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Charlotte

di Veronica Mogildea
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Pubblicato il 21/07/2015 12:10:12

CHARLOTTE

“Lei è proprio una inetta maldestra, signorina Bronte!”

L’acuto isterico della signora Gibson la investì come una follata brusca, mentre raggomitolata sul pavimento di pietra della sala da pranzo, stava raccogliendo i cocci della tazza andata in frantumi. Era l’opera di Paul, lo sapeva bene, il figlio di dieci anni dei suoi datori di lavoro, che da sei mesi la tormentava con le sue angherie. Anche ora, gli è bastato un attimo per combinarla, appena ha visto lei, girata di spalle, che cercava di pulire le manine della piccola Sarah; lui, perfido aveva spinto la tazza di tè sul bordo del tavolo fino a farla cadere. Gli è bastato un attimo!

“Ah, ha rotto una tazza del mio servizio di tè preferito. Miserabile e imbecille creatura!” strillava la signora Gibson con le mani premute contro il seno grosso, cercando di domare l’affanno dell’indignazione che in quel momento la soffocava.

“Oh, mi vogliono morta, mi vogliono!” si doleva fra se e se la signora Gibson; nella gola un gorgoglio di lacrime si stava accumulando, il ché non le impediva affatto di continuare a gridare ancora di più in tentativo di sovrastare la propria voce.

L’insinuazione era troppa. La capiva la stessa signora Gibson, ma il piacere di sentirsi vittima di un’enorme ingiustizia le provocava una fitta dentro il petto, un tremolio strano che spezzava la noia del tempo. Grassa nobildonna continuava a frangersi le mani con gesti teatrali; una pattina di rossore le colorava le guance; le labbra tremavano, ora strette sotto forma di un piccolo cuoricino, ora allargate e indifese con una espressione melodrammatica, sennò tragica addirittura. Charlotte si sentì avvampare.

“Com’è patetica!”pensò.

L’indignazione le stese un velo appannato sulla vista; il rumore sordo dentro le orecchie attoniva i suoni circostanti; piccole gocce di sudore si depositarono rapide sulle tempie. Con il cuore in subbuglio Charlotte lasciò cadere indietro i frantumi, raddrizzò lentamente le spalle, si passò una mano sulla fronte, infine posò gli occhi sul volto affondato nel grasso della padrona, indugiò impigliata per un lungo istante nel nero della gola spalancata, poi si scosse, spostò disperata lo sguardo attorno, istintivamente cercava un appoggio; la piccola Sarah continuava a spalmarsi indisturbata la marmellata di mirtillo selvatico sulle dita paffute, gonfiando le guance per la contentezza, brontolava qualcosa sotto il naso; la timida Helen, una bimba malaticcia dallo sguardo dolce, spostava gli occhi spaventati un po’ sulla madre, un po’ sul fratello che dietro le spalle materne si esibiva in smorfie e linguacce.

Charlotte si alzò in piedi, il viso in fiamme, il senso di ingiustizia che le montava dentro, il disagio la spingeva a reagire. Vuole dire qualcosa, forse giustificarsi, forse scusarsi, era dispiaciuta, veramente dispiaciuta; mosse le labbra; inciampò nel sorriso perfido del ragazzino che si godeva la scena, oh, come si la godeva! Allora s’irrigidì tutta, come colpita; soffocò un urlo di rabbia e dolore; soffocò la tentazione di prendere a schiaffi il maleducato ed insolente bambino; soffocò il desiderio di rompere l’intero servizio della signora e ridere in faccia a tutti loro come una pazza; strinse forte i pugni, da tagliarsi la pelle dei palmi con le unghie; strizzò gli occhi e schiacciò indietro le lacrime. Fremente fece un passo in avanti; increspò disgustata le labbra; il disprezzo prudeva la lingua, chiedeva di essere riversato, ma all’ultimo la ragazza si fermò, il suo animo signorile le impose di non polemizzare. Con la testa alta, senza una parola, una sola parola, aggirò l’imponente donna strillante e senza nemmeno un inchino, un fatto grave che sicuramente non sfuggì all’aristocratica signora Gibson, uscì dalla stanza, non prima, però, di fulminare con lo sguardo il piccolo bastardo che si la rideva.

