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Al cor gentil

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 02/05/2018 09:29:42

AL COR GENTIL…

Ogni mattina Isabella Fiorentini arrivava puntualissima davanti al cancello della Scuola.
Alle sette e trenta aveva già superato il portone d’ingresso, per immettersi nei meandri dell’Istituto: controllava il termostato e la caldaia dell’impianto, dopo aver fatto scattare gli interruttori del quadro generale.
Dalle sette e quaranta in poi era pronta a ricevere le telefonate dei docenti, che si annunciavano assenti, dei fornitori e dei tecnici, incaricati dall’amministrazione di riparare i diversi guasti, prodotti da mani incaute, dall’usura o dal maltempo.
La portineria, che dava sul corridoio principale d’accesso, permetteva al personale di osservare, attraverso un’ampia porta a vetri, l’arrivo delle applicate di segreteria, dei docenti e della preside.
Alle otto meno cinque la sala insegnanti era gremita da tutti i professori destinati ad entrare alla prima ora nelle classi.
Isabella aveva imparato ad osservare bene le loro espressioni, a leggere nelle pieghe dei visi i litigi del giorno prima, il malumore o la serenità.
Da alcuni anni attendeva alla custodia e alla pulizia della stessa scuola e conosceva opere e miracoli dei docenti, la cui vita, come voleva il destino, incrociava la sua.
Le erano diventati, caratteri a parte, tutti familiari e le piaceva sentire l’atmosfera del mattino riscaldata dal brusio delle loro voci e dall’odore del caffè che lei stessa preparava, con la moka e le tazzine, al gruppetto di quelli che non volevano servirsi del freddo distributore meccanico.
-Isabella, se non ci fossi tu!, - Isabella, tu ci resusciti! le dicevano, facendola sentire per un attimo Ebe, la coppiera degli dei. Leggermente più coccolata delle sue colleghe.
Sì, perché quello era l’Olimpo dove lei era venuta a sedere, seppure all’ultimo gradino, vicino alle persone di cultura, i professori, che le ricordavano l’infanzia e l’adolescenza e facevano riscoprire gli archetipi.
Non era riuscita a concludere alla scuola di Turismo. Indirizzo di studi sbagliato. Condensato di materie e competenze da acquisire dall’oggi al domani.
L’esaurimento le aveva portato via i capelli.
Così aveva preso il diploma di segretaria d’azienda e poi, cambiato diversi mestieri.
Prima teneva la contabilità presso un elettrauto, poi si era impiegata alla reception di un albergo, infine aveva partecipato ad un concorso per essere assunta come bidella.
E l’aveva vinto.
Era ritornata a scuola e, il primo giorno, varcando la soglia dell’Istituto Magistrale, si era rivista bambina, con il grembiule nero, il fiocco rosa e la cartella più grande di lei davanti al portone delle Elementari.
Prestare il suo servizio in quel luogo era congeniale alla sua natura,quieta e malinconica, propensa a sentirsi soddisfatta, come una semplice massaia, nel vedere i locali in ordine, i vetri nettati, il bagno igienizzato e i pavimenti lustri.
Inoltre, da perfetta padrona di casa, sapeva relazionarsi con le persone, ricevere e diramare le indicazioni della Preside, occuparsi dei bisogni degli studenti.
La consapevolezza di questa sua efficienza compensava in parte quel senso di vuoto, dettato dalla sua condizione di donna sola attesa a casa da genitori anziani e malati, con cui condivideva ansie e tristezze.
Il padre, minato da una rara forma di tumore osseo dal lento decorso, trascorreva le giornate a parlare dei farmaci che assumeva.
Faceva la spola con l’ospedale, dove era stato ricoverato più volte, accompagnato sempre dalla figlia che, sola in famiglia, aveva la patente.
-Dai, babbo, che ti rimetterai!, -Non fare così, ci vuole pazienza.
La mamma sospirava e si lamentava della sua cataratta e dell’artrosi e Isabella consolava, serviva e si accontentava.
In chiesa l’aveva colpita una frase del parroco: -Siamo nati per servire, sia che capiamo sia che non capiamo.
Lei infatti serviva senza capire i perché .
Oltre che per le omelie del parroco, aveva provato il raptus per certe storie lette nei libri, dove istitutrici, brutte e orfane, si rifacevano dei patimenti subiti con l’amore sconfinato di affascinanti signori, perdutamente ricambiati dalle protagoniste.
Purtroppo la vita era ben diversa dai romanzi e quella di Isabella era stata piuttosto ingenerosa.
A partire dal nome beffardo, che i genitori poco accorti le avevano affibbiato.
Isabella a lei! Con quei denti neri e sporgenti, il naso a roncola e la schiena tutta gibbi. Un corpo tozzo da nascondere dentro tute grigie e cappotti larghi. Anche perché con se stessa era spietata. Colpa di madre natura e degli eventi.
Le amiche si erano via via accasate e per lei l’unica compagnia inseparabile era diventato il cagnolino Putin-Pao,vispo e affettuoso, che abbaiava a tutto il vicinato e che le dava il pretesto di scendere giù in strada quando era libera dal lavoro, dalle faccende domestiche e dagli impegni familiari.
Il padre, se smetteva di parlare del pagutin e concentrava l’attenzione sulla figlia, cominciava a ragionare sul suo stato di zitella, utilizzando la solita frusta metafora: - La frutta quando è matura deve essere raccolta, altrimenti raggrinzisce sull’albero e fa tristezza vederla- e Isabella fingeva di non sentire, corazzandosi dietro un grugno lungo, rappresentativo di tutto il suo umore.
Ovvero malumore.
A scuola aveva cercato tra il personale qualche giovane che facesse al caso, ma era circondata soprattutto da colleghe e quei pochi uomini, con cui aveva spostato banchi e cattedre, o erano sposati o non in grado di accendere scintille.
