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Fabrizio Bregoli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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L’ora di Pascoli / The hour of Pascoli

La silloge “L’ora di Pascoli” di Massimo Parolini è in realtà un long poem deliberatamente articolato in una serie di brevi composizioni-frammenti che sviluppandosi e intersecandosi fra di loro generano un intreccio essenzialmente onirico che ha come protagonista la figura di Giovanni Pascoli. In effetti il poema è costruito partendo da rilevanti citazioni e prestiti da testi pascoliani che vengono interpolati e sviluppati da versi originali con la paternità di Parolini i quali entrano in punta di piedi, quasi come voce fuori campo o esegesi in versi delle composizioni pascoliane che restano il filo conduttore dominante: c’è una logica di servizio alla tradizione poetica che emerge con evidenza e che non è se non encomiabile, soprattutto in tempi come i nostri in cui il narcisismo poetico spesso tocca livelli imbarazzanti e autolesivi. Qui invece l’autore (Parolini) preferisce fungere da regista quasi in ombra, senza protagonismi confermati anche dallo spirito di collaborazione evidente da cui quest’opera letteraria nasce.

Il libro è a tutti gli effetti un lavoro collettivo che vede coinvolti oltre a Parolini una seconda poeta e un artista figurativo. Il libro unisce ai versi di Parolini testi in traduzione in lingua inglese a cura della storica dell’arte Francesca Diano, studiosa di folklore e tradizioni orali irlandesi, oltre che traduttrice abituale di testi letterari e poetici del mondo anglofono, la quale svolge un’azione pregevole di versione poetica con difficoltà e asperità non comuni (si pensi in particolare alle onomatopee e ai termini gergali spesso impiegati da Pascoli e ricalcati da Parolini consapevolmente nel testo), e i disegni dell’artista Pietro Verdini, che si caratterizzano per un’atmosfera onirica e a tratti fiabesca che si combinano perfettamente al milieu dei versi di Parolini e di Pascoli: la prevalenza degli elementi cromatici in blu e in nero ci ricordano in particolare quelle “voci di tenebra azzurra” così care al Pascoli, voci che, nella sua celebre poesia “La mia sera”, alludono appunto al bisogno di ricongiunzione con la figura materna, alla regressione infantile, alla culla.

L’idea che sta alla base del poema è infatti la riunione del nido pascoliano, figura dominante della poesia di Zvanì, con una sorta di incantesimo o esperimento di viaggio nel tempo grazie al quale i membri della famiglia pascoliana, divisi dalla serie di eventi tragici e violenti ben noti che porterà molti di loro alla morte in giovane età, possono finalmente ricongiungersi sotto lo stesso tetto, attorno alla tavola imbandita che li accoglie finalmente uniti e pacificati, perché in definitiva “il sogno è l’infinita ombra del Vero”. È un viaggio onirico, possibile grazie alla facoltà incantatoria del verso, quello che ci viene prospettato da Parolini, con evidente violazione di qualunque nesso causale di tipo spazio-temporale, in uno di quei prodigi che solo la poesia può permettere. Qui trovano casa tutti gli elementi distintivi e caratteristici del mondo pascoliano (dai versi onomatopeici degli uccelli alle ambientazioni appenniniche e montane, dal mito del desco a quello del focolare domestico, dal rito della tessitura a quello della buona cucina romagnola con i suoi passatelli in brodo, la presenza partecipe della natura in tutte le sue forme animali e vegetali) combinati in un gioco verbale di citazioni e di incastri, quasi di cortocircuiti semantici che consentono che tutto questo avvenga. Ma non c’è solo il Pascoli domestico e familiare, quello più noto agli studenti, come avviene per la naturale impostazione dei corsi di letteratura a scuola, sia essa la scuola primaria o superiore, ma c’è anche il Pascoli poeta cosmico, quello del “cupo vortice di mondi”, della “profondità dell’infinito abisso” che ci inghiotte, con i suoi versi che ci ricordano come l’uomo sia un’entità trascurabile, addirittura irrilevante, rispetto alla vastità dell’universo, alla moltitudine delle galassie, alle regole ignote che presiedono alla combinazione e ricombinazione degli atomi. La ricongiunzione del nido pascoliano con i suoi componenti nella forma di spettri, che solo per la loro presenza fantasmatica possono fra di loro comunicare e finalmente intendersi, è, da un lato allusa come esperienza onirica, dall’altro come una sorta di incantesimo-esperimento a cui sottendono anche basi di tipo scientifico, il che porta Parolini a legare Pascoli a altre figure come Padre Ernetti, Turing, Fermi, Maiorana, anch’esse a vario titolo esploratrici della reale natura del tempo e del cosmo e delle relazioni che lo connettono alla realtà così come la percepiamo. I versi di Pascoli diventano così parole “in viaggio” “come foglie e farfalle, / fra onde chiare e onde scure / in ammassi galassie.” Il segreto che sta alla base della ricongiunzione è la forza del ricordo, la capacità riparatrice della memoria, il cemento coesivo degli affetti di chi si ama veramente: solo così si fa luce “nella penombra della propria vita”.

A Parolini, come un esegeta alchemico della parola pascoliana, spetta nel suo poema riunire ciò che si è disperso, rabberciare le faglie che dividono fra di loro i mondi, ritrovare il nesso fra gli affetti che innaturalmente sono stati costretti a dividersi e quindi ricostituire “la traccia infuocata della tua [riferito a Pascoli] poesia”. Non è quindi un’operazione nostalgica o un esercizio di stile che anima questa impresa poetica ma si tratta di ritrovare l’amuleto montaliano per arginare il vuoto che grava sulle vite “senza più alito, senza più peso”, strappate al loro “nido di musco”, rimedio affinché “ogni membro si unisc[a] / col suo ramo nel canto”. Da qui il monito finale, con cui si chiude il libro, di una sobrietà disarmante, ma lucida:

 

Sogniamo insieme.

Amiamoci. Non c’è altro

al mondo, Tutto il resto

è silenzio.

 

e, in contrappasso con Verlaine, pure lui molto amato da Pascoli, è proprio per questo che serve la letteratura (quella vera, non quella della falsa arte poetica).

 



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Il nome di mia madre

 

Andrea Castrovinci Zenna sceglie per il proprio esordio in poesia una raccolta estremamente compatta, tutta centrata sulla figura della madre scomparsa a causa di una malattia improvvisa e fortemente debilitante, e struttura il suo lavoro in un’ampia narrazione in versi che traccia una sorta di cronistoria dalla scoperta drammatica della malattia passando per la scomparsa della madre, mentre si trova sola in una stanza d’ospedale, fino ai giorni dell’elaborazione – necessaria – del lutto: percorso in realtà che viene evidenziato in tutta la sua complessità, nell’impossibilità di superare un dolore che tale rimane, con evidenza insopprimibile. All’autore va sicuramente riconosciuto il coraggio di avere affrontato una tematica estremamente personale, scegliendo di condividerla con il lettore, puntando evidentemente a quel processo di mimesi da parte del lettore grazie alla forte partecipazione emotiva che situazioni di questo tipo – drammaticamente reali – spontaneamente inducono. E Castrovinci riesce indubbiamente nell’intento del coinvolgimento: il tema della perdita è alla radice stessa della parola poetica, è il termine con il quale è impossibile non confrontarsi, il nodo ineludibile da cui nasce la scrittura in versi.

Chiunque, nel corso della vita, attraversa esperienze ripetute di perdita delle persone amate, degli amici, di persone verso cui si ha un debito di affetto; chiunque conosce quel senso di frattura, spesso immedicabile, che deriva da questa perdita e per questo ha la possibilità di un rispecchiamento immediato nella poesia che tratta questo grumo irrisolto. È chiaro che quando questa esperienza riguarda la madre assistiamo all’ulteriore complicazione dovuta allo smarrimento della figura primaria per eccellenza: il dramma della perdita si congiunge strettamente al tema del ricongiungimento impossibile al nucleo dell’origine, da cui si viene a forza sottratti, allontanati. Questa idea di sradicamento e di disorientamento nel poter condurre ancora la propria vita, lungo un percorso di senso compiuto e equilibrato, bene emerge dai versi di Castrovinci, che mette a nudo i moti più nascosti e sinceri della sua interiorità, ma senza mai essere impudico o scontato. Scavo in profondità, evidenza degli affetti, senso dell’abbandono sono gli elementi fondamentali del libro. La loro strutturazione è consapevole, condotta con appropriatezza di mezzi.

L’autore dimostra inoltre una puntuale padronanza degli strumenti tecnici della poesia, scegliendo di impiegare forme e strutture metriche della tradizione letteraria più consolidata (incluso il sonetto, presente addirittura nella forma caudata o nella forma meno canonica del sonetto in settenari), per il resto preferendo combinazioni di endecasillabi con settenari sciolti variamente o liberamente rimati o con assonanze nel solco della lezione leopardiana. Il riferimento alla tradizione e l’impronta fondamentalmente classicistica della sua poesia si evidenzia anche dalla scelta dei versi in esergo che fanno per lo più riferimento a Pascoli, D’Annunzio e Carducci. Della sperimentazione novecentesca, della inquietudine o del salutare “disordine” della nuova poesia contemporanea si trovano poche o rarissime tracce; l’autore punta invece a una maggiore adesione alla tradizione tardo-ottocentesca e primo-novecentesca in parte osservata anche nell’uso di un linguaggio arcaizzante (ricco di apocopi, termini desueti o ricercati, iperbati, inversioni latineggianti), a tratti con un gusto crepuscolare: si tratta insomma di una scelta anti-contemporanea che viene espressamente rivendicata, forse frutto di una formazione poetica tradizionale che – l’autore ci lascia intendere – deriva direttamente dalla scuola della madre, insegnante di lettere. L’uso di questa forma espressiva vuole essere quindi anche una sorta di omaggio alla figura della madre, un voler rivolgersi a lei con il linguaggio che amava: argomento che depone a favore della scelta intrapresa. C’è quindi una precisa consapevolezza anche quando si usa una letterarietà evidente (nel riferimento a topoi della tradizione lirica del passato, come ad esempio avviene per il frequente riferimento a elementi naturali, in alcuni casi ritratti in modo molto idealizzato), in altri casi la forma colta viene ibridata con  l’impiego di un linguaggio più fresco che, dove viene fruttuosamente impiegato (con inserti colloquiali o tratti dalla vita quotidiana), dà esiti - a nostro avviso - più riusciti, convincenti.

Riportiamo un testo per esemplificare quanto argomentato finora:

 

Il giorno dei morti

 

“Gemmea l’aria il sole…”

No. Non è chiaro, affatto, questo giorno:

perdono i platani foglie sul lucido

asfalto e l’acero arrossa caduco;

i fiori notturni schiudonsi stanchi,

greve e la pioggia che plumbea grigisce:

vana illusione d’una primavera,

vano sognare quel tempo che c’era;

 

Romba la pioggia, scroscia la bufera;

giorno dei morti, mutilo mi trovi,

esile e pallido come un lenzuolo

pallido e magro, solo, solo, solo.

Novembre sei gelido come

a chi resta dei morti non resta

nient’altro che un nome.

 

Concludendo, è naturale che un’opera prima contenga al proprio interno quella componente di emulazione dei propri maestri, quella messa a fuoco, magari non sempre precisa, ma che l’esperienza saprà dosare e combinare con maggiore equilibrio. In ogni caso è apprezzabile l’idea che sottende alla coesione interna dell’opera, la capacità di indagine interiore e di colloquio con la propria solitudine che bene emergono e inducono empatia nel lettore. È innegabile l’autenticità della dizione, così come la passione sincera per il verso, il volersi mettere al suo servizio. E questo è senz’altro un valore importante, da coltivare in poesia.



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Exit in fiamme

 

“Exit in Fiamme”, il nuovo romanzo di Luigi Balocchi, è ambientato in una Milano di un imprecisato futuro, dominata dalle holding finanziarie che si servono della tecnologia per asservire e anestetizzare la coscienza civile, la capacità di discernimento delle persone (o ciò che ne resta), il tutto per un unico scopo, il più antico di tutti: fare profitto, tanto più che lo stesso ufficio stampa del Comune è diventato SìProfitCenter, con l’unica funzione di favorire gli abusi finanziari dei potentati economici e i loro nuovi business (cibo a base di insetti, giardini di banani e palme, speculazioni edilizie, visori multimediali, prostituzione legalizzata, droghe sintetiche). Siamo nel tempo di una civiltà sulla soglia dell’abisso: la città ha ormai completamente invaso la pianura desertificandola, non esistono tracce residue di natura (se non mostruose), il clima ha avuto un totale sconvolgimento e Milano si trova alla latitudine di un nuovo tropico del Cancro che ha reso l’aria irrespirabile: una miscela di sabbia, rifiuti, afa e veleni. La città ha assunto la forma di una selva urbana dominata dall’abuso, dall’immondizia, dalla violenza gratuita, dalla prepotenza di tutti su tutti, dal ricorso al suicidio come unica via di fuga; interi palazzi prima e interi quartieri poi, perfino le persone prendono misteriosamente fuoco, per autocombustione: il tutto a rappresentare simbolicamente il sopraggiungere della fine dei tempi, in un rogo finale che possa distruggere e al tempo stesso redimere, sterminandola, un’umanità incapace di un rapporto che non sia predatorio nei confronti della natura, della propria civiltà.