“Li detesto. Non resto un minuto in più! Lascerò immediatamente questa casa!” ripeteva Charlotte; con gesti frenetici raccoglieva le poche cose personali e le buttava, senza alcun riguardo, nella sacca di tela, appoggiata sul letto. Le lacrime, finalmente libere, si mescolavano alle parole sconnesse, mentre la decisione si rinforzava nella sua mente. Avrebbe lasciato il lavoro, ora, in questo instante; non sentiva nessun bisogno di aspettare, non avvertiva la necessità di chiedere consigli; le decisioni nascevano potenti dentro di lei, spazzando, come una raffica forte di vento ogni dubbio, ogni incertezza.

Accompagnata dalle ombre grigi della sera, arrivò a Yorkshire all’ora di cena. La sua famiglia stava riunita attorno al tavolo della cucina. La zuppiera panciuta fumava promesse saporite in centro tavola. Il capofamiglia, il signor Bronte con gesti gravi affettava il pane. Emily, munita di un piccolo coltello, spalmava il burro sulle fette. Gli altri, cucchiai alla mano, aspettavano in silenzio.

 “Sono tornata.” Con voce debole, quasi colpevole Charlotte annunciò il proprio arrivo; non più tanto sicura della decisione che ora credeva più che mai precipitosa. “È difficile insegnare a dei bambini, quando hanno per madre una persona vuota ed ignorante.”spiegò laconica alla famiglia il suo ritorno anticipato. Voleva aggiungere qualcos’altro, ma non sapeva nemmeno lei cosa. La sua natura introversa si opponeva ad ogni tentativo di apertura, anche quando si trattava, come in questo caso di persone vicine, molto vicine, i suoi familiari.

Ognuno reagì a modo suo, Emily le rivolse uno sguardo carico di comprensione e le sorrise da dietro la tenda di vapori della zuppiera. La vecchia Tabby girò pesantemente in una mezza piroetta il suo grosso tronco e batté le mani ad un pensiero tutto suo. Anne l’abbracciò in silenzio, aiutandola a sciogliere i nastrini del cappello. Il fratello Branwwell sembrava assorto, pareva che non avesse nemmeno notato la sua apparizione. Il padre rimase un attimo immobile, mascelle serrate, i muscoli del collo irrigiditi, scrutò il volto imbronciato della figlia. Capiva, oh, come capiva la sua bambina. “Forse ho sbagliato tutto con loro.”pensò sconsolato, abbracciando in un unico sguardo le figlie. “Stimolando la loro curiosità, affilando lo spirito analitico le ho rese infelici. È un arma a doppio taglio … Il mondo non è pronto ad accogliere donne come loro. Forse …”

Con il gesto energico del braccio spezzò il filo dei propri pensieri, avrebbe continuato dopo cena, sicuramente, rifugiato dentro la morbidezza accogliete della sua poltrona. Ora era risoluto a non cedere alle considerazioni amare; respinse l’ondata liquida che minacciava di investirlo; soffocò il seme di una rabbia improvvisa; cacciò via il principio di una preoccupazione che inopportuna si dibatteva dentro il petto; occultò sotto le palpebre le ombre del rimorso; impose un sorriso al suo volto invecchiato: sua figlia è a pezzi, è vero, ma è tornata sana e salva, in questo momento è tutto quello che conta. 

“Avvicinate!” la chiamò, aprendo le braccia; un tremolio trasparì debole nella sua voce. “Sei dimagrita.”constatò morbido; con un gesto pudico accarezzò veloce il viso smagrito di Charlotte, poi aggiunse tranquillò: “Ben tornata. Dove mangiano in cinque, c’è sempre un boccone anche per il sesto. Dai, siediti.”   

