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Intervista a Silvia e Ugo

Argomento: Educazione

di Lorenzo Roberto Quaglia
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Pubblicato il 08/03/2013 22:24:23

Incontro Ugo con Silvia e i bambini, Riccardo di 5 anni e Letizia di 3 un venerdì uggioso di gennaio, in un tardo pomeriggio post asilo. Ugo lo conosco da più di venticinque anni, è stato il mio testimone di nozze e da più di tre anni è malato di SLA, la ormai non più rara malattia meglio nota come Sclerosi Laterale Amiotrofica. Comunica tramite un sintetizzatore vocale comandato dagli occhi, l’unica parte del corpo che riesce ancora a muovere.

D. Chiedo a Silvia: parlami dell’inizio del vostro rapporto.
R. Ci siamo conosciuti da adulti: un anno di fidanzamento, oltretutto vissuto a distanza per impegni lavorativi in Cina di Ugo [che è ingegnere meccanico]. Abbiamo litigato tantissimo, da fidanzati! Per fortuna ci siamo sposati dopo pochi mesi. Un giorno, istantaneamente, ho avuto una certezza: che quest’uomo, dalla notte dei tempi, era stato pensato da Dio per me. Non c’erano altre persone con cui, come con lui, sentissi di non aver bisogno di fingere. Non potevo lasciarmelo scappare! Era una delle piccole grandi certezze della vita, intuizioni come fiammelle che sono la strada per trovare il fuoco. Ci siamo sposati nel 2005, ti ricordi vero il nostro matrimonio?! Nel febbraio 2008 nasce Riccardo, dopo poco rimango in attesa di Letizia la cui nascita è prevista per settembre 2009. A giugno 2009 scopriamo che Ugo è affetto da SLA.

D. Come è andata?
R. Ugo in quel periodo si sentiva un poco stanco. Un amico fisiatra ha l’accortezza di indicarci alcuni esami che sembra opportuno effettuare. Il verdetto è terribile: Ugo è affetto da SLA. Il nostro impatto con la malattia è stato brutale. Lo specialista ha guardato in faccia mio marito e me, che avevo il pancione del settimo mese di gravidanza, e ci ha detto senza mezzi termini di non fare progetti a lunga scadenza; di non accendere un mutuo a dieci anni, e che se Ugo voleva fare una corsa oggi non la rimandasse a domani perché forse domani non avrebbe più potuto farla. E’ stato uno choc ed un insulto. Abbiamo cercato di reagire e di affrontare comunque la realtà inattesa e carica di angoscia. L’aiuto ci è venuto dal Centro Nemo del Niguarda di Milano, un polo specializzato per la SLA, dove l’approccio è del tutto diverso: al drastico “non c’è nulla da fare” che ci eravamo sentiti sentenziare dal medico si contrappone qui un semplice e concreto “vediamo cosa si può fare”. Ci sono stati accanto per aiutarci a capire qual è il modo migliore di affrontare la situazione. Purtroppo, con Ugo la SLA si dimostra subito una brutta bestia vorace. All’inizio di settembre, quando Letizia nasce, Ugo già fatica a stare in piedi. Iniziamo mesi terribili, in cui, con velocità spaventosa, Ugo sembra cedere terreno alla malattia in una ritirata senza tregua: in pochi mesi è in sedia a rotelle. A febbraio 2010, dopo un ricovero al Nemo, Ugo non muove più le braccia.