In questa atmosfera surreale, eppure drammaticamente inquietante, si muove il protagonista Ludovico Tacca, giornalista in un mondo in cui l’informazione ha come unico compito sedare e blandire chiunque, impedire un confronto critico con la realtà; ma il Tacca ha mantenuto qualche residuo di autodeterminazione, di giudizio critico verso il sistema, che lo spinge a un tentativo di sabotaggio: decide di alterare gli articoli in uscita sul giornale, riscrivendoli in un linguaggio tutto infarcito di non-sense, castronerie, stupidaggini. Questo è il nucleo fondativo da cui si dipana l’azione del romanzo. Per ironia della sorte, in un mondo a rovescio, il gesto che si sarebbe pensato causa di non si sa quali duri provvedimenti censori, messa sotto accusa, condanna, diventa invece il trampolino di lancio per un avanzamento di carriera del Tacca: quel linguaggio astruso e ridicolo è proprio la “neolingua” di cui la società necessita, perché funzionale a veicolare quell’informazione, tutta pubblicità e niente contenuto, che l’ordine costituito identifica come cogente. Di qui l’adesione entusiastica della gente comune che in questa pseudo-lingua si identifica estaticamente, finalmente può respirare l’aria pura che gli manca. Balocchi ci ricorda così come in una società che è venuta meno a qualunque ideale, a un senso etico del mondo, è prima di tutto la lingua a snaturarsi, a diventare involucro vuoto, slogan. Tacca diventa artefice del nuovo linguaggio, complice, a sua insaputa, del sistema, suo utile idiota, motore di quella macchina di autodistruzione che non può se non portare alla rovina definitiva.

In realtà, con un improvviso colpo di scena, che non è nostra intenzione rivelare per non sottrarre al lettore il gusto della lettura e della sorpresa, negli ultimi capitoli la prospettiva del romanzo subisce un interessante testacoda, l’orizzonte temporale della narrazione viene riscritto: il presente, per il lettore già di per sé futuro surreale, diventa un “tempo virtuale”, il centro di un esperimento di cui il protagonista è, inconsapevolmente, cavia, anzi per sua stessa scelta vittima sacrificale, manipolazione spazio-temporale. Ma come spesso accade, quanto sembra essere immaginazione, ipotesi semplicemente supposta, si scopre poi essere fortemente radicata nella realtà, destino già di per sé scritto. I tempi sono maturi, l’annunciata apocalisse è già alle porte.

Quanto colpisce maggiormente nel romanzo, aldilà della godibilità oggettiva della lettura, delle trovate fantasiose che popolano le pagine, del ritmo incalzante che suscita curiosità e attesa e spinge il lettore a procedere di capitolo in capitolo (e questo è di per sé sempre un importante pregio in un romanzo, in cui la componente narrativa ha deciso di non abdicare al suo ruolo), quanto colpisce davvero – dicevamo – è la lingua, originalissima. E in ogni scrittura è lo stile a fare davvero la differenza, soprattutto per il lettore esigente che non crede in una letteratura “di consumo” che spesso è sinonimo di letteratura “mordi-e-fuggi”, a obsolescenza programmata. Balocchi sceglie un linguaggio di rottura, anti-convenzionale che è un pastiche di termini colloquiali, lombardismi, dialetto, gergo tecnologico, non-sense e calembour, calco biblico-profetico, slogan, linguaggi software, grammelot, il tutto combinato in una miscela linguistica davvero esplosiva, vivace, tutta sua. È il suo stile, coerente con quello dei suoi interventi come redattore del blog “Niederngasse” che ha il merito di averlo fra i suoi collaboratori. È uno stile che risente molto anche della sua pratica, non occasionale, della poesia: in certo periodare breve o brevissimo, prevalentemente paratattico, addirittura con proposizioni nominali, nel controllo del ritmo, nel ricorso alle immagini con funzione di simbolo o allegoria, c’è tutta la formazione (e la personalità) del poeta che dà valore e ricchezza alla sua scrittura. Balocchi però è anche consapevole delle peculiarità di genere che un romanzo prescrive e non cade nella trappola di fare poesia in prosa o prosa poetica: la sua è una lingua tutta azione, dinamismo, capace di farsi intreccio, storia, personaggi. Il lettore vi si immerge a capofitto, raccoglie il guanto di sfida che il romanzo gli lancia.

È una forte presa di posizione etica quella che ci invita a compiere il romanzo di Balocchi, ambientato in un futuro immaginario, reso parossisticamente, ma troppo vicino al nostro presente per lasciarci indifferenti, non indurci a un rispecchiamento e a un esame di coscienza. Più che un romanzo distopico, come qualcuno lo ha definito, è un romanzo umanista in senso lato, ecologista in senso proprio, perché ci invita a recuperare il valore dell’equilibrio uomo-natura-mondo, che è alla base di ogni società giusta, democratica nell’accezione autentica del termine: insomma, la società in cui si spererebbe di poter vivere.

 

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Versi Pelle

 

“Versi Pelle” è la prima raccolta poetica edita del giovane autore Luigi Scala, classe 1984. Come testimoniato dalla prefazione di Tomaso Kemeny e ribadito nella postfazione di Chicca Morone, Scala fa riferimento al movimento poetico del mitomodernismo fondato dallo stesso Kemeny, insieme a Giuseppe Conte e Stefano Zecchi, nel 1994, anno del manifesto che rivendica il diritto di cittadinanza, nella contemporaneità, alla Bellezza come strumento necessario a una rinascita etica, all’insegna del ruolo eroico, eretico ed erotico della poesia che va riscoperto nella valenza universale del mito, nella ricostituzione del rapporto originario fra uomo e mondo.

È in questo sostrato culturale che nasce la poesia di Scala, tutta intrisa di riferimenti classici e mitologici, talvolta anche atteggiata nella ricerca del termine desueto e forbito, per generare “meraviglia” nell’accezione di Marino (citato in una poesia). Certo il tema mitologico consente a Scala riuscite di pregio come nel caso della poesia “Gorgone”, così icastica nelle sue due quartine, preziose nella scelta lessicale: “pupille / d’algente melagrana”, “acquario d’indaco corallo”, “gli scatti del capo anguicrinito”, per dare una resa plastica, dinamica al suo verso. Tuttavia si ha sempre la sensazione di un distacco ironico, a tratti parodico e sarcastico, da questa classicità ostentata, quasi una presa di coscienza del ruolo già completamente assolto da certa letterarietà che ha fatto il proprio tempo, che viene qui esibita fino a portarla a un punto di non ritorno, all’ammissione della frattura fra il suo linguaggio e il mondo.

Non a caso la poesia d’apertura si riferisce all’autore come a chi “barcolla spesso sulle gambe incerte”, i suoi versi sono “vagito” e “gorgogliante ritornello” (un tono vicino a certo crepuscolarismo, come in Corazzini), fino alla chiusa desublimizzante in cui si dice “anche gli angeli possono inciampare”, con evidente scatto ironico. L’uso quindi di tutto questo armamentario aulico, il citazionismo dotto, il linguaggio a tratti arcaizzante, sono una specie di difesa dall’affronto del mondo, al poeta difetta “la possente corazza / di cui è rivestita soltanto / la massa degli anonimi mortali”. Mondo tuttavia che non viene subìto, ma può essere tenuto a distanza, arginato dalla restituzione integrale alla poesia, nel suo ruolo appunto mitomodernista: “della normalità non so che fare, / la lascio agli impiegati della vita.” La fiducia nel ruolo della poesia non è tuttavia incondizionato e ingenuamente fideistico, la poesia è un esercizio duro di introspezione e confronto con il mondo, che non permette fughe edeniche in vagheggiate “età dell’oro” se “il falsario andare dei secoli / l’avrà dannato in vile metallo”: ecco il compito bene individuato, ossia lavorare questa materia inerte e restituirla a dignità attraverso la parola, che può naturalmente incespicare, cadere in vicoli ciechi, ingannarsi e contraddirsi, ma sa che occorre “andare avanti, / col vento controcorrente”.

Non è un percorso né facile né lineare quello della poesia di Luigi Scala, il cui libro può certo soffrire di alcuni dei limiti tipici di un’opera prima (una certa sperimentazione non sempre perfettamente organizzata, l’imitazione dei maestri, la tentazione a spendersi su una molteplicità di temi e motivi non sempre omogenei, la stratificazione della scrittura con esiti estetici anche dissonanti, certo imputabile al processo di crescita della scrittura stessa), ma sicuramente è identificabile una linea ben definita, capace di rielaborare il materiale della tradizione con un accento personale. Crediamo che questa scrittura risulti più convincente dove, deposta la corazza protettiva della lingua iper-letteraria e i temi della tradizione, si affida a una vena più ironica, a tratti tagliente e sarcastica, quando denuncia “quell’amore indifferente / comprato a tranci o a pacchetti / nel mercato del consumo del niente” o la “nostra società infartuata” o le “bocche avvilenti” nel “magma del lessico quotidiano”. Questo trova conferma anche nella parte centrale del libro dove si accampa una sorta di canzoniere, a tratti paradossale e parodico, quasi un gioco surreale di schermaglie, ricatti, disillusioni, con affastellamento di immagini stranianti, con un gusto tutto barocco della decadenza e dell’eccesso che altro non sono che lo specchio di una visione problematica e traumatica dell’esistenza, quindi quanto di più lontano esista dal classicismo di retroguardia.

C’è quindi da sperare che, nella consapevolezza di questa prima prova senz’altro positiva, Luigi Scala possa dare sempre più sviluppo e corpo a questa sua vena dissacrante, radical-chic, ironicamente saputo (ma mai supponente), base di una scrittura che, come si richiede a ogni poeta, lo possa sempre più rendere interprete consapevole del suo tempo, capace di restituire al lettore lo “stupore del mondo”.

 

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A margine

 

Confrontarsi con la poesia di Ivan Fedeli significa entrare in un mondo tutto suo, fortemente connotato sia a livello tematico sia a livello stilistico, che lo rendono inequivocabilmente identificabile, segno di un percorso poetico di grande coerenza, applicazione, autenticità della scrittura. Anche in questo libro troveremo quindi molte delle ambientazioni dell’autore con le quali siamo abituati a confrontarci, per lo meno nella sua più recente produzione, come ad esempio i pendolari dei tram milanesi con la loro “novanta”, i campetti di calcio alla periferia cittadina, il cielo “a voce alta” che si mostra tra i “palazzoni” di cemento: tutti gli elementi di un’umanità semplice che proprio grazie a questa sua ordinarietà sa trasmettere quell’embrione di senso che permette a Fedeli di trasformare elementi, che ai più potrebbero solo passare come insignificanti, nel suo riuscito e convincente universo poetico. Ritroveremo anche lo stile, che è una cifra poetica distintiva di Fedeli, che si affida al verso della tradizione per eccellenza, l’endecasillabo, da lui rimodulato nel corso degli anni in verso efficacemente narrativo. Ecco allora l’inserto di elementi della lingua parlata e colloquiale, la suddivisione del periodo sintattico in più versi, fra cui si instaurano enjambement vertiginosi quasi a voler replicare l’andamento naturale del parlato e renderlo così più vivo, le violazioni d’accento (di terza, di quinta) che servono a evitare la melopea a favore della concretezza prosodica, la calibrazione precisa della punteggiatura o, all’opposto, la sua omissione per accelerare il ritmo, le inversioni a effetto e gli anacoluti che riproducono la ricchezza del linguaggio di ogni giorno.

Cerchiamo però di chiarire anche le novità che ci è dato identificare in questo “A margine”, che è un libro in cui è possibile riscontrare anche importanti deviazioni o evoluzioni rispetto a un percorso di scrittura che, come si è detto, si è sviluppato con continuità e passione negli anni. Allo scopo ci avvarremo di alcune considerazioni che, solo apparentemente, sembrano esulare dall’analisi testuale e dalla critica letteraria “ortodossa”.