Non ci furono altri commenti, la famiglia Bronte era tirchia nelle manifestazioni dei sentimenti: abituati a non lamentarsi, ognuno se le custodiva gelosamente all’interno del proprio animo. Charlotte non aggiunse altro; nel cuor suo la giovane donna intuiva che, forse, il motivo del suo ritorno fosse un’altro. Orgogliosa e libera si sentiva intrappolata nel ruolo di subalterna, in perenne balia dei caprici e degli umori altrui; dover abitare l’ambiente arrogante ed ipocrita dell’alta società decisamente le pesava. Il suo spirito si ribellava indomato, passioni interiori la percorrevano con la violenza dei temporali. Aspirava ad essere libera! Non poteva più tenere rinchiusi i propri pensieri, da dentro loro esigevano sfogo, volevano esserci per prendere volo. Come del resto tutte le persone orgogliose, Charlotte non si lamentò, non fece mai trapelare il proprio disaggio, allevò le sofferenze dentro di se, soltanto nel chiuso della sua solitudine si lasciava andare a lunghi monologhi liberatoti.

“Che credono loro, i ricchi? Se sono povera, brutta e piccola che non abbia né cuore, né anima? C’è lo il cuore esattamente come loro, c’è lo l’anima, forse anche più ricca. Ed il fatto ché non possegga bellezza e ricchezza, non dà loro alcun diritto di umiliarmi e calpestarmi. Anche a prezzo di perdere il pezzo di pane, non rinuncerei alla mia dignità, non oscurerei la libertà del mio sguardo, non toglierei l’interrogativo alle mie domande, non soffocherei la mia mente! No!”

Il volto si accendeva dalla foga dei pensieri; i capelli ribelli circondavano vaporosi la sua piccola testina indomata, appoggiata orgogliosamente sulla linea retta del collo; nel profondo degli occhi si muovevano ombre e luci che ipnotizzavano. Era magnifica! 

Ben presto la sua appassionata eloquenza si trasformò in un categorico desiderio di elevarsi sopra tutti quei che l’avevano sconsiderata e derisa. Nutrire lo spirito per arricchire la mente, ecco la vera superiorità!

La vita riprese il corso monotono di una volta, i giorni si allineavano uno dietro all’altro in un cammino senza fine. Charlotte tornò con gioia alle vecchie abitudini, ritrovò con entusiasmo la sua passione di sempre: la lettura. Si mise a studiare con un fervore frenetico, assorbendo libri dopo libri, a caso, senza scelta. Semplicemente leggeva tutto quello che le capitava sottomano, spinta dalla frenesia di superare le catene mentale che la legavano ancora a quel mondo. A tentoni, come un bimbo ai suoi primi passi avanzava, sopportata da un’assidua tenacia, si distaccava sempre di più dalla realtà, circondata da un mondo immaginario ricco ed onesto. Purtroppo le mancava una guida sicura e preparata che avrebbe potuto indicarle dei percorsi per risparmiare tempo e forze, ma non si scoraggiò. Vagare solitaria nel vasto mondo del sapere le permetteva di sviluppare la capacità critica di sintesi del pensiero libero, senza barriere e senza influenze illustre. Non voleva imbottirsi di dogmi, Charlotte voleva a ragionare con la propria testa.

D’estate il suo posto preferito era sotto i pini, contigui alla casa, dall’aspetto triste ed invocante per un’eterna penuria di sole. Alcuni rami magri ed ossuti, come le braccia rinsecchiti di un vecchio mendicante si allungavano pietosi verso l’alto, implorando un po’ di calore per le loro articolazioni massacrati dal freddo. Charlotte li guardava a lungo in silenzio, le piaceva immaginare il lamento scricchiolante del vecchio dolore, convinta di poter penetrare dentro l’anima della natura, sentire il suo respiro. Ogni volta che poteva, che il tempo glielo permetteva, si ritirava lì. Circondata dal comodo del sole che come una carezza le si posava sulla spalla, con la brezza leggera del vento dentro i suoi capelli, essa leggeva, scriveva, lavorava, o si abbandonava semplicemente alla sensazione strana del silenzio assoluto, interrotto soltanto dalla corsa disinibita dei propri pensieri che le pulsava dentro le tempie. Seduta su un piccolo sgabello, con le falde del severo vestito raccolte da un lato e la schiena appoggiata contro il tronco vigoroso dell’albero, a lei pareva di percepire con chiarezza il mistero del filo vitale che la collegava alla terra, alla natura, dove lei non era che una minuscola, ma indispensabile particella della grande realtà che portava il nome di Universo. Domande eterne, domande fatali sull’esistenza, sul senso della vita, sul ruolo riservatole incombevano esigente nella sua testa e Charlotte finiva per invidiare la vecchia Tabby, la governante, essere buono e onesto che da persona quasi analfabeta conduceva la sua vita senza tormentarsi troppo sul perché.

