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Demetrio Stratos: alla ricerca della voce perduta.

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 08/11/2024 17:23:01

QUADERNI – 3 / La comunicazione vocale.

“Demetrio Stratos: alla ricerca della voce perduta”, di Giorgio Mancinelli.

(da “Folkoncerto: La voce come strumento di comunicazione”, RAI Tre. Articolo apparso su Nuova Scienza n.4 - 1978. Articolo su Demetrio Stratos – Vita (quotidiano del 10 febbraio 1979.)


Che la voce come segno distintivo dell’umano da sempre ci affascina, è già stato detto, ma che per questo continua a farlo, forse ancora no. Ed ecco arrivare la risposta a una domanda che ancora non è stata posta, almeno non in questo modo. È nel mistero della voce che essa ci distingue uno dall’altro? Certamente sì! Perché è unica, individuale e profondamente soggettiva. È, per così dire, il nostro marchio, come un’impronta digitale, e forse anche di più. Tuttavia: “Parlare della voce è sempre difficoltoso a qualunque livello..” – scrive Laura Pigozzi (1) del Movimento Psicanalitico Nodi Freudiani, studiosa delle connessioni tra psicanalisi ed espressione vocale su cui ha scritto numerosi saggi, nonché autrice di un prezioso libro dal titolo significativo “A nuda voce”, letto il quale, mi sono reso immediatamente conto di non avere niente altro da aggiungere, alla sua davvero ampia e persuasiva trattazione. “Il mistero della voce – scrive – è il marcatore che ci differenzia dal mondo animale e ci distingue uno dall’altro: è unica, individuale e profondamente soggettiva. Ma non può essere solo per questo che la voce ci cattura: lo sanno gli insegnanti quando cercano di far distinguere agli allievi i vari suoni che possono produrre o quando vogliono insegnar loro a crearne di nuovi; lo sanno i cantanti quando sono in difficoltà a descrivere il rapporto con la propria voce, soprattutto nei momenti in cui tale relazione entra in crisi”. (2)
“Per poterne dire, infatti, si usano metafore spesso prese da altri campi: dal registro del visivo, quando si parla del colore di una voce, della sua brillantezza o opacità, o persino dal repertorio del gusto, quando diciamo di un suono rotondo o pieno, aspro o dolce, quasi si trattasse di un buon vino. La metafora è, quindi, la forma di discorso più adatta per cogliere qualcosa della complessità della voce, della quale bisogna imparare ad accettare il difetto – che è pure la qualità che la rende interessante - di sfuggire sempre un po’, quasi fosse un amato o un’amata che mai si possiede fino in fondo. (..) Il rapporto che la lega al soggetto è sempre un po’ ambivalente, ambiguo, fatto di luci e ombre. (..) Ci sembra, infatti, di non possedere mai veramente la nostra voce, come quando, ascoltandoci in registrazione, non la riconosciamo come nostra. Tradizionalmente molte discipline hanno tematizzato la voce, da quelle artistiche a quelle mediche, ma la psicanalisi intrattiene con essa un rapporto di lunga storia che riguarda la nascita stessa di quest’arte: innanzitutto l’analisi è una talking cure, come l’ha giustamente definita la famosa paziente Anna O., al secolo Berta Pappenheim, in seguito diventata sociologa di rilievo”(3).
“Inoltre, la voce, e non solo la parola, acquista una rilevanza speciale nel rapporto tra paziente e analista: la voce del paziente cambia durante il percorso analitico e i momenti di trasformazione sono segnalati da caratteristici picchi di modificazione vocale. Per questo motivo al perdere la voce saranno dedicate molte riflessioni sulle voci familiari si aprirà articolandosi appunto intorno a tale interrogativo. Qual è la nostra vera voce, allora? Si capisce allora quanto, per parlare di voce, la metafora risulti indispensabile: infatti, c’è come un indicibile nella voce e per questo l’indagine psicanalitica deve occuparsene, dal momento che la psicanalisi si occupa, appunto, di indicibili. Benché esistano aberrazioni come il lifting vocale, peraltro di dubbia efficacia, fortunatamente il timbro individuale non è modificabile, come accade invece nella chirurgia plastica del polpastrello che può cambiarne l’impronta”. (..) Più in generale, possiamo dire che dalla voce viene la possibilità di trasmissione di ogni sapere che riguarda intimamente l’uomo nel suo difficile, e per nulla scontato, percorso di umanizzazione: nessuna formazione autentica, infatti, ha potuto o potrà mai affidarsi alla sola parola scritta. Occorre una voce che faccia da legame, da cuore del transfert, perché qualche frammento di verità passi tra un maestro e un allievo”(4).
“La voce, infatti, è implicata nella stessa possibilità della psicanalisi di trasmettersi e di creare un movimento: la psicanalisi, che per sua natura non può essere scolastica, ha bisogno del mezzo più vivo possibile, della voce, dunque, per il legame indissolubile che quest’ultima intrattiene con il lavoro dell’inconscio. E’ la voce, infatti, la voce e non solo il linguaggio – ad aprire l’accesso all’inconscio. La voce è l’inconscio, che si relaziona con i suoi colori, con le inaccessibilità del soggetto che, inaspettatamente, s’insinuano nel suo dire. La voce non è mai solo sostegno della parola; essa è – parafrasando Paul Valéry – come la poesia: un’esitazione prolungata tra suono e senso. Tra loro c’è l’inconscio, c’è la voce”. L’autrice si pone una domanda davvero molto interessante: “Ma perché le voci sono tutte diverse? – e ci offre anche una risposta plausibile – Certamente non solo per motivi anatomici. Il fatto è che la voce è anche e soprattutto memoria: la sua musica conserva le tracce della nostra storia che, a partire dal soffio iniziale, ne ha formato la trama, il timbro, il colore, la pasta. La voce è fondamento della soggettività”(5).
