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That’s Entertainment Barnum dal circo al gran teatro

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 02/07/2016 19:14:46

THAT’S ENTERTAINMENT DAL ‘WEST END’ LONDINESE A ‘BROADWAY’ SULLA SCENA DEL GRANDE MUSICAL”.

 

“Come follow the band!” … richiama a sé l’attenzione dei presenti il non casuale Clown sulla pubblica via davanti al London Palladium, nel cuore del West End capitale europea del ‘Musical’. Sì, avete ben compreso, sto parlando del cuore pulsante dell’ Entertainment musicale che consta ogni anno di straordinarie produzioni teatrali fra Musical, Operette, Varietà, Balletti, Opera Lirica ecc. Di tutto di più e del migliore, se mi si concede la citazione. Ma questa volta si parla di Circo. Sì, proprio quello ma questa volta senza il tendone, la gabbia dei leoni ecc. che definirei un circo sui generis. Il Circo a Teatro, e non pensiate sia una novità, affatto, il Circo nasce sulla pubblica piazza ma successivamente lo si andava a vedere proprio in teatro, quello grande e con la 'T' maiuscola.

“Pa-para-pa-para-pa...”, fanno eco i fiati mentre il suono di un trombone sfonda i timpani sul vibrante stacco dei piatti fuori del pentagramma. Il pubblico trasale per un istante come per lo scoppio del tappo di una bottiglia di champagne, per poi accogliere l’invito e sfilare di buon grado insieme con i giocolieri sui trampoli, i cavallerizzi in costume, i numerosi clown che ne fanno di cotte e di crude attraendo grandi e bambini che incontrano lungo la via. Ne segue un andirivieni di gente in feste che si lascia accalappiare dalle loro matte risate. Stupiti ci si chiede dove sono finiti i carrozzoni variopinti, le gabbie degli animali feroci che aspettiamo di vedere, non senza curiosità e con tanto spavento al loro apparire.

Qualcuno nel frattempo grida: “Prego signore e signori, accomodatevi pure, da questa parte!”. Che poi sta per è arrivato il Circo anche se ancora non si vede l’ombra di un tendone. “Che Circo è mai questo?” Si chiede qualcun altro. La risposta è fornita da Pineas Taylor Barnum in persona, alias l’attore inglese Michael Crawford poco prima dello spettacolo. “Un grande Barnum!” come fu appellato dalla critica londinese l’indomani dell’andata in scena dell’omonimo Musical, che gli accreditò il titolo di ‘migliore attore dell’anno’, premio assegnato dalla Society of West End Theatre Awards.

“Egli è qui – dice Barnum – per difendere la nobile arte dell’imbroglione che, nel gonfiare se stesso, rivela infine la verità, quella vernice che serve a mascherare i fatti amari della vita”. Che si voglia o no essere d’accordo con lui, se risieda in ciò una qualche utilità che non va oltre la sua effimera affermazione, riguarda piuttosto il peso che vogliamo dare al significato di ‘intrattenimento’, se esso svolga un qualche sociale o se, sia semplicemente fine a se stesso, da prendere come momento di evasione dal quotidiano. Barnum in fondo, vuole solo venderci, per il modesto prezzo di un biglietto, due ore di ‘felicità’ e ce la mette tutta per accaparrarsi questo diritto che gli proviene dall’estendere la sua ‘arte’, perché di questo si tratta, al grande pubblico, il più grande di tutti i tempi, l’arte magica dei circensi.

“That’s the way, there is a sucker born every minute” (nasce al mondo un credulone ogni minuto) – dice poi benevolo; ed è in ciò il gioco sottile, del ripetersi infinito del teatro. La sua burla sta nel fatto che ci conduce a teatro per mostrarci il Circo. Che è poi un ritorno alle origini, perché oltre che sulla pubblica piazza dove un tempo venivano allestiti gli spettacoli, era la struttura del teatro ad ospitare i circensi sia nei teatri di corte che in strutture apposite allestite al riparo dalla pioggia e le intemperie. E bastava accomodarsi all’interno per recuperare in pieno l’atmosfera magica del ‘tendone’ del Circo.

