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“Furori americani”. Da John Ford a William Faulkner

Argomento: Letteratura

di Enzo Sardellaro
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Pubblicato il 18/01/2015 20:07:41

“Furore”, di John Ford (1940), con Henri Fonda e Jane Darwell, ebbe al tempo un notevole successo di critica e di pubblico. Il film ha le sue radici nell’omonimo romanzo di John Steinbeck, e,  in un affascinante bianco e nero  girato con una macchina fissa, “inchioda” uno dei momenti più tribolati della storia americana, cioè a dire gli anni immediatamente successivi alla “Great Depression”. Il film ricostruisce un po’ l’epopea dell’ “American way of life”, incarnando l’indomito spirito americano di povera gente annientata dalla depressione, ma che lotta a denti stretti contro ogni avversità e ingiustizia, puntando generosamente e con tutte le proprie forze su un “domani migliore”. Tom Joad, il protagonista del film, interpretato da un grande Henri Fonda, diventerà un po’ il simbolo degli oppressi che però non rinunciano a lottare, secondo il tipico “cliché” della mentalità americana.

 

Ma, discorrendo intorno ai “furori americani”, non possiamo dimenticare un “furore” scaturito dalla penna di William Faulkner,  "L'urlo e il furore", pubblicato nel 1929, che aveva però tinte molto più fosche di quelle emerse sia dal film di John Ford sia dal romanzo omonimo di Steinbeck. Il titolo  originale del romanzo era invero "Il frastuono e il furore", e poi,  per qualche ragione ignota (ma, come al solito, probabilmente per un fatto di “marketing” [neanche tanto intelligente, almeno sotto il profilo squisitamente stilistico e linguistico], "frastuono" fu  sostituito con un magnifico "Urlo", che, ovviamente, doveva richiamare alla mente dei  lettori il famoso “Urlo” di Munch. In realtà,   "frastuono" avrebbe meglio rispettato la volontà dell'autore, che l'aveva pescato da Shakespeare (Macbeth), laddove egli diceva: " La vita è un racconto narrato da un idiota, pieno di ‘frastuono’  e di furore  che non hanno significato alcuno".  Se il titolo della traduzione italiana  avesse mantenuto l'originario termine “frastuono”, che traduce pressoché letteralmente l’inglese  “sound”, "rumore assordante", “frastuono”, appunto, avrebbe sicuramente meglio rispettato le volontà di William Faulkner, che  volle trasmettere ai propri lettori l’immagine tragica di una famiglia di bianchi  del vecchio Sud,   totalmente  “frastornata"  e senza punti di riferimento etici.

 

Il romanzo di William Faulkner è infatti  ambientato nel Sud degli Stati Uniti;  protagonisti ne sono i Compson (padre, madre e tre fratelli),  “segnati” senza rimedio alcuno nella  psiche,  e che , a poco a poco,  rivelano un comportamento  “degenere”. Il padre è completamente alcolizzato, e  la madre  una nevrotica assoluta; come tali, sono  completamente  incapaci  di  dare un benché minimo indirizzo ai figli, che  sono ovviamente abbandonati  a se stessi.  Benjy è un  idiota,   mentre Quentin muore  suicida, a seguito di distorti rapporti con  Caddy,  verso la quale nutre torbidi  sentimenti che vanno molto al di là dell’affetto fraterno.

 

Caddy alla fine si sposa,  ma è abbandonata quasi subito dal compagno, che è venuto a sapere che la bambina  di Caddy  non è sua, e la caccia di casa. Caddy torna in famiglia, ma, purtroppo per lei, che deve allontanarsi per lavorare,   della bambina si occupa Jason,  uno dei tre fratelli, che, cinico e immorale, non soltanto tratta in malo modo la bambina, ma si appropria anche dei soldi che Caddy manda a casa per la figlia. La vita della bambina (il cui nome è, stranamente,  “Quentin”) scorre via tribolata, assistita soltanto dall’affetto di Dilsey, la vecchia cuoca di colore, da tempo immemorabile al servizio dei Compson. Alla fine Quentin decide di andarsene via, e infatti fugge di casa con un attore.

 

"The Sound and the Fury", che è un capolavoro assoluto di Faulkner, “sembrerebbe” soltanto   narrare  la "decadenza" morale ed intellettuale  di una famiglia di “bianchi”  del  Sud degli Stati Uniti,  ma il discorso di William Faulkner è molto più sottile, perché, attraverso la “degenerazione” dei Compson,  egli quasi “profetizza” un imminente “collasso” della civiltà dei bianchi. Faulkner non disse quale nuova “stirpe” si sarebbe erta a sostituire l’antica razza dominante, ma pare di capire che essa sarebbe stata costituita, molto  “alla Manzoni”, dagli “umili”. Soltanto  ad essi  sarebbe stato  dato un  futuro, mentre  per i bianchi, razza ormai degenere,  sembrava si potesse  cantare un definitivo ed irreversibile “de profundis”. 

 

Faulkner, con un occhio di lince ,  aveva intravisto, sia pure “per aenigmitate”,  qualcosa di “frastornante”  nella società americana di quel lontano 1929, un “qualcosa” che lo portò ad immaginare una “catastrofe di civiltà”, che soltanto i grandi poeti e i grandi scrittori sanno intravvedere, sia pure indistintamente,  tra le brume della storia. Certamente la “Great Depression” dette una grossa mano ad instaurare in America un clima da “The End”, ma William Faulkner seppe guardare “al di là dello steccato” ed “oltre” gli aspetti meramente economici, dipingendo  un “malessere” indistinto,  e affondando  il bisturi  nel  “nucleo vitale” della società americana: la famiglia.

 

                                                                                                    Enzo Sardellaro

 

 

 


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