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Raccolta di saggi di Teresa Nastri
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Psicologia

Incubi Infantili

Incubi infantili - Minacce e  Strategie di Autodifesa

 

Sapevo che stavo sognando e che i mostri (spiriti maligni o imprecisate entità di cui avvertivo la presenza, ma che sfuggivano ad una vera identificazione) non erano reali. Ma tale sapere non esorcizzava la mia paura. Dovevo contrapporle una strategia adeguata: l'autosuggestione (allucinatoria?). Riuscivo a raffigurarmi un rifugio, impossibile a causa dell'impenetrabilità dei solidi - che pure era nozione presente come parte costitutiva della mia conoscenza del mondo reale. Con uno sforzo di concentrazione immaginavo di penetrare nel muro che delimitava, da uno dei lati, il viottolo attraverso il quale tentavo di sfuggire al nemico. Era faticoso ma necessario, perché l'angoscia diventava intollerabile. Se fossi riuscita a convincermi di essere totalmente nascosta nella parete - come inghiottita, ma protetta da essa - avrei creduto anche che l'inseguitore non mi avrebbe vista.

In fondo, non facevo che attuare la sostituzione di una fantasia negativa con una positiva, sapendo che della prima non potevo disporre in maniera diretta - quasi si trattasse di una scheggia impazzita della mia psiche, essa era al di fuori di ogni controllo. La fantasia positiva, invece, era determinata - consapevolmente - dalla coscienza razionale, tuttora (almeno in parte) attiva e vigile.

Si può paragonare quell'attività al processo di rimozione dell'IO nei confronti dei materiali "indesiderati"? A me sembra essere lo stesso meccanismo, ma attivato all'inverso. Anziché alleggerire la coscienza di una realtà (per essa) temibile, si sottrae la coscienza all'arbitrio della fantasia temibile.

Nel primo caso, però, l'operazione comporta la necessità dell'oblio della realtà rimossa, da parte della coscienza. Nell'altro, ciò non è necessario (infatti al risveglio ricordavo tutto con grande chiarezza), poiché la rimozione , qui, agisce su una fantasia, che non potrà più nuocere con la stessa forza di un dato reale. Alla luce del “principio di realtà”, il ricordo del fatto indesiderato si trasforma in minaccia persistente, mentre la fantasia onirica è destinata al dissolvimento.

La stessa paura di forze irrazionali, rappresentate quasi sempre sotto forma di strega (mi era stato assegnato tale soprannome da mia madre, fin dalla prima infanzia), mi alitava intorno anche nella vita reale e si materializzava nelle ore serali e nelle situazioni classiche  per le paure infantili. Fra essa e la mia psiche si instaurò presto un rapporto dialettico articolato. Leggevo e ascoltavo avidamente racconti paurosi. Fra i miei giochi preferiti (tutti più o meno vertevano sull'attività di rappresentazione: teatro, cerimonie, ecc.) c'era quello di recitare appunto la parte della strega, in scene improvvisate sul pianerottolo di casa o sulla piazzola antistante l'ingresso principale dell'edificio che la conteneva. Sembra che riuscissi ad apparire così "cattiva" da spingere la mia amichetta (l'unica con cui la situazione abitativa del tempo mi consentiva di avere rapporti quotidiani) a scappare urlando di terrore alla vista della mia faccia teatralmente atteggiata.

D'altro canto - forse in una fase appena più matura - lottavo contro tali angosce, ragionando con tutta la forza della logica di cui ero capace sulla irrealtà delle forme  che ad esse davano origine.

Ricordo che un giorno (avrò avuto 8 - 9 anni), un po' prima dell'imbrunire, mi affrettavo verso casa per non farmi raggiungere dalle ombre in condizioni tanto svantaggiate: ero sola, la lunga sequenza di rampe che mi separava dal portoncino d’ingresso a quell'ora era deserta e, proprio perché mi era oltremodo familiare, sapevo che essa disponeva di anfratti o nicchie dove il nemico poteva annidarsi; a volte mi era accaduto perfino di leggere  in certi spigoli un profilo o un sembiante "da strega". Sentivo tutto il peso della mia vulnerabilità nei confronti di quel tipo di paura. Lo sentivo come fortemente inabilitante, considerato il mio temperamento vivace e notoriamente "spericolato": ero curiosa di tutto, portata a misurarmi con ogni tipo di difficoltà e ostacoli, al punto da essere considerata un problema dagli adulti di casa e del vicinato.

