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Evira

di Fabrizio Rigante
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Pubblicato il 22/03/2013 19:35:04

Penitenziario di Prescott – A.D. 2458

 

Nonostante siano dodici giorni che ho davanti a me queste carte, ancora non riesco a trovare un senso alla faccenda che ha coinvolto la città di Prescott due anni fa esatti. Forse un senso vero e proprio non riuscirò mai a trovarlo, eppure credo che se affrontassi la questione con maggiore meticolosità forse arriverei alla soluzione.

Il caso è stato chiuso già da un anno, archiviato come omicidio colposo. Ma a mio parere tutto ha radice in qualcos’altro, in qualcosa che non vuole e che non può essere rivelato. Sono convinto che la follia abbia avuto la meglio. Perlomeno questo è ciò che gli inquirenti dicono. Sono arrivato anche io a questa conclusione ma una parte di me ancora non crede che un uomo tranquillo e innocuo come Paul Baxter possa trasformarsi improvvisamente in un sadico omicida.

Ricomincerò daccapo e riordinerò le carte. Questa cosa servirà probabilmente a riordinare anche il caos che regna nella mia mente.

 

Il fuoco è il nostro dio. Al fuoco noi sacrifichiamo le nostre figlie, le nostre madri, le nostre mogli e le nostre sorelle; al fuoco noi gridiamo non solo di illuminarci ma anche di aiutarci a sopravvivere, perché la fame e la sete sono tutto ciò che abbiamo quando vaghiamo amorfi per le strade senza nome di questa città maledetta.

Il fuoco mi ha restituito vigore, forza e virilità. Mi ha condotto verso il regno dell’abbandono dei sensi e delle gioie, là dove solo gli eletti hanno la facoltà di giungere.

È al fuoco che ho giurato obbedienza. È al fuoco che ho sacrificato Evira.

 

Da oltre due secoli la città di Prescott celebra ogni anno i giochi in onore del nostro antico sovrano, il sommo T’chankankrot, padrone di ogni replicante e di ogni essere umano. I giochi hanno luogo nella torre di Broldgar, un palazzo di ventisette piani uniti da una scala a spirale. In ogni piano della torre di Broldgar risiedono nove replicanti; ma di questi nove uno solo è un uomo o una donna in carne e ossa. La prova consiste nel trovare l’essere umano e ucciderlo; dopodiché, dare fuoco al palazzo e riuscire a fuggire indenni. Il premio, ambito da ogni singolo abitante – me compreso – è l’assaggio di una sostanza in grado di destare i sensi dell’abbandono e di restituire la luce alle menti ottenebrate: la Chaar, polvere bianca dai poteri mai del tutto svelati. Si diceva che la Chaar provenisse da una terra molto lontana, da una terra in cui gli uomini e le donne non sono stati sostituiti dai replicanti e godono ancora di ogni diritto; da una terra in cui le guerre non hanno ancora portato la miseria e la fame e non hanno ancora sottratto la speranza di condurre una vita serena.

Reduce da una guerra che solo per pietà di T’chankankrot non mi ha ucciso, tornato alla città di Prescott, solo, senza moglie, parenti né figli, fu una notte che il fuoco si rivelò a me come guida. Perso in un magma di sogni assurdi e deliranti, derivati dalla follia di scontri fratricidi a cui non riuscivo a dare una ragione, il fuoco si presentò a me sottoforma di luce antropomorfa, capace anche di comprendere la mia lingua. E fu così che mi spiegò la mia missione: era arrivato il momento – mi disse – di uccidere colei che da tempo era destinata a cambiare le sorti e le abitudini di Prescott, la sola che potesse determinare un cambiamento notevole in una città in cui nessuno voleva e poteva far niente affinché qualcosa mutasse. L’era degli eroi è finita già da qualche secolo e ciò che sarà non potrà che essere sempre più oscuro del presente. Se il presente è nero, il futuro lo sarà mille volte di più; e T’chankankrot, attraverso i propri sacerdoti, ha dissuaso anche i più impavidi da ogni effimero tentativo di rivolta. Colei che avrebbe prodotto il cambiamento che nessuno voleva si chiamava Evira.