È ancora la linguistica, nello specifico la glottologia (detta anche linguistica storica, o linguistica diacronica), la disciplina che si occupa dello studio strutturale delle lingue e delle loro famiglie etimologiche e grammaticali, a venirci in aiuto nella comprensione del processo di evoluzione linguistica. L'obiettivo è tracciare lo sviluppo e le affiliazioni genetiche delle lingue nel mondo, e di comprendere le lingue cambiano nel tempo. Una classificazione di tutte le lingue in alberi genealogici è al tempo stesso un risultato importante ed uno strumento necessario di questo sforzo. Quelli che una volta erano dialetti della stessa lingua possono eventualmente divergere abbastanza da non essere più intercomprensibili, e da essere considerati lingue separate. Lo studioso di glottologia è il glottologo. Gli strumenti principali della glottologia sono l'analisi dei ricordi storici e la comparazione delle caratteristiche interne – vocabolario, morfologia e sintassi – di lingue attuali ed estinte.
L'obiettivo è tracciare lo sviluppo e le affiliazioni genetiche delle lingue nel mondo, e di comprendere le lingue cambiano nel tempo. Una classificazione di tutte le lingue in alberi genealogici è al tempo stesso un risultato importante ed uno strumento necessario di questo sforzo. Quelli che una volta erano dialetti della stessa lingua possono eventualmente divergere abbastanza da non essere più intercomprensibili, e da essere considerati lingue separate. Lo studioso di glottologia è il glottologo. Gli strumenti principali della glottologia sono l'analisi dei ricordi storici e la comparazione delle caratteristiche interne – vocabolario, morfologia e sintassi – di lingue attuali ed estinte. Come ormai è d’abitudine in questa ricerca, un passo indietro nella storia ci aiuta alla comprensione: “Uno dei metodi per illustrare la relazione tra lingue così divergenti eppure imparentate, è di costruire alberi genealogici, un'idea introdotta dal glottologo ottocentesco August Schleicher (7). La base è il metodo comparativo: le lingue che si presumono imparentate vengono confrontate, e il glottologo cerca corrispondenze fonetiche regolari basate su ciò che si sa del cambiamento linguistico, e le usa per ricostruire l'ipotesi migliore sulla natura dell'antenato comune da cui discendono le lingue attestate. L'uso del metodo comparativo è validato dalla sua applicazione a lingue il cui antenato comune è noto”.
Il metodo comparativo può essere usato per ricostruire lingue di cui non esistono testimonianze scritte, o perché non è stata preservata alcuna testimonianza: “È importante notare che il metodo comparativo si propone di distinguere la derivazione cosiddetta genetica - cioè il passaggio di una lingua di padre in figlio attraverso le generazioni – da somiglianze dovute a contatti culturali tra lingue contemporanee. Una volta che sono stati stabiliti i vari cambiamenti nei rami discendenti, e si è compreso una buona parte del vocabolario fondamentale e della grammatica della protolingua, allora gli studiosi generalmente concorderanno che una relazione di parentela genetica è stata dimostrata. Ad esempio, circa il 30% del vocabolario persiano viene dall'arabo, come risultato della conquista araba della Persia nell'VIII secolo e di importanti contatti culturali successivi. Eppure il persiano è considerato una lingua indoeuropea — per via del vocabolario fondamentale, che generalmente ha corrispondenze indoeuropee (mâdar = madre), e per molte caratteristiche grammaticali tipicamente indoeuropee”(8).
Poiché è così difficile supportare relazioni genetiche distanti, ed il metodo comparativo per trovarle e dimostrarle non è ben stabilito, il campo delle parentele più remote abbonda di controversie accademiche. Nondimeno, la tentazione di inseguire parentele remote resta un'attrazione potente per molti studiosi – dopo tutto, il protoindoeuropeo (9) doveva sembrare un'ipotesi piuttosto azzardata a molti quando fu proposto inizialmente. Ma come sappiamo, ormai accettato ampiamente. La linguistica comparativa, dunque, è uno studio che si sviluppa entro i confini dell'evoluzione storica e le fasi che ne contrassegnano i momenti di cambiamento e di differenziazione. Un sistema comparativo, appunto, che analizza il sovrapporsi dei vari stadi di trasformazione della lingua attraverso le contaminazioni che via via si accumulano nel tempo sotto la spinta di successivi mutamenti morfologici e fonematici. Donde il valore significante assume, di volta in volta, significati nuovi che sostituiscono quelli precedenti e si innervano nella nuova struttura antropologico - culturale che le ha generate.
Abbandoniamo qui la scienza linguistica per tuffarci nella letteratura scientifica più inerente alla nostra ricerca e lo facciamo con un’affermazione di Norman D. Hogikyan (10), direttore del Vocal UM Health Center, che ci ricorda non solo a pensare la salute vocale, ma i modi in che la voce umana influenza le nostre vite e ci unisce: "La voce comunica molto di più che semplici parole, ci lega tutti insieme e ci aiuta a definire come esseri umani. (..) Avete mai avuto l'esperienza del viaggio in un paese dove non si parlava la lingua e sembrava ancora in qualche modo di comunicare? Mentre agitando le mani e puntare il dito può certamente aiutare con le indicazioni, la voce umana comune permette rapidamente di discernere, che è un nuovo amico pronto a fornire assistenza e con i quali ci si può collegare vocalmente. Anche in questa epoca di sms, e-mail, Facebook e Twitter – egli dice – la parola rimane la principale modalità di comunicazione in tutto il mondo per la maggior parte delle persone - una vera comunicazione e non solo la diffusione di informazioni o supporto. Anche un individuo che utilizza spesso la comunicazione elettronica hanno avuto l'esperienza di aver bisogno della parola per chiarire un punto o risolvere un conflitto che si è sviluppato nel corso di un testo mal interpretato, e-mail o inviando. La comprensione reciproca che passa attraverso la voce umana non può essere duplicato. Mentre le parole di una canzone può essere fonte di ispirazione o di cuore, non si ha realmente bisogno di capire la lingua viene cantata per essere spostato? Non è la bellezza della voce umana stessa che ci si muove attraverso il canto?”.