In algebra lineare esiste un procedimento denominato “diagonalizzazione” che consiste nel ricondurre una matrice, mediante una trasformazione lineare, a una matrice diagonale simile, dello stesso ordine della matrice di partenza. Tale processo è possibile solo a patto che gli autovalori della matrice rispondano a determinate condizioni, dette appunto di diagonalizzabilità. Identificare questi autovalori è come risalire, metaforicamente, alle radici costitutive della matrice, grazie alle quali è possibile ricavarne una rappresentazione semplificata, ma nella sua essenzialità altamente rappresentativa, quasi un condensato di significati. Ecco: credo si possa dire che Ivan Fedeli in questo nuovo lavoro proceda alla diagonalizzazione di tutta una serie di tematiche e procedimenti tecnico-formali che qui vengono sintetizzati e portati a maturazione definitiva, per restituirli al lettore in una resa poetica altamente concentrata. È in un qualche modo un libro che rappresenta la sintesi (e il punto di non ritorno) per questo autore, che immaginiamo che da qui possa ripartire per proporsi nei lavori futuri con linfa che inevitabilmente ne risulterà completamente rinnovata (e ne abbiamo già evidenza dagli inediti più recenti). 

Se lo si vuole analizzare da altra prospettiva, forse più accessibile a chi meno esperto di algebra lineare e più familiare con la geometria, è come se in questo libro il mondo tridimensionale, plasticamente reso nei precedenti lavori, venisse scomposto nelle sue proiezioni ortogonali, per dare evidenza maggiore al dettaglio, scandagliarlo, estrarne quell’ulteriore significato che va approfondito e offerto al lettore, la “meraviglia” che resta ancora da dire. Ne deriva quindi una poesia che scava maggiormente in profondità, mette a nudo il nervo scoperto, unisce alla classica terza persona narrativa di Fedeli anche riflessioni in prima persona o in seconda persona dialogante (il “tu falsovero dei poeti”?), affiora maggiormente la sfera autobiografica: è come se una poesia già di per sé fortemente personale, sempre improntata alla vita reale osservata e metabolizzata poeticamente, diventasse più intima, più intensamente esistenziale (nella direzione di quel Sartre ai cui occhiali l’autore ha voluto dedicare il titolo di uno dei suoi libri recenti). Stiamo assistendo, al contempo, da parte di Fedeli, a un attraversamento ortogonale della sua produzione poetica per intersecare gli elementi più vivi della sua produzione, offrirceli al massimo grado della loro espressività. Insomma siamo ritornati “sulla strada di Zenna”, per scoprirla fonte di nuovi stimoli creativi.

Questo nuovo Fedeli allora è capace di affascinarci con la rappresentazione, a tratti ironica a tratti malinconica, della nuova “fauna” da social network, “la nostra solitudine di massa” in cerca di una propria “appartenenza”, fosse anche semplicemente la raccolta dei like per il post di una torta fatta in casa, innestando nella sua poesia una nuova pregnanza e concretezza che va ad intercettare questa nuova istanza della contemporaneità. Insieme a questo troviamo però anche ambientazioni più crepuscolari (nell’accezione nobile del termine) ed elegiache, come nella sezione “Il mare dei poveri”, un mare d’inverno con “il suo onore da bassa stagione”, in cui si affiancano alla desolazione del paesaggio (“lattine di Fanta”, “bottiglie in plastica”, “mozziconi”) quei piccoli gesti d’amore dei protagonisti, che diventano il rimedio per porre un argine al tempo, alla sua mola onnivora, perché “così si protegge il mondo”. E questa riflessione sul passare degli anni trova ulteriore conferma nella sezione “L’amore imperfetto”, dove a essere rappresentato è l’amore in età matura o senile, quel suo resistere con piccoli atti quotidiani, attenzioni minime che aiutano però a preservarlo, difenderlo: “e non si fatica a darsi la mano / arrossendo appena, come dopo una / bugia ai tuoi al ginnasio”[…] “quei fogli / dove scrivi sarà per sempre e ancora / ci pensi e ridi sapendo che è vero”.

Di particolare pregio e forte impatto emotivo è, in particolare, la sezione “La copertina rossa”, dedicata al figlio Riccardo, “figlio / del mondo figlio mio”, che sta imparando a scrivere e che deve quindi familiarizzarsi con le regole dell’ortografia e della grammatica: ne nasce una riflessione profonda, mai banale, sul ruolo del linguaggio, la sua capacità di farsi interprete dell’uomo e del mondo. È anche una dichiarazione di poetica che Fedeli ci porge, una visione della scrittura come mezzo per esprimere l’autenticità, indagare il mondo con consapevolezza etica: “Scrivere è poi vivere si sa”, “l’idea / che un mondo intero stia in un foglio / di carta”, “Scrivi ciò che vedi così ti dicono / quasi ci fosse nel vedere un senso / compiuto”. In questi versi si manifesta quel senso di stupore verso la vita, che è compito della poesia esprimere, e si trasmette così di padre in figlio, semplicemente: “Va così la poesia / che è la vita, serve accoglierla e basta, / meravigliosamente, perché sta / nella meraviglia l’uomo, il divenire”.

Molto si potrebbe dire ancora, analizzando i testi nel dettaglio, ricchi come sono di ottimi versi capaci di indurre a riflettere, emozionare; la consegna alla brevità che una nota di lettura richiede impone tuttavia di rimandare al lettore un loro approfondimento, nel suo “a tu per tu” con la pagina scritta.

Concludendo, Ivan Fedeli conferma con questo nuovo libro la sua indiscutibile capacità di trasformare ogni piccolo accadimento, l’irrilevanza dei fatti minimi della quotidianità in materiale straordinario e ricco di valore, come se sapesse mettere a denominatore, in un’immaginaria frazione algebrica, un numero infinitesimo e in virtù di questa operazione amplificarlo, potenziarlo e rivelarne la grandezza nascosta al lettore. Leggere la poesia di Ivan Fedeli ci fa credere (o almeno sperare) che il nostro mondo sia o possa essere migliore, che la vita, nonostante tutto, abbia la forza di riscattarsi e di riscattarci, “per quelli che saranno qui / chissà quando a ereditare la terra”. E in questi nostri tempi di omologazione, mercificazione, nichilismo e utilitarismo imperanti, non è poco offrire al lettore una poesia come questa, che fa della sua raffinata semplicità e della sua perizia stilistica lo strumento per un messaggio di speranza, mai retorico, ma sempre a misura d’uomo, come “un segreto / duro ben oltre ciò che siamo dentro / da custodire a lungo come spesso / accade a chi desidera, a chi spera”.

 

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Di padre in padre

 

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
Parleranno.

 

dice Vittorio Sereni nella splendida poesia “La spiaggia” con cui si chiude il suo “Gli strumenti umani”, quel Sereni che viene anche citato dalla Gabrielleschi in esergo al suo libro. Credo che questi versi bene possano introdurre a questo “Di padre in padre”, opera di un’autrice matura e consapevole dei suo strumenti (in questo caso stilistici, ma ancora prima umani), un libro che si presenta con discrezione, a bassa voce, senza però cadere nell’intimismo o in una privatezza di dizione che porterebbe ad una autosufficienza consolatoria, ma come una testimonianza (senz’altro di amore, quello che non ha confine che lo possa arginare) di quell’universale che è rappresentato dal rapporto fra padre e figlia, quell’ancestralità biologica che ci accompagna dalla nascita e che è alla radice di ogni altra scelta futura. Esistono altre questioni che come questa si possano davvero dire ultime? Non è forse in questo nucleo primigenio la ragione della poesia?

Nella generale tendenza di molti autori contemporanei a cercare la strada della visibilità a tutti i costi, l’eccezionalità dei temi e della forma, la Gabrielleschi sceglie la riservatezza, la compostezza del dire, senza inutili ostentazioni o eccessi. Ne nasce un poema in frammenti, in parte diario a-cronologico in parte libro d’ore tutto laico, in cui il dramma della perdita si condensa in un registro stilistico asciutto e al tempo stesso denso, che non cede mai al patetico o alla melopea ma sceglie la strada del linguaggio frontale, secco.

 

Non viene solo da dentro

la voce che si alza

oltre il limite notturno

e abbraccia le ombre.

Per chi come me

non sa pregare

è il grido secolare

che agevola il viaggio

e porta veloce

verso l’ultima forma.


La maggior parte dei testi è breve, raramente eccede i dieci versi, con strofa singola, per lo più in verso libero ma estremamente calibrato dal punto di vista ritmico, punteggiatura ridotta all’indispensabile, millesimato l’impiego delle metafore, l’enjambement solo uno strumento per regolare il respiro, sintonizzarlo sul significato. È la pregnanza del messaggio ad articolare la voce; ciò che più preme è questo esprimere il senso della frattura immedicabile che non può quindi dispiegare alcun canto, ma piuttosto una partitura sinfonica naturalmente franta, come è proprio della vita nel suo compiersi. Il senso del ricongiungimento impossibile, l’impossibile reversibilità dell’accadere sono temi conduttori più volte dominanti nei testi, così come il senso di una perpetua e inalterabile regressione allo stato infantile da cui non si è mai davvero usciti, perché lì è avvenuta la crepa prima, la radice del dire.

 

Se sapessi il tuo indirizzo

non ti lascerei pensare, arriverei

sudata, sporca, in pantofole

o anche nuda, sicuramente intera.

 

Ogni tentativo di istituire compensazioni è un puro palliativo, impossibile ogni riscatto identitario:

 

tu sempre assente nei risvegli

io tra braccia sconosciute

e la fatica di essere un volto

di anno in anno

di padre in padre.

 

La vita di ogni giorno diventa una sequenza terribile di risposte inevase, la persistenza lacerante del dubbio causata dal dramma dell’assenza.

 

Non saprò mai

se qualcuno avrà cura di te

se io sono motivo del tuo orgoglio.

 

[…]

Da vent’anni non taglio i capelli

dormo male

il telefono ha smesso di squillare

in sogno tutti i volti

si assomigliano.

Perché te ne sei andato?

 

Crescere in fondo è un concetto puramente biologico, l’età è un affare che compete solo all’anagrafe dei vivi, alla sua vuota burocrazia: in definitiva si rimane l’ipostasi degli attimi imprescindibili del nostro cammino, la spoglia di chi ci ha lasciato. Così il nostro destino è rimanere eternamente fragili, incompiuti, in tutto diversi tranne che nella matrice insanabile che si annida dentro di noi e che ci obbliga a rimanere sempre piccoli, inadeguati forse.

 

Non è uguale la casa

e nemmeno il mio viso

il cuore piccolo

come allora.

 

[…]

E attraverso la stanza

sento gridare il mio nome

tu sei morto

sarò piccola per sempre?

 

Il libro procede attraverso questa accumulazione di frammenti, in un climax ascendente e ben orchestrato, alternando riflessioni intime a esposizione di nugae che tuttavia acquisiscono un forte concentrato di significato e necessità, rievocazioni memoriali che non sono mai nostalgiche ma assunzione di responsabilità verso la vita, il tutto strutturato come una sorta di personalissimo xenia, omaggio mai retorico a un bene che va preservato, di cui la poesia solo può farsi tramite cercando di essere traghetto anziché scialuppa di salvataggio.

 

Io non parlo la vostra lingua

vengo da un altro regno

la mia passione è aprire le porte

alzare le soglie

perdere le cose

per avere più spazio.

Ho mani nervose

nessuno paga per queste mani

o per quello che dico.

Ma tutti pagheremo la stessa moneta

per essere traghettati in un letto

da uno sconosciuto.

 

E il senso della poesia sta in questo attendere incondizionatamente, su una spiaggia o in un gran caffè poco importa, ascoltare l’eco sepolta, coltivare quelle toppe d’inesistenza per renderla speranza. Così si chiude questo viaggio di anno in anno, di padre in padre:

 

La signora in tailleur bleu

seduta gambe accavallate

al gran caffè di Simo

(gran caffè gran caffè)

 

e aspetta. Aspetta

aspetta.

 

 

*

Gli anelli di Saturno

 

Titolo misterioso questo “Gli anelli di Saturno” che Fernando Della Posta ha voluto dare alla sua nuova silloge poetica, lanciando al lettore una evidente sfida interpretativa, forse con l’intenzione di lasciare aperta la prospettiva di molteplici chiavi di lettura, possibilità che viene confermata dalla totale assenza di riferimenti di tipo astronomico o anche solo lontanamente attinenti al significato o alla simbologia che comunemente si tende ad associare a Saturno.  Forse sta nella eterogeneità delle formule espressive che l’autore sceglie all’interno della silloge un possibile appiglio per la comprensione: assistiamo infatti a una disseminazione di significati che, come i milioni di frammenti che formano gli anelli del pianeta dall’asse inclinato (ulteriore indizio perché il lettore adotti un piano obliquo d’osservazione, ossia fuori dagli schemi convenuti?) tocca al lettore portare a un centro di gravitazione-interpretazione, introiettando la materia poetica che l’autore gli sottopone.

