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Di foglie perenni

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 19/05/2018 17:26:57

“…Invidia dell’amore, odio dell’innocenza: formule dell’anima…” (da Salvatore Quasimodo: “Notizia di cronaca”)
DI FOGLIE PERENNI

Si affaccia alla ringhiera del balcone: Gherardo sta ritardando.
Le lancette dell’orologio segnano le due e gli odori della cucina svaporano. La motoretta della guardia forestale ha preso l’erta e le macchine dei muratori sono sciamate come un nugolo di moscerini dal piazzale del ristorante. Già da una buona mezzora.
Finalmente la sagoma sbuca da oltre il muretto. Il viso è allungato verso il basso, i capelli sono schiacciati sulle tempie.
Sembra ignorare la madre che si sporge dalla ringhiera e aspetta che lui alzi lo sguardo Quando apre la porta e si introduce nel soggiorno compie gesti meccanici. Deposita il mazzo delle chiavi nella ciotola di ceramica e la cartella col registro su un ripiano della libreria.
Pallido e trasognato.
La madre rimane in cucina davanti ai fornelli abituata alle simultaneità delle cose.
Quando lui mette i piedi sotto la tavola ha ancora l’espressione immobile della strada deserta.
Maria Adele affetta il pane sul tagliere.
-E’ di casa!- gli dice, raccogliendo sulla lama del coltello le fettine sottili.
Il figlio non risponde. Tiene lo sguardo concentrato sulle stoviglie.
-Che c’è?- chiede la madre.
Lui sospira. Non ha voglia di parlare.
-Ti va lo spezzatino? – Maria Adele riporta l’attenzione sul pranzo.
Lui annuisce col capo mentre versa nel bicchiere un po’ di acqua fresca.
-Pelizzi si è tolto la vita- dice improvviso in un soffio.
Maria Adele deve tenersi alla spalliera della sedia.
-Come?-
-Sì, i genitori lo hanno trovato stamattina appeso a un pilone del cancello-
- Ma… il motivo? Si sa il motivo? Che cosa dicono i compagni?-
Gherardo tossisce e si raschia la gola.
-Ma tu, avevi capito qualcosa? Avevi capito qualcosa di lui? Era un tipo fragile?- incalza la madre.
-Come tutti gli altri…un ragazzo normale… -
Gherardo versa altra acqua nel bicchiere.
Lo spezzatino rimane nel piatto.
Si alza e si mette a sedere nella poltrona del soggiorno.
Maria Adele non insiste perché continui a mangiare.
-E’ venuto il preside in classe. Ha fatto un gran discorso … Forse è successo perché i genitori stanno per separarsi … -
La madre serra le labbra e prende uno strofinaccio per colpire la mosca che ronza fastidiosa sul vetro. Apre la portafinestra per far uscire l’insetto e istintivamente dirige lo sguardo verso il comignolo della casa di fronte su cui si è posata una cornacchia. Muove il capo ora verso destra, ora verso sinistra. Non si decide a riprendere il volo.
Maria Adele rimane a guardarla sopra pensiero, cercando sagome e ricordi nella foschia che avvolge il profilo discontinuo dei monti.

Era appoggiata sul bancone. Già consumata dall’usura con le impunture di cuoio che cedevano in diversi punti. Graffiata lungo i bordi e con la tracolla stinta. Un lavoro artigianale forse realizzato dal proprietario stesso.
-Ma di chi è? – chiese Maria Adele che entrava in ufficio per il turno pomeridiano. Quella borsa di cuoio, quella bisaccia marrone le aveva dato un inspiegabile tuffo al cuore.
Era giugno inoltrato, il caldo faceva scorrere il sudore sotto la tela spessa dei jeans. Maria Adele , dopo la pedalata, ne sentiva il bagno.
-E’ la borsa del nuovo portalettere – le rispose Mara, sistemando nell’album i francobolli nuovi appena arrivati con l’ultimo corriere.
-Ah sì?! – fece Maria Adele scherzosamente frivola – E che tipo è?
-Boh…- Mara portò alle labbra la punta laccata dell’unghia rotta- Non so…Magro, magro mi è sembrato.
Maria Adele aprì la porta che dava all’interno, nella zona riservata agli impiegati, e appese la borsa lavorata all’uncinetto al piccolo attaccapanni posto all’angolo.
-Come è andata con le pensioni? –chiese rivolgendosi sempre a Mara.