Ed eccoci al punto “focale” del problema che qui più si vuole affrontare più che altro in termini musicologici, e lo facciamo con Demetrio Stratos (11) andando alla “ricerca della voce perduta”, così come, il ricercatore piuttosto che l’artista, l’ha sperimentata “dal vivo” nel breve corso della sua vita che, ricordiamo tutti ancora con apprensione, e di cui ci ha lasciato il ricordo dei suoi importanti studi sulla voce, non ancora teorizzati, incentrati perlopiù su sperimentazioni e ricerche vocali. Il suo studio della voce come strumento lo portò a raggiungere risultati al limite delle capacità umane: nella sua massima esibizione raggiunse i 7000 Hz (un tenore "normale" può arrivare mediamente a 523 Hz, mentre un soprano - quindi una donna - può raggiungere i 1046 Hz) ed era in grado di padroneggiare diplofonie, trifonie e quadrifonie (due, tre e quattro suoni contemporaneamente emessi con la voce). Infatti, progressivamente inoltratosi nel misterioso mondo dei suoni riprendendo ed ampliando un vasto discorso sul significato della voce a partire dalle civiltà orientali (tecnica Pansori(12)) e medio - orientali (tecnica di vocalizzazione palatale), quando nel 1978 lasciò gli Area per dedicarsi esclusivamente alla ricerca vocale, e non solo, molti musicisti sperimentali, già vedevano in lui il loro esponente di spicco, tanto da rimbalzare in vari programmi mediatici, solitamente non avvezzi alla musica alternativa, con la sua sproporzionata (e quasi soprannaturale) capacita vocale, che possiamo ancora apprezzare incisa sui dischi fonografici, purtroppo di non facile reperimento.
“Cantare la voce”(13), registrato dopo lunghe prove, senza ausili meccanici o elettronici, nel maggio del 1978, è un disco molto particolare, interessante per chi è attratto dalle potenzialità del corpo umano, pur richiedendo un ascolto reiterato per esser apprezzato nel suo insieme, un vero e proprio studio sulla teoria della musicalità della voce, capace di produrre suoni senza strumenti. Non un disco di musica in quanto la musica è assente, semplicemente registrato in base a studi e sperimentazioni di escursioni vocali, vocalizzi, suoni, che paiono e sono, grugniti mescolati ad acuti elevati, umanamente inconcepibili, nonché gargarismi, grovigli e peripezie vocali capaci di produrre suoni simultanei che si sovrappongono. Una molteplicità di suoni che lascia letteralmente esterrefatti chi ascolta in quanto le monodie tipiche vengono letteralmente “sostituite” da vocalizzi che rappresentano e sostituiscono a tutti gli effetti delle piccole orchestrazioni, più suoni emessi contemporaneamente e chiaramente distinguibili. Stratos è visceralmente attratto dalle potenzialità della voce che non smette di esercitare nella sperimentazione del proprio corpo come strumento: «L’ipertrofia vocale occidentale ha reso la voce pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandola nel recinto di determinate strutture linguistiche. È ancora molto difficile scuoterla dal suo processo di mummificazione e trascinarla fuori da consuetudini espressive privilegiate e istituzionalizzate dalla cultura delle classi dominanti, e che si spinge al recupero della dimensione primordiale in cui la sacralità della voce introduceva l’ascoltatore in una dimensione magica capace di curare l’anima» (14).
Scrive Gianni Sassi (15): “Spezzando la barriera che tiene prigioniera la vocalità nelle sue strutture linguistiche e psicologiche Stratos ha elaborato un sofisticato progetto di liberazione della «voce cantata» dagli «ideologismi» della cultura e della politica. Un progetto sorretto da grandissime capacità vocali e da complesse ricerche tecniche teoriche, che l'hanno portato dai palcoscenici del pop all'Istituto di Glottologia dell'Università di Padova, dalle performance nelle gallerie d'arte europee ai musei di tutto il mondo e in particolare a quel Roundabout Theatre di New York che vanta la direzione tecnica di John Cage di cui Demetrio è stato l'inimitabile interprete dei suoi più recenti lavori a partire da “Mesostics”, ne esiste una superba versione discografica del 1974. Se la «militanza» con gli Area ha dato al pop italiano le sue più belle bandiere, da “Arbeit macht frei” del 1973 a Maledetti del 1978, (gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano) è, tuttavia, la collaborazione con Cage in musica, con Cunningham nella danza, con Balestrini nella poesia, con gli psicoanalisti della scuola lacaniana nell'indagine fenomenologica della voce che ha dato vita a tutta una serie di esperienze interdisciplinari di estrema attualità aprendo la strada a nuovi risultati vocali di cui possiamo scorgere gli ultimissimi echi nella lettura di Artaud per la rassegna “Poesia ininterrotta» organizzata a Parigi da France Culture, o nel pezzo “Le Milleuna”(16), di Balestrini con il concorso mimico di Valeria Magli”.
Ricordo, in occasione dell’uscita del suo primo disco sulla voce, “Metrodora” (17), di avergli chiesto se la voce non comunica più nulla qual è la natura del problema? Stratos rispose: «Semplice. Oggi, con il declino della vecchia vocalità cantata, si tende ad usare la voce come tecnica di espressione. Io voglio spingere la mia ricerca più in là, fino ai limiti dell'impossibile. Faccio esperimenti sui suoni più acuti e sono arrivato fino a 7000 hertz. Cerco di prendere tre o quattro note alla volta, di lavorare sugli armonici. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la tecnica di espressione, è più che altro una tecnica di controllo mentale, è un microcosmo ancora da scoprire». Forse è questo che lo convinse nell'anno accademico 1978/79 a tenere un ciclo di lezioni sulla voce al Conservatorio di Milano e di discutere con gli studenti dei suoi studi di etnomusicologia. Credo che non ci rendesse davvero conto del grado di difficoltà affrontato da Stratos nelle sue triplofonie e della qualità di suono a cui era arrivato, le sue sperimentazioni lo avevano già portato alle soglie delle quadrifonie, un limite varcato da pochi nell'intera storia della musica.