A soli otto anni, Evira era già considerata la discendente della dea Mandir, sconfitta dall’esercito di T’chankankrot nella battaglia di Sùlmar diversi secoli orsono, quando le città erano dotate di strade e quando l’uomo era padrone di se stesso, oltre che delle macchine. Evira era stata scelta per partecipare ai giochi rituali nella torre di Broldgar. Sarebbe entrata, come tutti i concorrenti, nello stesso istante del suo replicante, ma io – mi dissi – sarei riuscito a cogliere in un piccolissimo particolare qualcosa che la distinguesse dal suo doppio, affinché la mia missione fosse portata a termine. Era infatti un mio immenso desiderio assaggiare il potere della Chaar, sostanza di cui avevo sentito parlare sovente durante il mio viaggio di ritorno. Tra le dune, tra i ghiacci, tra le montagne e perfino nelle isole più remote, si mormorava che la Chaar riuscisse a svelare i misteri celati nelle menti degli uomini, che riuscisse a restituire una nuova età e una nuova vita; che insomma fosse in grado di riportare gli uomini all’età della luce.

Ma io agivo per conto del dio fuoco, non per conto personale. Il fuoco voleva che uccidessi Evira perché se fosse stata lei a vincere i giochi rituali quell’anno, se fosse stata lei a incendiare la torre di Broldgar, la profezia si sarebbe compiuta e oltre alla torre tutta la città stessa di Prescott sarebbe stata avvolta dalle fiamme, perché il suo potere avrebbe perso ogni controllo e sarebbe stato autodistruttivo.

Promessami dunque in cambio la Chaar, il fuoco mi convinse che non avevo altra scelta. Così giurai che avrei ucciso Evira e che lo avrei fatto più per la città di Prescott che per me stesso, anche se era proprio per me stesso che agivo.

Evira aveva con sé un oggetto che mi avrebbe permesso di distinguerla dal suo replicante: un orsetto di peluche, ricordo dei genitori morti T’chankankrot solo sa quanti anni fa. Evira non avrebbe mai abbandonato quell’orsetto anche a costo della vita, probabilmente. Il suo replicante ne aveva una copia esatta ma io sapevo che se una delle due lo avesse perduto, o se perlomeno quell’orso fosse sfuggito di mano, ebbene, in quel momento io avrei riconosciuto la vera Evira e avrei potuto portare a termine la mia missione.

Entrammo così tutti quanti nella torre di Broldgar. Evira era a pochi passi da me, abbracciata a quell’orsetto di peluche che sarebbe stato artefice del suo destino. Lei non mi notò ma io notai lei; e l’orso notò me, con quei suoi occhi piccoli e apparentemente spenti. L’orso mi vide e capì le mie intenzioni, anche se fino a quel momento non avevo fatto alcunché per lasciar intendere che volessi farle del male. Mi arrestai per questo nel momento in cui salimmo gli ascensori: Evira e l’orso (affiancati dal rispettivo replicante) salirono prima di me, in un piano che non potevo conoscere ma che sarei riuscito a trovare.

Fu poi il mio turno. Per la prima volta da quando era iniziato il gioco ebbi modo di osservare il mio replicante, immagine di me stesso allo specchio: la barba incolta, gli occhi stravolti per le ore notturne agitate e per la follia di ciò che stavo per fare. Ma oltre alla follia c’era anche qualcos’altro: era il terrore, il terrore di non sapere più quale fosse il mio vero io, se io stesso fossi il replicante e se quello davanti a me fosse il vero Paul Baxter. Ma una volta giunti al diciassettesimo piano, finalmente tornai in me e fui conscio di non aver mai perso la mia vera identità. Il mio replicante proseguì: al diciannovesimo piano sarebbe sceso e si sarebbe confuso con gli altri, fingendo di essere me.

Nel corridoio già sentivo alcuni spari e mi chiesi come mai non ci fosse stato neanche il tempo di entrare nel palazzo che già qualcuno stava cercando di porre fine ai giochi. Ma è chiaro che quegli spari non potevano essere diretti su un essere umano. Tant’è vero che per terra, ai miei piedi, non potei fare a meno di osservare i corpi che giacevano sì senza vita, con gli occhi sbarrati, ma anche senza alcuna traccia di sangue. Per questo mi dissi che qualcuno aveva agito troppo in fretta, senza pensare a ciò che stava facendo. A quel punto controllai per istinto di aver caricato la pistola. Era carica e la mia fondina la custodiva gelosamente.