“Barnum” (1998) di Michael Steward e Cy Coleman su libretto di Mark Bramble è dunque il restauratore di un antico diritto di rappresentazione di ciò che in seguito sarà (o potrà diventare) il Musical: l’insieme delle espressioni di tutte le arti significative del corpo, che raccoglie in sé quella virtuale gioia portatrice di felicità. Ed è così che alzato il tendone sotto la volta del teatro ritroviamo il bambino ch’è in noi rivolto col naso all’insù a cercare quel sogno che per un istante avremmo voluto far nostro, e che invece è di tutti, tutti quanti asseriscono che ‘vale la pena di vivere’. tre anni consecutivi di continuato successo, “per il piacere dei grandi e dei più piccini” che da sempre accorrono entusiasti a vedere lo spettacolo offerto dal Circo in tutto il mondo.

Ma non aspettatevi uno spettacolo diverso, è quello sempre attuale offerto dal Circo tradizionale, solo un po’ più raffinato. Sì certo, è stato ripulito dell’odore acre della segatura e, al limite, reso meno rumoroso per la mancanza dei cavalli al galoppo e del ruggito feroce dei leoni; ma non del suono sempre lieto della Banda con i propri pezzi musicali caratteristici ed i suoi immancabili Clown. Quest’ultimi in numero maggiore in rappresentanza di se stessi, come del resto si conviene per scandire le diverse attrazioni, danno vita a una costante entrata-uscita di lazzi e curiosità cui il pubblico sorride benevolo, acclamando ogni volta alle loro bizzarrie. Se le performance del Clown, visto come immagine volontariamente deformante che ogni artista da di se stesso, sono di origine abbastanza recente, antichissima è invece l’iconografia che lo accompagna.

Michael Crawford ne ripercorre le tappe salienti di una carriera circense che verosimilmente Mr. Barnum in persona ha narrato nel Musical. La sua carriera ebbe inizio negli States nel lontano 1835, data in cui egli formò con james A. Bayley il “più grande spettacolo del mondo” – così venne definito all’epoca. in esso si narra.. ma lasciamo che lo spettacolo incominci e che sia Barnum stesso a narrarla. Tutto è pronto, la ribalta s’apre nello sfolgorio delle luci, al suono squillante della Banda.

Le musiche di Cy Coleman, compositore, arrangiatore e produttore dello spettacolo, risultano perfettamente integrate alle molte azioni che si svolgono sulla scena, spesso dando forma a un insieme scoppiettante e divertente, nonché trascinante degli applausi che insorgono frequenti durante la rappresentazione. Tuttavia esistono due diversi album relativi alle diverse produzioni: quello americano in CBS-Master Works vincitore di tre Tony Awards, uno dei quali è andato a Jim Dale come migliore attore protagonista; e quello riferito alla produzione inglese con Michael Crawford insignito dello stesso premio conferitogli dalla Society of West End Theatre Awards. Fra le canzoni degne di nota: “Come follow the band”, “Join the Circus”, “Black and White” e la hit “The colors of my life”, leit-motiv pregna di equestre gaiezza.

 

Degno di nota è l'italiano "Barnum" del 1983, realizzato sulla scia degli altrettanto famosi musicals che l'hanno preceduto. Interpretato da una  giovanissima Ottavia Piccolo e dall’allora menestrello della canzone Massimo Ranieri, cantante, attore, personaggio televisivo e showman. E' invece datato 1984 l'album CGD col titolo omonimo "Barnum" tratto dallo spettacolo teatrale che vide la sua prima al Teatro Sistina di Roma con grande successo di pubblico e diventato una vera 'chicca' da collezione.

 

Parlare del successo di “Barnum” in questa introduzione che vuole essere un excursus nel Musical-show dalle origini a oggi, può sembrare una forzatura, per il semplice fatto che sfugge ad ogni tipo di considerazione, non solo perché postdatato al 1980, altresì perché può sembrare che si voglia qui tralasciare tutto quanto è stato prima di quella data. La ragione invero è un’altra; è voler mettere in risalto come il Musical propriamente detto contrassegna il check-point di un inevitabile incontro tra il vecchio e il nuovo e il mescolarsi delle tendenze e delle mode che contrassegnano la storia scritta del Musical, con i suoi strepitosi successi all’insegna della stravaganza e le sue immancabili cadute di stile che talvolta hanno creato vere e proprie difficoltà identificative tra passato e presente.