La raccolta comprende infatti soluzioni poetiche multiformi che vanno dalla poesia-pensiero alla intimistica, dalla poesia scaturita dalle “occasioni” minime (quasi nugae) a quella scritta alla maniera dei maestri, dalla poesia scaturita da aneddoti di vita vissuta a quella autoriferita o metalinguistica; se è possibile individuare un fattore comune è la tensione etica di fondo, l’idea di una radice comune dell’essere umani che per mezzo della poesia va riscoperta per portare a una nuova condivisione, tutta laica, senza fughe trascendentali, ma come accettazione di una compartecipe fragilità ontologica di per sé insopprimibile (vedi foglia tra le foglie).

Per comprendere la modalità espressiva dell’autore, la sua cifra stilistica, si consideri la poesia Metalinguistica di genere riportata integralmente, a nostro giudizio fra le più incisive

 

L’apostrofo l’accorgimento

ulteriore, il segno di un’offesa

commessa altrove.

Costola di Adamo

che indica lo strappo

la mancanza, l’applicazione

di un lenimento

su una ferita che non c’è mai stata.

 

È qui evidente la modalità, frequentemente riscontrabile nella silloge, dello scarto o sfondamento semantico, ossia il trasferimento da un contesto semantico (il piano linguistico-ortografico, ossia l’uso dell’apostrofo in una elisione per indicare il genere femminile) a un altro (il piano etico-sociale, dove questa elisione diviene percezione di uno strappo, evidenza di quella frattura fra i generi che ancora nella società contemporanea non è stata adeguatamente colmata): con questo procedimento, dettagli minimi diventano sottili suggestioni che inducono a compiere un passo oltre, riscoprire un piano ulteriore del linguaggio aldilà di quello immediatamente percepibile.

In questo modo, la poesia di Della Posta fa di questa essenzialità, a tratti sentenziosa, ma mai moraleggiante, la propria firma d’autore, a favore di una dizione sempre precisa ed essenziale, parsimoniosa a livello di figure retoriche per lo più ridotte a una centralità metonimica che guida le singole composizioni. È una poesia dell’argomentare, strutturata secondo un’architettura guidata da un’esigenza intrinseca di razionalità, che vuole costruire, senza per questo essere vacuamente edificante: ogni richiamo all’etica condivisa, compiuto per exempla, ha tutta la sobrietà che dà evidenza del suo messaggio per naturale missione a dire, come l’autore ci ricorda nella poesia Szymborskiana

 

Scrivere è ritrovarsi in una casa altra

votarsi naturalmente ad essa

rassettare tutte le sue stanze

con l’ottimismo della tigre:

l’inconsapevolezza che tratta incautamente

tutte le consapevolezze.

 

Ma il gesto si fa sempre più controllato

e l’edificio necessita d’interventi

sempre più particolareggiati,

o forse le crepe danno troppa luce.

 

Gli stessi omaggi ai grandi maestri, da Leopardi a Proust, da Pessoa a Pavese fino al non dichiarato (ma citato) Eliot, oltre a porsi come evidenti prove di stile, sono anche dichiarazioni esplicite di affinità nella poetica, dediche affettuose e sincere che servono a contestualizzare e personalizzare la propria. Alla tradizione si unisce poi qualche sana diversione (quelle che vivificano la poesia) come certi termini concretissimi (burraco, drink, cacciare un soldo, bretella metropolitana), l’inserimento di riferimenti alla musica elettronica e alternativa (Marlene Kuntz, Fatboy Slim) o come per l’istituzione di un’insolita analogia fra punk e poesia (giocosamente indicato come treat or trick?)

 

Il punk vero non è punk. Solo quando è vero, è poesia.

La sua motivazione è un grande inganno

ma un inganno assestato col cuore.

 

L’autore ci parla, come s’intitola una sezione del libro, dallo spazio profondo, dalla zona dell’errore che si annida nella nostra interiorità per indurci a un riequilibrio delle scelte, così che basti il lancio, armonico / rispettoso del dettato del mondo per una riorganizzazione valoriale del vissuto, prima personale e interiore, quindi collettivo e universale. Questa necessità della poesia come apertura verso l’altro (inteso anche come il nostro inconosciuto da riscoprire) è quindi il vero filo conduttore della raccolta come viene anche ribadito dalla poesia in chiusura: smascherare il nostro doppio inconfessabile, quello che ci porta alle scelte sbagliate, ad allontanarci da quella solidarietà e comprensione che è alla radice del nostro essere uomini.

 

Non è chiaro mai

quanto gli altri ci nascondano

e spesso noi non siamo altro

che l’altro di noi stessi.

 

Il doppelganger è un gioco di spirali

fumose. Fortunato è chi

al suo apice

gli spicca un bacio.

 

*

Beccodilepre

 

Sergio Gallo propone con il suo ultimo libro “Beccodilepre”  sia una selezione di poesie tratte dai suoi precedenti lavori sia un nucleo di poesie inedite, unite dal tema conduttore della montagna, che è quindi il motivo centrale della raccolta che permea di sé le diverse composizioni, suddivise in sezioni che alludono ad un processo di discesa dalla vetta alla base, quasi a voler alludere a un cammino di ricerca che sembra voler procedere a rovescio, partire dall’alto per ritornare al sostrato materico delle cose, alla loro radice. Un lavoro che è dunque sia summa del percorso poetico intrapreso dall’autore dai primi lavori della maturità ad oggi, sia sua verifica per potere da qui ripartire (così pensiamo) e forse accogliere la sfida per affrontare nuove strade che sono l’ossigeno necessario ad ogni poesia che aspiri a un suo organico divenire.

Sergio Gallo, in completa coerenza con una scelta di poetica netta e determinata, è più che mai in questa sua ultima raccolta poeta della natura, intesa come physis, organismo pulsante a cui serve dare voce, perché questa è l’unica possibilità che resta all’uomo per rimediare ai propri errori, restituirsi a un legame organico con l’universo che lo ospita. La natura ci trasmette segnali inequivocabili di questo scollamento: tocca all’uomo colmare questa misura che altrimenti lo porterà all’abisso.

 

Ecco risuona lo squittio delle marmotte,

suadenti verticali sentinelle.

Avvertono della presenza d’un pericolo.

 

Ascoltiamo il grido d’allarme

dei paffuti roditori:

siamo noi, quel pericolo.

 

E per veicolare questo messaggio forte, che è prima di tutto una presa di posizione etica senza titubanze, Sergio Gallo, forte della sua competenza scientifica che spazia dalla botanica alla mineralogia, dalla zoologia alla epistemologia, dalla geologia all’astronomia, sceglie di ricorrere ad una poesia esplicita, dal linguaggio diretto e a tratti quasi narrativo, ma tenendo sempre alto il livello della scelta lessicale che è ricca di termini tecnici, di un suo idioletto scientifico personalissimo che ne rappresenta la cifra personale e distintiva. Citiamo a titolo esemplificativo:

 

[…] ma tra sassifraghe, arabette

timi, felci, santoregge attenti

ricercare la rara bellezza

dell’ofride dei fuchi, dei fior

di ragno, odorare i profumi

del giglio martagone,

 

della nigritella purpurea;

in tempi di pace subire

l’assedio dei flebotomi, […]

 

I maestri di riferimento di Sergio Gallo, di cui egli stesso non fa segreto, sono quei poeti da Lucrezio fino a Zanzotto e Bacchini, o più recentemente Galluccio, De Alberti, Maggiani, che usano il linguaggio e i temi della scienza come nuova linfa per la materia poetica, e Gallo ne fa tesoro per elaborare una sua poesia personale, fortemente radicata nella ricerca del termine esatto e specifico, circostanziato e chirurgico, senza eccedere però in un vacuo tecnicismo, mantenendosi fedele a un bisogno di dire, conscio nel ruolo della parola come atto di trasformazione che è in grado di rinnovare pensiero e azione.

 

Per quante forme di resistenza

possiamo mettere in atto, testimoni siamo

d’una Caporetto dello spirito.

 

Armi o libri per ricominciare?

 

Poesia dunque come farmaco, cura necessaria (e farmacista lo è per davvero Sergio Gallo, da lunghi anni coltivando la sua professione in stretto connubio con la passione per la poesia). Altrimenti detto, la poesia di Sergio Gallo è una ambiziosa commistione di modernità e classicismo, di terminologia scientifica e improvvisi scatti lirici, di descrizione puntuale ed efficaci chiuse gnomiche, quasi sapienziali. A titolo di esempio nella poesia “Farfalle d’alta quota”, alla descrizione precisa delle varie specie dei lepidotteri, condotta con la spietata denotazione del gergo zoologico, come era consuetudine di alcuni poeti tardo-latini abbellire le proprie poesie con parti in grassetto o in minio o creare figure geometriche per esaltare versi o singole parole all’interno dei versi, Gallo sceglie di evidenziare alcune vocali in grassetto e di suddividere la poesia  in quartine allineate a due a due e sparse sulla pagina a mimare i colori delle ali delle farfalle e il volo delle stesse, con un piacevole e tuttavia sobrio effetto visivo (nell’idea di una poesia da vedere prima ancora che da ascoltare). Nella sua poesia non mancano però anche gli echi dei grandi mistici, della antica poesia sacra, perché esplorare le ragioni della Natura presuppone un’ascesi che va aldilà della dizione razionale; è questa la vena più sperimentale ed eversiva della poesia di Gallo.

 

Shaykh, quando sarò pronto per la terra di Nessundove?

quando sarò pronto per la terra di Nessundove?

sarò pronto per la terra di Nessundove?

pronto per la terra di Nessundove?

per la terra di Nessundove?

terra di Nessundove?

Nessundove?

dove?

 

E questa vena trova una riuscita perfetta anche nelle prose poetiche del libro, dove abbandonata la necessità della versificazione, il suo dire il mistero assume toni di riuscita concretezza, filosofia della parola, come ne “Il custode” con protagonista l’angelo della morte che smembra il corpo del poeta distribuendone le parti ai diversi esseri viventi, fino a ritrovarsi solamente l’anima orfana, non reclamata da nessuno, quasi reietta. E così chiude Gallo la pregevole prosa poetica:

 

L’angelo nero che s’era inginocchiato in segno di reverenza, gettò lo sguardo sul piccolo onisco che subito s’appallottolò, per estremo pudore; sarebbe stato lui insieme con la Madre Terra il custode dell’anima del poeta.

 

La poesia di Gallo procede per ampie partiture descrittive, elencazioni forbite di elementi naturali, associazioni sinestetiche, stratificazioni sensoriali allo scopo di sollecitare la capacità immaginativa del lettore con il fine di consentirgli l’inserimento in questo prodigioso “teatro naturale”, farlo sentire una sua parte, dare evidenza di quel grande spettacolo multiforme e imprevedibile che solo la natura può offrire. L’obiettivo è ricordare al lettore la necessità di questa riunione con le ragioni essenziali del cosmo, visto come tutto interdipendente, il recupero di un equilibrio simbiotico fra l’uomo e gli altri esseri viventi che la moderna civiltà tecnologica ha pericolosamente smarrito. E simbolo fondamentale di questa aspirazione, e suo monito, è proprio la montagna, descritta nella sua concreta fisicità, nelle avversità che essa oppone alla sua scalata, nella trasformazione preoccupante a cui è stata condotta dalle colpevoli alterazioni indotte dall’uomo, ma anche come simbolo della inesauribile volontà dell’uomo di trascendere sé stesso, di un possibile riscatto, perché la montagna può inchiodare l’uomo alla constatazione delle sua insita fragilità, perché è il luogo dello spirito in cui può essere ritrovato il valore del silenzio, proprio come avviene per la poesia (“Le montagne: idoli in sgretolamento”, “dove il respiro degli dèi / più si confonde / alle tracce degli uomini”, “Un passo oltre, la voragine è rimasta ad attenderci”)

La raccolta si chiude infatti con una semplice ma efficace similitudine fra la scalata della montagna e la necessità di scalare la parola come funzione principe della pratica poetica, innalzare il linguaggio (viene da ricordare il “Vola alta parola” di Luzi) a causa efficiente della trasformazione, della restituzione dell’uomo al suo autentico sé.

 

Una buona parola occorre

                                                  cercare, una valida idea

esser in grado d’afferrare

                                                 che siano appiglio sicuro,

gradino, puntello, maniglia

                                                naturale fenditura

su cui fare appoggio

                                              nella verticale progressione.

[…]

Dagli abissi più indicibili

                                             con un balzo elevarsi

alle vette più spettacolari.