Tre stanze, e in ogni stanza vi avrei trovato tre uomini. Oppure due replicanti e un uomo. La scena a cui assistetti, una volta entrato nella prima stanza, non può non essere descritta: un letto, una donna su di esso, e una corda legata al lampadario, a cui era appeso un uomo, ciondolante e grondante – lui sì – di sangue. La donna giaceva sul letto ma in un primo momento non seppi dire se morta o solo svenuta. La sua pelle era eterea, diafana, e il suo vestito era più una sottoveste. Poi la donna si destò e si mise a sedere sul letto e senza proferire parola si limitò a indicare l’uomo appeso al lampadario. Mi disse che era suo marito, o meglio che era ciò che restava di suo marito. L’aveva creduta vera. Aveva creduto che lei fosse sua moglie, quella vera. Le aveva sparato ma quando l’aveva vista riversa per terra i sensi di colpa lo avevano sopraffatto, così si era impiccato.

«È questa la fine che fanno tutti», disse la donna. «Questa è la fine che fanno quelli che sparano senza ragione, che si fanno mettere in ginocchio dal fuoco.»

Il dio del fuoco… Allora lei sapeva che cosa mi aveva spinto a partecipare ai giochi. Mi dissi che, al contrario del suo defunto marito, io avrei ragionato, prima di sparare.

«Non sei infelice per il tuo destino amaro? O forse temi di poter essere abbracciata dal fuoco?»

«Non c’è niente che io tema», rispose la donna, venendomi vicino. Fu allora che potei apprezzare il calore del suo corpo e il suo alito profumato. Le sue labbra lucide mi chiedevano di unirsi alle mie ma io ero lì per altri motivi, non per portarmela a letto. Tuttavia, c’era ancora un dubbio che volevo togliermi…

La donna gridò per un attimo, come se le avessi dato un pizzicotto. Si portò una mano sul polso sanguinante. Sorrisi tra me ma sorrisi anche a lei. Rimisi a posto il coltello, nella cintura.

«Perché l’hai fatto?», mi chiese.

«Non c’è un motivo», risposi. «Qui dentro la ragione non esiste. E tu lo sai meglio di me, non è così?»

Al che la donna strappò un lembo del lenzuolo e si fasciò il polso. In breve la fasciatura improvvisata divenne rossa. Ma era solo un taglietto che sarebbe guarito nel giro di qualche ora.

Uscito dalla prima stanza, entrai subito nella seconda. Lo spettacolo era ancora più folle del primo: due uomini e una donna, nudi, a letto, nel più classico dei ménage à trois, uno che la penetrava e l’altro che la sodomizzava. Lei era morta.

Richiusi subito la porta alle mie spalle e mi domandai se io fossi l’unico a giocare a quel macabro gioco di sesso e di morte.

La terza stanza mi convinse a cambiare piano: lo spettacolo era simile al primo ma cambiavano solo gli interpreti. Due maschi e una femmina, proprio come prima, solo che adesso i due maschi erano due vecchi, sui settant’annni passati da un pezzo, e la femmina era una bambina, forse della stessa età di colei che cercavo. La bambina, mentre i due la seviziavano, piangeva in silenzio, fingendo di stringere a sé qualcosa che in realtà aveva perso. Perché quel qualcosa era in piedi davanti a loro ed era il regista di quel film perverso che interpretavano: era l’orsetto di Evira, proprio quello che mi aveva lanciato uno sguardo indimenticabile prima di salire nell’ascensore. L’orso era alto come un uomo adulto e aveva una videocamera, che dirigeva con una mano – ovvero con una zampa – mentre con l’altra frustrava i tre, gridando di fare più forte o più piano.

Non era la mia Evira, non era quella la bambina che dovevo uccidere. O forse, schiacciata com’era da quei due pedofili, non riuscivo a distinguerla ed era proprio lei, o meglio il suo replicante, perché ero sicuro che lei fosse finita al diciannovesimo piano. Sta di fatto che non avevo tempo per farmi queste domande né per cercare risposte assurde che non avrebbero risolto i miei problemi.

Tirato un sospiro, forse per l’ultima volta in pieno possesso delle mie facoltà mentali, salii la scala a spirale della torre e corsi fino al diciannovesimo piano. E mentre salivo i gradini che parevano centinaia e centinaia, invece erano solo una trentina, incontravo donne e uomini che a malapena si reggevano in piedi e che mi dicevano: «Più su andrai più il fuoco troverai; più il fuoco troverai e più la follia vedrai; più la follia vedrai e più su andrai», e così via all’infinito.