È in questa dimensione, allo stesso modo anticonformista e rivoluzionaria di qualsiasi schema gli si voglia attribuire, che vedremo orientarsi l’attuale produzione del West End e di Broadway, qui volutamente non distinguibili l’una dall’altra, bensì accomunate dalla stessa grande qualità organizzativa, produttiva e registica con maestranze qualificate di altissimo livello e un numero non indifferente, tra sceneggiatori, attori, ballerini, musicisti, coreografi, scenografi, tecnici di scena, trucco e parrucco, in alcuni casi anche prestati dal cinema, che hanno raggiunto la fama internazionale. Una gara interessante dunque tra due centri di produzione del Musical-show che hanno fatto dell’arte dello spettacolo un business di dimensioni stratosferiche e che ogni anno offrono lavoro a migliaia di nuovi e giovani talenti che con l’obiettivo di raggiungere un agognato successo. Sebbene il successo non sia che un effimero legato alla genialità di pochi, all’idea talvolta fortuita del ‘folle’ creativo, alle capacità e all’impegno personale del singolo regista, o quanto più inviato dalla fortuna, alla gioia di vivere, all’emozione procurata da un sentimento come l’amore per ciò che si fa. E l’amore cos’è? Null’altro che la moneta di scambio che permette a ognuno di “poter fermare la pioggia / o di cambiare il flusso della marea”. Indubbiamente la migliore dimensione di noi stessi, la cui ricerca di per sé è già un successo.

Ma gettiamo un'occhiata sul palcoscenico di Broadway, indubbiamente il più grande del mondo e situato nel cuore di New York. Un sipario aperto sullo ‘show business’ con le sue scenografie da favola, le coreografie scintillanti, le musiche effervescenti, le scritte luminose multicolori che si rincorrono sulle facciate dei teatri, il carosello dei taxi che scaricano il folto pubblico davanti alle entrate dei teatri per assistere al più grande spettacolo di sempre, il più sensazionale degli spettacoli: il ‘Musical’. Luci colori e la magia di Broadway fanno da cornice a showman e showgirl, attori, cantanti, ballerini, donne favolose che attendono l’applauso del pubblico, ed il ‘Musical’ è la quint’essenza di Broadway, del ‘sogno americano’ che si realizza nell’illusione dorata di una scatola delle meraviglie che ogni sera si apre, non senza ‘un pizzico di follia’, e per la durata di due ore circa, in un magico incontro con il pubblico.

È qui che si rappresentano i ‘drammi’ e le ‘favole belle’ del tempo, con gli amori, gli affetti, le passioni, le pulsioni sessuali in cui si disciolgono i sentimenti, con il fine ultimo dello svago, dell’intrattenimento, dello spettacolo per lo spettacolo. Cambiano i tempi e i luoghi, i costumi e le mode, i personaggi protagonisti delle storie, le musiche e i ritmi che di volta in volta accompagnano, facendo da leit-motiv, i mille risvolti ‘spettacolari’ che danno lustro ad ogni show. Siano canzoni di successo, numeri coreografici di particolare merito, sia esibizioni di qualche virtuosismo strumentale che hanno il solo scopo di sottolineare, esaltandoli, quelli che sono i momenti ‘clou’ di ogni rappresentazione. Per quanto la storia del ‘Musical’ si componga di nomi prestigiosi, una lista traboccante di stelle, più brillanti di quelle del firmamento che s’accendono ogni sera su Broadway, è pressoché impossibile. Citarne solo alcuni può sembrare anacronistico, come pure non è opportuno tirare in ballo statistiche di alcun genere. Per quanto, ad un arido elenco di protagonisti, preferisco citare solo alcuni brani rappresentativi tratti da altrettanti ‘Musical’ di successo.