-Al solito… – fece la collega- un’anziana non poteva aspettare che io siglassi, un’altra mi ha chiesto di ricontare per ben tre volte…-
- Ih! Quando si comportano così…-
- E pensare che tu avresti potuto evitare tutto ciò… con la tua laurea..- E Mara la guardò sbattendo gli occhioni incorniciati dalle ciglia nerissime allungate col rimmel.
Maria Adele ricambiò con uno sguardo intenso. Il sorriso le si smorzò sotto la sferzata inattesa del ricordo.
Entrò Gino con il sacco della posta.
-Ragazze, ecco qua… Tutta roba per voi ! – e depositò sulla bilancia l’ingombro prima di mandare un bacio a Mara con la punta dell’indice mozzato.
Nel frattempo era arrivata anche Paola, l’aria di quella che aveva bisogno di un sonnellino per rimettersi in sesto. Indossava la solita gonna blu e una camicetta a fiori in fibra sintetica che con quel caldo diffondeva un odore acre.
Occupò il solito posto e iniziò a smistare, secondo le varie forme di spedizione, il considerevole numero di lettere e pacchi.
Maria Adele aveva frequentato un corso di informatica. Assieme al direttore era l’unica che sapeva entrare in rete. Grazie al sistema poteva seguire il percorso di una assicurata fino a destinazione, ricavare i cap nel giro di pochi secondi. Le sue dita, già abituate alle vecchie Olivetti, digitavano veloci la tastiera. Erano competenze che la collocavano al di sopra degli altri impiegati di cui suscitava le piccole invidie.
Paola, invece, aveva lasciato perdere. Le era bastata l’umiliazione subita in una prova di concorso: dopo che, nella fretta, non si era accorta che stava battendo il testo sul carrello, preferiva i lavori di manovalanza a quelli che richiedevano qualche ragionamento in più.
Maria Adele si diede a inserire i codici. Quando sollevava il capo dalle schermate il suo occhio cadeva sulla bisaccia che qualcuno aveva accantonato verso il muro per lasciare più sgombro il piano del bancone.
Sì, era molto simile a quella. Che aveva comprato dal fratello di una compagna di scuola. Sergio. Un ragazzo timidissimo. Chiuso in casa a lavorare il cuoio.
Era stata ideata su mezza sagoma di chitarra.
Assemblate le parti con un laccio di pelle che passava da foro a foro come nelle scarpe.
Incise le Pleiadi in corrispondenza della apertura.
Gli aveva detto che era bellissima.
Le aveva detto che condivideva la solitudine brumosa dei campi tra i filari di vite dove potava i tralci.
La sorella l’aveva guardata riconoscente. Forse con qualche intenzione allusiva. Ma a lei non piaceva quella pertica di corpo, il viso bianco e la bocca muta. L’aveva liquidato con l’ assenza di sguardi.
Lui aveva continuato a riporre i tronchesi e i guanti da giardino sul tavolo, accanto al cuoio duro. A sparire tra le nebbie e le zolle sempre uguali e ricomparire tra le borse e le cinture.
Relegato nella solitudine.
Forse gli sarebbe piaciuto godere del profumo di qualche fiore, sbocciato apposta per lui. Magari un fiore settembrino dai colori smorzati come lo è il sole in quel mese.
L’aveva perso di vista. Per ordine naturale delle cose Maria Adele non aveva saputo più niente. Come semplicemente accade, perché ognuno viaggia sulla propria solitaria nave.
Le era rimasta la borsa, però.
Un fondo di chitarra.
Tondo e duro.
II
Erano bianchissime, con le unghie affusolate. Correvano sul banco per afferrare una penna, impacchettare i medicinali. Due animelle slanciate. Opera d’artista. Precise, decise, aggraziate. Falangi lunghe.
Lo sguardo di Vito le comprendeva dentro il cono illuminato. Quando ampliava il campo incontrava lei e il camice morbidamente sgualcito, la treccia morbidamente sciolta.
La guardava di sotto in su come un bambino timido che non sa come comportarsi davanti al fascino irresistibile di una donna.
Lei gli puntava gli occhi addosso sottintendendo “Desidera?”.
Lui voleva semplicemente dei prodotti lenitivi per i decubiti della madre.
Ci andava spesso in farmacia.
Dopo le prove, entrava con la sua bisaccia di cuoio e l’ oboe che appoggiava sul banco con fare distratto.
E una volta che non c’era nessuno lei gli aveva chiesto di quello strumento e del suono che produceva, tenero e un po’ nasale.
Vito si era sentito più alto. Le guance avevano assunto colore. La voce era uscita col velluto.
-L’oboe? L’oboe è l’ala dell’orchestra!-
Maria Assunta non aveva capito. Ma l’idea dell’ala, l’immagine dell’orchestra trasmettevano impulsi.