E quando la ricca biblioteca del padre esaurì i suoi tesori, la giovane ed insaziabile testa le impose di andare a cercare altrove; così Charlotte affrontava lunghe passeggiate fino al villaggio più vicino per poter usufruire dei libri della biblioteca circolante di Keighley. Col tempo ebbe accesso alla biblioteca privata della ricca famiglia Heaton, sfruttando con avidità tutte le risorse. 

Decise di rimanere nella casa paterna, di non allontanarsi mai più dallo Yorkshire.

“È così bello qui!” esclamava con una sorta di febbrile entusiasmo, arrischiando i suoi passi dentro gli angoli più remoti della brughiera. Le vertigini di un’energia a lungo repressa la spingevano a correre come un folletto indomato, respirando a pieni polmoni si arrampicava sulle rocce da dove esponeva ridendo il volto infiammato al vento. La sua figurina rimaneva a lungo lì in piedi, solitaria e magnifica, i lunghi capelli sciolti, la gonna che svolazzava come una bandiera, le braccia alzate. Libera nella solitudine e contenta come in compagnia di un caro amico. Pareva immersa in un appassionato discorso, o forse un una contemplazione senza fine di un mondo che vedeva solo lei; non sentiva né freddo, né paura, né suggestione.

“Forse dovremmo organizzare un viaggio a Londra. È iniziata la stagione. Possiamo divertirci.”

La proposta della sorella Emily s’infilò timida fra i pensieri di Charlotte. Non alzò nemmeno la testa. Scosse nervosa le spalle e non nascose la sua irritazione.

“Io non ci vengo. Non m’interessa. Yorkshire mi soddisfa in pieno.”

Non avrebbe potuto trovare un luogo più isolato e scostato dalla vita mondana, lontano dai vizzi e passioni che la ripugnavano. Non era odio il suo, non era rancore, solamente un disincanto di tutte le cose effimere e ipocrite del mondo.

Amava la vecchia casa dalle grosse mura in pietra, amava la solitudine superba della brughiera. Si sentiva figlia di questa terra dura, nera, bruciata dal gelo, nei suoi sogni si illudeva di assomigliarle; lei, figlia del cielo di acciaio che in lontananza si perdeva dentro la palude; lei, figlia del vento pungente ed instancabile che senza sosta scuoteva i rami contorti dei pini; lei, figlia delle cornacchie che dal alto vegliavano solitarie sopra la distesa desolante ed aspra, abitata dalla selvaggia vegetazione di erica. E prima ancora, Charlotte era e si considerava in pieno figlia della sua numerosa famiglia, a cui si sentiva legata da fasci contraddittori di sentimenti; la sua anima era eternamente scossa dalle vibrazioni delle più alte sfumature dell’amore, fino alle profonde e oscure tonalità dell’odio verso la famiglia che la soffocava e che la faceva vivere, che l’amava e l’odiava e lei diventava sempre più consapevole che per un’inspiegabile bisogno della sua complicata natura, le risultava altrettanto vitale sia l’amore che l’odio.

Il buio della sera li univa tutti insieme attorno al lume accesso che a malapena illuminava il vano largo della cucina. Ognuno stretto nella propria solitudine; ognuno libero e lontano nei propri pensieri.

