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La felicità di Aghmed

di Lucia Atzori
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Pubblicato il 16/11/2017 19:56:10


Quando arrivò sul posto non voleva credere a quanto i suoi occhi stavano vedendo. Cercò nella sua mente quell’angolo di raziocinio a cui si rivolgeva sempre in momenti come quello per agganciarsi alla normalità della sua vita perché altrimenti sentiva che sarebbe impazzito.
Aveva bisogno che il suo pensiero sentisse il tocco lieve e delicato di sua moglie Anne quando al mattino lo sfiorava per capire se realmente dormiva o se invece continuava a tenere chiusi gli occhi per ritardare il risveglio continuando a crogiolarsi nel sogno. Prima di aprire gli occhi tentava di addolcire i giorni con qualche pensiero positivo o creativo, passava in rassegna gli impegni e le soluzioni ai vari problemi a cui aveva pensato durante la prima insonnia.
Poi come in un’ agenda non scritta si dava delle priorità per le cose da affrontare. E solo quando aveva deciso lo schema della sua giornata, solo allora apriva gli occhi al mondo. Aveva bisogno di pensare al sorriso della sua piccola Irene, e di come si addormentava la sera tra le sue braccia. Piccola, morbida profumata Irene, occhioni blu innocenti e grande sorriso incoraggiante. Il suono allegro della sua risata contagiosa, lo sguardo fiero tra lui e Anne per aver generato una così splendida bambina. La sua casa piena di sole e la vista sulle colline, la pace della sua vita.
Ma neppure il sole e i sorrisi più dolci nei ricordi, riuscirono a confortarlo in quel giorno buio illuminato solo dal chiarore di tutta quella neve sporca, in quella campagna grigia e umida di quel luogo inospitale.
Nella foschia del mattino si intravedevano strane sagome sparse qua e là come di alte capanne di legno marcio. Non si notavano sentieri ne si udivano voci o suoni. Tutto era come raggelato dal freddo e dall’umidità come se il mondo vivesse dentro un grande congelatore capace di fermare uomini e cose con alito di ghiaccio.
Eric sapeva che doveva in qualche modo andare verso quelle sagome, era venuto lì apposta, abbandonando la sua pace per inseguire e raccontare la visione di un altro mondo, non il suo ma parte di esso, il suo lavoro di cronista, era il prezzo per i suoi giorni felici nel suo mondo reale. Si perché questo era un sogno si diceva non poteva esistere. Ogni volta si ripeteva quella frase mentre viveva quei momenti, salvo poi provare un senso di nausea e colpa profondi, quando seduto nella sua lussuosa poltrona nel suo lussuoso e soleggiato studio, tra le sue colline, revisionava il materiale e montava e tagliava e riciclava cambiando continuamente le scene finché non si sentiva esausto, allora rivedeva da solo, senza collaboratori l’intero documento.
Aveva preso l’abitudine di abituarsi a quella solitudine finale, a qual giudizio di approvazione ultimo del suo lavoro, perché a volte il senso di colpa e la nausea lo schiantavano e non era raro che i tramonti sulle colline fossero accompagnati dal suo pianto silenzioso, spossato da quanto aveva vissuto per preparare il dossier. Era questo il suo lavoro, documentava i fatti cruenti, di condizioni umane in giro per il mondo. Guerre, genocidi, soprusi, ingiustizie che gli esseri umani infliggevano ad altri simili per fama, soldi, potere.
Fece un cenno con il capo a Stefan il cameraman con cui lavorava da anni e che aveva imparato il significato di ogni suo gesto, come in un alfabeto segreto, sapeva cosa Eric intendeva con il movimento prima circolare e poi ondulatorio della mano “gira tutto, riprendi tutto, lentamente, piano piano” Un segno e Stefan riprendeva di lato, poi sopra o in fondo, e ancora e di nuovo, ormai era quasi capace di anticiparli quei segni, tanto erano affiatati.
Parlavano così tra loro a gesti, a sguardi. Con gli anni erano riusciti a trovare un’intesa senza suoni, aggiungendo e creando nuove parole segrete in base alle situazioni, come malati terminali a cui è legato uno sbattere di ciglia per un ultimo desiderio.
E Stefan questa volta lo guardava dubbioso -Non mi piace, troppo silenzio.
La neve scricchiola ai loro passi, ma la foschia li avvolgeva mentre avanzano verso quelle capanne. Si resero conto che non si trattava di capanne ma di vagoni di treno e capirono il perchè erano sembrate così alte in lontananza! Vagoni, cosa ci fanno qui dei vagoni?
E i binari? Non si vedono sotto la neve. A guardare la disposizione delle sagome il tracciato di quella ferrovia sembrava alquanto bizzarro. Come un labirinto senza logica, impossibile che dei binari potessero fare quella curvatura e disporre le carrozze in quel modo
Arrivarono alla tacita conclusione che quei vagoni non facessero parte di un treno in convoglio sparpagliato nei vari scambi di una stazione, la città era troppo lontana per giustificarne una tale quantità. No, i vagoni di quel treno erano stati portati li in quella campagna isolata e come se un gigante li avesse sollevati uno per uno li aveva sparsi nei campi intorno uno di qua e uno di la disordinatamente.