Era entrata gente: aveva notato la posa impalata di lei che aveva messo le belle mani nelle tasche del camice.
-Dottoressa?-
- Buonciorno!-la bocca le si era schiusa in un fianco, gli occhi inscuriti nel fondo.
Si era apprestata a servire. Non aveva fatto in tempo ad abbassare lo sguardo che l’oboe se n’era andato.
L’aveva rivisto un pomeriggio, dal balcone. Era nella banda per il funerale. Marciava deciso coi suoi re in petto e la canna di zampogna. Camminava sulle note indifferente al mondo. L’Adagio di Alessandro Marcello si legava all’emoglobina.
Maria Assunta avrebbe voluto scendere in strada e seguire quegli strumenti. La musica si perdeva in fretta tra i vicoli.
Poi lui le descrisse il sistema complicato delle chiavi e la doppia ancia. E si era portato alle labbra il suo oboe sotto l’albero della piazzetta come il dio Pan.
Ai giardini della scuola elementare, in estate, si poteva sentire la musica della banda che faceva le prove. Quando Maria Assunta cominciò a salire in groppa a quelle note il profumo dei gelsomini si fece più intenso.
-Ma non ti sarebbe piaciuto suonare il pianoforte?- gli aveva domandato un’altra volta.
- Il pianoforte è uno strumento solitario. Non sta in orchestra. Non fa l’insieme –
Eh già, le zie facevano l’insieme, invece, sedute sulle poltrone di vimini davanti al vecchio circolo. A spettegolare di quei vecchi fetusi che si erano costruiti le case abusive davanti al porticciolo. O della fimmena del dottor Iannò, trent’anni in meno e prole altrui.
Maria Assunta arrivava tra loro con la guantiera di paste secche.
“Figghiuzza bedda, accussì ci vizierai!”
III
Maria Adele affetta le zucchine per il pasto della sera. Versa nella ciotola la quantità di riso necessaria a due persone. Stende sul tavolo metà tovaglia. Grattugia il formaggio mentre ascolta il notiziario delle venti.
Gherardo ama la frugalità penitenziale.
Se ne sta tutti i pomeriggi raccolto nella propria camera a correggere i compiti, apportando notazioni e consigli, con una grafia minutissima che riflette timidezza da una parte e una certa considerazione di sé dall’altra.
Maria Adele prende posto sulla sedia di legno scuro con i giaggioli di Firenze a forma di piccoli occhi rilevati nel leggero avvallamento della seduta . Gliel’ha portata Gherardo. Lei ha scelto una collocazione semplice: sotto la piattaia della cucina o sotto il tavolo in occasione dei pasti.
Adesso Adele srotola i pensieri assieme al tovagliolo.

Ci si era imbattuta il giorno dopo. Lo spigolo della porta a vetri dell’ufficio stava per colpirle la fronte.
-Mi scusi! –
-Ah, mi scusi lei!-
Avevano farfugliato entrambi.
Adele aveva riconosciuto la bisaccia stinta, messa a tracolla accanto alla cartella della posta. Era magro con le membra nodose come un ulivo.
-Il nuovo portalettere?-
- Sì – aveva risposto lui.
Stava per inforcare la motoretta.
-Ma lo conosce il quartiere?-
- No, ho la mappa!- e gli era venuto su un sorriso largo in quella bocca stretta. Un bagliore di fulmine negli occhi d’oliva.
Lo aveva accompagnato con lo sguardo mentre si avviava sul cinquantino . Il serpente azzurro di gas rarefatto dal tubo tronco, la schiena incurvata nella sagoma incerta.
Dante se ne stava via tutto il giorno, serata compresa.
Quel pomeriggio veniva la Rai a riprendere le idrovore e poi sarebbe andato in cascina a sentire i colombi tubare.
Gli Oh! Oh! Ciuf! Ciuf! di Gherardo ammortizzavano la solitudine.
Salivano dal pavimento acuti e puntuali, mentre lui caricava la locomotiva che trascinava i trenini sui binari.
-Sì, Ardo, Ardo! Ardino mio! – Maria Adele continuava a trattarlo come fosse ancora un infante.
-Angioletto del Signore , che mi guardi tutte le ore! Angioletto del buon Dio, fa che cresca buono e pio! Sui miei passi veglia tu, angioletto di Gesù!
Ardino veniva prelevato dal pavimento e volava per qualche secondo tra le braccia di Maria Adele. Come un angioletto.
Dante telefonava alle otto.