In realtà, l’unica persona cui Isabella riservava i propri sentimenti era un professore, che aveva preso servizio nella scuola da qualche anno. Si chiamava Domenico Alcesti e insegnava italiano e latino nelle classi terze.
Alto, andatura dinoccolata, viso lungo e magro, espressione assorta e aspetto gentile, si dedicava al lavoro con molta scrupolosità. Il suo fare un po’ impacciato lo faceva oggetto di scherno di qualche collega maligna e di un folto gruppo di studentesse scriteriate, che canzonavano la sua inaudita pretesa di insegnar loro a commentare i canti di Dante e la Pentecoste del Manzoni.
Spesso la voce alterata di Alcesti arrivava in portineria dove Isabella, nei momenti morti, se non leggeva, realizzava golfini a maglia per le suore di Maria Bambina.
I bidelli da parecchio tempo non facevano più caso alle grida degli insegnanti che, a tenere quella masnada di ribelli incivili, ci rimettevano salute e vita, ma Isabella, quando sentiva la voce esagitata del professor Alcesti, sobbalzava e d’istinto alzava gli occhi dal suo lavoro di tricoteuse per guardare l’orologio a muro, sperando di vedere la lancetta grande in dirittura d’arrivo sul dodici.
A volte qualche insegnante si lamentava, perché la campana era suonata prima del tempo e, siccome era quasi sempre Isabella l’autrice degli anticipi, ella si giustificava dicendo che non c’era sincronismo tra gli orologi distribuiti nei vari piani della scuola e che da tempo i tecnici promettevano una registrazione generale che in realtà non avevano mai effettuato.
Non poteva dire che quei minuti, rubati agli insegnanti cerberi, erano un regalo che lei faceva all’angelico Alcesti.
Una volta, mentre stava pulendo il corridoio e, casualmente si era trovata davanti alla porta della presidenza rimasta socchiusa, aveva colto lo stralcio di una conversazione in atto tra la Preside e l’insegnante in questione:
-Professore, -la voce stridula della dottoressa Mortazzone era un affondo nelle delicate fibre di Alcesti – lei ha la fortuna di essere un uomo! Faccia la voce grossa, le spaventi queste bimbe! Via, non sono poi così terribili come crede. S’imponga, usi tutte le strategie possibili, ma le zittisca una volta per tutte!.
- Vede, preside – rispondeva l’imputato – sfortunatamente ho dei noduli alle corde vocali, che mi impediscono di forzare la voce…
- E allora curi l’aspetto relazionale! Parli con queste ragazze, si faccia loro complice. In fin dei conti basta un po’ di diplomazia. Avrà letto i manuali di psicologia, immagino. Cerchi di capire le sue studentesse, le assecondi, le conquisti… - la voce della Preside si faceva sempre più impaziente e incalzante.
Isabella non aveva voluto ascoltare oltre e si era allontanata con il secchio e lo spazzolone sul fondo del corridoio, nella zona meno illuminata, per non farsi notare dal professore quando fosse uscito.
Soffriva per la mortificazione che quell’ottima persona doveva sopportare, a causa della sua trasparente onestà.
Ah, sarebbe andata lei in quelle classi sciagurate, avrebbe offerto se stessa al martirio per salvare l’amato, proprio come aveva fatto la moglie del re Admeto, l’Alcesti, protagonista della tragedia euripidea , che Isabella si era letta, dopo che ne aveva sentito parlare dalla professoressa Costa.
Quell’uomo portava un nome, pensava la bidella stupendosi, che rappresentava la proiezione di se stessa, dei suoi più intimi pensieri.
Una volta il professore le aveva chiesto di preparargli una camomilla, per rischiararsi la voce e calmare i crampi allo stomaco.
Nel frattempo si era ritirato in biblioteca con un libro tra le mani e, quando Isabella lo raggiunse con il vassoio, il bricco dell’acqua calda, la zuccheriera e la tazzina, lui chiuse prontamente il volume e incrociò il suo sguardo azzurrino con quello di lei.
- Grazie, signorina Isabella – le aveva detto con gratitudine e il tono d’un giovane d’altri tempi- lei non sa il bene che mi fa- e Isabella aveva stretto le labbra per non lasciarsi sfuggire parole che non potevano sfuggire, ma incapace di proferirne altre.
-Sa, - aveva continuato lui – questo momento mi ricorda quando ero studente squattrinato. La mia padrona di casa saliva ogni giorno a portarmi il tè durante le ore del pomeriggio. Io mi sentivo corroborare dalla bevanda calda e zuccherata…Penso che gli inglesi abbiano sempre avuto ragione…
La bidella annuì, abbozzando un timido sorriso e, giudicando che il momento d’intrattenersi fosse esaurito, non volendo per giunta importunare con la sua presenza, che non sapeva gradita, rinchiuse la porta allontanandosi con il vassoio.
Dolce signore, anima candida.
Era fidanzato con una ragazza gentile simile a lui. Una sera li aveva visti insieme al cinema : davano un film di Tornatore.
C’era una bella intesa tra i due. L’aveva capito alla prima occhiata.
Ma a Isabella non importava che fosse già promesso. Le bastava vederlo arrivare la mattina con la sua borsa di cuoio e il giaccone chiaro, e poi entrare in sala insegnanti o nello sgabuzzino della fotocopiatrice, dopo aver dato a tutti un compitissimo buongiorno.
Isabella lo seguiva con gli occhi, mentre camminava lungo il corridoio per raggiungere la sua classe.
Quanto avrebbe desiderato essere una giovane studentessa per sedersi accanto a quelle ragazze, che masticavano il chewingum e si ripassavano il kajal negli occhi, nascondendosi dietro le compagne che davano le spalle, ad ascoltare il suono modulato di quella voce…
Una volta aveva avuto l’occasione di sentire una lezione di Alcesti, perché il professore aveva portato la scolaresca in biblioteca, le cui pareti perimetrali erano tagliate nella parte superiore e la voce di chi parlava si propagava all’esterno …