 

In conclusione, Sergio Gallo continua dunque a perseguire una sua via coerente, lontana dalla strada maestra di molta poesia contemporanea, dimostrando di non voler rinunciare alla sua specificità stilistica per assecondare certi cliché in voga, rimanendo così fedele alla missione di una poesia che non vuole stupire, ma esporre con misura, argomentare pacatamente, spronare il lettore a una sincera introspezione per una salutare restituzione a uno stato di natura che è la sua autentica casa. E Sergio Gallo sceglie la poesia come casa comune, ponte da tendere, ma anche vetta da raggiungere, con scabra e pervicace verità, quella che non tollera compiacimenti e compromissioni.

 

*

La coscienza del tempo

 

È un lucido disincanto a permeare questa nuova raccolta di versi di Filippo Ravizza, la coscienza storica del rivolgimento e dell’implosione delle grandi ideologie, e quindi dei valori guida che hanno animato il secolo breve a dominare questi versi accalorati ed espliciti, spesso dalla cadenza oratoria o affabulatoria, che non temono mai di farsi anche verso-pensiero, meditazione filosofica sul senso del trascorrere e dell’esistere, la fiducia “in uno spazio finalmente creato / dal pensiero”. L’autore non esita dunque a impiegare una terminologia, che potrebbe parere a molti datata, superata dai fatti, ribadendo con energia e decisione valori come comunità, socialismo, uguaglianza, giustizia, che sembrano essersi ormai ridotti nella società del nuovo millennio solo all’ombra del loro nome. Bene si intuisce la personalità dell’autore dai versi di questa silloge, la sua solida cultura umanistica che ha sempre creduto nel valore del cosmopolitismo, dello scambio culturale fra i popoli, nell’idea di un’Europa condivisa che sia un’opportunità per le genti che ne avrebbero dovuto realizzare l’idea fattiva. Urge tuttavia ricorrere, come nella proposizione precedente, al condizionale, alla constatazione di un’ipotesi storica incompiuta: il disfacimento delle ideologie ha portato all’affermazione di un falso edonismo neo-capitalistico, “nuova età di mezzo” dove l’unica stella polare è l’accumulazione della ricchezza, il soddisfacimento del superfluo, quel mondo a rovescio contro cui Ravizza non teme di contrapporsi, con la fierezza di versi senza compromessi, impossibilitati a una bonaria accondiscendenza. Ci ricorda infatti Ravizza, citando il titolo della sua precedente silloge, “è nelle radici di questo nostro / secolo fragile e incerto il vento / l’alba del mondo che nascerà / domani.”, sempre consapevole che il cammino è faticosamente incerto, ma occorre ancora crederlo possibile “un / uomo nuovo persona felice di / essere comunità” e solo questo merita di essere tramandato ai figli, alle future generazioni, perché le basi su cui poggia la nostra contemporanea ingiusta società sono d’argilla, l’unico finale che ci si può attendere è il loro sgretolarsi:

 

[…] ti lascio, figlia, nelle

mani di chi ha vinto la battaglia

del futuro… per qualche decennio

almeno, per qualche decennio

ancora padrone del nostro destino;

ma non per sempre, non per sempre

io credo.

 

E ancora

 

Qui forse rinasce la Storia…

tu vedi ora come scava

sotterraneo la condizione

della propria morte

il potere del denaro.

 

Rovina dunque e palingenesi (“un ponte intravisto nella notte”) che si mescolano inestricabilmente in un dire poetico asciutto, che rinuncia a sorprendere con metafore o ardite analogie, ma si serve della capacità comunicativa e argomentativa del linguaggio per articolare la denuncia, prospettare possibili vie d’uscita da un pensiero unico sempre più dominante. E questo sempre con “occhi asciutti” dice Ravizza, ricordandoci lo Sbarbaro di Pianissimo, e non lui soltanto, perché in certe iterazioni insistenti con valore rafforzativo e ritmico ci sembra di leggere un evidente influsso di Sereni (e questo confrontarsi con la Storia unisce Ravizza anche all’ultimo coriaceo Raboni), oltre al Luzi di “Nel magma” che è presente in alcuni esiti di tipo dialogico, quasi monologanti, come in questi versi

 

“L’uguaglianza di cui parlavi…”

- “parlo”, vi ho interrotto –

“di cui parli, non è mai stata

data, non sarà mai data…”

Vi ho voltato la schiena, un

dolore mi ha costretto dentro

camminando pensavo “o poesia,

poesia, strenua forza, unica

unica forza” come un pazzo

 

Sono questi espedienti retorici a dare dinamismo alla raccolta, a permettere il coinvolgimento attivo del lettore, che diventa parte in causa, interlocutore silenzioso, ma non muto, a cui queste domande vengono poste, perché agiscano in profondità fino a scuoterlo da una pericolosa letargia ed assuefazione allo status quo: e la poesia, in questa ripetizione “o poesia, / poesia” che ricorda a rovescio il leopardiano “o natura, o natura…”, viene ribadita come unica verità praticabile, forza di rottura. Gli anni possono disperdersi, evaporare, ma non muore l’idea profonda che gli uomini vi hanno saputo imprimere, come ci ricorda Ravizza in questi versi, dolorosi ed al contempo aperti alla speranza:

 

[…] “Tutto è impossibile,

ma tu ricordati, ricorda il desiderio

offeso del tuo pur mutilato amare”.

 

Questa non è però poesia che si arresta all’enunciazione, per quanto incisiva, di un pensiero, ma che crede fermamente nella capacità del pensiero di rendersi e doversi eticamente rendere azione, per non scadere colpevolmente a “rassegnata scienza”, quella che ci trattiene a capofitto nel baratro, perché è più semplice accettare la deriva in un oceano che sembra indomabile, anziché cercare di resistere alla devastante azione delle sue onde (quelle contro cui lottano le “nuove migrazioni”). Ecco allora anche i riferimenti continui a Hegel, alla sua visione che crede la Storia il concretarsi dell’Idea, il cammino incessante della Ragione che vuole oltrepassare se stessa, perché “si potesse toccare, sì toccare, / spingere un poco almeno più / in là l’idea, l’esperienza terribile, / vera, della totalità.”, perseguire così la ricerca di “una diversa verità” in cui sia il rispetto dell’uomo la priorità autentica, il ritorno alla dimensione dello Spirito.

Un libro vero, scritto da chi ha vissuto in prima persona certi sviluppi storici recenti, “La coscienza del tempo”, eventi di cui traccia un provvisorio bilancio, senza la pretesa di offrirne una chiave di lettura universale, ma come vuole la poesia aprire prospettive interpretative e sproni cognitivi al lettore. In questi giorni in cui si discute sulla scelta del Ministero di sopprimere la traccia storica nella prima prova scritta dell’Esame di Stato (la nostra vecchia e cara Maturità… altri tempi, quelli), credo che approcciare la lettura di un libro in cui la storia e poesia si intessono quasi come in una matrice organicamente pulsante, ci possa essere utile a capire che la Storia se non magistra vitae – come si assumeva in certo assolutismo pedagogico – per lo meno ci può essere proficua per evitare la ripetizione degli stessi, estenuanti errori (primo fra tutti ridurre la cultura a utilitarismo asettico, anziché formazione delle coscienze). Al poeta spetta solo scriverne, in silenzio, raccolto nella misura breve del verso, lasciarlo animare le coscienze. Spegnere la luce, sparire.

 

e levigare pietre e ostacoli superare

i mulinelli della Storia sapere ancora

una volta che qualcuno ricorderà

chi fummo noi… e poi spegnere la luce

deporre la matita, affidare al silenzio

alla carta le parole intere.

*

La perizia della goccia

 

Gutta cavat lapidem, sostenevano gli antichi latini, a voler descrivere, con quella sintesi espressiva che è loro propria, come fosse la pazienza, esercitata con instancabile attenzione, giorno dopo giorno, a consentire il raggiungimento dei traguardi più insperati e ardui. Il bel titolo “La perizia della goccia” dell’opera prima di Canaletti fa pensare immediatamente a questo motto: in questo caso la goccia è la forza improvvisa con cui scaturisce la poesia, la parola che chiede di essere detta, farsi verso, e la perizia è la necessità di saperla coltivare, prima di tutto nella propria interiorità, allevarla per poterle dare una cifra personale, lasciarle costruire uno spazio in cui rendersi compiuta. Nel caso dell’autore questa perizia porta a una forma poetica molto densa, fatta di brevi periodi con quasi esclusiva presenza della paratassi, concentrazione espressiva, un andamento per lo più discorsivo con alcuni salti lirico-semantici che introducono un effetto di sorpresa sul lettore. Il profilo della scrittura è sempre pacato e riflessivo, un atteggiamento di composta esposizione cui fa da richiamo anche l’espediente di fare iniziare ogni nuovo periodo dopo il punto sempre con la lettera minuscola, quasi a voler indicare che sono le piccole cose, non gridate e non ostentate, le sole a cui serve dare la giusta misura sulla pagina, a poter aspirare alla prospettiva del verso.

A dominare questa poesia sono le esperienze concrete, il relazionarsi con e nel mondo, come è chiaro fin dai primi versi. È l’uomo che si confronta con il ciclo delle stagioni, il trascorrere inesorabile del suo tempo individuale e cosmico, e Canaletti ce ne parla fra figure di pescatori indomiti, fedeli al mare, spiagge all’alba, donne di riviera che scatenano prodigi insospettati con un accenno lezioso, paesaggi di neve e brina che ci preparano al “grande gelo”

 

la notte rimbocca

lo stradello bianco di fiocchi

 

e selciato. è una cura continua

la perizia della goccia

che scivola sul prato.

 

Ma sono anche i catramisti che con la fatica del loro lavoro, mentre tutti dormono, sanno spianare nuove strade che domani saranno inondate da luce insospettabile, trasversale (come la poesia sa fare in definitiva con le parole, dando loro un senso nuovo). Così Canaletti scrive in una, a nostro giudizio, delle sue poesie più riuscite, in cui i termini tecnici (come “catramisti”, “finitrici”) si combinano efficacemente all’afflato lirico, smorzandolo e dandogli terrigna concretezza

 

mi ricordano il lavoro

dei catramisti, e nessuno

è più vicino a dio di loro

 

quando scavano e rivangano il terreno

delle strade.

quando imprecano sotto il sole

e sulle finitrici.

 

abbandonati ai loro cristi.

 

le vie del cielo sono

le vie della terra, solo

 

con meno secoli di storia.

 

E tutto sta a saper accettare questo ordine sancito dalla ripetizione incessante, la terra dove la legge del cielo sa replicarsi, e così saper dire “vedi Neno com’è docile l’addio / questo avvolgersi nel tempo?”, come nella sobria e commovente poesia dedicata al nonno.

Se è il vissuto la materia prima su cui è possibile costruire una poesia che sia davvero onesta, credo che Canaletti ne dia evidenza in tutto il libro ed in particolare nella sezione “Suite del sisma” in cui l’esperienza traumatica del terremoto viene strutturata in una partitura essenziale, mai indulgente a cadute elegiache o sentimentalistiche, in cui persone e cose in modo simbiotico si fanno uguale parte del dramma. Così la scossa, la prima, ad annunciare un’iterazione sempre più tragica, viene declinata in tutte le sue varianti sonore nella prima poesia della sezione, in cui si assiste a un crescendo da “sussulto”, “boato”, “vibrazione”, “sberla” fino alla sintesi espressionistica di “petardo in piena notte”, con quegli sprazzi di luce che illuminano l’impensabile, un mondo sconvolto fatto di “cere di santi, tavoli grandi / e dipinti pesanti alla parete”, e ancora “la chitarra all’angolo della stanza / senza fodera. tutto è nudo.” come se gli oggetti stessi diventassero testimoni, anche l’inanimato si facesse specchio dell’ineluttabile che accade. I versi diventano allora descrittivi, occorre che la cronaca nuda dei fatti prenda la parola, che da sola spieghi l’impronunciabile e gli oggetti si antropomorfizzano, vivono essi stessi la paura e lo sgomento delle persone che li attorniano:

 

il letto e le pareti tremano

gl’oggetti passeggiano per la stanza

ci schiacciamo all’angolo del portante

il soffitto si muove come costole

al singhiozzo.

 

Gli uomini perdono la loro individualità, per scoprirsi una comunità ricostituita, in cui è necessario fare cerchio comune contro il male, sapendosi certamente imbelli nella connaturata fragilità di esseri biologicamente determinati

 

Eppure lì siamo attaccati

fino alle midolla, ossa contro ossa

in un abbraccio che sbriciola gli arti

e senza armi aspettiamo insieme.

 

per quanto  ogni punto di riferimento sembri crollare, ogni fede vacillare: anche i suoi simboli ne vengono scossi e stravolti, il cielo si rovescia, rovina  sugli uomini e sulle cose

 

cadono i santi, i quadri d’alti prelati

il cristo in legno sulla croce

il cielo ci piomba dentro.