-Sì, Gherardo sta bene-
-No, non dorme-
Il discorso cadeva sul tempo. Aveva grandinato. La grandine aveva rotto le reti. Erano da rifare. Voleva dire altre spese.
IV
Camminava con un’andatura falciante. Per una manciata di anni non gli era stato praticato il vaccino di Sabin.
Quando percorrevano il viale alberato, diretto alla stazione, Dante rimaneva dietro a tutti gli altri. Maria Adele l’aveva notato, assieme al cappotto bianco a quadri vuoti e ai capelli neri, lunghi, del Che. Non aveva la prestanza di Marescotti o la dialettica di Silvani ma era compreso nel gruppo dei liceali più in vista. Perché sapeva battere il pugno sul tavolo e contrapporsi a tutti i militanti di sinistra che indossavano l’eskimo e tenevano il Manifesto sotto il braccio.
Lui era MSI. E difendeva il ministro Bottai e il senso dello stato fascista. Gliel’aveva insegnato suo padre. Maestro elementare.
Maria Adele e le compagne non prendevano sul serio la sua conclamata militanza politica. La consideravano una posa di sapore casereccio, un vessillo innalzato per richiamare l’attenzione, una presa superficiale di partito indotta dalle contingenze.
Maria Adele pensava soprattutto al dramma della madre. Al suo dolore per quel figlio, bello e sfortunato. Alla forza d’animo che s’imponeva.
Era stata una donna bellissima. Lo era ancora. Si chiamava Rossana. Aveva un neo largo sulla guancia destra che per gli altri serviva a sottolineare il suo fascino e per lei, invece, segnava un qualche disordine interiore.
Era stato in seguito a una brutta influenza che il bambino si era indebolito e aveva preso a zoppicare. Il busto col tempo era diventato bello, però. Largo, grazie alle lezioni di nuoto che accompagnavano ogni estate di mare.
-Elargiturus, elargitura, elargiturum!- il cappotto bianco a quadri vuoti era fermo lungo il corridoio del treno davanti allo scompartimento delle femmine .
-Avanti, ragazze, donate qualcosa per la festa delle matricole!-
Somigliava a Che Guevara. Strano che fosse di opposta ideologia.
Avevano riso, si erano guardate in faccia e poi le mani erano corse ai borsellini.
Maria Adele. gli aveva lanciato uno sguardo civettuolo con i suoi occhi verdi. La manina piccola e graziosa aveva depositato nella sua cinquecento lire. Lui aveva accennato a un inchino dopo aver aperto l’arcata larga dei denti.
-Mi raccomando, vi aspettiamo a Villa Bolis! Ci sarà anche Alain Delon!-
- Ma va!!- a Cristina era venuto spontaneo il gesto di sfottò.
- Alain Delon forse no, ma Antonello Venditti sì! Vi piace Venditti?-
-Sì…abbastanza – aveva risposto qualcuna.
- E ci sarà anche la possibilità di fare il bagno in piscina. In notturna!-
- Con questo tempo?-
-Sì! Portate la pelliccia se avete freddo!!-
-Ehi, Dante, lo sai che sei brillante!?-
- Marta, scriverò una filastrocca col tuo primo verso !-
Avevano continuato a ridere ignorando l’armonia del paesaggio ritagliato nei finestrini, i pioppeti e i filari, la preparazione dei campi alla semina dopo il finire dell’estate.
V
Sì, Maria Assunta le viziava. Servizievole e devota. Aveva perso la madre e zia Giovanna l’aveva fatta studiare, le aveva procurato il posto in farmacia.
Zia Giovanna che non si era mai sposata. Che aveva guardato il mondo dal balcone. Che aveva disdegnato gli sguardi, erigendo torri e palizzate per arginare l’urto delle onde.
Zia Giovanna le aveva insegnato i fondamenti della vita, la buona educazione, i segreti della mondanità. Assunta le era affezionata. Dipendeva da quegli occhi, dalle pieghe del suo viso, dal movimento lento di quelle mani forti.
Amava le due stanze in cui si muoveva, sotto le volte affrescate, lo scintillio dei lampadari che di sera si accendevano. La credenza con i bicchierini di cristallo, le stoviglie di maiolica.
Era stata zia Giovanna a parlarle di Arcangelo. Chiddu de la putìa. Che buttava sulla terracotta i melograni e le arance, le ghiande e le stelle di Siria.
Se ne stava curvo tutto il giorno dentro la bottega del padre a decorare piatti e vasi, usciti dalla terra e dal fuoco.
Dietro la vetrina sulla balata erano allineate quelle forme, aggregati di materia, risplendenti di rossi infuocati e di verdi acquosi.