Charlotte staccò gli occhi dal libro e con amore e gratitudine inquadrò per l’ennesima volta la sua famiglia: il padre, ormai con i capelli bianchi che, aiutandosi di una grande lente, insisteva testardo, nonostante i gravi problemi di vista, a leggere in modo indipendente il suo giornale, la sorella Emily, assorbita dalle confidenze del proprio diario, Anne, la piccola, alle prese con una traduzione di francese, il fratello Branwell, tornato di recente da uno dei suoi indefiniti viaggi di affari, che sonnecchiava con la testa scivolatagli su una spalla, la vecchia Tabby, buona e premurosa, che lavorava ai ferri le ennesime calze di lana.

La scena, inondata dai riflessi ramati del fuoco che allegro scoppiettava nel camino, le si apriva talmente pittoresca e cara che Charlotte sorrise, reprimendo un sottile senso di disaggio, nato dentro il petto, simile ad una percezione di vertigine davanti ad un vuoto. Che strana cosa è il presentimento! Cos’è questa misteriosa simpatia fra la natura e il’uomo? Forse è soltanto la paura di perdere un giorno tutto ciò? O forse è la fretta di un’attesa che la divorava da dentro?

Non lo vuole sapere, decise resoluta di non indagare oltre. Non voleva rovinarsi la serata! Era contenta, sarebbe stata quasi felice se non fosse per il freddo che attanagliava le sue membra sempre gelati; una sensazione viscida, partiva dalla punta dei piedi, lentamente afferrava le caviglie, fino a renderli quasi insensibili. Il pensiero la fece rabbrividire.  Aveva scelto di tornare in campagna, seguendo un suo ideale, ma il suo spirito, la sua mente si rifiutava di idealizzare quel ambiente rurale che lei, standosene in disparte, non condivideva, perche semplicemente non poteva condividere. Rabbrividiva ad ogni contatto con la gente del posto, gente rozza che mangiava il pane con le mani sporche e dormiva vestita; rimaneva stupita dall’arretratezza delle loro vedute; la indignava la rassegnazione con cui accettavano le ingiustizie. Con la percezione critica di una grande osservatrice Charlotte notava ogni difetto, ogni stonatura di quel mondo chiuso e conservatore, in mezzo al quale il progresso e l’apertura mentale si facevano spazio con grande difficoltà. Si sentiva diversa, senza poter decidere se nel bene o nel male. Semplicemente diversa, si ripeteva scrollando le spalle. Non basta forse questo per sentirsi estranea?

Immersa nel suo mondo, Charlotte respinse convinta le varie proposte di matrimonio. Forse stava male a casa di suo padre? Non le pesava la povertà, non aspirava alla fama, perché cambiare? Ogni intromissione nella sua vita l’agitava, introversa e timida viveva ogni cambiamento della sua vita con eccessiva ansia.

C’erano di quelli che pensavano che Charlotte fosse superba. “Dall’altezza del suo illustre piedestallo non vuole mescolarsi con noi altri. Ha paura di sporcarsi di sterco, la signorina!” dicevano spregiativi, con mal celata invidia.

Charlotte non rispondeva, anche se considerava ingiuste le critiche, anche se la mancanza di riconoscenza la feriva. Oh, come la feriva! Resisteva con fatica alla tentazione di spiegare alle malelingue che non era lo sterco che la ripugnava, bensì il loro modo ottuso e denaturato di guardare il mondo.

“La causa di tutti i mali è l’ignoranza!” ripeteva per darsi coraggio. Nel cuore, come un’aria che sapeva di putrido e muffa, si insinuava la convinzione che nelle iridi dei suoi paesani si riflettesse un immagine distorta di se stessa. Si sbagliavano loro! Lei non era così! Scuoteva la testa desolata e non finiva di chiedersi perche fosse così difficile farsi comprendere.