 

e quindi l’epilogo, il tentativo quasi impossibile di un ritorno alla vita qual era prima, dove alle case si sono ora sostituite le autovetture, quei loro bivacchi minimi incapaci di offrire una vera protezione, e tuttavia unici scudi contro il buio. E l’uomo stesso è goccia nello sconquasso degli elementi, si è disperso e ora si trova al fondo ultimo della sua precarietà di cui è pienamente cosciente.

 

camera con vista

la chiamano, i più ironici

di noi. è un’utilitaria gialla

con i vetri opachi di condensa

e ci dormono in tre almeno.

 

tutti siamo scivolati tra le pareti

come gocce che perdono dai tubi

e ora siamo raccolti nei bacini

delle auto. Immobili

tremiamo.

 

Ed ecco lo splendido ossimoro che chiude la suite, di particolare pregnanza semantica: da un lato l’immobilità come impossibilità ad agire e cambiare un corso immodificabile e tuttavia il tremare come incapacità di sostenerla, questa immobilità che scuote le radici di ciò che siamo.

L’elemento comune ai testi della raccolta è la capacità di Canaletti di osservare il mondo con occhi fermi, scandagliarlo ed appropriarsene per valorizzarne quei dettagli che, interiorizzati, divengono personale dizione poetica, anche quando “questo sembra mi sia donato / il ricordo che devasta la memoria.” o ancora in una dichiarazione di poetica esemplare “sai, tentiamo il bordo delle cose / aspettando il sospiro dell’alba.”. Ecco allora “Impressioni” o ancora “Pellicola muta”, un trittico dove la poesia diventa ripresa cinematografica per dire il silenzio, l’irrepetibilità degli istanti che restano unici, soprattutto per quel poco che sanno valere, fossero anche solo rumore d’acqua (e ancora ritorna quell’elemento acquatico che attraversa tutta la raccolta, l’acqua come elemento primordiale alla maniera di Talete, il solo che sa permeare di poesia la realtà, scavandola goccia a goccia)

 

immagina la camera

a spalla, come nei film

che ami tanto. inquadratura

traballante delle mani

mentre lavi i piedi. senza

musica, il rumore dell’acqua.

potrebbe essere la nostra sera

una come tante, poco forse

per quel che vale.

 

La poesia di Canaletti sa procedere con garbo e al tempo stesso essere incisiva, senza mai ostentare, alzare la voce. Ed è con questa leggerezza che Canaletti riesce ne “I primi anni di vita” a parlarci d’amore, venendo meno ai consigli che Rilke avrebbe dato a un giovane poeta come lui, e lo fa in modo personale, senza deliqui, ma con un immaginario poetico personale, come in questi versi

 

ai vecchi lampioni

le vene ricordano le nervature

stanche delle foglie, sai quelle

gonfie e verdi

 

te le appoggio sull’addome tiepido

come tracciandoti un sentiero.

 

E le prime esperienze d’amore sono descritte con efficacia di senso, nella sincerità che ci si aspetta in un’età come la sua, dove l’amore è prima di tutto scoperta, di sé ancora prima che dell’altro.

 

ho provato l’amore

in un angolo di strada.

stringevo con le dita

la corteccia della notte

aperta sul mio smarrimento. […]

 

[…] era rosso

il nero, il silenzio

un luce di faro sorda sul mare.

 

la prima volta, come la creazione

fu un gioco da bambini.

 

Ciò che svanisce lascia il segno indelebile delle esperienze che meritavano di essere vissute perché è nel loro consumarsi che hanno tracciato tutta la misura del loro restare. L’addio è l’impossibilità di sovvertire la congiunzione, fosse durata anche solo un attimo, perché sopravvivervi è cogliere e introiettarne tutta la sostanza più autentica. Con i versi di Canaletti diremmo, citando da diverse poesie della sezione

 

non

siamo nulla

 

fuori da questa

memoria. […]

 

bastarsi, non

bastarci mai.[…]

 

e furono solo

i primi passi, un secolo fa

e qualche mese poi.

forse i migliori […]

 

E così, senza punto, decide di chiudere la sua raccolta Canaletti, lasciandoci sperare che questo sia solo il suo primo capitolo lasciato in sospeso, che presto torni a farci dono dei suoi versi (come è richiesto al poeta autentico di cui Piersanti dice nella prefazione).



*

In che luce cadranno

 

Eleggere a tema di una silloge poetica il mondo dei morti, visto come una comunità sui generis a mezzo fra l’utopico e l’escatologico, è senz’altro tentativo ambizioso, che come tale va misurato, con tutti i rischi che questo può comportare se sceglie di diventare materia poetica. Il giovane poeta Galloni si cimenta in un’impresa che ha una serie numerosa di ascendenti nella tradizione letteraria, dai più antichi fino ad alcune delle pietre miliari della poesia contemporanea, grandi maestri con i quali diventa inevitabile per Gabriele il colloquio.

 

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, - m'investe della sua forza il mare -
Parleranno.

(Vittorio Sereni)

 

Verranno

una notte inattesa e prenderanno 
possesso della città: nerastri, untuosi, 
le algose chiome
sciogliendo,
a sconvolgere verranno, per tingere,
infine, di catrame
i rami, e benzinose essenze.

(Fabio Pusterla)

 

Così a volte succede che nel buio 
si insanguini un volto, una mano 
ci implori – così c’è 
chi ignora e chi invece ha nel cuore 
la comunione dei vivi e dei morti 

(Giovanni Raboni)

 

Nel solco quindi di questa tradizione che si rivolge espressamente a un’ideale comunione dei vivi e dei morti, a un’osmosi possibile fra i due universi, Galloni sa muoversi in modo convincente con uno stile conciso ed incisivo, brevi testi di pochi versi in cui campeggia la pagina bianca ad amplificare il senso, scene che si sovrappongono fra di loro a creare un andamento poematico, una forte compattezza del testo e contribuiscono ad una complessiva  godibilità della lettura (il che non sempre è un male per la buona poesia). Un libro che si presta ad essere letto tutto d’un fiato ma capace di agire con interessanti suggestioni su quella sfera dell’inconscio che è la patria propria di ogni espressione poetica, incidendo efficacemente sulle zone d’ombra del pensiero, dove risiedono non indagati significati.

Parlare dei morti è, per paradosso, l’espediente migliore per riferirsi in realtà ai vivi, che da termine di paragone diventano, con un capovolgimento di ruoli, i veri protagonisti dello scritto. Come dice l’autore “la musica dei morti è il contrappunto / dei passi sulla terra” (questo il distico che suggella la raccolta) e sono proprio i morti a poter affidare ai vivi prospettive nuove, “le coordinate per un’altra vita”, comunicando per accenni, segnali ambigui che vanno per l’appunto decodificati dai vivi e “sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile / della conversazione.  Sanno amarci // con una mano – e l’altra all’Invisibile”. Ed è la parola il tramite autentico di questa comunione, la sua forza nel farsi nominazione e in tal modo favorire la riappropriazione del nostro spazio più autentico, come viene ben espresso in questi versi

 

Preferiscono

ricordarsi di un nome,

scomporlo in sillabe, accorgersi che è il loro.

 

L’autore non esita inoltre a ricorrere anche a trovate verbali originali come in questa singolare dissacrazione della luna, che perduto ogni connotato convenzionale e aulico di certa poesia, diventa per i morti

 

L’imitazione di un antico sesso

senza ingresso né uscita né sala

d’attesa

 

o come in questi versi d’una provocazione al contempo intelligente e spietata

 

La pornografia dei morti

è un vuoto di finestra, un passo

tra la veranda e il giardino. È quello

 

che noi sogniamo tutto il pomeriggio.

 

e la religione di questa civiltà dei morti (“l’ultima / didascalia del mondo / conosciuto”, i nuovi vivi verrebbe da auspicare) porta a scardinare ogni credo precostituito, a favore del recupero di una concreta spiritualità delle cose, a tocchi blasfema, ma necessaria

 

Ogni defunto è il santo

patrono di se stesso.

 

È un cero la sua chiesa;

e il suo altare il sesso

 

di un parente amorevole.

 

Tutto sta a saper credere che sia praticabile una strada alternativa, con la consapevolezza di dover smarrire la più ovvia, perdersi per poter ritornare, “poiché un albero, lì, è solo radici”, accresciuti di una nuova fede nell’uomo:

 

Ci basterebbe credere a una riva;

a una luce che vada scomparendo

dietro gli scogli; o che un morto riviva,

 

che si perda tornando.

 

Ed è quindi di questo colloquio fra le due rive che si parla, due rive che si rispecchiano reciprocamente per scoprirsi immagini della medesima realtà; su entrambe le rive si ricerca la stessa luce che può essere raggiunta solo attraverso la caduta, un ritorno alla verità circostanziata della vita, come bene si dice in questa poesia, da cui nasce il titolo della raccolta

 

I morti continuano a porsi

le stesse domande dei vivi:

rimangono i corsi e i ricorsi

del vivere identici sulle

due rive. In che luce cadranno

tornati alle cellule.

 

E il dire poetico di Galloni procede senza esitazioni, con una buona costruzione d’insieme, non sempre comune per un autore così giovane, che dà ottima prova di profondità ed originalità, di tenuta del ritmo, di compattezza nell’architettura dell’opera.

Pertanto mi fa piacere chiudere con questi suoi versi, come una sorta di buon augurio per il suo percorso poetico, perché la poesia è soprattutto atto di difesa della vita, creazione di uno spazio abitabile grazie alla parola.

 

Un corpo morto non è abbandonato.

Ignora – è verità – le altre creature;

ignora i diktat dell’eternità.

Ma stanne certo: un giorno tornerà

 

alla vita e avrà voce di Creatore.

 

*

Capogatto

 

“Un’incisione seria vuole - / io voglio – una morsa e un fuoco, / il rigore di un assedio, / un segno.” dice Emilia Barbato nel testo “Impoetica” quasi a voler definire una poetica nel cuore stesso di un ossimoro che le dà il titolo; forgiare la parola è identificarne il tarlo, “difetti di punzone” o ancora, come si legge in un altro testo, “Ecco, io spoglio la mente con la stessa / risoluta determinazione / con cui il fiore / di tarassaco mostra / al vento le sue nudità”.  

 

Credo che bastino questi pochi versi a lasciare intendere la direzione di un percorso poetico in cui la parola si scarnifica, abiura ad ogni compiacimento estetico fine a se stesso, per sbalzare dal foglio nella sua nudità, infliggere la grazia rude della poiein, senza compromessi. Per questo ogni esplicito riferimento autobiografico o storico è omesso, oppure appena accennato, lasciato all’intuizione del lettore, senza possibile univocità di interpretazione. Leggendo si immaginano eventi, fortemente connotati dal senso di una perdita, di una mancanza, di una sconfitta, ma sottoposti ad un potente crivello semantico che obbliga il lettore all’esperienza salutare di uno sconvolgente capogatto (nella prima accezione possibile del titolo, ossia capogiro, vertigine cognitiva) perché nell’identica dotazione di ciascuno “un corpo cade, uno vola“, tutti circoscritti in un moto a spirale: “La formazione della conchiglia/  è lenta e troppi mesi / scavano il nicchio, l’oceano / ha profondità inarrivabili per le grazie”. Tutto avviene alla luce sghemba di una resa dei conti con se stessi, spogliati di qualunque illusione o conforto, relegati come recita lo splendido titolo di una poesia in un “Inverno minore” dove “il cuore / non devi praticarlo / ha sentieri irrimediabili, / carichi di mine”.

 

 

La procedura stilistica che permea la silloge, con indiscutibile coerenza in tutti i testi, è quindi il ricorso all’ellissi, al salto logico, l’introduzione di una scena iniziale che spesso deraglia verso un finale inatteso, quadri utopici o esiti surreali, creando lo stupore nel lettore, insinuando uno straniamento che riverbera compiuto sul silenzio, sullo spazio vergine della pagina. Come sembra dire l’autrice il lettore deve saper fare spazio alla parola, poterla accogliere affinché si compia quella reazione, quella chimica necessaria; non a caso uno dei testi ha come titolo “Making room” dove si certifica “l’espansione originaria della parola / che dimentica la sua condizione / di nucleo primordiale, la sua fragilità”.