Si erano fermati per darsi il tempo di spiegarsi una cosa così strana, erano immobili sagome scure tra altre sagome indistinte. Continuarono ad avanzare lentamente, con l’incertezza di non sapere cosa si nascondesse sotto ogni passo. Stefan riprendeva con la telecamera l’intero paesaggio immobile in quell’atmosfera surreale.
Leggermente spostato a sinistra percepirono un movimento. Un colpo di tosse e una figura scura e indistinta si materializzò sull’entrata del vagone. Ripresero a camminare più veloci cercando di attirare l’attenzione dell’uomo che nel frattempo si era seduto sull’uscio accendendosi una sigaretta. Fumava con il viso rivolto di lato quasi che non li avesse scorti, ma appena furono abbastanza vicini cominciò a parlare dimostrando di essere cosciente della loro presenza.
Non conoscevano la lingua ma capirono dai toni che raccontava qualcosa che lo turbava più della loro presenza. Ogni tanto si interrompeva e con le mani sudice si toccava il capo a lisciare i capelli, neri e polverosi, le stesse mani a nascondere il volto ad accentuare la disperazione che traspariva dalla sua voce.
Eric tentò di farle delle domande almeno per sapere chi fosse, il suo nome, ma lo sconosciuto sembrava non capire e continuava nel suo delirante racconto, ormai erano arrivati quasi a toccarlo e riuscivano a vedere l’interno del vagone. Paglia, a terra, abiti che sembravano ormai vuoti e un fetore nauseabondo a cui ormai l’uomo sembrava indifferente.
Nessun altro segno di vita. D’improvviso l’uomo li guardò dritto in faccia e ripeté alcune frasi nella lingua sconosciuta. Lo sguardo vitreo come allucinato di chi ormai ha perso tutto, anche la ragione. Scese lentamente dal treno facendo un gesto ampio con il braccio ad indicare la campagna e i vagoni intorno poi un sussulto e cadde nella neve abbandonato dalle ultime forze.
Lo sguardo perso tra le sue colline che questa volta non riescono a consolarlo, il suo lavoro ormai finito pronto da distribuire ai network, lo ha lasciato esausto più di ogni altra volta. –Sono stanco! Si lamenta con se stesso mentre ascolta il sonoro, le immagini non vuole più vederle le ha già viste tante volte.
Ascolta ferendosi l’animo, il monologo dell’uomo sul treno finalmente tradotto e comprensibile
“Siamo profughi. Siamo scappati dal nostro paese dopo che avevano avvelenato con i gas il nostro villaggio. Abbiamo aspettato al confine per giorni e giorni il momento favorevole di attraversare il fiume, ma c’èra sempre un imprevisto, dovevamo nasconderci di giorno e di notte, senza cibo ne soldi. I più giovani erano irrequieti e la situazione non era più sopportabile.
Abbiamo deciso di non aspettare i trafficanti che intanto si erano già presi i nostri soldi e una notte abbiamo attraversato il fiume con mezzi di fortuna, piccole barche, gommoni improvvisati, chi riusciva a nuotare si attaccava ai bordi, le donne i bambini a remare. Il cielo era nuvoloso e abbiamo tentato nonostante la luna piena ma contavamo nell’aiuto di Dio per nasconderla con le nuvole.
Così non è stato e siamo stati scoperti. Per questo ci hanno detto che saremmo stati rimpatriati e così siamo finiti su questo treno. Abbiamo aspettato altri giorni ma allora sul treno avevamo almeno cibo e acqua, eravamo 400, donne vecchi intere famiglie hanno vissuto per mesi sul treno, in attesa. Avevamo speranza perché se non ci avevano ancora rimpatriato forse stavano decidendo di farci scendere dal treno per consentirci una vita qui o altrove lontano dai nostri tiranni, in attesa del ritorno alla nostra terra liberata, ma poi ci siamo resi conto che non sarebbe stato così.
Una notte il treno si è messo in marcia, siamo arrivati in città, hanno staccato i vagoni e li hanno caricati su camion per portarci qui. Hanno disposto i vagoni così come li vedete, come semi di grano seminati sparsi. Ci hanno lascito del cibo ma dopo pochi giorni è finito. Non abbiamo documenti, inutile scappare da qui, siamo troppo lontani da tutto senza forze per proseguire.
Si sono dimenticati di noi, ci hanno abbandonato senza darci la possibilità di vivere. Il mio nome è Aghmed.
Mia nuora ha partorito qui sul treno – Rivede le mani sudice a nascondere il volto- in questo vagone. Non avevamo niente per aiutarla, abbiamo usato la nostra urina per disinfettare lei e il bambino. Gli abbiamo bruciati laggiù dietro il vagone. Mio figlio è morto il giorno dopo e mia moglie con gli altri.
Ci hanno abbandonato” Quegli occhi non poteva dimenticali “Ci hanno abbandonato! Ora sono solo, sono solo!” Il braccio che fende l’aria indicando la campagna “Sono tutti morti! Raccontate tutto questo!”
La porta dello studio si apre muta. Si scuote perché ha riconosciuto il profumo di Irene che avanza gattonando verso la sua poltrona, si volta verso Anne sorridente, sulla soglia. Piccola, dolce tenera Irene, la prende in braccio e il volto si distende alla vista del sorriso innocente.
Si sente felice Eric in un attimo, sa che deve esserlo anche in memoria di uomini come Aghmed a cui non è stato concesso di esserlo.

Lucy 20 marzo 2011

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