Una sera si erano incontrati al belvedere. Si sporgevano tutti dalla balaustra per afferrare le faville dei fuochi d’artificio che cadevano a grappoli dal cielo nero. Spettacolo di colori e rumori sopra il mare in burrasca.
Lui era lì, tra la folla, i talé talé. Aveva la macchina fotografica in mano, per mettervi dentro quello sfrigolio di shock visivi. In quel momento era Archita che scrutava il cielo con i capelli ricciuti e la barba antica.
Maria Assunta aveva pensato agli ossidanti, al bario e al rame che conferivano le diverse colorazioni all’ alchimia pirotecnica.
Lui voleva imprigionare un po’ di grappoli dentro una quartara.
I suoi albarelli, bellissimi, maiolicati, con i colori del mare, erano finiti nella farmacia per volere di zia Giovanna.
Maria Assunta aveva visitato finalmente il retro del locale dove lui sedeva tutto il giorno, curvo a decorare col pennello minuto e la pazienza del frate.
Aveva sentito l’odore della creta e di un’arte antica.
Il padre di Arcangelo stava ancora al tornio con la fila dei vasi bianchi sulla mensola grezza e impolverata, posta alle sue spalle.
Il suo corpo si era rimpicciolito negli anni. Le guance erano incavate, le mani e le braccia percorse da una ragnatela di vene. I capelli radi e fragili. Eppure gli occhi continuavano a lanciare quei dardi normanni, elettrici, dalle iridi chiare.
Zia Giovanna la voleva dare al figlio del normanno la sua Assuntina. Assuntina dalle belle mani, dal viso dolce. Una madonna di Antonello.
Si erano rivisti al giardino della villa. Tra gli oleandri e la fontana con i pesci rossi. Lei aveva la pastura e li chiamava in superficie.
Lui puliva l’obiettivo con un panno di daino.
Era bello quel corpo di donna con le ginocchia strette, i polpacci ben torniti, la pelle robusta, la fila regolare dei denti d’avorio.
Sarebbe stato ristoro, luce e calore, dopo le giornate di scuro e bocca dolente dentro la penombra della bottega.
VI
Il padre di Maria Adele faceva il saldatore. La figlia portava stampate nella mente le sue giornate di scintille quotidiane. Lo stridere fastidioso dell’officina. Le bruciature nella tuta blu.
La madre le aveva insegnato l’arte del ricamo. E, come una giovanetta d’altri tempi, si applicava al punto erba e al punto croce, passando i fili colorati attraverso la tela del tamburello.
Nella stanza a pianterreno, rischiarata da una finestra stretta, scatole di cartone foderate di velina si riempivano di asciugamani, tovaglioli, completini per neonati, lavorati al ricamo . Dopo le ore trascorse sui compiti, Maria Adele era pronta ad aiutare la madre. E la luce degli occhi si faceva fioca, come la lampadina da quaranta candele che rischiarava il vano dietro le imposte.
-Sei proprio fortunata, tu, – le dicevano le clienti – ad avere una madre che provvederà al tuo corredo!
Fortunata non sapeva di esserlo. Vita modesta, costretta tra gli spigoli. Economie. Ossa e muscoli fragili. Eppure volontà e tenacia.
Studiare le pagine per intero, didascalie comprese, ripetere la lezione fino allo sfinimento, consultare le più brave della classe. Comprare libri usati e rivenderli.
Si era laureata con la lode.
E aveva scelto Asiago per le prime supplenze, il paese del padre.
Alloggiava presso una zia che risparmiava nella corrente elettrica. Unico rimedio al freddo dei pomeriggi invernali era mettersi sotto le coperte a preparare la lezione e correggere i compiti. I fogli protocollo scivolavano sul pavimento quando cambiava la posizione alle gambe indolenzite.
L’armadio lucido in radica di noce le apriva un battente ai piedi del letto. Lei si alzava per chiuderlo inserendo un legnetto nella fessura ma, prima vi guardava dentro, osservava l’alloggio caldo delle assi. Avrebbe voluto chiudersi con una lucina piccola in quel guscio di noce, dimenticare la stanza fredda e mal ammobiliata che aveva intorno.
La chiamavano la tosa.
E tosa lo era per davvero anche per l’aspetto giovane, il fare dimesso e un po’ impacciato. Nel loden abbondante, la sciarpa gialla, lunga, confezionata dalla madre.
Aveva in mente i film Luce. In bianco e nero. Asiago era i contadini vestiti da soldati dietro le mitragliatrici, dentro le trincee. Era i bombardamenti. La musica triste come la voce dello speaker.