Che si parli del grande Zigfeld degli inizi, di Merrick e o dell’ultimo Schwarz, uomini d’affari e produttori di molti spettacoli che hanno fatto la fortuna del Musical. Non è affatto una coincidenza che i più grandi nomi del teatro siano proprio loro: produttori e registi scrittori e compositori che operano nell’ambito dello show-business. Sono loro che fin dagli inizi decretarono il successo economico delle produzioni, investendo su questo o su quello ‘spettacolo’ in un gioco vorticoso di interessi, con la ricerca affannosa dei soggetti, che si accaparravano le maestranze migliori, i nomi più prestigiosi del “Musical–Show”. Tuttavia il ‘successo’ non era sempre assicurato, molto dipendeva dal divertimento che veniva offerto al pubblico, dagli attori più o meno noti che vi prendevano parte, dal nome del coreografo che curava i numeri di ballo, dal maestro concertista e del direttore d’orchestra.

Una siffatta forma di spettacolo non poteva scaturire dal nulla, infatti è noto che la forma più composita eppure eterogenea del ‘Musical’ ha adattato alle proprie necessità, utilizzando a sua volta la letteratura popolare e quella aulica, la musica classica e tradizionale, l’operetta a lieto fine e la ‘light – opera’. Giungendo a scandagliare le pagine del jazz fino al rock e oltre, con la pretesa che tutto quanto fa spettacolo può entrare a far parte dello show-business sempre alla ricerca affannosa del ‘successo per il successo’, successo che consta di milioni di dollari di investimento. Un’autentica fortuna, che fece di Ziegfeld il più grande creatore di spettacoli di tutti i tempi. Va qui ricordata la sua formula vincente “Ziegfeld Follies” ripresa per circa venti anni (dal 1907 al 1931) dalle famose “Follies Bergere” parigine. In cui trovarono la strada del successo molti performer, showman, artisti e ballerine del tempo e la fortuna di numerosi musicisti e giovani compositori come Victor Herbert, Irving Berlin, Cole Porter, Rodgers e Hart, Hammerstein, Kern, Kaufman e tantissimi altri, tra cui George Gershwin.

Con le “Ziegfeld Follies” aveva avuto inizio una nuova forma di intrattenimento: sfolgorante, spettacolare, voluttuoso. “Tea for two”, (“Tè per due”), è indubbiamente il brano più conosciuto, ma non il solo, del celeberrimo “No, no Nanette” (1925) il musical di Youmans-Harbac-Caesar che segna il passaggio dall’Operetta propriamente detta al ‘Musical’, il cui successo mi permette qui di ripercorrere alcune importanti tappe della sua storia. Qualcuno di voi si starà chiedendo se per il piacere del revival o semplicemente per nostalgia senile? Nulla di tutto ciò. Basta riascoltare alcune delle musiche e delle canzoni che in quegli anni si ascoltavano sulla bocca di tutti per rendersi conto del successo che ha permesso loro di arrivare fino a noi, per rendersene conto. Perché in realtà, fra i numerosi musical andati in scena dall’inizio del ‘900 solo pochissimi (solo quelli ripresi all’epoca dal cinematografo nascente) sono sopravvissuti alla dimenticanza del tempo.

Molte sono però le canzoni rimaste di quegli spettacoli che pure hanno conservata intatta tutta la verve e la freschezza che le animava, nonché lo charm del tempo, e forse per qualcuno anche una certa superficialità che nell’allegrezza generale alludeva a una qualche forma di felicità. Ancora da “No, no Nanette” ricordiamo “I want to be happy with you” la cui interpretazione di Anna Neagle rimarrà per sempre nella storia del ‘grande’ Musical di quei tempi, ahimè assai lontani. Ma nulla è lecito rimpiangere se lasciamo libera la fantasia e apriamo le orecchie all’ascolto di “Alice Blue Gown” tratta da “Irene” (1919), una felice commedia brillante di Joseph McCarthy e musiche di Harry Tierney, cantata da Edith Day interprete della ‘prima’ messa in scena. O di quel “La canzone del deserto” (1926) dal musical omonimo, di Otto Harbac e Oscar Hammerstein sulla musica di Sigmund Romberg.

