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II L’arrivo a Galway

di Valentina Rosafio
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Pubblicato il 25/11/2011 12:05:56

Era quasi giorno e Galway ancora dormiva nel tepore del suo ventre verde. Scendemmo dal pullman e caricammo le nostre valigie sul taxi. L’uomo alla guida ci chiese dove eravamo dirette e Giulia prontamente rispose:“Old Seamus Quirke Road, number eleven”. Nonostante i nostri occhi tendessero a chiudersi per la stanchezza non potemmo fare a meno di osservare, attraverso i finestrini appannati del taxi, i deliziosi quartieri di Galway e di scoprire con immenso stupore che la maggior parte delle case aveva un proprio nome racchiuso in una targhetta affissa sulla porta.
Finalmente arrivammo al numero eleven. L’aiuola incolta e l’erba alta del giardino davano un tocco personale a una casa che da tempo era stata affidata dai legittimi proprietari a giovani provenienti da chissà quale parte del mondo. Nella targhetta sulla porta il nome “Hawthorn” dava invece un non so che di letterario a quella casa sciatta pensando al nome di Natalien Hawthorne, il celebre scrittore de La lettera scarlatta che aveva invece solo una “e” in più nel cognome.
Pagammo il tassista ringraziandolo e suonammo il campanello, ma nessuno venne ad aprire, poi suonammo ripetutamente e l’uscio lentamente si aprì. S’affacciò barcollante una ragazza dai capelli castano chiari che ci salutò in inglese per poi presentarsi in francese scusandosi per averci fatto aspettare ma, disse, si era addormentata sul divano, quindi ci fece entrare.
Il piccolo ingresso che ci si presentò davanti terminava a sinistra davanti a una rampa di scale e a destra confluiva in un’ampia cucina, benché l’ammasso di piatti, pentole, bicchieri e la sporcizia sparsa dappertutto, ne limitassero lo spazio.
Charlène, così si chiamava, ci disse che per il momento potevamo sistemare le nostre valigie in cima alle scale, dato che la nostra stanza era, ancora per poco, occupata da un ragazzo pakistano che avrebbe dovuto lasciarla molto prima del nostro arrivo, poiché non aveva pagato l’affitto.
Così, nell’attesa, Charlène ci offrì un po’ di latte caldo e cominciò a chiacchierare. Agata ed io non capimmo una sola parola di quello che disse mentre Giulia sembrò cavarsela anche con questa lingua benché poco dopo chiese alla nostra neo-coinquilina di poter conversare in inglese. Capii che Charlène ed Iris erano amiche da un paio d’anni ma non riuscii invece a spiegarmi come avessero fatto a diventarlo se Iris era sempre i giro, da qualche parte nel mondo.
L’ambiente unico della cucina comprendeva dall’altra parte della stanza un tavolino in mezzo a due divani sui quali trovammo ristoro per le nostre povere gambe affaticate da tante ore di viaggio.
Finalmente l’inadempiente ragazzo pakistano lasciò la casa dopo aver litigato animatamente con Charlène, che fino a quel momento era stata direttamente responsabile, di fronte ai proprietari, degli affitti e delle bollette di tutti gli inquilini della casa.
Intanto Agata, Giulia ed io entrammo nella stanza e vi trovammo solo un enorme e polveroso tappeto. Lasciammo le nostre valigie in un angolo, poi Giulia andò a chiedere a Charlène se potevamo trovare da qualche parte dei materassi per dormire e lei rispose che li avremmo trovati nell’armadio in fondo al corridoio, vicino alla stanza dopo la nostra e di fronte a quella dove, al momento, viveva un musicista italo - francese, Claudio.
La stanza di Claudio era molto piccola, il letto era accostato al muro e una grossa valigia giaceva sotto la finestra.
La nostra invece era molto grande e dentro c’era anche un piccolo bagno.
Aprimmo l’armadio e restammo stupefatte dalla quantità di valigie che conteneva. Trovammo i letti, li trasportammo in camera e, molto presto, scoprimmo che non c’erano cuscini, lenzuola, né co-perte per scaldarsi,così usammo i nostri sacchi a pelo invernali.
Erano le tre di pomeriggio quando Giulia mi svegliò, lei ed Agata si erano riprese dalla stanchezza, io invece mi sentivo poco bene, il viaggio mi aveva spossato a tal punto che avrei voluto dormire per giorni e giorni, ma Giulia quasi mi buttò giù dal letto e così dovetti arrendermi.
La tenacia che riversava nelle cose e nelle persone era rimasta inalterata sin da quando ai tempi della scuola ogni cosa che aveva in mente di fare, pur complicata che fosse, la incominciava e, senza nessuna esitazione, la portava a termine.
Agata, a modo suo, scoprimmo essere ostinata ma non nello stesso verso di Giulia. Essere ostinati nel caso di Agata equivaleva a considerare sempre le sue opinioni inconfutabili, prive di qualsiasi errore di giudizio.
Al contrario, l’elemento che caratterizzava me era la timidezza, o peggio ancora, la paura di confrontarmi con gli altri,ragione per cui speravo che alla fine di questa esperienza avrei abbandonato per sempre l’ombra che mi portavo dietro da anni.
Giulia propose di uscire a fare quattro passi. Obiettai che ancora non conoscevamo la strada ma Charlène, che evidentemente capiva un po’ d’italiano, dalla sua stanza aveva ascoltato la nostra conversazione, così ci si presentò davanti con un foglio e una matita e cominciò a disegnare la stra-da per il centro: poche linee e saremmo arrivate.
Naturalmente le cose non sono mai come sembrano, e così ci perdemmo lungo la strada. Un signore dall’aria buffa ci vide perplesse e ci chiese se avessimo bisogno di qualcuno che ci indicasse la strada. Quando sentì dove eravamo dirette si mise a ridere animosamente e ne capimmo subito la ragione. Per sbaglio avevamo imboccato una via secondaria che ci aveva portato esattamente sulla parallela di Shop Street, la più importante e affollata strada del centro. Arrivammo in un batter d’occhio.


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