 

 

I risultati più alti del libro vengono raggiunti senz’altro nella sezione eponima, dove è evidente l’eccellenza della dizione poetica, la capacità di interiorizzazione esperienziale e trasfigurazione della stessa da parte dell’autrice, ciò che è il solo nucleo attorno a cui può attecchire una parola poetica credibile. Poesia come rigenerazione palingenetica attraverso il processo di conferimento alla terra, scerpare un ramo dalla pianta madre per farne nascere una nuova radice, la lacerazione necessaria che sola può originare la prospettiva di una nuova vita, perché occorre “far capogatto”, radicare un nuovo ganglio nel brullo dell’origine. I due poemetti “Capogatto “e “Maggio”, evidentemente fondati su due concrete esperienze traumatiche di vita, sanno creare con autenticità una dizione poetica concreta, misurata, con una padronanza di linguaggio invidiabile; e proprio questo si chiede ad un poeta, offrire al lettore un linguaggio personale per (cercare di) interpretare il mondo.

 

Riportiamo a testimonianza di quanto detto una scelta di versi emblematici dal poemetto “Capogatto” che danno il segno sul procedimento estetico e formale perseguito dall’autrice:

“modulo un vagito – attecchisco - / fuori di me schiudo / gemme, cresco una figlia”

“Recidere è il tono ubbidiente / della mia voce / all’impeto della mente / affinché il cuore, tremando, taccia.”

“conduci nella mano questo tremito di speranza, / nel calore le mie temibili muffe”

“Disponi le mie gemme dormienti / nel verso giusto”

“segno teneramente la tua corteccia / con un’impronta trasversale e una longitudinale / traccio la sacralità in cui m’innesto”

perché restituirsi a se stessi è ritornare nell’alveo sacro della vita, saper trasformare la ferita in una germinazione nuova. Questo linguaggio che attinge alla botanica ed all’agronomia, con la potenza espressiva di cui si è data evidenza, si esplica con altrettanta forza nel poemetto “Maggio” dove la natura sembra voler creare una sorta di recinto protettivo (viene in mente il Fortini di “Composita Solvantur”) dove possa consumarsi l’insensatezza delle tredici settimane a cui si accenna, lo scandire vano d’un tempo non voluto possa così essere emendato, l’ansia e la paura esauriti e cristallizzati nella memoria segnino dunque un nuovo approdo. Ecco alcuni versi significativi:

“assìepati alle spighe d’orzo, / ai silenzi dei ruderi, misura / la produttività delle tue erbe / selvatiche, la tue farine mancate”

“Nelle acque del tempo diluisci questi pigmenti / finemente macinati, i minuti, le ore / i giorni inoperosi”

“Spargi spore sulla pietra dura, fanne giardini, perché diventino / paesaggi ideali in miniatura, / tredici isole perfette di tempo”

“da tredici coroncine fertili, /un distillato lenitivo, un olio essenziale, / calma la confusione dei pensieri, / i disturbi d’ansia, la paura delle spose.”

 

Credo di poter interpretare correttamente il pensiero di Emilia, concludendo con l’idea che la poesia sia in fondo l’aspirazione ad una maturità coscienziosa in cui strappando alla vita il poco che s’intuisce poter contare, “un transito, una recondita armonia”, resta la convinzione che “sei vecchio o saggio quando / i colpi che dovrebbero piegare / insegnano bellezza, / quando desìderi restituirti ai luoghi”, “Quello che dovremmo recuperare con cautela / è il nostro modo di essere luoghi, / di raccoglierci e languire riflettendo l’aggressiva / decadenza delle cose, delle case, dei muri”, impresa in cui solo la poesia ci può soccorrere.

 

*

La saggezza degli ubriachi

 

In questo suo ultimo lavoro Stefano Vitale procede in totale coerenza con il percorso poetico e stilistico (già ben delineato ne “Il retro delle cose”) lungo i binari di una poesia-pensiero dialogante, mai oscura o ermetica, ma con il preciso intento di denudare la realtà dai finti orpelli della doxa, scavarla in profondità e con una ricerca che è anche filosofica tout court approdare a una qualche forma di precaria verità. Il vero paradosso è che questa verità attingibile ha il marchio di “una festa d’ubriachi” e consiste nel “difendere il tuo errore”, è per l’appunto “La saggezza degli ubriachi”: si permea e plasma sulle sue stesse incertezze, si regge su un connaturato disequilibrio che è al contempo unico appiglio. Il titolo non ci ricorda tanto l’adagio “in vino veritas”, troppo ovvia lettura anche se il riferimento popolareggiante non è da escludere, quanto piuttosto l’oraziano “Nunc est bibendum, nunc pede libero / pulsanda tellus”, inteso come processo liberatorio dalle costrizioni della pura razionalità conoscitiva che pare essere unica possibilità nella società moderna, a favore di un approccio di tipo pre-razionalistico volto al disvelamento dell’inganno insito nell’apoditticità del determinismo razionalistico.

Bisogna riconoscere che, capovolgendo Prospero, “Siamo fatti della materia dei nostri sbagli”, ossia siamo fermamente al centro de “La Tempesta” del vivere, e se si può conoscere è solo nella forma di “presunta Verità”. Tuttavia la strada di “godere del silenzio / dei nostri pensieri nascosti e veri” non riesce ad estrometterci dalla esigenza fallace de “la voglia di sentenze”, contraltare al linguaggio salvifico degli ubriachi che è invece – metaforicamente - il mezzo per scardinare finte certezze. In questa ottica compare a più riprese l’accenno, quasi allegorico, allo specchio che da esatta rappresentazione della realtà diventa invece “inevitabilmente deformato” strumento di conoscenza, quasi a dire che la superficie delle cose per quanto replicata fedelmente ne amplifica l’inganno (ancora più avanti “Anche gli specchi possono sbagliare / restituire ombre disfatte”, p.20 e ancora “Io sono e non mi vedo”, p.19 per arrivare a “nell’arroganza degli specchi / tutto ci sfugge e scorre a fiumi il sangue”, p.22).

Il nostro procedere nella vita, ci dice Vitale, è quindi secondo il percorso di una “folgore spezzata” o per mezzo della contraffazione scenica cui si resta soggiogati (“controfigura di me stesso / dietro le quinte”, p.19), ma questo non porta ad un’insensata desistenza perché come afferma Vitale occorre cercare “l’esatto bagliore / di un istante già dimenticato” (p.21) e “Il nostro compito è scambiare parole” (p.22), aliter la Poesia.

Altro tema d’interesse, a nostro giudizio, è la negazione del modello neopositivistico di matrice darwiniana che vede nella competizione la chiave di volta del modello sociale contemporaneo e l’unica strada per il successo personale. L’uomo è afflitto da una visione evoluzionistica dominata dalla “astuzia della Storia” ci dice Vitale, mentre “giochiamo col secchiello e la paletta / scavandoci la fossa, annoiati sorridendo” (p.28), a dominare vacuamente è “l’ansia del combattimento” per “costruire il tempo / che nessuno ancora ci ha servito” (p.37). Ad essere oggetto di demolizione poetica è dunque “L’idea della perfezione” astrattamente in voga che urta contro l’evidenza della nostra “fragranza impura” che va strenuamente difesa da questo “tarlo che rode l’occhio di legno” (p.39), e Vitale procede convintamente in questa operazione a colpi secchi di efficaci metafore associate a sentenze gnomiche di sicuro effetto come tipico del suo procedimento estetico. È la perfettibilità ad essere messa in discussione a favore di un visione della vita che va accettata nella sua innata e salutare fragilità (p.41):

 

Oltre l’indicibile resta l’agonia

del tempo che intanto tutto allevia

anche il peso dell’errore

che noi stessi siamo.

 

Il tutto viene scandito come lucido monito (si veda il martellante “Non c’è più tempo” nella poesia a p.44) e il darwinismo di ritorno viene inchiodato alle sue responsabilità e al suo vacuo messaggio (p.44)

 

perché non c’è un perché

all’ottusa malformazione

della Specie che noi siamo

 

Lo stesso avviene per il mito del progresso tecnologico nella interessante poesia “Treno che sfila” (p.51) dove l’alta velocità diventa addirittura “travaglio”, “pura illusione”, denigrato il “mito rinnovato del tempo guadagnato” mentre l’unico beneficio che offre la segregazione imposta dal viaggio (evidente il nesso con il viaggiatore cerimonioso caproniano) è la possibilità di recuperare a sé stessi il beneficio del silenzio, “la piuma” di un “sorriso”.

Questo distacco dai modelli precostituiti del razionalismo di maniera a favore della saggezza irrazionalistica degli ubriachi non conduce tuttavia al pessimismo arrendevole, ma prospetta la necessità di una visione alternativa, “alla coda dell’occhio” (p.56), ossia al margine delle cose per disvelarne un senso altro, più nascosto, negare il mondo imposto a favore di quello autentico come solo la poesia consente: “così mi giro dall’altra parte del mondo / e canto, sottovoce, canto” (p.56) – con un tono quasi da chansonnier. Si leggano a tal fine anche gli emblematici ed efficaci versi a pag.53

 

Tirar fuori dalla selva del tempo

una parola certa e precisa

[…]

per dare un senso

al silenzioso scrutarsi delle cose

 

Anche l’omaggio a Leopardi citato con il gioco del nomen-omen nella poesia Cadono in una voragine è sempre all’insegna di questo rinnovato coraggio offerto dalla poesia (p.45):

 

alziamo lo sguardo

verso le stelle, manto di leopardo,

notturno continente che tutti ci racchiude

 

e al tempo stesso (p.49)

 

Ci guida il canto

piccola ostinata intima luce

che riposa nel tabernacolo

delle nostre viscere

 

La sezione “Dal terrazzo” bene si amalgama alla logica della silloge portandoci ad una sfera più intima, dove il domestico terrazzo da cui si osserva la Natura con le sue trasformazioni ci ricorda il nostro stato di “cose tra le cose” (p.63), consci senza drammi della “intima necessità dello svanire” (p.60) riassorbiti nel cuore della Natura (p.61)

 

forma dell’Essere

incomprensibile e chiarissima

Natura

 

Troviamo qui molti versi memorabili per la loro icasticità ed asciuttezza espressiva per ricordarci che siamo “mondo che rinasce / nella pura insolenza del vivere” (p.65) e ancora “automatismo creaturale / bellezza del nostro limite / che unisce e libera” (p.64). Ci si può dunque perdere nella ebbrezza della contemplazione come per le rondini “vita ammirata / che non possiamo afferrare” (p.70) o della città fra le prime tenebre dove il paesaggio diviene varco per conoscere se stessi

 

fedele paesaggio

del mio silenzio

del mio passaggio

 

Questo processo cognitivo-contemplativo assume il suo acme nell’ultima sezione “Moments musicaux” dove a confrontarsi dialetticamente sono suono e silenzio, senso e rumore, nel tentativo di afferrare il “fermo presagio dell’eterno canto” (p. 76) o a p.78

 

quest’assenza

di noi a noi stessi

perduti nello specchio infranto del suono

 

dove si può notare ancora il riferimento allo specchio che va distrutto per restituirsi alla verità, per quanto essa sia percezione d’assenza. In fondo “Desideriamo tutti una forma” “epigrafe del tempo senza tempo” (p.81), una permanenza provvisoria al fuggire inesorabile nella “porosità del tempo”. La silloge si chiude proprio nell’urgenza del recupero del silenzio “pianissimo del Nulla / oltre il dolore” (p.85) per compensare la “ossessione scomposta della vita che ci resta” perché, crediamo di poter concludere, la saggezza degli ubriachi consiste proprio nel negarsi all’ostentazione dei tempi, ai falsi miti universalmente riconosciuti – quelli, veramente, insipienza da osteria – testamento olografo della nostra epoca.

 

 

*

L’assedio

 

L’idea di una poesia scabra, ridotta a scarnificazione assoluta per amplificarne l’intensità espressiva credo sia il disegno principe di questo nuovo lavoro di Cavallaro, condotto nel solco di una tradizione pervicacemente ed ostentatamente dichiarata, assunta a modello senza però sguaiatamente esibirla: e penso a Penna per lo stile, con la sua fulminante icasticità qui portata all’estrema conseguenza, senza finti pudori, a Pasolini per i contenuti, interprete egli di un mondo a latere che domanda spazio e trova qui accoglienza nei versi personali ed originali di Cavallaro, a certa produzione della Cavalli, con il suo minimalismo provocatorio e sapienziale. Non a caso l’autore dedica ai primi due autori versi che sono una disquisizione di poetica, oltre che un affettuoso omaggio ben concepito. Il tutto condotto con una lingua asciutta, una forma alessandrina in cui il moderno si esprime integrandosi con la compostezza, la dizione asciutta della classicità. Versi brevi, scontrosamente affabili; sempre misurati, nati dal profondo, mai superflui.