Il processo di ricerca e sperimentazione è totale: catturato dalla “fase di lallazione” della figlia Anastassia, nata nell’ottobre del ’70, osserva i suoni vocali farsi gradualmente parola. Qui lamenti, flautofonie, criptomelodie infantili, investigazioni vocali, canti delle sirene e sonorità “altre” dall’ordinario e dai canoni commerciali della musica, di primo acchito disorientano, spiazzano, poi inondano e trasportano l’ascoltatore capace di farsi rapire a mitiche vette di una comunione pre-linguistica. Una «voce piena – come osserva Paul Zumthor (18) – che rifiuta qualsiasi ridondanza, esplosione dell’essere in direzione dell’origine perduta, del tempo in cui la voce era senza parola». Quello che interessa l’artista è realizzare appieno il concetto di “voce-musica”, una voce-suono non vincolata dalla parola, capace di recuperare le origini e la libertà d’espressione primordiali, e in grado, attraverso un lavoro di consapevolezza del mezzo vocale, di introdurci ad una dimensione ontopoietica della realtà.
E Stratos: “eroe in possesso di una dimensione ai limiti delle viscere dell’essere umano” – il critico musicale scrive Eduardo Peñuela Cañizal – ci riesce perpetrando ad ogni ascolto il richiamo ad una dimensione sonora originaria e magica come al tempo di Esiodo in cui le storie, affidate all’oralità, erano capaci di intervenire sullo spirito. Viscere perché? – viene da chiedersi. Ce lo spiega ancora una volta Laura Pigozzi (19), nel suo già citato “A nuda voce”, dove la vocalità incontra l’inconscio e la sessualità: “Anche un’altra ragione porta la psicanalisi verso una riflessione sulla voce: essa riguarda la relazione profonda che la voce intrattiene con la sfera della sessualità. L’approccio psicanalitico, appunto, si distingue da ogni altro approccio della psiche proprio per la posizione cruciale che destina alla sfera sessuale. Può forse sembrare ardito avvicinare vocalità e sessualità, eppure chi canta sa bene che c’è un legame tra laringe e zona genitale, e non solamente dal punto di vista della nevrosi isterica, che pur fornisce moltissimi contributi intorno a questo tema, come dimostra la ricchissima analisi di Dora, famosa paziente di Freud che soffriva di afonie, e di cui diremo. Infatti, in foniatria è normale parlare della laringe come organo sessuale secondario, cosa peraltro molto evidente in un particolare momento dell’esistenza: l’adolescenza. In questo periodo, difatti, la laringe si ingrandisce notevolmente, soprattutto nei maschi la cui muta vocale è marcatamente più accentuata che nelle femmine. Lo sconvolgimento ormonale dell’adolescenza riguarda la maturazione delle ghiandole sessuali, situazione che può comportare una difficoltà psichica a riconoscersi nel nuovo corpo in traumatica trasformazione e nella nuova voce che si carica di echi mai uditi, gravi e misteriosi. Gli adolescenti si trovano di fronte, contemporaneamente, ad una nuova identità sessuale e ad una nuova identità vocale”.
Pertanto non potremmo, a nessun livello, né psicanalitico, né didattico, né foniatrico, dire qualcosa di significativo sulla voce umana, se dimenticassimo il legame che essa intrattiene col sessuale che abita ogni soggetto: “Nella proposta teorica di associare la voce alla sessualità - aggiunge la studiosa - ha giocato anche la riflessione per cui la voce sembra proprio porsi come corpo della parola, e, per essere più precisi, come il sessuale della parola: rispetto ad essa la voce, in quanto suono, è il suo eccesso libidico, il suo erotismo, il suo godimento”. Nel capitolo sulla voce e l’amore riflette sulla circostanza per la quale una voce: - una su tante e proprio quella - ci può catturare irrimediabilmente: “è l’effetto di ciò che definisco il timbro blu – riprendendo la note bleue di Chopin - per indicare la voce, quella sola, che ci ammalia. La vicenda umana di Kandinskij che, si può dire, “sposò una voce” e la novella di Pirandello che racconta dell’innamoramento di un cieco per una voce, ci aiuteranno ad attraversare questo enigma” (20).
Alla voce come canto, incanto e incantamento, sono dedicate diverse pagine di questo studio: l’indagine sulla voce delle Sirene, a partire dal testo omerico, ci racconta dei suoi movimenti e della sua sapienza, che si gioca nel dramma del godimento e in quello del desiderio che muove ogni avanzamento umano: “La voce, da sempre, è congiunta all’amore. Dall’amore tra amanti, all’amore di transfert tra analista e paziente, a partire dall’amore che istituisce il legame vocale tra madre e bambino. La madre nutre il neonato, ancor prima che con il latte, con il flusso sonoro della sua prosodia vocale, ossia della musica che le sue parole intonano. Il figlio risponde con ecolalie e lallazioni, invenzioni sonore che sono una risposta alla madre ma anche un primo tentativo di individuazione di sé e di separazione da lei. La voce è il primo gioco del bambino, è la colonna sonora dei primi passi verso la costituzione della sua soggettività. La voce del padre racconterà della funzione strutturante, reperibile nell’aspetto ritmico del vocalico, così come ci si rivelerà in quanto voce - shofar che, mentre ricorda un patto, produce quel suono animale che, nel rituale ebraico, rende presente la voce di Dio” (21).
In questo lavoro si incontrano due arti a cui, da anni, l’autrice si dedica, la psicanalisi e lo studio della voce e del canto: “A chi non ha esperienza del pensiero psicanalitico potrebbe forse sembrare curioso accostare la psicanalisi all’arte, eppure questo era ciò che riteneva Freud quando - lui che era medico - si augurava che la psicanalisi fosse condotta anche e soprattutto da non medici. Lo psicanalista francese Jacques Lacan (22), dal canto suo, pensava alla psicanalisi come un “terzo” tra arte e scienza, un “terzo non ancora classificato … da un lato accostato alla scienza, mentre dall’altro prende la grana dell’arte”. La psicanalisi, come l’arte, rende conto dell’originalità umana: il suo approccio è, infatti, lontano dalla medicalizzazione del sintomo. Dall’altra parte, in analogia alla scienza, essa ritrova nel soggetto alcuni minimi ordini di regolarità che raccontano qualcosa di essenziale dell’essere umano e dei suoi meccanismi psichici. (..) In quanto arte, allora, la psicanalisi si avvicina alla soggettività vocale con un ascolto nuovo - eventualmente da affiancare agli interventi più classici sulla voce – che può segnalare quei comportamenti che, sul piano psichico, possono disanimare e pietrificare una voce, spogliandola della sua potenziale ricchezza”.