Ma i contadini adesso la mettevano in museo la Grande Guerra. Adesso Asiago era le latterie, il turismo degli sci. Era il centro più importante dei sette comuni.
Col recente passato alle spalle.
Che non stava nella testa degli studenti. Che pensavano alle discoteche, alle ragazze e agli schei.
Venne un padre a sentire del figlio. Era guardia giurata e si presentò con la cartucciera e la fondina.
-Come va?-
-Non sa la grammatica. Fa troppi errori!-
Inarcò la schiena, aggettò la pancia.
-Ostrega!-
La mano scivolò sul fianco destro. Sembrava uno sceriffo del west. Forse la voleva impressionare, per spacconeria.
VII
Gherardo raggiunge la madre già seduta al tavolo per consumare la cena. Prende posto davanti a lei. Toglie il portatovagliolo d’argento. Versa dalla caraffa l’acqua nel bicchiere.
-Sei riuscito a riposare?- chiede Maria Adele.
-Mi sono buttato sul letto ma non ho chiuso occhio!-
-Non devi pensarci troppo, però!- la madre lo guarda con affetto.
Lui riprova la dolcezza del bambino.
Il suo sguardo abbraccia in tondo le pareti accoglienti di casa.
La televisione è stata sintonizzata sui programmi radio. Trasmettono un concerto di Bach, per oboe e orchestra.
Gherardo osserva il viso della madre. Sotto la raggiera di rughe si possono riconoscere ancora i lineamenti belli di un tempo.

Aveva deciso di portare il bambino alle Acque Minerali. C’era un bel parco. Con i tassi e gli scoiattoli dietro i recinti. Ardo aveva sei anni e gli piaceva scorrazzare in quel luogo ombroso, buttare le briciole di pane alle papere dentro il laghetto.
-Non ti allontanare troppo, Ardo…-
-No! Sono qui!! – la testa del figlio era sbucata dietro il cestino delle cartacce.
-Io provo di bere un po’ di quest’acqua…- Maria Adele aveva preso il bicchierino ritraibile da viaggio e si era avvicinata a una fontanella.
- Ma come fai, mamma, a bere quell’acqua? Sa di uova marce!!!-
-E’ curativa!-
Ne aveva bevuta un po’, poi buttato il resto tra un cespuglio.
Il posto offriva un percorso didattico geologico. Maria Adele fece i biglietti al botteghino e si mise in fila con gli altri per la visita. L’itinerario si snodava in passerelle e vialetti di ghiaia.
Ad un tratto Maria Adele sentì alle spalle un passo lieve e una presenza leggera, amica.
Si voltò. Vide il portalettere.
Aveva la borsa di cuoio, a tracolla.
-Anche lei qua?- un sorriso ampio animava il suo viso.
Ardo le dava la mano e guardava, col musetto all’insù, il forestiero .
-Mi piace questo parco, è molto riposante … Ci conducono alle sorgenti?- domandò lui.
-Credo di sì – rispose Maria Adele.
Percorsero un sentiero, bordeggiante costoloni di roccia che trasudavano acqua.
-L’acqua è vita- fece il portalettere- …da Talete a Botticelli…
La guida intanto istruiva circa la storia delle acque minerali e la scoperta della vena, nel sito, risalente alla prima metà dell’800.
-Già,… è vita – confermò Maria Adele – ben lo sanno quelli del Sud che hanno imparato dagli Arabi quanto sia preziosa.
- Ne so qualcosa anch’io – proseguì il portalettere – provengo da un paese nel quale l’acqua viene razionata tutti i giorni. Eppure la Sicilia è ricchissima di sorgenti! Ma è inutile far commenti - E scosse il capo lasciando intendere.
Maria Adele lo guardò bonaria. Non desiderava approfondire l’argomento.
-E tu? –gli occhi d’oliva si rivolsero al ragazzino –che cosa vuoi fare da grande?
-Il macchinista ! – rispose Ardo con decisione.
-Tutti i bambini vogliono fare i macchinisti, perché giocano con i treni!- sorrise il portalettere- …dai, impara i rumori del treno e la prossima volta che ci incontriamo me li fai sentire!
Ardo lo guardò meravigliato, incredulo.
-Ti dirò che cosa ci si può fare con i rumori!- proseguì il portalettere con aria complice.
La visita era finita. Si salutarono. Ardo continuava a fissare il portalettere e, prima di girargli le spalle per andare a casa con la mamma, gli chiese:
-Ma tu, come ti chiami?-
-Vito! – rispose quello- Vito mi chiamo.
