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Senza lavoro

di Veronica Mogildea
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Pubblicato il 30/05/2016 17:07:48

SENZA LAVORO
Iniziò tutto all’improvviso, proprio nel momento, quando venni a sapere che l’indomani non sarei più dovuta andate al lavoro. Licenziata. Precisamente, licenziati tutti quanti. In blocco, come merce scadente. L’azienda annunciava trionfante la sua delocalizzazione. Tanti saluti e grazie.
Non appena la notizia, arrivata fra l’altro con l’arroganza ufficiale di una raccomandata nell’ultimissimo giorno di ferie, appena, dico, la notizia si riempì di senso alquanto vago all’interno della mia scatola cranica, mi sentii precipitare, un crampo doloroso dentro le viscere mi bloccò il fiato. La testa diventò pesante, come se tutto il sangue del corpo si fosse racchiuso lì in un grumolo nero di dolore. Non può essere vero, pensai, è uno brutto scherzo. Un filo di speranza si opponeva ancora, resisteva. Quasi rassicurata chiamai la Nina, una delle mie colleghe, giusto per ridere insieme. Il tremolio della sua voce fece vibrare la cornetta nelle mie mani. La battuta che mi solleticava il labbro si spense oramai inutile. “Anche tu?” sussurrai, ma già sapevo la risposta. “Sì.” La voce di Nina aveva un sapore estraneo. Rimasi immobile, con una mano sull’addome contorto ed il respiro smarrito nei meandri complicati del cervello. La bocca annaspava paralizzata, mentre nella gola cresceva la nausea di un inganno.
Fu un attimo lungo. Un attimo senza tempo, incastrato dentro le vertigini dell’assurdo e il senso di ingiustizia che si gonfiava nel petto senza lasciare spazio a niente altro.
La confusione si posò prepotente sul mio sguardo, allontanando l’immagine del domani. Il dolore presto si calmò, lasciò dentro il mio addome un formicolio strano abitato da mille insetti che, spinte da chissà che urgenza, salivano e scendevano impazzite sotto la pelle. Commisi un grave errore, contrasi il diaframma, forse in questo modo sarei riuscita a mettere in fermo il strano movimento, pensai. Quella invasione a tradimento scompari, ma la pressione della mia muscolatura finì in un tragico scontro con i polmoni. Quel poco di aria che vi restava fu spinta fuori con la violenza di un fischio che mi ustionò la gola. Seguii con lo sguardo il materializzarsi di quel suono in aria. Aveva la forma di una lancia, una striscia accecante che si delineava rapida davanti ai miei occhi. Sapevo che senza aria nei polmoni non avrei potuto restare a lungo, nessuno lo può fare, ragionai, sapevo anche che dopo una espirazione avrebbe dovuto seguire una ispirazione, così è sempre stato, ma per quanto provassi non riuscivo più a ricordare come si facesse. Fu proprio in quell’istante che scoprii con stupore che respirare non era per niente semplice. Fui invasa dalla paura. L’aria attorno sembrava solida, un freddo muro opaco schiacciava impietoso il mio naso. Sulle palpebre qualcosa di pesante si depositava, lo avvertivo chiaramente, anche se non ero in grado di stabilire cosa fosse.