Dopo una serie di scoraggianti rinvii poi rientrati  arriva sulla scena “Show Boat” il cui debutto, il 15 Novembre del 1927 al National Theatre di Washington che segnò uno strepitoso successo anche per lo stuolo di attori e cantanti famosi che vi presero parte: Paul Robeson, Norma Terris, Edna May, Charles Winninger ed Helen Morgan che canta ‘Bill’ uno dei pezzi chiave del Musical. “Old man river” è solo una delle canzoni che va qui ricordata per la sublime interpretazione di Paul Robeson. La ‘storia’ (in breve) narra di un giocatore d’azzardo che si unisce ad una compagnia teatrale in viaggio su un battello in navigazione lungo il Mississippi che, innamoratosi della primadonna e dopo alcune peripezie, infine la sposa, dando così una svolta onorevole alla sua vita. Ripreso una prima volta per il cinema dallo stesso Ziegfeld nel 1929, venne in seguito filmato nel 1951 da George Sidney per la MGM con la partecipazioni di due splendidi attori: Howard Keel e Ava Gardner.

Ancora di quegli anni sono molti capolavori del genere musicale legati ad altrettanti successi di critica e di pubblico che hanno riempito le sale dei teatri e quelle dei cinema di tutto il mondo: “Oh, Kay” (1928) dall’omonimo musical di George Gershwin di cui fa parte anche una strepitosa “Overture”. “Zip” (1940) da “Pal Joey” di Rodgers e Hart. “Oklaoma” (1943) dallo spettacolo che porta lo stesso nome. “Bloody Mary” da “South Pacific” (1949) di Rodgers e Hammerstein “Guys and Dolls” (1950) dal musical omonimo di Frank Loeser e Joe Scarling. “Shall we dance” da “The King and I” (1951) di Rodgers e Hammerstein II°. “Strangers in paradise” da “Kismet” (1953) di Edward Knoblock e musica di André Previn, composta sulle “Danze Polovesiane” di Borodin. “The boy friend” (1954) di Sally Wilson sulla scia della ‘nostalgia’.

Successivamente: “The Carousel Valzer” da “Carousel” (1956) di A. Newman “I could have a danced all night” dallo strepitoso “My fair Lady” (1956) di Frederick Loewe e Alan Jay Lerner. “Edelweis” da “The sound of music” (1959) ancora dalla fortunata coppia di Rodgers e Hammerstein II° divenuto in seguito, come tanti altri qui citati, un film di successo dal titolo “Tutti insieme appassionatamente” con il quale si chiude un’epoca ‘sentimentale’ che pure è considerata ‘d’oro’ del Musical delle origini. Dopo quella data risultano cambiati i tempi, gli scrittori e i musicisti. Nuovi attori e attrici di talento si sono affacciati sulla scena teatrale che, inevitabilmente, si va adeguando alle nuove tendenze, alle artificiosità delle mode, alle tecnologie che avanzano e che permetteranno al Musical la sua evoluzione.

Negli anni ’60 e ’70 il musical-show abbandona l’illuministica visione di un mondo di favola per affrontare nuove e inusitate tematiche. Nulla è lasciato al caso, dalla tensione causata dai problemi razziali, alle ostilità di una possibile guerra futura, dallo scandalo procurato dalle prime nudità, alle accuse di alcuni accadimenti sociali e di cronaca. Ai nomi di Gershwin, Berlin, Porter dei primordi, si sostituiscono Robert E. Griffith, Harold S. Prince, Leonard Bernstein, Stephen Sondeim, Galt MacDermott, Jerome Ragni, James Rado, Jerome Robbins, Bob Fosse, Tim Rice, Andrew Lloyd Webber, Stephen Schwartz, Shapiro, Miller e numerosi altri. Ma è con “Fidler on the roof” (1964) di Jerry Bock e Sheldon Harnick con le coreografie di Jerome Robbins che, con le sue 3.442 repliche filate a battere ogni record d’incassi e, con il quale, si apre la nuova grande stagione del Musical moderno.