D. Come hai fatto tu, con i bambini, in questa circostanza ad andare avanti?
R. Quando Ugo esce dal Nemo, a febbraio, inizia un movimento di amicizia e solidarietà che ben presto assume proporzioni non previste. I nostri amici, in particolare quelli del movimento di Comunione e Liberazione si organizzano in turni: ogni sera arrivano almeno in due, con la cena pronta e le maniche rimboccate. Certo, questa situazione ha degli aspetti difficili: significa che la propria casa smette di essere casa propria, e deve aprirsi per forza ad un via-vai di generosità e amicizia che ha aspetti bellissimi ma richiede comunque accettazione ed accoglienza. Nasce una grande attenzione nei confronti della nostra situazione; eppure, paradossalmente, molte delle persone che vengono qui dicono di farlo perché si sentono aiutate da noi. Si viene per dare una mano, ma spesso la motivazione profonda è più forte, e risiede nel bisogno che tutti abbiamo di essere aiutati. Questo ha del miracoloso. Noi non facciamo proprio niente, non vogliamo insegnare niente a nessuno, eppure quando qualcuno viene qui poi ci confida di stare meglio lui stesso, e ci sono diverse persone che chiedono di poter venire ad aiutarci. Pensa che in parrocchia si fanno i turni perché ogni giorno ci sia qualcuno che recita il rosario per Ugo. Noi così sappiamo che quotidianamente qualcuno dedica tempo e preghiere espressamente per noi. Altri hanno organizzato pellegrinaggi alla tomba di don Giussani, di cui è stata recentemente inaugurata la causa di beatificazione, per chiedere la grazia della guarigione. A pregare per noi ci sono persone amiche, ma anche tanti sconosciuti: addirittura un monastero di clausura in Armenia, a cui un amico ha raccontato la nostra situazione. La forza della preghiera è tangibile. Per noi, in particolare per me, è come avere accanto una persona in più. È difficile spiegarlo, se non se ne ha esperienza: non sono parole vuote, che finiscono nel nulla, ma è un aiuto veramente concreto e sostanziale. All’aiuto spirituale si affianca poi l’aiuto pratico. Abbiamo persone che vengono qui e danno una mano in tutto. Quando ho bisogno di qualcosa, alzo il telefono e trovo sempre una risposta maggiore delle aspettative.

D. Come sei cambiata in questi mesi?
R. Ho imparato, prima di tutto, ad amare mio marito come non avrei mai immaginato e sperato: sono innamorata di lui e lo risposerei immediatamente, nella situazione in cui si trova. Ho compreso che una persona non è ciò che può o non può fare: il suo valore è altrove. E poi ho imparato a chiedere aiuto, amicizia, sostegno e compagnia. Troppo spesso siamo portati a cercare di far tutto da soli, arrogandoci il diritto di poter bastare a noi stessi. Invece siamo creature dipendenti, e Ugo lo mostra in modo eclatante. Lui, oggettivamente, dipende dagli altri in qualsiasi cosa: dalle più piccole, come grattarsi la fronte, fino a quelle fondamentali come il nutrirsi o addirittura il respirare. E tuttavia lui mostra, in modo estremo, quello che ciascuno di noi è. Io stessa ho imparato a chiedere aiuto, perché oggettivamente non ce la faccio: è una situazione più grande di tutti noi. Si inizia a vedere che l’uomo è fatto per stare con gli altri, in un ambito comunitario. Sono convinta che chi muore di disperazione da un lato non si sia reso conto che ogni difficoltà racchiude possibilità buone anche per chi lo vive, e dall’altro si sia chiuso in se stesso, restando solo e così condannandosi all’angoscia. La presenza degli altri è un immenso aiuto: qualcuno che viene e chiede come stai, come va, se hai bisogno di qualcosa; e non lo chiede solo per formalità, ma perché veramente ci tiene a te. Questo ti dà un respiro infinito, ti dà la possibilità di ripartire, di guardare a coloro che hai vicino e che ami in un modo nuovo tutti i giorni. E ciò è più che mai necessario, in quanto ogni giornata è segnata dalla fatica. Fin dal risveglio, Ugo ha problemi respiratori per via delle secrezioni che si accumulano nella cannula durante il sonno. Poi bisogna spostarlo per l’igiene personale. Troppo spesso ci si approccia alle persone con difficoltà di questo tipo come se fossero prima di tutto ammalate. Invece, Ugo prima di tutto è mio marito: ed è un uomo che ha bisogno di fare una doccia, come tutti. E, come tutti, Ugo fa la doccia tutte le mattine. Certo, è una fatica, prima di tutto per lui, perché per spostarlo ci vuole un sollevatore... Eppure tutto ciò mantiene alta la sua dignità. A noi avevano suggerito un letto motorizzato, come quello degli ospedali, fin dal primo ricovero. Noi invece abbiamo scelto di dormire insieme ancora oggi, nel «lettone», come una qualsiasi coppia di sposi. Vogliamo preservare un ambiente familiare a tutti gli effetti per i nostri figli. Ugo rimane il papà dei suoi figli: un papà con dei problemi, un papà ammalato, ma sempre il papà. E tutta la famiglia vive la fede e la speranza della guarigione. I bambini si chiedono quando il papà potrà guarire, come se avesse un raffreddore. Nessuno di noi vive in una prospettiva di negatività senza speranza: crediamo tantissimo nei miracoli. Potrebbe essere qualcosa di eclatante: chiudo la porta, vado nell’altra stanza e mi trovo mio marito in piedi, guarito. E questo potrebbe essere! Oppure, l’altro miracolo sarebbe che si trovasse una terapia risolutiva per la SLA: e questo è il miracolo che mio marito chiede a Dio, perché sarebbe la guarigione non solo per lui. E credo che solo chi soffre come un malato di SLA possa capire cosa vuol dire chiedere la stessa salvezza per qualche altro malato che nemmeno conosciamo.