Ne andavo ragionando, fra me e me; mi dicevo di sapere per certo che le streghe non esistono nella realtà, e che ciò sarebbe dovuto bastare a non farmele temere. Ma giunsi alla conclusione che, sebbene le streghe non esistessero, esisteva e persisteva pur sempre la mia paura - a meno che non fosse essa pure una mia immaginazione... E che, in fondo, immaginazione poteva essere anche il dolore che sentivo nel darmi un pizzicotto, per provare a me stessa di essere un'entità reale (fisica? psichica? non ero in grado di affrontare in termini così netti una tale questione - o comunque non ricordo di averlo fatto), capace di dare vita a queste stesse fantasie. Giunsi così a una specie di "timeo ergo sum": se non fossi stata reale, ma solo un fantasma – una idea di paura generata dall'immaginazione delle streghe - chi, se non io, avrebbe immaginato la paura e il dolore del pizzicotto?

Più in là, non seppi procedere. In qualche modo presentivo come un vuoto cosmico, in cui non resterebbe che gettarsi, per spegnere in un colpo solo tutte le paure e il dolore del mondo.

Più tardi, passai alla strategia del superamento per esposizione diretta e volontaria. Ad esempio, scavalcando il cancello di un cimitero di campagna verso la mezzanotte, in seguito ad una scommessa con amici - e altre prodezze analoghe. Ma ero, credo, sui 16 anni.

 

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Riflessioni e tentativi successivi di analisi dei fenomeni psichici descritti, che agitavano la mia vita di bambina

- L'angoscia nasceva dall 'idea della strega (alla cui esistenza, peraltro, sapevo di non credere);

- “la strega", per mamma, ero io;

- mamma (pensieri latenti-inconsci?) non mi voleva tutto il bene che avrei desiderato, perché mi considerava un problema  (anche se non ero propriamente una “ribelle”);

- la mia angoscia (Angst, paura) era espressione del senso di colpa nei confronti di mamma, oppure introiettavo il suo disagio, per punirmi del mio temperamento troppo vivace?

- Nel sogno tentavo di "nascondere" (neutralizzare, depotenziare?) la paura di me stessa... la "strega" cattiva?  Per punirmi del dolore causato a mamma o per rendermi degna di tutto  il suo amore?

 [A ben riflettere, tutta la mia adolescenza e la prima giovinezza - nonché parte dell'età adulta - è stata segnata da una forte tendenza all’autonegazione - che ha assunto man mano connotazioni morali, estetiche, filosofiche, ecc.]

 

Ulteriore riflessione ( o intuizione successiva )

Uno degli elementi forti della rappresentazione onirica – il solo a non potersi dire per immagini, ma sempre fortemente presente in forma di sensazione ( propriocettiva ?) - è la difficoltà, lo sforzo della volontà necessario, la fatica che richiede ogni volta l'operazione che mi deve sottrarre alla vista del nemico. Sarebbe, questo, null’altro che l’effetto della dolorosa azione di auto-censura, necessaria a contenere (in fondo, non a eliminare del tutto, ma a rendere meno esuberante – in effetti, a nascondere, ossia “reprimere”, ), la parte di me che so essere all'origine della disapprovazione materna? Operazione faticosa proprio perché rivolta contro una parte decisamente caratterizzante della mia indole, come dimostra il fatto che essa si manifesta con tanta esuberanza?

A questo punto è legittimo il sospetto che qualche elemento traumatico, mai svelato, agisse nel mio inconscio: possibile che solo la mia vivacità di temperamento provocasse quegli atteggiamenti di mia madre, che causarono una ferita profonda, tanto da rischiare spesso vere e dolorose fratture? Di un episodio particolare ho ancora chiara memoria, ma avevo, credo, 10 anni, mentre i miei incubi erano iniziati molto prima. Tuttavia, a ben rifletterci, la questione delle varie età, per la prima volta, comincia a sembrarmi dubbia.

 

P:S: Già nel sogno l’uomo è ermeneuticus,  perché collega immagini a sensazioni e pulsioni biologiche. Nel frattempo è cambiata la concezione del sogno: da mascheratore si è trasformato in ordinatore, costruttore.

 

 

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- Letteratura

Donne e Racconto

La funzione narrativa, afferma Paul Ricoeur, è “presente nelle migliaia di culture etniche identificate dall’antropologia culturale”. L’autore che mise la narratività al centro delle sue riflessioni nel corso degli ultimi decenni in vita, lega la funzione narrativa del linguaggio alla vicenda stessa della soggettività – che l’era moderna ha prima esaltato, poi messo in questione e infine relegato nella categoria dei miti nati dal suo stesso seno. Fra i testimonial della sua visione filosofica incentrata sul racconto, egli cita Hannah Arendt e la sua Human Condition, in cui si legge che “spetta al racconto di dire ‘the identity of the who’ ”[1].

