Il Contributo alla critica di me stesso1 è il vero e proprio testamento di Benedetto Croce. Scritto di getto in soli tre giorni, tra il 5 e l'8 aprile del 1915, con una rapidità di elaborazione che troverebbe immediata giustificazione nel desiderio che si accende nell'animo di chi, giunto alla fine dei propri giorni, consegni ai posteri le ultime volontà, raccogliendo in fretta le propire memorie. Ma oltre quarant'anni sarebbero trascorsi fra la stesura di quel testamento e l'ora della dipartita, e, certo, Croce non poteva saperlo. Neppure si sbaglia del tutto chi convenga di coglierne il motivo di fondo nel generale 'senso della fine' di una civiltà che, nell'anno in cui l'opera è datata, si ritrovava già in assetto di guerra.
Ancorché testamento, il Contributo non si lascia leggere come un'autobiografia. «Né confessioni, né ricordi, né memorie», scrive Croce in apertura al testo: non vi si troverà in queste pagine nulla che possa offrirsi al lettore a comporre una cronaca, o un'aneddotica, di personali vicende, quasi a prendere le distanze dall'intero genere letterario, ché a voler dare alla «propria transeunte individualità» la forma del racconto, presto ci si accorgerà di aver eretto a monumento della propria vita un'apologetica oppure un'autoaccusa, secondo il sentimento del momento in cui si scrive.
Dunque, non la cronaca di se stesso, ma la critica di se stesso è quel che Croce propone col proprio Contributo, riuscendovi senza difficoltà e infingimenti, poiché «la cronaca della mia vita», egli ricordava, «è tutta nella cronologia e nella bibliografia dei miei lavori letterari».
Facendo su di sé il medesimo lavoro che, affermava Goethe, lo storico fa lavorando sugli altri, e potendovi riuscire per il fatto di essersi risolto "tutto nel pensiero", nella completa dedizione al lavoro, in ciò che fu la sua missione e vocazione di storico e di filosofo, Croce ripercorreva «lo svolgimento etico e intellettuale» della sua vita, in cui opere e biografia si tengono insieme, cancellando ogni linea di demarcazione tra l'uomo pubblico e il cittadino privato, il politico e il filosofo, in cui sempre rischia di sdoppiarsi l'individuo che conosce successo e stima.
Non si può negare che ad attraversare le pagine del Contributo vi sia l'accenno ad una conquista. È un ideale antropologico più compiuto e pacificato la meta verso cui Croce dichiarava di essersi finalmente messo in cammino, ed anche l'indirizzo del pensiero e la forma del sistema filosofico che andava via via compiendosi acquisivano in quegli anni un grado di chiarezza e maturazione mai più superato. Così, fuor di ogni autobiografismo, veniva delineandosi l'immagine definitiva, e che ancora oggi conserviamo, dal maestro di Palazzo di Filomarino: «[...] ho conquistato la calma, che la maturità degli anni di gioventù porta a coloro, che, beninteso, hanno lavorato per maturarsi».
Il Contributo si rivela in ultimo un saggio pedagogico, l'unico che Croce abbia scritto, nell'unica forma in cui avrebbe potuto scriverlo, ossia in polemica con la stessa scienza pedagogica, che circoscrive il momento dell'educazione alla prima parte della vita, quando, invece, il tempo della formazione coincide con la vita intera. Per ciò che concerne quella calma conquistata, bisognava allora specificare in che cosa consistesse: non in godimento e riposo, ma in «fatica e lavoro armonico», nell'unità del sapere e dell'imparare.
Modestia e indulgenza del pensiero, raccomandava Croce: in ciò stanno l'uomo e il filosofare. Perché è solo in grazia di uno sforzo continuo di chiarificazione di sé e del reale che può speranzosamente aprirsi agli uomini l'orizzonte dell'avvenire e sostitursi «alla triste immagine dell'umanità cieca, brancolante nelle tenebre, l'immagine eroica di lei, che ascende a claritate in claritatem».
Note:
1. Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1989.
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Martina Dell'Annunziata
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