D. mi hanno raccontato che tu e Ugo tenete anche un Corso per fidanzati?
R: Silvia sorride: credo di averli «stesi», i ragazzi che sono venuti qui! Ho detto loro chiaro e tondo che nella vita non si può sapere cosa accadrà, e bisogna affrontare coscientemente il passo decisivo della vita, quello del matrimonio, sapendo che può capitare anche una situazione come la nostra. Certo, quando si fanno le promesse matrimoniali, «nella salute e nella malattia», si spera sempre che la malattia non accada. Eppure ci si promette di restare accanto all’altro anche nel dolore, che può anche essere il dolore di un tradimento, ma anche quello di veder tradita l’idea che abbiamo dell’altro. Io, Silvia, ho avuto la grazia, il giorno del matrimonio, di sentire ciò molto chiaramente: ho fatto quelle promesse con coscienza, quel giorno «c’ero» con la testa e con il cuore e non ero sopraffatta dalle emozioni. Ho preso in carico questa missione: perché sposarsi è una missione, come andare in Africa a convertire e aiutare le persone. Il matrimonio non è soltanto il sì di “quel giorno”, ma un sì rinnovato tutti i giorni e tutte le sere, quando ci si impegna a non andare a dormire con il rancore e la rabbia nel cuore, perché il momento di buio della notte non si estenda a tutta la vita. Anche se l’innamoramento passa, si riafferma continuamente il significato dell’accompagnarsi reciprocamente al proprio destino: diventare più veri ogni giorno, raggiungendo la verità di sé. Ripensando a questi anni di fatica, chi non mi avrebbe giustificata se avessi mollato tutto? Cosa mi tiene legata ad una condizione familiare come questa, in cui, oltre ad Ugo, anche i bambini mi richiedono moltissimo? Il sì delle mie nozze non è un sì soltanto mio, ma è accompagnato dalla presenza di un Altro. È grazie a Lui che posso oggi guardare mio marito con una tenerezza ed un amore molto più potenti di quelli del giorno del matrimonio; è grazie a Lui che mio marito, a sua volta, mi vuole così bene. «Io ho bisogno di te», mi dice: e non è solo un bisogno di cose da fare... Quale marito ha la libertà di dire alla moglie una cosa del genere? Il nostro rapporto è vero perché è molto libero. Ci guardiamo per quello che siamo, e questa è una meta difficilissima. Noi ci sentiamo «benedetti», perché a noi, comunque, questa malattia ha portato tanta Grazia. Le nostre promesse sono state pronunciate davanti ad un Altro che vive con noi, e la cui presenza e vicinanza è ciò che ci tiene insieme e ci aiuta ad avere pietà dei nostri limiti: di quelli dell’altro, ma anche dei propri. A volte, inconsapevolmente, mi capita di far male ad Ugo: e lì, prima di tutto, è a me stessa che devo chiedere perdono, ammettendo di essere limitata e di non poter far bene ogni cosa. Amarsi vuol dire non partire dal proprio limite, bensì dalla presenza dell’altro. Anche perché non sarebbe stato mica facile vivere con Ugo in ogni caso: è un testone terribile!

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