Queste riflessioni nascono dalla convinzione, maturata nel tempo, che le donne più che gli uomini siano motivate alla scrittura narrativa, perché in esse la propensione a raccontar-si assume spesso la forza di un’esigenza ineludibile – che è ricerca di identità personale mediata dal senso del proprio vissuto. Un vissuto – il cammino già percorso – che chiamiamo impropriamente passato, quasi a negargli ogni valore di effettualità. “Il passato è importante – afferma Fromm – [...] soltanto in quanto è ancora presente”.[2]Per molte esistenze, infatti, esso si trasforma in fardello che schiaccia e rende asfittici, che segna ogni passo ulteriore, che nasconde ogni possibile prospettiva su ciò che ancora può essere. Quando ciò accade, l’esistenza personale tende o a chiudersi in un isolamento che è auto-negazione e prelude a sbocchi drammatici, o a trasformarsi in un’insanabile tensione a narrarsi, che è bisogno di autogiustificazione o di legittimazione di sé, e che può portare tanto all’esito fortunato della creazione artistica quanto alla dissoluzione dello stesso sé. Almeno fino alle generazioni oggi ancora soltanto adulte. E se una ricerca seria dovesse dimostrare che la tendenza a trasformare i fatti e le sconfitte della vita in materia narrativa va perdendosi tra le generazioni successive, dovremmo prendere atto di una svolta antropologica probabilmente indotta dalla diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione, che – come tutti sappiamo – obbedisce a logiche di mercato e non di promozione umana o di sostegno dell’individuo e delle sue necessità più proprie. Del resto, come ci ricorda lo stesso Ricoeur, l’ipotesi di una possibile perdita della capacità di raccontare era già stata formulata “con sgomento”, oltre mezzo secolo prima, da Walter Benjamin nel celebre saggio Der Erzähler – in cui essa viene messa in relazione con le trasformazioni troppo rapide prodotte dall’evoluzione della tecnica, e con la perdita parallela delle comuni certezze morali. [3]

Le donne, ci sembra, per la stragrande maggioranza si raccontano ogni volta che possono. E’ una constatazione facile da farsi a partire dalla quotidianità di ciascuna. Si raccontano alle figlie, al partner, alle colleghe, alle amiche, al parrucchiere e perfino al semplice conoscente, perché in esse il raccontarsi diventa una modalità del darsi, un modo peculiare di apertura all’altro. E in questo senso implica – significa -, al tempo stesso, un’offerta di disponibilità ad accogliere in sé i racconti dell’altro, integrandoli in una rete di riferimenti e di significati, che è l’humus che ci accomuna in quanto umani.

L’attitudine a raccontare nasce, quindi, e si alimenta dalla pratica del raccontar-si, che solo a uno sguardo superficiale può apparire un puro esercizio narcisistico. Infatti, un racconto è azione e movimento e come tale richiede più soggetti, un mondo in cui possano muoversi, un tempo durante il quale le reciproche azioni producano effetti a catena, attraverso i quali se ne chiarisce il senso. E se le donne si raccontano prevalentemente ad altre donne non è per una scelta di campo consapevolmente o pregiudizialmente decisa, ma semplicemente per il fatto che si tratta proprio di un’attitudine condivisa, suscettibile di produrre effetti di scambio in cui ciascuna mette in gioco interrogativi, bisogni, dubbi e certezze, sullo sfondo di quadri di valori riconosciuti e consolidati, in una pratica di rispecchiamento reciproco che è insieme verifica e ricerca di comprensione, di riconoscimento (nel senso proprio dell’Anerkennung hegeliano) e di solidarietà. All’attitudine comunicativa che si esprime nello scambio di esperienze mediato dall’atto del raccontare si affianca, infatti, quella che forse è la motivazione più cogente a raccontar-si : la ricerca e l’affermazione di un’identità, fuori della quale l’esistenza può essere avvertita come uno scorrere di tempo privo di spessore significativo. Anche se questa è una condizione diffusa della modernità, come sembrano indicare gli esiti letterari di buona parte della narrativa del Novecento (dove il soggetto sembra dileguarsi e la trama si sfrangia a ogni tentativo di afferrarla), nelle donne – storicamente marginali nei processi di produzione, ma tuttavia legate alla incondivisibilità fondamentale dell’esperienza concreta della maternità e alla responsabilità pratica che essa comporta – il bisogno dell’affermazione di un senso profondo della vita, di cui si intuiscono naturalmente portatrici, non può che farsi imperativo.