Introduzione a “La Milleuna”, di Gigliola Nocera, (vedi discografia).
Se è vero che ambigua è l’arte del “dire”, e che con tale ambiguità hanno fatto i conti tutti, dagli antichi rétori ad oggi, è vero che Demetrio Stratos è stato di questa ambiguità esploratore solitario, ma forte e audace quant’altri mai. Le Milleuna (e già mi chiedo: come definirlo, questo testo?) nasce esso stesso all’insegna di un’identità volutamente ambigua: non perché negata, ma perché multipla, stratificata, diversa. Sappiamo già che Le Milleuna, testo da “dire”, si origina da una sintesi quanto mai unica di tre diverse funzioni: la scrittura, il suono, il movimento. Tre diverse funzioni che sono tre diversi modi di articolare il linguaggio, la comunicazione: cento parole scritte da Nanni Balestrini su richiesta di Stratos che si moltiplicano, nel “dire” di Demetrio, fino a diventare dieci volte tanto, fino a diventare mille e una parola.; diverse tutte, tra loro, tranne che per l’iniziale lettera “s”, tranne che per quell’unico filo che lega tutte in un sibilo, un sospiro, un sussurro senza sosta. Accanto ed intorno a mille e una parola, a mille e un modo di “dire”, ecco mille e un modo sperimentati da Valeria Magli per muovere il proprio corpo di ballerina. Questa la sintesi, questo l’unicum che Le Milleuna ha rappresentato per noi e per tutti coloro che – dall’anno della sua creazione, il 1979, pochi preziosi mesi prima della morte di Stratos – hanno assistito alla sua performance nei teatri di tutto il mondo. Ma adesso Le Milleuna è tutto qui, è voce sola, è solo dire: e proprio a partire da questo bisogna rifare i conti (sempre aperti, come con tutta la produzione di Stratos), con l’apparente frantumazione che questo testo subisce nel suo farsi solamente suono, o – pronunciamola, la parola – disco. Ed è qui, finalmente, che a mio parere si verifica la felice liberazione dell’ambiguità: la voce di Demetrio, che ripete e moltiplica in parabola sonora le cento parole di Nanni Balestrini, e che non è più accompagnata da mille corpi di Valeria Magli, non è superstite di un trittico felice, non è naufraga di un viaggio in compagnia, non è un relitto. La voce di Demetrio che scandisce Le Milleuna, testo nato già in partenza come audace impresa trinitaria, sa e vuole essere qui audacemente una e trina. Lo scopriamo adesso, grazie a questo disco, e ci si apre dinanzi un abisso inquietante in cui l’ambiguità si fa ricchezza, e la voce – il suono, il “dire” – si fa con rinnovata impetuosità, scrittura e movimento. Ancor più che lo spazio magico di un palcoscenico teatrale che Stratos, Balestrini e Magli avevano voluto quasi disadorno affinché su di esso – grazie a pochi oggetti e a semplici e reiterati colpi di luce – spiccassero il suono e il movimento, è l’astratto palcoscenico di un disco che ci fa scoprire la capacità diabolica della voce di Demetrio Stratos. Stratofonia, voglio chiamarla, e dire che essa sa essere suono che si fa corpo, corpo che si muove, e che muovendosi crea e semina la traccia di una scrittura che vive a sua volta in un nuovo suono. così per mille e una volta, in un giro senza fine che non si riveste di alcuna voluta ossessività alla Erik Satie, ma che si fa incanto fabulatorio come quello di Sheherazade. E chissà che per Stratos la figura antica leggendaria, venuta da un ignoto oriente, della bella che narra e narra per non morire, non abbia costituito un punto di riferimento profondo, forse un esorcismo inconscio: un’ennesima S da cui le mille parole di Balestrini, tutte inizianti per s come sesso, prendono nome e vita. Sesso e dunque Eros. Ed è allora nell’infinita iterazione di una parola che si fa Eros che Sheherazade e Stratos trovano forse la chiave per esorcizzare Thanatos, e non morire più. A questo punto è la Voce che sa essere motore trinitario, che sa fare delle allitterazioni di Balestrini un gioco di sussurri tanto quanto di impetuose sonorità, e creare un corpo di ballerina che salta, e sale, e scende, e scivola dentro e tra le parole non tralasciando di essere corpo anche quando si fa silenzio. Sì, Le Milleuna, è un grande corpo sonoro, erotico soprattutto perché eretico, e per il quale nessuno vi porgerà amabilmente un lasciapassare. Forse Le Milleuna è Stratos, che ci consegna sé stesso attraverso un gioco rischioso, attraverso un percorso labirintico, ma incantatore e sinuoso, come quello della lettera S dal corpo di sirena.
Daniel Charles scrive di lui in “La Milleuna” (vedi discografia).