Circondata dalle proprie riflessioni solitarie, Charlotte si avvicinò alla finestra per scrutare il tempo. Il crepuscolo grigio stava cedendo il posto alla notte, una notte nera, dove il cielo, le colline, i pini, l’intera brughiera si confondevano, inghiottiti in un lugubre vortice di neve e vento. In fondo al giardino, appena delineate, biancheggiavano pallide le pietre funebre del cimitero. Vi erano tale desolazione e abbandono in quel paesaggio che Charlotte si sentì risucchiata, sciolta nell’atmosfera surreale. Non aveva paura, la morte non la spaventava, era l’inizio e la fine di ogni cosa, questo lo sapeva, ne era certa, ma perché allora il tremolio appena percepibile dentro lo stomaco? Come spiegare l’inquietudine che le annebbiava i pensieri? E da tempo che un rammarico molesto l’abitava dentro per una cosa che le sfuggiva da sotto controllo, senza riuscirci però, di dargli un nome.

In cerca di un po’ di sollievo appoggiò la testa contro il cornicione della finestra. Il freddo solido del legno, simile ad una stretta di mano forte e decisa, simile ad un abbraccio amico, simile ad uno sguardo comprensivo ed eloquente la supportò con fermezza.. Il cuore tornò ai soliti ritmi. Pensierosa, Charlotte riprese a camminare, inseguendo i propri passi da un lato all’altro della stanza. Allungando le mani verso il fuoco del camino in cerca di un’illusione di carezza, si chiese, se fosse davvero immune, se la sua anima non fosse raggiunta e corrosa dalla vanità. Forse era davvero superba. Forse esisteva quel piedestallo …

L’atmosfera silenziosa induceva alle meditazioni; soltanto il fuoco scoppiettava tranquillo; ogni tanto una scintilla con un scatto brusco di ribellione si staccava dal groviglio rovente, disegnando una piccola  traiettoria luminosa, e andava a spegnersi lentamente con un luccichio palpitante sul pavimento di terracotta. Charlotte la inseguiva con lo sguardo e non poteva fare al meno di domandarsi, se quella scintilla non fosse la parodia tragica della sua vita.

Stretta nel piccolo scialletto di lana si perdeva nelle riflessioni. Rimaneva a fissare assorta la fiamma con il mento fra le dita, la fronte aggrottata, lo sguardo febbrile e ostinato; abbandonava liberi i pensieri; ogni tanto muoveva combattuta, più che mai fragile, le labbra in un muto duello interiore, aperto e schietto, dove non c’era spazio per finzione.

Davanti al giudizio della sua coscienza incorruttibile dovette ammettere e dire di sì, era vanitosa: però, la sua vanità non risiedeva nelle pieghe dei vestiti che indossava, non si nascondeva nelle cose materiali che la circondavano, non le importava proprio niente, anzi non le notava nemmeno, ma piuttosto nell’inconfessabile orgoglio della propria intelligenza, la sua creatura, il frutto di un duro lavoro, di tante ore insonne, il risultato della mortificazione del proprio fisico nella speranza di attingere le vette alte dello spirito. Era questo il suo torto. Sarebbe stato un piccolo peccato, quasi da assolvere, se la sua vanità fosse stata una di quelle innocenti che ogni tanto affiorano in superficie in modo inconsapevole, senza condizionare il cammino della vita. Charlotte, invece, era assolutamente cosciente del proprio tesoro. Lucidamente si compiaceva di possedere una mente abile, assetata, curiosa che la sollevava, aprendole degli orizzonti inaccessibili agli altri. Nello stesso instante apprese con stupore di non sentirsi per niente colpevole di tutto ciò. Rimase immobile ferma, come di fronte ad una meraviglia inaspettata, dando tempo alla sua mente, o forse all’animo di assimilare il senso di quel pensiero. Voleva sentirlo scorrere dentro le vene, penetrare in ogni cellula del suo corpo. Voleva assorbirlo con calma, assaporando la gioia di una consapevolezza tutta nuova.

“Non ho tolto niente a nessuno!” mormorò infine e la fiamma del camino acconsentì tremula. Un soffio caldo, partito da una sbuffata del cammino, come una mano invisibile e amorevole  le accarezzò il volto acceso e rigirò la pagina del libro che teneva nel grembo.

Un’altra pagina …

 


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