E’ noto, inoltre, che il nostro primo approccio con la modalità narrativa del discorso avviene in relazione alle fiabe, di cui si è sempre nutrita l’infanzia. Ben prima dell’acquisizione della scrittura e della lettura, esso è mediato dall’ascolto di una “voce narrante” ante-litteram, che, tradizionalmente, è quella della nonna, della mamma, della tata. La trasmissione precoce di sensi non immediatamente avvertibili – ma che qualificano l’umano come tale – si serve quindi fin dall’inizio della forma narrativa, la quale impone il proprio marchio sulla nostra attitudine a interpretare la vita: un intrecciarsi continuo di eventi, di azioni, di capacità e di impossibilità (o passività) in cui cercare un orientamento per il nostro quotidiano muoverci fra gli altri e le cose che popolano il mondo comune.

Per Walter Benjamin raccontare, che nella sua espressione più alta raggiunge la dimensione dell’arte, è innanzi tutto “capacità di scambiare esperienze”.[4] All’origine dell’attitudine narrativa ci sarebbe quindi “l’orientamento pratico” e “la percezione della comunicabilità dell’esperienza”, come sottolinea Fabio Ciaramelli in un articolo del 1991: “La dimensione della comunicabilità viene così posta al centro dell’esperienza intesa come Erfahrung, individuando in quest’ultima [...] non già un incommensurabile accadimento della vita del singolo, ma un iniziale organizzarsi del suo vissuto, una sua prima universalizzazione nella forma del sapere pratico”.[5] Ma esperire presuppone un atteggiamento attivo, quello per cui tendiamo a dare un senso a ciò che ci ad-viene, a definirlo e dimensionarlo in rapporto alla realtà che sentiamo più nostra. Sotto il profilo della problematica di genere, occorre, in altre parole, porsi fuori – quanto meno nella percezione di sé più attenta – dal margine : uscire, innanzi tutto, dal ghetto interiore.

Secondo l’analisi di W. Benjamin, quella saggezza che ci orientava nella pratica di significazione dei fatti della vita e del mondo si ritrova disarmata e… muta, di fronte alle novità prodotte da un fare che umano è solo per via di alienazione. A partire dalle guerre, di cui egli stesso più tardi sarebbe rimasto vittima, e dal potere della tecnica, che già si andava sostituendo al fare tradizionale dell’uomo, fino alla trasformazione di quella iniziale (o potenziale) attività nel suo opposto: da soggetti di esperienza veniamo ormai inconsapevolmente trasformati in oggetti da sperimentare.

Da W. Benjamin possiamo trarre anche una prima suggestione circa la genesi di un diverso atteggiamento narrativo da parte delle donne. Nel saggio già citato, egli  distingue “due grandi tipi fondamentali” di narratori, di cui identifica gli “esponenti arcaici [...] l’uno incarnato nell’agricoltore sedentario, l’altro nel mercante navigatore”. Infatti, “chi viaggia ha molto da raccontare”, ma così anche coloro che “vivendo onestamente, sono rimasti nella loro terra e ne conoscono le storie e le tradizioni”. I due momenti generatori di racconto si sommano e si fondono nell’artigiano medievale, che è stato garzone errante e poi maestro di bottega.[6] Con uno spostamento semantico che non dovrebbe apparire del tutto arbitrario, nel mondo moderno le due categorie possono adattarsi senza troppe forzature ai due generi, previa la ri-simbolizzazione iniziale che identifichi il viaggiare col lavorare fuori – rispetto alla casa, quando non alla stessa comunità originaria di appartenenza. E se il narratore-marinaio, guerriero o predatore di beni altrui, avrà un mondo sempre più vasto di conoscenze da raccontare, Benjamin ci dice che “ai residenti appartiene piuttosto il passato”.[7]

Passato che determina il presente, o semplicemente passato come scrigno di memorie da custodire e tramandare, per perpetuare il vincolo di appartenenza reciproca fra le generazioni. E per potervi cercare, all’occorrenza, le ragioni di una resistenza ad oltranza contro l’oblìo di quelle “leggi non scritte, ma infallibili”, sulle quali l’umanità è cresciuta e la co-appartenenza si è consolidata. E’ questo il compito che le donne assolvono attraverso la pulsione narrativa: alla ricerca di un senso specifico per la propria esistenza individuale e ponendosi ogni volta in una prospettiva di auto-identificazione, come singoli soggetti portatori di significatività universalmente riconoscibili.

Teresa Nastri