Tuttavia l’ondata ‘sentimentale’ iniziata da prima, non si arresta e, come è ovvio che accada, la sua eco risale fino agli anni ’60 e i primi anni ’70. Sulla stessa scia per così dire ‘del cuore’ troviamo “Mame” (1966) di Jerry Hermann e Jerome Lawrence in cui si narra di una anziana ‘Zia’ che riesce a portare lo sbandato nipote protagonista della storia, sulla retta via. Per arrivare infine ad “Annie” (1977) da cui la splendida “Tomorrow”, una favola per bambini di Charles Strouse e Martin Charmin che non dispiace affatto ai grandi che gli decretano un discreto successo, ripetuto negli anni a seguire come ‘classico’ da riproporre nel periodo natalizio. Ma come sappiamo i periodi storici si intersecano. La stessa ‘modernità’ non arriva da una fonte che sgorga improvvisa.

Spesso qualcosa accade e il genio si sprigiona all’interno della società in cui vive e della quale riesce a trovare la sintesi, quando arriva finanche a confutarne l’essenza. È il caso strabiliante di “West Side Story” (1957) di Robert E. Griffith e Harold S. Prince, con le musiche del grande compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, le canzoni di Stephen Sondheim e le coreografie dell’allora emergente coreografo di successo Jerome Robbins. Il conflitto tra bande rivali fa da sfondo a questi Romeo e Giulietta in panni moderni, trasferito per l’occasione nella periferia di New York. La vicenda acquisisce veridicità soprattutto per l’ambientazione scenografica del duo Boris Leven e Victor A. Angelin e le magistrali coreografie di Robbins, focalizzate con l’ambiente che circonda i protagonisti, tuttavia senza sacrificare la drammaticità del testo. Il finale della vittoria sulla banda ‘malvagia’ è scontato, ma ciò che rimane è in fondo lo specchio di una società che sta cambiando, della quale si avvertono i sintomi di una ribellione che non avrà più fine.

“Dopo 4 anni di successi e di repliche ininterrotte a Broadway, Robbins e Wise, superando non poche difficoltà, portarono sul grande schermo questo musical che contava già allora numerosissimi fan. Il dubbio che avevano i due registi era quello di non essere in grado di riproporre con la stessa intensità e freschezza visiva l'atmosfera magica dei balletti e delle canzoni del musical. Nonostante questo, il film risulta a tutt'oggi uno dei più bei musical e, allo stesso tempo, uno dei capolavori di tutti i tempi nella storia del cinema, premiato con ben 10 Oscar e osannato da milioni di persone in tutto il mondo (a Parigi restò in cartellone per 249 settimane).

"West Side Story" è stato il primo film ad aver vinto un doppio Oscar al miglior regista, ed è il film di genere musicale ad aver ricevuto il maggior numero di Academy Awards, battendo Gigi (1958), che ne ha ricevuti nove. Nel 1997 la pellicola è stata scelta per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al quarantunesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi, mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è sceso al cinquantunesimo posto.” (Wikipedia, ’enciclopedia libera). Prima che qualcuno si ponga la domanda sulla possibilità di una ‘moralità’ latente, esplode “Hair” (1968) di Rado, Ragni, MacDermot.

La data è quella della contestazione giovanile che trova sbocca un po’ in tutto il mondo contemporaneo con la forza rivoluzionaria e tuttavia innovatrice della protesta. Ma “Hair” non è semplicemente un Musical di successo che porta in scena gli enzimi rivoltosi di una gestione dell’opinione pubblica che rimette in discussione le scelte politiche della democrazia nel mondo, “Hair” scuote la gioventù di allora fino alle fondamenta verso nuove e inusitate esperienze, fino a diventare, successivamente,, il manifesto della ‘new-generation’ nel riscatto della propria libertà d’espressione. Il brano “Ain’t got no” segna la rivolta di quanti verranno in seguito appellati come ‘figli dei fiori’ per il loro estroverso e popolare modo di vestire che interrompeva la grigia austerità delle classi sociali ‘superiori’ e della elite economica ai governi dell’epoca. eppure “Hair”, per quanti hanno avuto modo di vederlo a teatro, (ricordo che esiste una versione cinematografica di grande impatto emozionale), conteneva ed affermava un messaggio di pace e di fraternità universali.