Rimasi trafitta, con la testa vuota, impigliata nella crepa del tempo. Il torace si dibatteva convulso, cercava di afferrare il fiato perduto. Forse stavo per svenire. Sarebbe stato bello affondare nel nulla senza rimpiangere niente. Sono così confortevoli le ombre. Ma probabilmente non era ancora arrivato il momento. L’istinto di sopravvivenza fu più forte; accecata dal terrore scossi la testa, mossi le braccia con furore in tentativo di spezzare in infinite briciole minuscole l’opprimente muro ed inghiottirlo. Funzionò. Qualcosa si rompe nella mia testa, un boato mi distolse l’attenzione, il diaframma cedete come un elastico rotto. Tornai a respirare, sentivo la mia bocca affollarsi di tutti quei fiati ripresi. Come una affamata acchiappavo l’aria a grande boccate e mi lasciai inebriare dalla massa di ossigeno che nuovamente si impossessava delle mie vene. Dentro il cuore pulsava la contentezza di un sopravissuto. Dentro il cuore, ma non dentro la mia testa. Lì, rimaneva a padroneggiare la disperazione. Dalla vita non ho avuto granché, se non la passione per il lavoro che colmava ogni mio istante. Come avrei fatto ora a spingere il mio tempo in avanti? Mi sentivo spiazzata, sfibrata in mille inutili granelli de polvere, rimasta senza fine e senza scopo, smarrita dentro l’agguato del non senso, con gli occhi colmi ancora dalle uniche certezze dissipate in un istante.
Andai a casa di mio padre e con distacco, un finto distacco gli diedi la notizia e fui sinceramente infastidita dallo scoraggiamento della sua voce. Contro la mia volontà la disperazione annidata dentro il mio teschio orfano di pensiero raddoppiò la sua forza.
“Non preoccuparti.” tentai uno scherzo. “Morto un papa se ne fa un altro!”
La mia voce risonò schifosamente falsa e debole. La battuta invece di sdrammatizzare, aumentò la tensione. Lo avvertivamo tutti i due: era fuori posto. Inghiottii un nodo per mascherare l’imbarazzo. Una sorta di malessere appena percepibile cominciò a ronzare dentro la mia mente. Dal nulla si sprigionava l’inspiegabile fretta che mi spingeva a congedarmi senza tanti preamboli. Salii in macchina e accesi la radio, lo mise al massimo, ma non fu abbastanza per coprire il vespaio che aggrediva la mia testa.
“Via, andate via!” volevo gridare. “Lasciatemi in pace!”
Non lo dissi a voce, decisi di ignorare l’ansia. Guidavo senza meta per le strade della città, ero troppo depressa per interessarmi dove andare. Come una coda la valanga del dolore mi inseguiva. A casa non cenai, non avevo fame, né voglia; una spossatezza insensata avvolgeva le mie membra, un vuoto immenso si impadroniva di me. Sprofondai in una confusione senza tempo; volteggiavo avvolta dalle fitte nebbie putride che stagnano per giorni sulle paludi.
Cercai rifugio nel sonno, mi avrebbe impedito di pensare. Fu un riposo agitato che faticava a liberarsene dalla petulanza molesta dell’unico pensiero, avevo perso il lavoro, entrato in ogni palpito, in ogni respiro. Dormii molto e forse poco. Il tempo aveva perso ogni misura. Mi svegliai di colpo, strattonata da una sensazione di pericolo. Il cuore impazziva dietro le tempie. Seduta sul letto cercavo di capire. Lo stesso senso formicolante e stringente di prima nelle viscere. Una contrazione diffusa bloccava i circuiti del mio corpo. Non respiravo più. Annaspavo con rumore. Gorgogli di uno che affoga. Dovevo convincermi che ancora sapevo respirare. C’ho messo tutte le forze, tutta la volontà. L’aria era diventata nemica, le sue schegge graffiavano le mie vie respiratorie. Non demordevo, decisa di non rinunciare, anche se una paura terribile, enorme, totale mi soffocava. Urlai, mossi le braccia per liberarmi dalla crudeltà della stretta e di nuovo qualcosa si spezzò dentro la mia testa. Un rumore terribile. Uno scoppio che mi sparpagliò nel nulla. Chiusi gli occhi. Frantumi di luce mi accecarono con la violenza dei fulmini.
Poi il silenzio. Il respiro ripartì, a stento, ma ripartì. Me lo confermava il cuore che, sebbene con dei salti irregolari, rallentò i battiti. Soltanto il rumore dentro le orecchie persisteva testardo. Per paura di perdere il controllo della situazione, decisi di non addormentarmi più. Concentrai tutte le mie energie nelle palpebre in tentativo di tenerle aperte. Il mattino mi trovò stanca, ma viva. Era già tanto.