Innanzitutto, come non ricordarsi di lui se non come un gigante della musica pop? Demetrio si era dedicato a questa musica, letteralmente e profondamente sua. Il gruppo I Ribelli era già lui, negli anni sessanta – con quella foga che l’aveva fatto conoscere al pubblico. Ma dal ’72 in poi viene consacrazione vera e propria quando costituirà il gruppo Area e cominceranno le registrazioni per la Cramps Records. La sua voce, una forza e generosità fenomenali, l’audacia dei suoi interventi strumentali ed i suoi arrangiamenti, lo catapultano all’improvviso nell’estrema avanguardia. A Milano, lavora con Juan Hidalgo e Walter Marchetti, cioè con il gruppo Zaj, accanto a loro si inizia al pensiero e all’opera di John Cage. Nel ’74 elabora un’affascinante versione per la soloa voce dei Mesostics re Merce Cunningham, del Maestro di Stone Point; la cui incisione presso la Cramps farà epoca. La frequentazione di poeti (Balestrini), danzatori (V. Magli, M. Cunningham), scrittori (Simonetti), lo porta a New York dove le serate da lui organizzate al Roundabout Theatre lo consacrano sul piano internazionale. Contemporaneamente a ricerche sofisticate nell’ambito della poesia fonetica e sperimentale, inizia un lavoro mirante a liberare la voce da qualsiasi dipendenza dalle tecniche sterilizzanti, in modo da restituirle il suo spessore perduto. I suoi esperimenti in concerto, indimenticabili, si trovano fissati per sempre nelle sue due registrazioni Metrodora e Cantare la Voce. Saltano tutti i registri (..) soprattutto in questo mediterraneo che si vuole, si sente, si sa orientale, la monodia viene polverizzata dalla demoltiplicazione dello spettro acustico e dai suoi vocalizzi che, da soli, costituiscono delle vere e proprie micro-orchestrazioni, al di fuori di qualsiasi amplificazione tecnologica. Quale docente all’Università di Padova poi di Milano, si appassiona – e appassiona i suoi studenti – per l’etnomusicologia e la psicanalisi. E tutto ciò, senza mai dimenticare l’originaria cultura pop da cui è partiti, testimoniano che non è arte né poesia genuina se non insita nel canto profondo dell’uomo.
Biografia:
Demetrio Stratos nasce ad Alessandria d'Egitto da una famiglia di origine greca. Tredici anni di vita li passa ad Alessandria d'Egitto studiando pianoforte e fisarmonica al prestigioso Conservatoire National d'Athènes. Nel 1962 si trasferisce a Milano dove si iscrive alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. È in questa città che, nel 1966, si unisce come voce solista e pianista al gruppo beat de I Ribelli con i quali registra alcuni 45 giri di successo, come “Pugni chiusi”, “Chi mi aiuterà” e “Oh Darling!”, ed un LP. Dopo quest'esperienza pubblica nel 1971 un 45 giri per la Numero Uno di Lucio Battisti, e fonda nel 1972 il gruppo degli Area che si afferma in Italia e all'estero sulla scia della fusion e del rock progressivo. A lato della discografia ufficiale degli Area, per cui Stratos è ricordato, non bisogna dimenticare la discografia solista, perlopiù centrata su sperimentazioni e ricerche vocali. Il suo studio della voce come strumento lo portò a raggiungere risultati al limite delle capacità umane: nella sua massima esibizione raggiunse i 7000 Hz (un tenore "normale" può arrivare mediamente a 523 Hz, mentre un soprano - quindi una donna - può raggiungere i 1046 Hz) ed era in grado di padroneggiare diplofonie, trifonie e quadrifonie (due, tre e quattro suoni contemporaneamente emessi con la voce). Inoltre, Stratos compì ricerche di etnomusicologia ed estensione vocale in collaborazione con il CNR di Padova e studiò le modalità canore dei popoli asiatici. Grazie ai suoi già notevoli requisiti, alle tecniche acquisite ed agli studi del Cnr riuscì a raggiungere risultati ancora ineguagliati. Nel 1974 prese parte a tournée e festival in Francia, Portogallo, Svizzera e Cuba; a Cuba ricevette l'invito dal Ministero della Cultura ad incontrarsi con la Delegazione di musicisti della Mongolia per partecipare a un dibattito sulla vocalità dell'Estremo oriente; Stratos si era infatti progressivamente inoltrato nel misterioso mondo dei suoni riprendendo ed ampliando un vasto discorso sul significato della voce nelle civiltà orientali e medio-orientali. Nel 1978 lasciò gli Area per dedicarsi esclusivamente alla ricerca vocale. In quest'anno accrebbe la sua fama internazionale partecipando, su invito di John Cage, a concerti tenuti al Roundabout Theatre di New York; è proprio di questo periodo "Event" con Merce Cunningham e la Dance Company, eseguito con la direzione artistica di Jasper Johns, quella musicale di Cage e la collaborazione di Andy Warhol per i costumi. Morì prematuramente al Memorial Hospital di New York all'età di 34 anni affetto da una leucemia dirompente (causa della morte fu un collasso cardiocircolatorio) il 13 giugno 1979, il giorno precedente al grande concerto di Milano che era stato promosso per raccogliere fondi da utilizzare nella costosa degenza. La sua morte sconvolse tutto il mondo dello spettacolo e non solo i musicisti sperimentali, che vedevano nell'artista il loro esponente di spicco, tanto da rimbalzare in vari programmi mediatici solitamente non avvezzi alla musica alternativa. La sua salma è conservata nel cimitero del piccolo borgo di Scipione Castello, frazione di Salsomaggiore Terme (PR), che dal 2000 organizza tutti gli anni un week end di concerti dedicati all'artista. A Demetrio Stratos è intitolato l'auditorium degli studi di Radio Popolare, a Milano.Dal 1996 si tiene ad Alberone di Cento (FE) una Rassegna di Musica Diversa in omaggio a Demetrio Stratos alla quale partecipano numerose band underground italiane.

