo con l’alternanza tra i due punti di vista delle voci narranti: i due ragazzi sopravvissuti alla strage a cui si aggiungono, in una crescente  polifonia, le voci dei personaggi minori. Nell’incipit del romanzo gli eventi tragici di Portella della Ginestra  sono visti dall’ottica di entrambi i protagonisti : “Lui non si fermò per nessuno. Cercava sua madre. La trovò più o  meno nello stesso posto in cui l’aveva lasciata, al centro del pianoro.(…) E si  precipitò verso di lei. Ma proprio mentre si chinava per abbracciarla, si rese conto che il suo cuore era stato troppo partigiano. Perché davanti a loro, sbattuto sui cuscini pungenti delle ginestre, c’era un corpo, e quel corpo era di suo padre”. Il  punto divista di Lillo è presente  anche nella prima  lettera inviata da Roma il 10 ottobre 1972 ad Enza,  a distanza di circa trent’anni da quegli eventi  (sezione del libro che s’intitola “Andare ,-Tornare”, che  è anche il titolo dell’ultimo capitolo   nella circolarità narrativa del romanzo) in cui il giovane, a causa delle continue partenze e ritorni in Sicilia, cita i versi della poesia di Quasimodo “Lamento per il Sud”: “Il sud è stanco di trascinare morti… Anch’io ero stanco di trascinare i miei morti e quella sera, in una pensioncina di via Cavour, ripensai proprio alla poesia di Quasimodo e al momento in cui l’aveva scritta, poco prima della Ginestra come in una preveggenza. Pensai ai sentieri della Sicilia, alle sue piste nuovamente rosse, ancora rosse, ancora rosse… e con il viso contro il cuscino mormorai a fior di labbra: più nessuno mi porterà nel sud! Più nessuno: con le parole del poeta, mi stavo facendo una promessa”(pag.8).

La visione della protagonista femminile  emerge, invece,attraverso un lungo monologo, non solo nel racconto di quei tragici fatti, ma anche nel ricordo del primo incontro di Enza bambina con Lillo. Il giovane era amico di Giacomo, fratello  di lei,perciò frequentava quella casa ; Enza fin da allora cercava a tutti i costi di attirare la loro attenzione… “Vi ronzavo attorno come una piccola vespa arrabbiata”(pag.13). La ragazza, di origine piccolo-borghese, crebbe  accudita dalla governante Luchina, di cui si era innamorato Gjergj, un ragazzo greco, che si era stabilito a Piana degli Albanesi. ’’Forse è colpa del greco e delle sue misteriose manovre, se quell’anno ci spuntò la voglia di andare alla Ginestra  (…) E fu proprio con questo sentimento di fiducia che il primo maggio del quarantasette mi avviai verso lo stradale che passa sotto la pizzuta che conduce a portella della Ginestra (…) un terrore incontenibile mi soffocò e lottai per liberarmi (…) mentre una voce ordinava: ”non spostare i morti!” (…) e se il nostro maresciallo si comportava in quel modo, correndo per ogni pizzo e insistendo a dire: ”Lasciate i morti dove sono!”,(…) un qualche significato doveva pur esserci nelle sue parole (…), guardavo e davanti a me  si stendeva quella strada troppo nera (…) su cui si riversavano animali e cristiani, giumente sciolte senza padroni e bambini scalzi che singhiozzavano con la bocca aperta e le guance impastate di moccio”(pag.30)

Il trauma subìto innescherà un meccanismo evolutivo nella coscienza di Enza che da quel giorno  perderà la sua innocenza: “C’è un’immagine che non sopporto, mi dà dolore per quanto è ancora viva dentro di me…Ed è l’immagine della bambina che ero, tesa nello sforzo disperato di capire e di farsi capire.”(pag.143) .

 Dopo alcuni anni lei e la sua famiglia si trasferiranno a Palermo e lei andrà a lavorre nella farmacia di suo padre, e con il tempo apprenderanno la verità nascosta dietro a quei fatti anche attraverso i giornali: in realtà “non erano i contadini, era Li Causi in persona l’obiettivo dei mafiosi: nel’44 lo avevano azzoppato e alla Ginestra lo aspettavano per finire l’opera, perché credevano che fosse lui l’oratore ufficiale, mentre era quel giovane della Federterra che era arrivato in ritardo a causa delle ruote bucate della motocicletta.”(pag. 62)

Parallelamente si intreccia la storia di Lillo, il quale prenderà coscienza delle verità taciute,che offenderanno ancora di più la memoria delle  vittime con il processo di Viterbo. Questa è la parte più appassionata e rigorosamente documentata dall’autrice, in cui è meglio delineata la psicologia non solo del protagonista, ma anche di altri personaggi minori: i  familiari delle vittime. Essi sono quegli “umiliati ed offesi”, che tra innumerevoli disagi per i pochi mezzi  economici, lontani dalla loro terra, senza un alloggio , assisteranno ad un “processo farsa”, in cui prevarrà la ragion di stato e non si condanneranno né i mandanti  né gli esecutori materiali .