La luce del giorno si intromise nei miei pensieri e mi spinse a reagire. Dovevo capire cosa mi stesse succedendo. Dovevo saperlo. La conoscenza mi ha sempre rassicurato. Meglio dell’ignoto. Decisamente meglio.
Accesi il computer. Trovai qualcosa sugli attacchi di panico. Lessi con attenzione tutto. Capii meno. Per il momento mi dovevo accontentare della definizione. Chissà perché cominciai a stare meglio, come se il nemico che avevo dietro le spalle, in agguato, fosse uscito allo scoperto. Perlomeno lo vedevo, sapevo chi era.
La prima settimana di disoccupazione la impegnai nelle file davanti agli sportelli del Centro dell’Impiego. Senza alzare gli occhi l’impiegata prese le mie carte, scarabocchiò un numero, storto fra l’altro, e le depositò in un cassetto alla sua sinistra sopra un mucchio di tante altre carte, spoglie nella disperazione da ogni pudore. Sapevo che ognuna di esse gridava lo sconvolgimento di qualcuno. Forse ancora più grande del mio. Avvilita continuavo a fissarle. Le mie carte sembravano abbandonate e smarrite, umiliate dalla indifferenza, mi sentivo umiliata anche io. Lì era registrata nero su bianco la mia vita. La mia vita dentro l’indifferenza immobile di un cassetto.
“Prossimo!” urlò la bocca rossa della funzionaria.
La gente mi spinse di lato, affannata a diventare un numero anche essa. Non mi opposi. Il fiume umano mi rigurgitò di lato come un detrito. Con la testa vuota restai a lungo impantanata dentro i pensieri senza riuscire ad afferrarne uno.
L’urgenza di un lavoro mi tormentava. Passai giorni a spedire curriculum. Era diventata una attività regolare. Un lavoro. In breve diventai un’esperta in curriculum. Ostinata li mandai ovunque, forse per ingannare un’attesa priva di senso. Poi cominciai a telefonare, ad insistere.
“Sono una lavoratrice.” urlavo dentro la cornetta. “Voglio lavorare! Sono brava, respo …”
“Sì, certo, signora.” mi rispondevano con la voce controllata di uno che stava per perdere la pazienza. “Le faremo sapere!”
Mi credevano pazza, ne ero certa, invece io non facevo altro che reclamare un mio diritto, il diritto alla dignità. Era quello che mi pesava di più, sapermi inutile. Essi non capivano. M’interrompevano, lasciandomi con la bocca piena di parole non dette. Le masticavo in solitudine, sentivo il sapore di carne tritata, forse era la mia lingua, forse il cuore. Presto mi diventava impossibile tenerli ancora all’interno della mia cavità orale, la frenesia dell’angoscia mi spingeva a correre per vomitarli nel lavandino del bagno, un veleno che minacciava di uccidermi.
Sono passati quindici mesi. Il calendario in cucina è fermo a quel giorno. Sembra un orologio rotto, bloccato al momento dell’impatto. Fermo all’ultimo giorno di ferie. Ho smesso di combattere. Non ho più forza. Mi sento come una pila senza più il suo carico di energia. Dunque, inutile. Non ci credo più, non ci spero. Ho cinquant’anni. Sono vecchia. Uno scarto. Ci sta scritto qui, nelle mie carte. Sono loro la mia condanna. Gli altri non c’entrano. La mia carne invecchiata è diventata la mia nemica. Una carcassa rinsecchita che mi imprigiona. La detesto. Quando l’odio supera la mia resistenza mi metto a scorticare la pelle con le unghie. Mi solleva osservare la cute che si storce impotente sotto le dita. La mia anima in decomposizione respinge la complicità del corpo.
“Per colpa tua!” mormoro. “Per colpa tua!”