Intanto, con la camicia che grondava sudore, estrassi dalla foderina la pistola, deciso a farla finita una volta per tutte. Volevo solo uccidere quella bambina e avere la mia ricompensa. Era solo questo che volevo.

Finalmente, e senza fiatone, giunsi al diciannovesimo piano. Qualcuno, però, mi aveva anticipato: da ciascuna delle tre stanze proveniva una nube di fumo, che presto si sarebbe espansa fino ai piani superiori e a quelli inferiori. Con la pistola saldamente in mano, avanzai gridando se ci fosse qualcuno. Non volevo improvvisarmi eroe – d’altronde stavo per diventare un assassino, più che un eroe, ed ero abituato più a uccidere che a salvare persone – ma volevo solo assicurarmi che Evira fosse lì e che fossi io a ucciderla. Perché se proprio doveva morire, dovevo essere io a ficcarle la pallottola nel centro di quella bella testolina.

Non l’avessi pensata: Evira uscì da una stanza richiudendo la porta. Aveva ancora con sé quel dannato orso ma la cosa più sconvolgente erano i suoi occhi: erano senza pupille, bianchi ma allo stesso tempo abbaglianti, mentre il suo vestito, che quando l’avevo vista per la prima volta era perfettamente pulito, ora si era scolorito e inoltre era macchiato di chiazze rosse dappertutto. Evira aveva ucciso e l’aveva fatto prima di me.

Le ordinai di non muoversi puntandole la pistola. Ma Evira non mi diede ascolto: messesi le mani sulle guance, si staccò la testa dal collo e con un ghigno me la scagliò addosso, proprio con la stessa forza con cui si potrebbe scagliare una palla da bowling. Per pochissimo riuscii a evitarla, tuttavia la testa mozzata mi afferrò un lembo della camicia, strappandomela. Così, toltomi la camicia e con la pistola sempre tra le mani, indietreggiai di qualche passo, guardandomi ora dalla testa che sembrava potersi muovere da sola, ora dal corpo, che ancora reggeva quel dannato orso a sé.

Stravolto, sparai senza pensare a quello che facevo, prima mirando alla testa, proprio sulla fronte, poi al corpo, che a ogni proiettile iniziò a far zampillare fiotti di sangue per tutto il corridoio. Sparai una, due, tre, dieci volte, fino a esaurire i colpi; ma non contento mi avventai sulla testa e con quello stesso coltello che aveva ferito la donna della prima stanza la sventrai con quanta forza avessi nelle braccia, riducendola a una poltiglia sanguinolenta di ossa.

Intanto l’incendio, appiccato probabilmente dalla stessa Evira, divampava e si avvicinava anche a me. Nel frattempo aveva afferrato l’orsetto, che ora stava per essere divorato dalle fiamme un po’ alla volta. Nella mia testa risuonavano ancora le parole del fuoco: «Se la ragione ritrovar vorrai, uccidere Evira tu dovrai!»

Mi resi conto che reggevo ancora quella mostruosa testa senza corpo tra le mani. La scagliai lontano da me, mentre cercavo vanamente di scendere dalla torre. Troppi erano però diciannove piani, e stavolta non c’era alcun ascensore che potesse velocizzare la fuga. Il fuoco dimenticò il patto maledetto che di notte avevamo stipulato e si impossessò di me, perlomeno dei ricordi successivi all’istante in cui caddi svenuto come se fossi morto.

 

Ho finalmente fatto chiarezza, una volta per tutte. In base alle testimonianze raccolte, Paul Baxter, ex alcolizzato ed ex drogato che mai però aveva perso il vizio né per l’alcol né per la cocaina, avrebbe ucciso la piccola Evira, sua figlia, in preda a un raptus di follia omicida. Tutta la storia dei giochi e del sacrificio al dio T’chankankrot non sono altro che frutto della sua mente deviata e allucinata, frutto insomma dei suoi costanti incubi. Paul Baxter è rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Prescott, in attesa del verdetto finale. Ma credo proprio che dopo le mie confutazioni l’ergastolo sarà la condanna minima che gli spetterà.


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