A narrare l’evoluzione e la maturazione di Lillo sarà sempre la protagonista femminile, attraverso i vari monologhi presenti nelle successive sequenze del romanzo : il ragazzo si era trasferito a Roma  dopo qualche anno da quei tragici fatti,  in seguito conseguirà la laurea  in Giurisprudenza   presso l’università La Sapienza .  Puntualmente tornava in Sicilia il primo maggio per la commemorazione  della strage di  Portella della Ginestra.

La tragedia unisce sentimentalmente i due giovani, ma le loro vite resteranno a lungo separate. In un altro passo del romanzo Enza ricorda attraverso un flashback un ritorno a Palermo di Lillo per il ventennale della strage e fu in quel momento che capisce  quanto si fosse  sentita da sempre legata a lui  “ Perché facevamo parte della stessa storia, perché avevamo nel cuore la stessa tirannia, come dice la tua canzone. Perché eravamo e saremmo stati per sempre i bambini della ginestra”(pag.201). Solo alla fine della narrazione, però,  il giovane, trovandosi  nuovamente a Palermo  e precisamente nella spiaggia di Mondello, manifesterà più liberamente i suoi sentimenti per lei: ”Il lido era deserto. C’eri solo tu ,accovacciata accanto ai raggi di un falò. Tracciavi segni sulla sabbia con un bastoncino annerito dalle fiamme(…) Il sole uscì per un attimo dalle nuvole (…). Ti guardai nella luce di quel tramonto senza colori, rischiarato dai raggi bassi e stanchi, stanchissimi, proprio come me, e mi chiesi per quale motivo non avessi mai visto quello che vedevo ora: la curva della nuca, la sottile dolcezza del collo…Magari ero troppo impegnato a scappare(…)E in un attimo accadde: il perenne senso di attesa in cui ero vissuto per oltre vent’anni(…) quella rabbia che mi dava l’essere orfano-orfano per volontà di qualcuno, non per disgrazia, quel livore si dissolse. Sparì. Forse sarebbe tornato, forse no, ma in quel momento allentò la stretta (…). Ti raggiunsi. Mi accucciai sulla rena cercando la tua mano e mentre ascoltavo la musica sottile ed intima dei tuoi orecchini, pensai che l’amore è un lavoro faticoso. Lungo e faticoso” (pag.259).

L’autrice alla fine immagina  una realizzazione di Lillo come storico il quale , una volta elaborato il lutto,  accetta il proprio destino e il dolore . Solo a questo punto è pronto a ricostruire la propria vita , e ad abbandonarsi all’amore. Difatti, nella lettera scritta ad Enza da Roma,il 25 ottobre 1972, annuncia  di voler ritornare definitivamente a Palermo e  le dà  appuntamento a Portella della Ginestra , nel luogo dove tutto aveva avuto inizio, sul sasso Barbato. Simbolo dell’impegno politico e sociale del medico socialista Nicola Barbato ,amico dei contadini ai quali ,un secolo fa ,parlava di libertà, di democrazia di pane e lavoro, ma anche di poesia  e su cui sono state  incise queste parole: “qui sulla pietra di Barbato…mentre il popolo celebrava la festa del lavoro e la vittoria del 20 aprile, qui si abbatté il piombo della mafia e degli agrari…” (pag.266).

In questo epilogo si può scorgere la volontà dell’autrice di legare la memoria di quei luoghi non solo ad eventi tragici,ma ad esempi di rinascita , di speranza e di riscatto.

Proporre la lettura di questo romanzo  ha un grande valore educativo, al fine  di indurre le  nuove generazioni  alla riflessione su un periodo della storia d’ Italia e della prima repubblica tutt’ora pieno di lati oscuri, su cui bisogna ancora  far luce.

Firmato  Giuseppina Bosco