Strisce rosse, marcate restano impresse sulla pelle, ma non sento il dolore, perlomeno non più di quello che sento dentro. Ho perso il sonno. A stento mangio. Che senso ha nutrire il mio nemico? È tutto futile. Fumo. Fumo tanto. Fumo senza tregua in speranza che venissi un giorno inghiottita da tutto questo residuo gassoso. Residuo anche io, respinta da un sistema troppo frenetico ed egoista da pensare a tutti. Vorrei scomparire. Sciogliermi nel acido della mia disperazione. Non dormo. Di notte accendo la luce e con gli occhi orfani di sonno guardo le ombre che si spostano sul soffitto. Sembrano pipistrelli con lunghe ali assassine, ho paura che si stacchino e mi cadano addosso. Non mi muovo, prima o poi i loro artigli strapperanno i miei capelli, caveranno i miei occhi. Cerco di urlare per avvertirli di lasciarmi stare. Gli spigoli dell’urlo rimangono impigliati nella gola. Soltanto un rantolo, soffocato nell’accoglienza soffocante del cuscino, accompagna le mie paure.
Di giorno tiro giù le tapparelle. Da dietro le stecche non trapela neanche un debole barlume. Non supporto la luce vana, sprecata che si accende nel cielo. Non la voglio vedere. Mi pesa sentirla addosso, io sono invasa dal buio. Buio totale. Buio. L’unico divertimento che ancora mi anima è invertire le consuetudini. Rispondo con beffe alla beffa. Il mondo capovolto. Il tempo rinchiuso nel vano di una clessidra rotta. Notte di giorno, giorno di notte, il pavimento sopra, il soffitto sotto, le gambe sul cuscino, la testa scaraventata sotto il letto, rottola come un pallone sgonfio. Conto allo rovescio. Il tempo trascina il nulla macchiato da una luce disfatta. Dimentico il conforto delle parole sciolte nel incavo delle mie lacrime. Dentro lo specchio l’immagine distorta dei miei pensieri esausti. Il respiro gonfio di attesa congela il sangue. L’aria stagna dentro la corsa delle mie angosce. Sono stanca; piombo fiacca in abbandono; il mio sonno alla caccia delle notte, anche se artificiale, dove coccolare le voglie. Mi vieni da piangere e rido, poi mi gratto per togliere dalle orecchie i singhiozzi.
Non vado più a trovare mio padre, il rimprovero delle sue lacrime mi brucia. Non gli rispondo nemmeno al telefono. Che gli devo dire? Non ho più la forza di mentire. Un giorno ha smesso di chiamarmi. Forse si è offeso. Neanche io lo chiamo. Il credito sul mio cellulare è finito da mesi. La mamma, beh, la mamma continua a sorridermi come prima con il volto incastonato in una lapide di marmo. A volte la invidio, pare così contenta di essere altrove. Non vedo nessuno. Nessuno mi chiama, come se mi avessero già cancellato dalla loro memoria. Attorno a me si condensa la solitudine ed il silenzio. Molle e opaco. Il mio cuore echeggia nel deserto fatto di sale. Ascolto i suoi ritocchi regolari che mi abitano; il pensiero si incaponisce all’infinito nell’unico interrogativo: perché? Esco ben poco, quasi mai. La vita di fuori mi disturba con la sua normalità. Mi disgusta l’inerzia che galleggia come la nebbia. Ognuno recita la ebete farsa della contentezza. Se avessi coraggio spaccherei il miraggio della perfezione, griderei a tutti loro che la cecità dell’ignoranza li rende innocui ed inoffensivi, ma molto funzionali al sistema ingiusto che ci domina. Ma non lo dico, la sfumatura di ribellione che mi sfiora appena è una pulsazione troppo debole per poter prendere il volo dell’azione. Neanche ai miei compagni di disgrazie, agli altri disoccupati non trovo il coraggio di rivolgermi. Nonostante li riconosca da lontano, dalla pesantezza del passo, dalla disperata incurvatura delle loro spalle, dallo smarrimento inciso nella carne dei loro volti. Tutti uguali, tutti identici, una maschera imposta loro dalla forza del bisogno. Non abbattetevi, vorrei dire, in fin dei conti non abbiamo che perso le nostre catene. Non lo dico. Peccato che insieme alle catene è svanito anche il senso del nostro risveglio.