VIII
Si era ammalata. Era tornata da Asiago che le faceva male la schiena. Il freddo le si era messo nelle ossa, nella colonna vertebrale che accennava a una esse. Quella scapola le doleva.
-Facciamo una visita dall’ortopedico – affermò la madre.
Dante prestava servizio nel reparto. La visitò.
-Eh, certo, la posizione viziata in cui hai tenuto la schiena e l’umidità non ti hanno certo giovato.!
- E allora, dottore, che cosa si può fare?- chiedeva la madre ansiosa.
-Dovresti passare l’estate al mare a bruciarti la schiena… nel frattempo, però, un po’ di massaggi non andrebbero male!- rispose Dante rivolgendosi a Maria Adele che taceva pensierosa.
- Va bene! – fece la madre- a chi ci rivolgiamo?
- A un fisioterapista – asserì Dante- ma, se volete, posso farli io. Sto prendendo il diploma!
- Grazie, dottore! Dove? Qui, in ospedale?-
- No, a domicilio-
Veniva due volte la settimana. Lo accoglievano nella stanza dove c’erano le scatole di cartone con la biancheria ricamata. Maria Adele si sdraiava prona sul tavolo al centro. La madre presenziava in un angolo col tombolo sulle ginocchia.
Dante, come una gru, si issava sulla gamba buona e faceva forza. Poi spargeva un po’ di polvere bianca su quella pelle chiara perché le mani scivolassero agili.
Aveva un tocco leggero.
Quei massaggi furono un balsamo. Il male alla schiena sparì.
Ma Adele non voleva più continuare a insegnare. Troppa fatica. Troppe energie da investire. Per miseri riscontri e prospettive di precariato.
- A quelli non interessa né la storia né la letteratura. Vivono nell’età degli affetti. E poi non è facile intercettare il loro linguaggio-
Diceva.

Si era convinta che non le sarebbe dispiaciuto fare l’impiegata alle Poste. Niente compiti da correggere o lezioni da preparare. Con il sistema nervoso messo al riparo dagli attacchi di quegli sciamannati.
IX
Arcangelo Rubìno, quando non stava nella putìa a decorare bummoli e quartare, se ne andava in campagna a curare gli orti. Usava una vecchia 127 di colore verde e percorreva una strada priva di segnaletica, piuttosto stretta, che si inerpicava lungo i Nebrodi.
Lassù, alla Felicìta, non lontano dal santuario, possedeva una casetta senza luce elettrica che era appartenuta al vecchio nonno, massaro. Una costruzione semplice con i mattoni di tufo a vista e finestrelle piccole con ferri storti a formare le grate. Tra una enorme pianta di fico e una di citronella, tra due alberi di persiche e due di limoni si estendevano gli orti. Arcangelo vi passava ore a innaffiare l’insalata e le zucchine, estirpare le erbacce o costruire graticci per i pomidoro , i fagioli, le melanzane.
Si preparava un piatto di pasta e mangiava all’aperto su un sedile in pietra che guardava oltre il contorno dei monti un’immensità azzurra.
Scendeva in paese con due casse di limoni, di pomodori, di fiori di zucca, che collocava sui gradini d’accesso alla casa. E la gente che passava aveva l’impressione di avere a portata i prodotti dell’orto anche sul marciapiedi, anche la domenica, a sera inoltrata, sotto le luci dei lampioni.
Zia Giovanna non perdeva l’occasione di comprare i fiori di zucca per immergerli nella pastella raffreddata in frigorifero e farli gonfiare nell’olio bollente.
A Maria Assunta piacevano. Erano dolci.
E quei prodotti della terra con i loro colori finivano sugli orci, sui piatti, sui vasi che andavano a decorare le case di tanti, ricchi e poveri.
Suo padre gli aveva mostrato la purrera da cui avevano ricavato l’argilla nei secoli i turrazzari. E Arcangelo vi aveva lasciato l’impronta delle mani e si era segnato la faccia. Mentre le cicale assordanti si acquietavano e il vento si alzava dietro i pini.
Lungo il litorale che incorniciava la costa con un muretto, e dava là verso Palermo e qua verso Messina, erano stati incastonati dei tondi di ceramica Rubìno che riproducevano il sole e i simboli dell’isola.
Una mattina che i muratori si erano messi all’opera procedendo alla posa dei decori, secondo le indicazioni del capomastro, Arcangelo aveva deciso di godersi il sole su una scogliera biancicante non lontana dai lavori. Aveva portato con sé anche la canna e la lenza, ma poco importava se i pesci non abboccavano perché la presenza di Assuntina, tra le bagnanti, era il tutto che annullava il niente.