Discografia:

“Arbeit Macht Frei” – Area – Cramps -1973
“Caution Radiation Area” – Area – Cramps 1974
“Crac!”- Area – Cramps 1974
“Are(A)zione” – Area – Cramps 1975
“Maledetti” – Area – Cramp 1976
“Cantata Rossa per Taal al Zaatar” – Edizioni di Cultura Popolare VPA 113 - 1976
“Metrodora “- Collana DIVerso – Cramps 1976
“Anto/Logicamente” – Area – Cramps 1977
“O'Tzitziras O'Mitziras” – Collana Futura – Cramps 1978
“Cantare la voce” – Collana Nuova Musica - Cramps 1978
“1978, gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano! – Ascolto 1978
“Recitarcantando” – 1978
“Parco Lambro” – Laboratorio 1978
Mauro Pagani – Ascolto 1978
“Carnascialia” – Mirto 1979
“Rock'n roll exhibition” - Cramps 1979
“Le Milleuna” – Cramps 1979
“Event ‘76” – Cramps 1979

Collaborazioni, anche importanti, si trovano in occasione di interventi singoli di altri autori.

Cinema e DVD:

“Suonare la Voce”, Demetrio Stratos Box: 1DVD + 1 Libro – Cramps.
“1979 Il concerto” (Omaggio a D. Stratos), AAVV – Box: 1DVD + 2CD + 1 Libro – Cramps.
"La Voce Stratos" il film-documentario di Luciano D'Onofrio e Monica Affatato.

Altro sull’argomento “Voce”:
“Una Voce” romanzo di Anais Nin - Bompiani, 1999.
“La voce umana”(1948), film di Rossellini, interpretato da Anna Magnani, episodio incluso nel film “L'amore”, nel quale la Magnani si cimenta in un appassionato quanto angoscioso soliloquio, un grande pezzo di bravura interpretativa, la telefonata di una donna abbandonata dall'amante.
“La voce umana" (1959) (titolo originale: La voix humaine) tragédie lyrique in un atto unico del compositore francese Francis Poulenc, derivata dalla piéce omonima di Jean Cocteau, che firma il libretto. L'opera fu scritta nel 1958 e fu messa in scena per la prima volta il 6 febbraio 1959 da Denise Duval alla salle Favart del Théâtre National de l'Opéra-Comique di Parigi.
“La voce umana” (1967), film di Ted Kotcheff, con Ingrid Bergman - Gran Bretagna.
“La Voix humaine”, versione per pianoforte di Francis Poulenc, con il soprano Anne Béranger e il pianista Setrak (1982 - Le Chant du Monde), nell'opera, della durata di circa 40 minuti, la suoneria del telefono prevista dal testo di Cocteau viene resa attraverso uno xilofono. L'opera, in forma di monologo, prevede lunghi passaggi di canto senza accompagnamento musicale.
“My Fair Lady”, film - musical del 1956 di Alan Jay Lerner, autore del libretto su musiche di Frederic Loewe, adattato dall'opera Pigmalione di George Bernard Shaw. Diretto da Moss Hart, con costumi di Cecil Beaton e scene di Oliver Messel. Nel cast, capeggiato da Rex Harrison e Julie Andrews, c'erano Stanley Holloway e Robert Coote. Il cinico professore di fonetica Henry Higgins (Rex Harrison) accetta la scommessa di riuscire a far apparire l'incolta e rozza fioraia Eliza Doolittle (Julie Andrews) come una signora degna dell'alta società. Vincerà la scommessa e scoprirà di saper provare anche lui dei sentimenti.
“Farinelli: La voce regina”. un film del 1995 del regista belga Gérard Corbiau, di produzione italo-francese, sulla vita del celebre cantante castrato del XVIII secolo Carlo Broschi, in arte Farinelli. Un elemento centrale del film sono le presunte avventure erotiche di Farinelli, che non hanno alcuna base storica e sono anzi altamente improbabili. Un elemento centrale del film sono le presunte avventure erotiche di Farinelli, che non hanno alcuna base storica e sono anzi altamente improbabili. L'attore Stefano Dionisi, che interpreta il protagonista, recita le battute di dialogo, mentre nelle parti cantate, per riprodurre la particolarissima voce di un castrato, sono state registrate separatamente le voci di un soprano donna, Ewa Małas-Godlewska, e di un controtenore uomo, Derek Lee Ragin, e poi mixate insieme con mezzi digitali.
“Il discorso del re” (The King's Speech), film diretto da Tom Hooper, interpretato da Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter e Guy Pearce. La storia ruota attorno ai problemi di balbuzie di Re Giorgio VI e al rapporto con il logopedista che lo ha in cura. Il film ha vinto il premio del pubblico al Toronto International Film Festival; 5 British Independent Film Awards 2010, e ha ottenuto 7 candidature ai Golden Globe 2011: (una ha fruttato il Golden Globe per il miglior attore in un film drammatico al protagonista Colin Firth), ben 7 BAFTA incluso miglior film dell'anno e miglior film britannico, nonché 4 premi Oscar su 12 candidature: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista e miglior sceneggiatura originale.

Note:
(1-2-3-4-5-6) Laura Pigozzi vive e lavora a Milano. Fa parte del Movimento Psicanalitico Nodi Freudiani.Si occupa del rapporto tra psicanalisi e modernità, con particolare riferimento al tema della perversione e dei nuovi sintomi del femminile. Tra i suoi interessi le connessioni tra psicanalisi ed espressione vocale, su cui ha scritto numerosi saggi. Canta jazz e tiene corsi di formazione vocale per cantanti, insegnanti, attori. “A nuda voce” non è il suo unico libro sull’argomento……
(7-8) August Schleicher, linguista tedesco. La sua opera principale, Compendium der vergleichenden Grammatik der indo-germanischen Sprachen (Compendio della grammatica comparativa delle lingue indoeuropee, 1861-1862) ha rappresentato una delle pietre miliari della linguistica indoeuropea. Fu il primo a proporre il modello ad albero genealogico che individuava ed esemplificava le parentele fra lingue e gruppi linguistici e la loro appartenenza ad una determinata famiglia. Le Teoria dell'albero genealogico rappresentò il principale contributo di Schleicher alla linguistica comparata ed ebbe una profonda influenza sull'indoeuropeistica tra fine XIX ed inizio XX secolo, nonostante le numerose difficoltà che presentava e che vennero via via evidenziate.
(9) protoindoeuropeo: All'interno di una singola lingua, il metodo consiste nel raffrontare sistematicamente vari elementi simili all'interno di un idioma, per determinarne le regolarità e, di conseguenza, le leggi di evoluzione. Un esempio di questo genere di applicazione è la Legge di Grimm, che descrive l'evoluzione dal protoindoeuropeo al protogermanico delle consonanti occlusive. A conferma di ciò la linguistica comparativa, si sviluppa entro i confini dell'evoluzione storica e le fasi che ne contrassegnano i momenti di cambiamento e di differenziazione. Un sistema comparativo, appunto, che analizza il sovrapporsi dei vari stadi di trasformazione della lingua attraverso le contaminazioni che via via si accumulano nel tempo sotto la spinta di successivi mutamenti morfologici e fonematici. Così il valore significante assume, di volta in volta, significati nuovi che sostituiscono quelli precedenti e si innervano nella nuova struttura antropologico-culturale che le ha generate.
(10) Norman D. Hogikyan, direttore del Vocal UM Health Center, In riconoscimento del World Voice Day il 16 aprile, MD, professore di otorinolaringoiatria presso l'Università del Michigan Medical School e Hogikyan.