Sicuramente in negazione della necessità di quella guerra che il popolo americano era chiamato (non si sa bene da chi) a combattere per risolvere la problematica stabilità della democrazia nel mondo, per ristabilire la necessaria pace all’umanità tutta. Non spetta a me polemizzare sulla validità di certi principi o di riscrivere la storia, tuttavia “Hair” confermò la sua controtendenza allo ‘status quo’ con almeno due brani di forte impatto musicale: “Acquarius” e “Let’s the sunshine” divenute in breve ‘inno dei giovani di tutto il mondo e decretarono per molto tempo ancora il successo di una svolta sociale. Il successivo “Godspell” (1971) di Stephen Schwartz e John L. Tabelak, con la suggestiva “Day by day”, non può che confermare l’esito della nuova stagione del Musical, ormai avviato alla ricerca di altri territori incontaminati di esplorazione.

Non è un caso che vengano approfonditi aspetti insoliti della religiosità in crisi al momento e la Bibbia e i Vangeli ne fanno in parte le spese in chiave critica, filtrati attraverso le esigenze della musica e le contraddizioni del rock. Uno stratosferico successo arrise a “Jesus Christ Superstar” (1971) l’opera rock di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice che affrontava la vita del Cristo mescolando diversi episodi ripresi dal Nuovo Testamento. Dal Musical sarà presto tratto un film con lo stesso titolo che si sposta ‘in esterni’ utilizzando mezzi e tecnologie di ultima generazione e di sorprendente resa di effetti. Oltre alla memorabile “Ouverture” orchestrata da André Previn, e l’accattivante “Superstar” che fa da leit-motiv all’intera opera, vanno ricordate almeno altre due canzoni di sicuro impatto emozionale: “Everything's Alright”, e “I Don't Know How to Love Him” e i loro straordinari interpreti.

Il 1978 è l’anno di “Evita” portato in scena ancora una volta dalla coppia Andrew Lloyd Webber e Tim Rice. La storia è un esempio, forse il primo in assoluto, di Musical anticonformista sulla vita reale di un personaggio famoso salito alla ribalta delle cronache mondiali: Evita Peron. Momenti musicali e coreutici di una ‘bellezza’ straordinaria accompagnano l’apparire in scena del personaggio Evita in mezzo alla folla dei ‘descamiciados’ e di quando si affaccia al balcone della Casa Rosada per placare la folla preoccupata per la sua prossima fine, cantando “Don’t cry for me Argentina”, uno dei momenti più emozionanti che si ricordino nella storia del Musical. Successivamente trasferito in un film da Alan Parker con Antonio Banderas e Madonna nel ruolo di Evita, non verrà accolto con la stessa emozionale infatuazione che fece seguito al successo strepitoso della scena.

Con “A chorus line” (1976) di Michael Bennet e Edward Kleban su musiche di Marvin Hamlisch, Broadway vince la sua battaglia sul cinema. Il brano “One” che fa da accompagnamento all’intero spettacolo fornisce qui l’occasione per salutare il folto pubblico del film-musicale senza rancore di sorta, accreditandosi un ulteriore Premio Pulitzer per il dramma. Altri ne erano stati assegnati nel 1931 a “Off the I sing”, nel 1949 a “South Pacific”, a “Fiorello” nel 1959, e ancora all’esilarante “How to succed in business without really trying” nel 1961. Ho qui volutamente trascurato il rapporto che da sempre lega il film musicale con il musical-show cinematografico, sebbene l’interesse e il successo che lega lo spettacolo teatrale al cinema e viceversa siano state fonti inesauribili di interscambio di grande portata culturale nonché economica che ha permesso ad entrambe le arti di acquisire una propria identità musicale e linguistica strutturale, e quella che oggi possiamo a definire una autentica forma artistica, non solo  spettacolare e di mero intrattenimento.

 

Musical ancora in scena: “Hair” (1965) “Sweet Charity” (1966) “Cabaret” (1966) “Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat” (1968) “Rocky Horror Show” (1973) “Chicago” (1975) “Anny” (1977) “Jesus Christ Superstar” (1970) “Evita” (1975) “Barnum” (1980) “Cats” (1981) “Starlight Express” (1984) “Chess” (1985) “Phantom of the Opera” (1986) “All that Jazz” (1979) Ed ovviamente numerosi altri.


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