-Dante si prefigge di educare l’uomo alla conoscenza. Ritiene che l’uomo debba trovare in ciò che legge e che studia qualcosa che lo aiuti a migliorare. Dante ha un concetto universale di conoscenza. Più l’uomo conosce, più arriva alla felicità.
La lingua, secondo il poeta, è un mezzo importantissimo perché contiene valori morali, etici, religiosi, universali…
C’era silenzio. Le studentesse ascoltavano, prendendo appunti.
Poi qualcosa turbò l’atmosfera. Si udì un brusio e dopo un gran vociare. Che era successo?
Una ragazza sentiva la faccia gonfiarsi, probabilmente perché vi aveva spalmato una crema alla quale era allergica e allora le compagne si erano messe a gridare, come delle prefiche, per far dispetto a quel martire, che invitava l’infortunata a uscire e le altre a stare calme.
-Bisogna telefonare al Pronto Soccorso, ai genitori!- diceva Alcesti affacciato alla porta.
Erano accorse le bidelle e delle colleghe, accortesi della situazione anomala.
Isabella aveva già raggiunto l’apparecchio telefonico quando, dalla presidenza, era uscita la dottoressa Mortazzone:
-Fiorentini, alt! -aveva ammonito come un vigile severo da metà corridoio, allungando il palmo spalancato della mano: -Avverto io la famiglia, che conosco personalmente- e rivolta all’agonizzante: -Silvia, tu vieni nel mio studio, mentre le tue compagne tornano in classe. Professor Alcesti, gradirei che la biblioteca rimanesse libera questa mattina, perché devono arrivare gli alunni delle Medie a visionare un filmato- e aveva fatto un brusco dietrofront, seguita dal passo incerto di Silvia.
Tutte a lui dovevano capitare, pensava Isabella contrariata. Non era nemmeno riuscita a gettarsi per un attimo nell’azzurra intensità degli occhi del professore che lui a capo basso aveva preso il gruppo e si era rintanato nella sua aula.