Evadere da una detenzione forzosa a vivere negli schematismi convenuti, da “L’assedio” appunto, dagli “anni oscuri e intrepidi”, è una chiave di lettura possibile di questo libro: se ciò è auspicabile, può avvenire però con il solo tramite della parola poetica, per verba, perquanto tale processo di sublimazione verso la ricerca di un nucleo stabile o per lo meno un appiglio plausibile sia percorso arduo, costellato di ostacoli (ci ricorda, impropriamente, il dantesco “trasumanar per verba”, per quanto il cammino di salvezza qui prospettato non abbia alcun sostrato spirituale. Tutt’altro). La riconciliazione fra sé e mondo passa dalla pratica empirica secondo cui il sé s’esterna nel mondo per comprenderlo, dall’intridersi con le sue radici onnipresenti ed ingombranti: “Il bene non è in ciò che si esperisce / non ciò che si congettura / ma nelle forme del dire / nelle norme del fare e del sentire.” Ma non è una ricerca che pretenda alcun approdo, se non la circostanziata evidenza di un contatto possibile, una prossimità salvifica: “Non cerco in te il bene o il male. / Solo l’integrità di chi sa poco.”

Una poesia che procede da occasioni minime che si caricano di senso nell’interiorità e divengono messaggio poetico per l’altro, improvvise illuminazioni, messa in luce appunto di scorci di vissuto, che pretendono una voce affinché “il martellare sordo / e subdolo” possa ambire a “una verità” (e si noti la pregnanza dell’articolo indeterminativo in cui si legge di per sé un’interessante dichiarazione di poetica). Trarre quindi semi di senso da una realtà confinata nel proprio abisso, da un mondo “bolla di tempesta” interpretabile a livello cognitivo ed esistenziale tramite il “prestigio d’una bugia”.

Questo percorso esperienziale non può dunque esimersi dal confronto con la vita nel suo accadere reale: di qui le numerose presenze, forse manifestazione di un unico volto ma comunque capace di sfaccettarsi nelle diverse poesie, le apparizioni che si sostanziano con gesti minimi, che si amplificano di senso, redimono. Si vedano ad esempio “l’insetto curioso”, “lo stratega” con lo sguardo “che fa dell’innocente / un subdolo gaudente” (con l’espediente della rima baciata che imprime l’immagine efficacemente nella mente del lettore), il volto dove un battito di ciglia allusivo diventa “lo scatto del rettile / che morde e si defila / come un ufficiale giudiziario” (similitudini mai banali, oggettivate con forza ed originalità), o ancora l’angelo “idolo maschile botticelliano” in un denso rovesciamento semantico.

A testimoniare questa capacità di scultura impressionistica, la capacità di cogliere in pochi versi la necessità d’un accadere, si consideri anche la brevissima “La fissità glaciale / dei suoi capezzoli furtivi / nella maglia d’ospedale”, dove in tre soli versi si traccia un’identità sfuggente, il suo compenetrarsi ad una vita. Queste figure, quasi d’angeli carnali, si stagliano espressionisticamente sulla pagina, talora con un alone di mito perduto, come nel caso dei “due dioscuri” in un’imprecisata villa patrizia, oppure di suadente sensualità quasi leziosa come per il ragazzo dal “ciuffo pubico debitamente sfoltito, / ombra d’un biondo cespo”, o ancora con fattezze metafisiche che ricordano certe atmosfere di De Chirico, con quella luce assoluta, canicola densa di mistero, come per lo sconosciuto protagonista “statico e arreso, / gemma di sabbia, / impalcatura di sale.” Reduci d’una Sicilia leggendaria che bussa alla porta, si scaraventa come un’eresia salutare sul mondo piatto e consumato della contemporaneità, chiuso “in una bolla”, asfittica verrebbe d’aggiungere.

Volendo sintetizzare è come se si ribadisse a più riprese che è la bellezza l’unica salvezza possibile, fosse anche con il tramite di un “pomeriggio d’incantamento” che scaturisce dall’imprevisto, dal fortuito per “liberarsi dai mostri dell’insonnia / e della veglia”, perché è poco ciò che davvero vale. Emblematica in tal senso la splendida poesia Mater, una delle vette dell’opera, poesia onesta e capace di colpire il lettore, con quel ritratto di una vita minima nelle sue rassicuranti consuetudini, le sole che ci possono confortare perché “ciò che oggi è dato va santificato” e ancora “noi potremo tendere la mano”, con l’efficace correlativo oggettivo delle parole crociate, quel “intersecare/ idonei sentimenti / per tirare avanti”. Poesia quindi da figlio a madre, che ha la forza di rendere partecipe il lettore trasformando la storia personale in compassione (nel valore etimologico del termine), ricordandoci che un po’ tutti siamo quel figlio di cui poco si sa comprese le “timide parentele con gli angeli”.

Questo aggrapparsi agli oggetti semplici, quasi diseredati, è un altro dei temi che più ci convincono del libro: Cavallaro li sa trasformare in simboli potenti, parola poetica, come per la Singer della nonna, “il ronzio del ventilatore” maceria buona che resta d’una persona cara, o i “ricordi incustoditi” di Francesco con la mirabile chiusa della poesia “lasciati in giro senza protezione / a coprirsi di polvere / come bottiglie di Morandi” (versi lucidi e bellissimi). Altrove gli oggetti sembrano relitti, resistenze pervicaci di cui fare poesia, come per il bonsai “scheletro ieratico” unico sopravvissuto ad un amore, o il materasso della originalissima poesia, tutto per “cavare oro dalla polvere” prima che l’assedio ci faccia suoi, ci costringa come in un’invisibile fortezza Bastiani.

A salvarci non servirà dunque una parola magica, la formula per un’assoluzione, ma il determinato resistere di ciò che sa rimanere intatto, integro e credo che questo voglia dirci Cavallaro chiudendo la silloge ancora con la figura della madre, riferimento unico a cui appellarsi, a cui credere, lei che all’avanzare degli anni ha saputo opporre il suo permanere di “fedele ragazza”. Quella ragazza in cui non è peregrino ravvedere un alter ego della poesia.

 

*

Atti di devozione

 

È possibile scrivere di un’opera di poesia a prescindere dalla conoscenza personale del suo autore, senza averne studiato ed approfondito l’esperienza di vita? A questa domanda Luigi Balocchi risponderebbe senz’altro che è la vita del poeta la chiave interpretativa necessaria per una corretta lettura dei suoi scritti e credo che nulla sia più vero nel caso del suo lavoro poetico, dove un autobiografismo – seppure mai esplicitato – serpeggia attraverso tutti i versi, sublimizzato in modo tale da non relegarlo ad esperienza strettamente personale – e quindi di scarso interesse poetico se tale rimanesse – ma materiale di effettiva condivisione con l’altro, dunque messaggio poetico.

Il Balocchi è poeta carnale, poeta dei sensi e non lo nasconde nei suoi versi dove termini come carne, corpo, pelle, sangue, gambe ricorrono più volte nei testi, quasi ossessivamente a voler ribadire che è attraverso l’esperienza del mondo che si può realmente viverlo, coglierne – ove possibile – un senso, o forse più sperabilmente una via di fuga. E il corpo è mani, piedi, cuore, fegato alla maniera di Feuerbach, ossia nella sua più autentica concretezza. Eppure questa immersione nel corpo, nella sua materialità anche più bieca e sotterranea, è quasi la pietra d’angolo necessaria ai fini di una sua redenzione, per consentire al corpo stesso di esperire la verità oltre di sé: in tal senso non credo azzardato considerare che “Atti di devozione” come titolo voglia alludere ad una poesia dello spirito nella sua assolutezza, quasi nell’accezione di aufhebungossia superamento ed integrazione indissolubile fra materiale e immateriale. Uno spirito dove la materia persiste come “rosa” e “grumo di dolore”al contempo (si veda la poesia in apertura) in una dicotomia indissolubile. “Atti di devozione” è quindi poesia che sa unire alla più concreta carnalità un linguaggio con influenze dalla mistica anche di matrice cristiana, dove la “bellezza verbo incarnato”è il disvelamento di un “Deus absconditusdove “Il sesso è una via di redenzione”.Altro termine – redenzione – che ricorre con una certa frequenza; in Aleisterviene associato a “fare l’amore”come espressione di “dissoluta libertà”perché, sembra voler dire l’autore, è quando l’uomo s’abbandona completamente all’esperienza del sesso, come stravolgimento dello schema razionale delle cose, che può sperare di attingere al nucleo primordiale di sé.

È in effetti la figura dell’ossimoro la più ricorrente nei versi di Balocchi, la percezione del mondo avviene per violenza di contrasti e si risolve nella semplicità di pochi gesti esatti, imponderabili come “carezza”o “bacio”, che ne sono la messa in atto, e quindi non è contradditorio che un poeta così carnale ripeta a più riprese la parola “amore”, che si pone sempre come valore assoluto di conoscenza del mondo. Eppure con la consapevolezza costante di quanto sia “profonda la ferocia dell’amore”. Si arriva addirittura a dire in Somniumche “Nulla è necessario, se non l’amore”. A dimostrazione di quest’amplificazione dell’ossimoro al fine della pregnanza poetica, del resto ben perseguita, si considerino ad esempio “splendida sevizia”, “ruina fulgens”, “etica pornografica”, “carnale santità”, ma si potrebbero moltiplicare le citazioni. Una poetica dunque essenziale, che vive per costruzioni cumulative attorno ad un unico centro propulsivo e aggregatore, sempre coerente in sé e per sé, forse bene riassunto dal trittico riportato in Incanto: “silenzio, rugiada, lussuria”.Non stridono quindi versi quasi agli antipodi fra di loro in uno stesso testo come avviene nel caso di Il Dio smembrato(titolo già di per sé quasi sacrilego) dove si legge a due versi di distanza “il cazzo tra i denti di chi ha fame” e “rito sacrale”,eppure l’equilibrio poetico tiene, grazie alla dirompente espressività del linguaggio, tanto che il testo si risolve nell’ultimo verso con lo “sperdimento dell’amore”.

Veicolare questi contenuti d’una concretezza decisa, ferrea ha portato l’autore a costruire una sua modalità espressiva particolare perseguita con coerenza in tutta l’opera. Si rifugge totalmente da qualunque schema metrico tradizionale, il verso libero spesso raggiunge lunghezze ben oltre le venti sillabe, senza però mai cadere nel prosastico grazie all’alta componente immaginifica ed allusiva, spesso espressionistica. Quasi sempre il verso corrisponde ad un pensiero compiuto e coincide con la misura del periodo; molti di questi periodi sono addirittura averbali, frammentari, con qualche ricordo di alcune modalità espressive caproniane o - per la forte paratassi - dell’espressionismo tedesco (in particolare Trakl). Si tratta quindi di una dizione icastica, essenziale fino al limite della scarnificazione, quasi a voler denudare il contenuto, scavarlo fino alle ossa.

È una modalità espressiva, quella di Balocchi, molto lontana da molta poesia nazionale, spesso legata pur non volendolo a formule e stilemi tradizionali (il vizio ad endecasillabare di cui ha parlato anche la Cavalli o la nostalgia dei nostri grandi); se compaiono lunghezze metriche consuete in Balocchi credo sia quasi un’anomalia statistica, anzi spesso sembra che il verso sia concepito proprio per evitarlo deliberatamente. Direi che il riferimento culturale più evidente, come è possibile intuire da alcune citazioni presenti anche nei titoli delle poesie, è quello di matrice anglosassone (si veda ad esempio il nesso ad Eliot in Ruina), forse qualche influsso anche da parte della beat generation ma edulcorato da certo eccesso che porterebbe questa poesia ad auto-atteggiarsi (e a tutto punta il Balocchi tranne che alla letterarietà, anzi deliberatamente osteggiata). Si intuisce in particolare una profonda conoscenza di certa letteratura di matrice irlandese, la rivendicazione a più riprese di una matrice celtica, pre-cristiana dove la conoscenza del sacro avviene per la via dei sensi dalla quale non si può abiurare (come in Versi:“Facevamo l’amore. / Ci siamo sbranati.”).

La parola per Balocchi deve emergere nella sua pregnanza, il discorso poetico procede sempre nella misura di pochi versi, a campeggiare è il bianco che crea riverbero all’enunciazione poetica sempre netta, categorica. La chiusa è spesso gnomica, senza voler essere apodittica, ma aprendo una breccia nel lettore, spingendolo all’interiorizzazione del messaggio. Una poesia che procede per provocazione del lettore (come non ricordare l’hypocritelecteur di Baudelaire?), scardinamento del codificato perché la poesia induca la crisi conoscitiva, la rottura salutare. Non a caso l’ultima poesia dell’opera è Il Matto, a ribadire che l’impresa della poesia è fuori dallo schema costituito e dunque eresia, e quindi si deve procedere per “cadute nel buco” e “morsi calci in culo” per un traguardo che tutto è fuorché rassicurante se “In fondo c’è il pozzo, nel pozzo le ossa”.