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Come due braghe al mercato

di Roberto Maggiani
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Pubblicato il 07/09/2008 21:34:55

Un’anziana signora, in libreria, parla, affascinata da quello strano simbolo che spesso l’ignoranza matematica delle persone eleva a mistero, è quell’otto orizzontale contrassegno d’infinito. Parla con accento del nord Europa e, nella sua conversazione sbilenca, si riferisce finanche a quello smodato libro che ha nel titolo i numeri primi. Che insolite stupidaggini instillano i matematici, o chi per essi, con le loro scritture popolari, nelle persone assetate di conoscenza e che vivono all’ombra di quel gigante, che un giorno, forse non lontano, ha rischiato di schiacciarli: la Matematica. I suoi luminari scrivono cercando la fama, come una volta i maghi e i druidi che facevano credere alla gente di essere a contatto con misteri tanto remoti all’esperienza umana.

Alcune persone parlano di quel simbolo, come la simpatica signora, con affannata convinzione, essendone venuti a conoscenza in una lettura obbligata da un contesto sociale saturo di ignoranza, che propina vendita di sapere, comprato come due braghe al mercato. Ne parlano come se fosse una cosa reale e sulla quale possono, finalmente, dire la loro parola importante, sfidando l’interlocutore in una sorta di singolar tenzone, con uno sguardo tagliato di traverso come a indagare se v’è conoscenza di quel segno che adesso è nella loro mente, a risarcimento di tanta filosofia incompresa, pur ignorando la varietà, la straordinarietà, l’esuberanza e la stravaganza di tutti quei numeri che esso copre, come una statua di legno copre e nasconde il più grande mistero della vita reale di un santo, oppure come le rappresentazioni, nella storia artistica e religiosa dell’umanità, del Dio invisibile, che lo includono, rozzamente, in categorie umane immediatamente fruibili dalla spicciola trascendenza di persone spaesate dal sentore dell’innumerabile, della grandezza, dell’infinito.
La natura stessa ha posto per noi il sole a dipingere quell’azzurro del cielo, e quel fitto velo di stelle nell’oscurità del cielo notturno, al fine di non spaurire il cuore che, sincero, si pone il dilemma di dove stia quel fine e, creandone uno fittizio, lo supera, in un crescendo di limite e superamento dello stesso, fino a impaurirsi nel trovare, improvvisa nella mente, la sensazione dell’abisso, del nulla, dell’immenso, di un tutto che equivale a un niente. Quel simbolo di infinito, introdotto e usato dai matematici, è proprio così, è un faro nell’immenso, un sole nel cielo dei numeri infiniti, che mai hanno tregua nel loro susseguirsi, e rendendo quel cielo così azzurro, diventa piacevole il sostare “al di qua”, in un mondo finito e noto, dove quel buco disagevole, risucchio verso il nulla, è tappato, e noi, nel nostro bel mondo, confortati da confini precisi, viviamo rannicchiati e sicuri.
Togliere quel tappo sarebbe come buttarsi oltre il limite in una sorta di godimento senza compimento, come quando, nell’amore, il corpo arriva all’apice del piacere e ci si aspetta e si attende quel termine subitaneo, come una discesa dopo la salita che riporti alla tranquilla e fiorita valle delle normali sensazioni, ma invece, sulla cima, non si trova la discesa, solo permanenza, e anche dal versante della salita, la discesa è franata e si è costretti a rimanere in quel piacere, che diventa disagevole e assume i connotati di un dolore, fino a sostare per sempre in quel vasto mare le cui onde non hanno né meta né conclusione. Così è quel simbolo, un’illusione, per la buona sorte del nostro pensare, una convenienza, una salvezza.

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