In famiglia intanto il padre aveva notato il cambiamento. Nonostante continuasse a mantenere il broncio alla vita, lo sguardo della figlia era più luminoso, la pelle si era fatta più tesa e il guardaroba si era arricchito di qualche giaccone rosso fuoco e di pantaloni attillati.
-Oh, non ti starai, per caso, innamorando?- le chiese una sera, mettendo il suo viso rugoso sotto quello di lei e mostrando i denti gialli dell’ex fumatore incallito e la saliva.
Isabella aveva fatto un gesto nell’aria con la mano , quasi a volerlo scacciare .
-Mah- aveva sillabato nel naso.
Non voleva parlare con nessuno di quel suo affetto, quasi temesse che potesse consumarsi. Perché vi si aggrappava come a una colonna, che le si fosse edificata dentro e le facesse dispiegare tutte le sue forze.
-Per me non ce la racconta giusta, questa figliola – diceva, rivolgendosi alla moglie, il signor Fiorentini, che conservava nella parlata l’accento toscano. E la moglie :-Tullio, lasciala in pace. Se non te lo vuol dire, non insistere!.
-Via, ragazzetta, non ci sarebbe niente di male. Anzi!
Ma Isabella teneva duro. A che scopo parlare di un amore senza speranze? Sarebbe stato troppo doloroso discorrere di una fantasia a senso unico.
Isabella preferiva assumere l’espressione della sfinge. Non far leggere niente a nessuno.
Le avrebbe dato fastidio qualunque considerazione o interpretazione, anche la più comprensiva e affettuosa. Nel suo immaginario, invece, avrebbe potuto figurarsi tranquillamente le situazioni che voleva, intrattenere conversazioni ideali con l’immagine virtuale dell’amato. Fantasticava su incontri ravvicinati in una dimensione oltre il tempo e oltre lo spazio oppure dentro il microcosmo della scuola, eletto a teatro delle sue emozioni.

-Guido Guinizelli è considerato il maestro del Dolce Stilnovo. L’amore per lui è il valore più alto che porta l’uomo a Dio. Dà alla donna l’attributo di angelo.
-Al cor gentil rempaira sempre amore-. Se uno ha il cuore gentile, è pieno di valori spirituali. Per Guinizelli la nobiltà è nobiltà d ’animo. Se l’amore è espressione dei massimi sentimenti, l’uomo di sentimenti nobili non può non amare.
Gli Stilnovisti crearono una vera e propria teoria filosofica fondata sull’amore. La donna-angelo porta l’uomo a Dio. Un uomo di bassi istinti non può avvicinarsi a una tal donna. Le donne del Dolce Stilnovo sono il simbolo della perfezione, della virtù e della poesia.
Isabella un giorno, facendo le pulizie in terza A, aveva trovato gli appunti di una lezione di Alcesti in una minuta, dimenticata sotto il banco da una studentessa.
Ne aveva fatto prontamente la fotocopia e se l’era portata a casa, dove l’aveva sistemata esattamente nel comodino della sua camera.
-La donna conduce l’uomo a Dio-.Ma era vero?
Isabella pensò alle donne che conosceva: sua madre, le zie, le studentesse.
Conducevano gli uomini a Dio queste persone?
Sua madre era stata probabilmente una donna dolce e gentile, ma la tirannia esercitata dal marito pretenzioso e irascibile, l’avevano, con gli anni, inasprita. E lo stesso doveva essere capitato ad altre, che avevano finito per farsi corrodere dal rancore e dalle ripicche quotidiane o abbruttire dalla fatica del lavoro, compreso quello domestico.
Non sapeva davvero cosa rispondersi. Qualcuna, forse…
Ma poi dedusse che Guinilzelli apparteneva al mondo letterario e la letteratura era trasfigurazione della realtà.
Però il sogno ricorrente, che Isabella faceva sul professor Alcesti ,avrebbe potuto essere l’ultimo capitolo di un romanzo.
Che stesse anche lei trasformando la sua vita in letteratura?
Ecco come Isabella immaginava l’incontro che avrebbe dovuto appagare completamente il suo senso di vita.