Il medico mi dice che dovrei pensare positivo, che il bicchiere è mezzo pieno. Positivo un cazzo, dottore, penso io. Che ne sa dell’incertezza che accompagna lo strascicarsi scricchiolante del prossimo minuto? Lasci perdere i discorsi che è meglio. Le paure e le disgrazie sono individuali, vero? Mi ha sentito, dottore? Certe esperienze si possono capire soltanto vivendole in prima persona. Non esteriorizzo la mia protesta, la ristringo nel guscio opaco del mutismo. A casa resisto a fatica contro il desiderio di picchiare la testa contro il muro, vorrei liberarla di tutto quello che la intasa, di tutto quello che non funziona dentro. Ho paura di diventare pazza. Stringo nei pugni l’urlo che mi gonfia il petto. Non si fa tenere, scivola fra le dita viscido, va e viene, raschia la mia carne con le sue schegge.
Incapace di fermare i miei passi, cammino. Come una fantasma smarrita dentro la sua solitudine. Avanti ed indietro, rincorro il senso del mio fiato. Cammino con la fretta di riempire un vuoto che vuole risucchiarmi dentro. Cammino. Cammino e conto, cinque passi fino alla finestra, dodici fino in bagno, dieci fino al rubinetto della cucina. Contando, è come se m’impossessassi meglio della mia casa. Forse un giorno la perderò. Le carte della banca si accumulano sul mio tavolo. Non le leggo più. Le lascio prigioniere nelle loro buste intestate. È la mia vendetta. Non voglio far entrare la cattiveria dell’intimazione nella mia casa. È la mia casa. Finché posso la difendo. Continuo a camminare, ogni passo è l’affermazione che qui ancora sono io la padrona. Alla porta d’ingresso non mi avvicino, sul pianerottolo c’è sempre un viavai di gente. Gente che brulica su e giù per le scale spinte dall’affanno delle proprie vanità. Invadono il silenzio con l’arroganza delle loro scarpe, voci, fiati, corrono verso un nulla che rimane comunque oltre l’orizzonte. A volte il silenzio diventa completo per lungo tempo. Ma anche il silenzio ha voce. E come se desse più durezza all’aria. Le mie orecchie sono piene di piombo.
L’ansia è diventata la mia compagna. Riaffiora con una forza sempre nuova, accompagnando il mio respiro. Mi insegue nel sonno come un branco di cani affamati, domina i pensieri e li guida. Convivo. La coccolo. Ogni tanto le parlo. Anche lei mi parla; scivola lungo il mio corpo; sento il suo fiato freddo sulla pelle e mi parla. Mi dice, sei mia, non avere paura di me, vieni, vieni con me. Sarei tentata di mandarla via, poi ci ripenso. Perché? È l’unica che ancora mi cerca. Il suo abbraccio è come una morsa incollata alla mia carne, mi divora lentamente. Fremo come una preda intrappolata che si sa senza scampo. Il respiro pulsa dentro la gola e una nebbia fitta, fitta attutisce il tamburellare sempre più caotico del mio cuore.
Pericolo. Qualcuno mi spia; il pensiero non mi molla da giorni. In punta dei piedi vado a controllare se ho girato la chiave. Qualcuno è lì, dietro la porta. Una presenza constante come la disgrazia. Mi accovaccio sul letto e aspetto che mi assalti il suono del campanello da un momento all’altro. Attendo senza muovermi, con la paura nidificata sotto le palpebre. L’angoscia chiusa nei pugni cerca la protezione delle maniche troppo lunghe della felpa. Il respiro si perde dentro l’attesa. Il sapore di un insensato desiderio mi invade la bocca. Forse … Ma nessuno suona.

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