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la balena di Viterbo

di Salvatore Solinas
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Pubblicato il 20/10/2008 07:58:08

La balena di Viterbo



Quando il sole tramonta dietro all’Empire e ai grattacieli della Quinta Strada il mio lavoro incomincia. Lascio la Lincoln nel parcheggio sotterraneo, prendo l’ascensore che mi porta al diciottesimo. Spesso, in questo tratto, mi trovo solo: io e la mia immagine riflessa nello specchio, deforme e ridicola nello sfavillio dei fari che inondano di luce la cabina. Mi capita allora di pensare a Verbena, il mio paese, una cittadina di duemila anime che ha per me il sapore del paradiso perduto dell’infanzia.
Come fui spensierato e felice, almeno fino a che la mia famiglia fu unita! Quando compii dieci anni mia madre se ne andò di casa lasciandoci soli, me e il babbo. In verità diedi un sospiro di sollievo perché ogni notte li sentivo litigare e spesso venire alle mani, tanto che temevo che prima o poi s’ammazzassero. Mi dispiaceva soltanto che non mi avesse portato con se, infatti il babbo, che faceva il camionista, tornava a tarda sera troppo stanco o troppo ubriaco per occuparsi di me.
Così sono cresciuto come un giunco selvatico frequentando compagnie poco raccomandabili, marinando la scuola due giorni si e un giorno no, e i pomeriggi sempre sul campo di calcio. Alla domenica mi trovavo con i grandi al bar di Gigi a bere birra e coca cola, ascoltando le loro storie, annuendo come se ci capissi qualcosa. Fumavano tutti, e qualcuno a notte fonda si faceva pure uno spinello accanto al muro della palestra di scuola.
Il mio amico per la pelle era Frediano, un ragazzo di cinque anni più grande di me. Lo ammiravo per la sua forza fisica e per quel modo serio e grave che aveva di parlare, di trattare gli altri ragazzi della sua età. Con me era una specie di padre a volte dolce, a volte severo. Una volta soltanto mi diede uno scapaccione per farmi capire che dovevo resistere al dolore e non smettere mai di picchiare anche se mi faceva male la faccia e un luccichio mi ruotava dentro gli occhi.
Ricordo che avevo quindici anni compiuti, era l’ultima domenica di Maggio, da Gigi quella sera non si parlava d’altro che di donne e di sesso perchè nell’unico cinema di Verbena stavano proiettando “L’ultimo tango a Parigi”. Quando all’una di notte ci incamminammo verso casa, Frediano mi domandò s’ero mai stato con una donna. Risposi di no arrossendo nel buio. Inutile cercare di mentire a Frediano: ti guardava serio e ti leggeva negli occhi come un libro aperto.
“Bisogna che andiamo a Viterbo a trovare la balena”
“Quale balena?” dissi “Nel Mediterraneo non ci sono balene, e poi Viterbo non è nemmeno sul mare”
“Che cosa hai capito? La balena è una di quelle… La chiamano la balena di Viterbo perché è grassa…neppure tanto. Insomma è robusta, ma è quella che ci vuole per te. Lei ci sa fare con i principianti. Devi sapere che la prima volta può accadere che ti emozioni e non ti venga su. Fare l’amore non è semplice come credi! Ci pensa lei a tutto. La prima volta è importante perché, se non riesci, dopo hai un sacco di problemi psicologici; se invece ti va bene, vai alla grande!”
Due giorni dopo, alle sette del mattino, prendemmo il treno che portava a Viterbo. Lo scompartimento era vuoto, ma durante il tragitto si riempì di studenti e operai a causa delle numerose fermate che ne rallentavano il cammino. Un viaggio di due ore tra filari di cipressi e colline coltivate a vigneto. A me non interessava affatto ciò che c’era dentro e fuori dal treno: ero troppo preoccupato per quella specie di viaggio d’iniziazione sessuale che era reso ancora più temibile dal silenzio di Frediano che non aveva aperto bocca per tutto il tragitto. Quando uscimmo dalla stazione di Viterbo, mi domandò se avevo soldi in tasca; risposi che non avevo una lira.
“Come fai a pagarla. Non sai che quelle lo fanno per mestiere? Tieni, per questa volta offro io” disse allungandomi tremila lire che infilai in tasca.
Salendo le scale buie e sconnesse che portavano al terzo piano di un palazzo di periferia, dove abitava la balena, mi batteva il cuore all’impazzata, e non certamente per la fatica. Frediano suonò tre volte al campanello. La porta si aprì ed entrammo in una stanza dove un divano sdrucito in stoffa, un vecchio tavolo quadrato e due sedie di paglia costituivano tutto l’arredo. Nascosta dietro una tenda c’era la cucina. Si udirono i passi della donna.
“Cosa volete a quest’ora?” Erano le undici del mattino, un’ora insolita per quel tipo di lavoro.
“Signora” disse Frediano “Le ho portato un mio amico. Lo tratti bene perché è giovane. Io vado, ti aspetto al bar di fronte.” Aggiunse quasi sotto voce rivolto a me.
Restammo soli, io e lei, uno di fronte all’altra. Indossava una vestaglia a fiori e le ciabatte rosa, s’era fatta i capelli rossi e le labbra viola, era ingrassata, da come la ricordavo cinque anni prima.
“Cosa fai tu qui?”
“Ho saputo che abitavi a Viterbo e sono venuto a trovarti” mentii, col pianto che mi strozzava il respiro.
“Bene, Fermati a pranzo allora!”
“Non posso. Il mio amico mi aspetta giù. E poi il babbo non sa niente…” dissi dirigendomi verso la porta.
“Non dirai niente a tuo padre vero? prometti!”
Mentre uscivo quasi di corsa con le lacrime agli occhi, sentivo la voce di mia madre colma di disperazione:“Lo faccio per vivere, per mangiare!” L’angoscia del suo viso, il suono della sua voce, quelle parole mi sono rimaste impresse dentro come un tatuaggio indelebile.
Dovevo avere un’espressione stravolta perché Frediano per tutto il viaggio di ritorno non fece domande. Capii allora confusamente, e negli anni seguenti sempre più chiaramente, che non era sufficiente darle e prenderle stringendo i denti, come mi aveva insegnato Frediano; ma che bisognava nuotare disperatamente, con tutte le forze, per non rimanere al fondo, invischiati nella melma come insetti. Quando giungemmo a Verbena, Frediano mi domandò cosa era successo.
“Niente” risposi “Tutto bene, mi è anche piaciuto”
Da quel giorno non frequentai più gli amici. Mi diedi anima e corpo allo studio. Dopo che presi il diploma di scuola alberghiera girai il mondo facendo di tutto: il cuoco, il cameriere, il portiere d’albergo. Adesso dirigo l’Hotel Roma a Brooklyn. Guadagno seimila dollari al mese, i miei amici sono gente per bene, o almeno credono di esserlo, e possiedo una bellissima macchina.
Ora che il cielo s’è incupito e si sono accese le insegne dei teatri e dei locali notturni, mentre il traffico scorre lentamente come un lungo fiume di luce mai il mio paese mi è parso così lontano, così irreale, come se non esistesse affatto. Mio padre è morto tre anni fa. Di mia madre non so nulla. L’ho cercata a Viterbo, ma non c’è più, e non so dove sia andata, se sia ancora viva. Mi è rimasto un rimpianto: non essermi gettato tra le sue braccia, non averla baciata quella mattina che la vidi per l’ultima volta.




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