E’ una mattina di primavera. Il sole stuzzica le gemme sui rami degli alberi, che sbattono contro i vetri della scuola. Isabella sta spolverando gli scaffali della biblioteca quando, inaspettato, entra Alcesti che ha l’ora buca.
Isabella lo guarda e fa per andar via, ma Domenico la trattiene.
-Isabella – le dice a bassa voce per non farsi sentire da altri – le dovrei parlare.
Isabella trasale e appoggia le mani alla spalliera di una sedia.
-Forse, quello che sto per dirle la sorprenderà…- il professore s’interrompe per rischiararsi la voce, senza avvicinarsi troppo – ecco, vede io… Si sarà accorta, insomma, che lei non mi è indifferente…- le labbra sono bianche e secche per la tensione- Io credo di conoscerla e di saper apprezzare le sue doti. Lei è sensibile, attenta, umile. Non dice mai sciocchezze. E’ autentica nelle sue manifestazioni, affidabile, sincera. Possiede un animo gentile, delicato. Racchiude in sé valori nobili, come uno scrigno racchiude le perle…
Isabella si è fatta pallida. Vorrebbe sedere, ma non osa. Trattiene il fiato. Teme di interrompere il flusso di parole che esce dalla bocca di Alcesti e che l’incanta.
-Forse mi giudicherà ridicolo, ma desideravo che lo sapesse…- poi, avvicinandosi e mostrandole un azzurro di mare infinito, e facendosi un po’ serio, con voce sommessa – Sappia che non glielo dirò mai più. Che la rinnegherò davanti agli altri, che la ignorerò , fingendo indifferenza, perché tutti siamo prigionieri delle convenzioni. Ma la verità è che io la trovo simile a me ,mi sento migliore in sua presenza, e se ci fossimo incontrati prima…- e qui sospira senza concludere la frase, ma abbassando gli occhi.
Isabella è rapita. Per la prima volta il suo nome non le sembra più un beffa.
-Grazie, grazie professore- risponde con un fil di voce.
E il professore esce…

Come sarebbe stato facile! E bello... Sarebbero bastate quelle poche parole per regalarle la felicità sconfinata cui credeva di avere diritto.
Avrebbe potuto andar fiera per la strada e pensare, incrociando le varie coppie:
-Chissà se quello che c’è tra voi è vero amore o un compromesso come c’è tra tanti che si sposano. Io l’ho trovata la persona che amo e che mi ama. E non è uno qualunque, ma un intellettuale.
Sì, avrebbe portato quel segreto nel suo cuore e la sua vita sarebbe stata dolce per sempre.
Ma Alcesti non avrebbe mai corrisposto alle attese di Isabella. Prima di tutto perché era felicemente fidanzato, poi perché non l’amava e se, nella più remota ipotesi l’avesse amata, non gliel’avrebbe mai detto.
Anche perché il modo di amare degli uomini, Isabella aveva letto qualcosa al riguardo su Io Donna, è diverso da quello delle donne.
Le donne si fanno consumare nottedì dal sentimento, mentre gli uomini vi dedicano, salvo eccezioni, qualche momento quotidiano, perché vi antepongono gli impegni di lavoro e i propri hobby .
In più Isabella aveva letto, sempre su Io Donna, che gli uomini, forse per motivi ancestrali, si sentono impacciati, goffi e retorici nell’esternare i loro stati d’animo più intimi con le parole. E perciò non esternano.
Al massimo lasciano intendere. Che cosa, esattamente non si sa…
Alla fine, Isabella concluse che, tra le attenzioni da riservare al padre, che parlava dei benefici effetti del pagutin, e quelle per il professor Alcesti, che disquisiva di Guido Guinizelli e ogni tanto le chiedeva di preparargli una camomilla per rischiararsi la voce, le rimaneva pur sempre da uscire con il cagnolino Putin Pao in strada, dove qualcosa di nuovo sarebbe potuta per altro accadere…

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