(11) Demetrio Stratos (vedi biografia e discografia)

(12) “Pansori: Korea’s Epic Vocal Art & Instrumental Music” – CD - Nonesuch Explorer - 1972: Il p'ansori (판소리) è una forma teatrale coreana unica nel suo genere, nella quale viene raccontata una lunga storia mediante il canto e la narrazione. Questo dramma musicale viene interpretato da una sola persona, un maestro cantore (myŏngch'ang 명창 名唱), solitamente una donna, che ha studiato per anni per raggiungere la voce ideale, la quale interpreta tutta le parti utilizzando le varie tonalità vocali. La staticità del p'ansori viene evitata dal ch'anggŭk, che è un dramma musicale basato sul p'ansori, ma che utilizza cantanti diversi per i vari ruoli e questi, invece di raccontare la storia, oggi la rappresentano, come avviene in un'opera teatrale. Va qui considerato la performance “epica” dura dalle cinque alle otto ore aiutandosi con pochi e stereotipati gesti. La sua tecnica richiede comunicativa e ricchezza mimica tale da suggestionare il pubblico che l’ascolta. Verso l'inizio del XVIII secolo nacque un nuovo tipo di narrativa, il p'ansori (P'ansorigye sosŏl). La parola p'ansori o pansori può essere suddivisa in due: pan significa “un posto dove si radunano le persone” e sori significa “suono”. I pansori erano inizialmente un tipo di poesia epica che si tramandava oralmente e trattava tematiche della vita reale, basandosi su un'alta espressione musicale mescolata ad un pizzico di umor. Sebbene sia nato come tipo di musica tradizionale, fa parte della narrativa fu considerato da molti un genere drammatico. La sua origine non è chiara, probabilmente proveniva dai canti degli sciamani di Chŏlla, infatti alcuni elementi che si possono ritrovare nel pansori tradizionale si assomigliano. I primi erano molto semplici per quanto riguarda la forma e il contenuto, ma in seguito la musica fu arricchita per attirare l'attenzione del pubblico durante le performance. A noi sono arrivati solo dodici pansori raccolti da Song Mansŏ nel "Kwanyujae", di questi dodici però solo cinque ne sono rimasti con la partitura. Gli altri sette ci sono arrivati come storie in prosa. Lo scopo dei pansori era quello di far ridere e piangere contemporaneamente il pubblico che guardava la performance, mentre l'elemento più interessante era l'uso di vari livelli del discorso, l'interlocutore mostrava come il linguaggio cambiava in base alle circostanze o alla persona a cui si rivolgeva.
(13) “Cantare la voce” Demetrio Stratos (vedi discografia)
(14) “Demetrio Stratos” di Mario Giusti – U. Mursia Edit. – Milano 1979 – “Questo libro è dedicato a Demetrio e a tutti i Demetrio Stratos del mondo. Alla loro opera ed al coraggio di usarla per affermare la nostra libertà”.
(15) Gianni Sassi (in Laboratorio & Musica, Anno I n.4, settembre 1979)
(16) “Le Milleuna” Demetrio Stratos (vedi discografia)
(17) Intervista rilasciata al teatro Alberico di Roma dopo la performance per l’uscita dell’album “Metrodora”. Demetrio Stratos (vedi discografia).
(18) Paul Zumthor, critico letterario svizzero, che si è occupato specialmente delle letterature del Medioevo romanzo. Ha insegnato presso l'Università di Amsterdam, dove per vent'anni ha diretto l’Institut des langues et littératures romanes; dal 1968 a Vincennes e dal 1971 a al 1980 a Montréal. Tra le sue opere più importanti, che offrono una visione d'insieme della tradizione letteraria medievale, si possono ricordare l'Histoire littéraire de la France médiévale (VIe-XIVe s.) del 1954, Langue et technique poétiques à l’époque romane (XI-XIIIe s.) del 1963 (Lingua e tecniche poetiche nell'età romanica, Bologna 1973), il celebre Essai de poétique médiévale (1972; Semiologia e poetica medievale, Milano 1972) e Langue, texte, énigme (1975; Lingua, testo, enigma, Genova 1991). Fondamentali gli studi di Zumthor sulla poesia orale: Introduction à la poésie orale (1983; La presenza della voce: introduzione alla poesia orale, Bologna 2001) e La lettre et la voix ou De la "littérature" médiévale (1987; La lettera e la voce. Sulla "letteratura" medievale, Bologna 1990).
(19-20-21) Laura Pigozzi op. Cit.
(22) Jacques Lacan, Séminaire inédit, Les non-dupes-errent, le 9 avril 1974, lezione reperibile all’indirizzo web http://perso.orange.fr/espace.freud/topos/psycha/psysem/nondup/nondup11.htm Passo citato anche da A. Didier-Weill, Invocations, Calmann-Lévy, Pris, 1998, p.13,.



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