Se ne stava beato con le gambe a mollo a osservare i prodotti della sua bottega, richiamando col pensiero la grazia di quella donna. Che, come Nausicaa, lanciava alle compagne la palla. E rideva per gli schizzi salati che la colpivano in pieno viso.
L’armonia del paesaggio, l’operosità degli uomini, la bellezza di una donna si fondevano in un unico pensiero trasmettendo benessere all’anima.
X
Maria Adele conosceva appena il padre e la madre di Pelizzi. Gestivano un negozio di ottica, piuttosto rinomato in città, in cui qualche volta le era capitato di andare.
La signora, altissima, magra, un corpo da indossatrice, aveva un viso dai lineamenti irregolari, la pelle cotta da errate cure di bellezza, i capelli irti sul capo ribelli alle tinte e alle permanenti.
La sua bocca si dischiudeva in parole essenziali.
Si indovinava l’impegno che prestava alla propria attività, ma anche una tristezza latente un’insoddisfazione mal repressa.
Il marito sembrava più giovane. La testa resa lucida da una completa rasatura, la barba accennata. Sorrideva ai clienti, diceva battute scherzose forse un po’sciocche.
Maria Adele ricordava di aver percepito in un lampo, e poi dimenticato, l’impressione di un’unione forzata. Una volta aveva visto lui su un centauro con una ragazza giovane che teneva le braccia bianche strette attorno alle sue costole.
Era una coppia che sembrava essere nata dal caso.
Lei reduce da una recente storia naufragata, lui intenzionato a fare il passo definitivo per placare le ansie di una famiglia tradizionale.
Erano nati due figli. Michele e Carolina.
Carolina aveva ereditato l’ombrosità della madre e coltivava gusti che stridevano col suo aspetto di ragazza romantica dai lineamenti delicati. Le piaceva la moda punk.
Michele aveva spalle quadrate e voglia di combinare guai. Da ragazzino, era stato considerato dislessico dalle maestre. Diceva che voleva frequentare una scuola professionale per meccanici ma i nonni materni avevano premuto per l’iscrizione al liceo.
Il padre, un giorno, aveva cominciato a dire che ognuno ha diritto alla felicità.
Era un discorso che partiva da lontano e mirava ad un obiettivo.
La moglie lasciava correre sulle sue numerose assenze al negozio. Sapeva che era un appassionato di motociclette e immaginava che la felicità significasse per lui volate notturne a Saint Tropez o gare sul circuito di Imola.
Era il tipo capace di sfidare di notte una corsia autostradale in senso inverso. La sorte l’aveva sempre assistito.
Aveva regalato al figlio videocamere incorporate in sofisticati oggetti tecnologici e, durante le gite scolastiche, amava comparire dentro quelle scatolette al silicio per farsi notare dai compagni del ragazzo e anche dai professori.
Una volta, appunto, che stavano andando a Gubbio, Michele aveva chiesto a Gherardo:
-Prof, vuol vedere mio padre?-
-Perché?-
-Sì, è qui con noi!-
Gherardo l’aveva guardato senza capire bene. Michele gli aveva mostrato la scatoletta al silicio con il padre all’interno che alzava un braccio e farfugliava qualcosa in un’inquadratura deformata.
-Ah, salve!-
Gherardo aveva abbozzato a una frase di circostanza, per non venir meno alla buona educazione.

Maria Adele scodella il riso nel piatto.
Gherardo non ha appetito. Considera come il destino si modella sul carattere dei singoli. Gli eventi della vita cui si spalanca la porta.
XI
Arcangelo aveva regalato a Maria Assunta un bellissimo anello con un rubìno, appunto, perché non si dimenticasse mai di lui.
Il normanno con il figlio e la moglie si era presentato alle sei del pomeriggio in casa di zia Giovanna. La moglie recava in braccio un fascio di rose rosse prossime a spampinare per il gran caldo.
Zia Giovanna aveva preparato le paste di mandorla, il gelato e la granita. Le altre zie, quelle che si riunivano davanti al vecchio circolo, avevano preso posto sul divano e sulle poltrone capitonné mentre i genitori del promesso occupavano le savonarola.
Maria Assunta indossava un abito in picchè rosa geranio, con le spalline che mettevano in evidenza il rigoglio del decolté.
-E allora, cummare Carmela,- fece zia Cettina, rivolgendosi alla madre di Arcangelo – siamo tutti contenti, oggi , per la bella scelta che fìcero i nostri giovani!
- Contentissimi davvero fummo!- rispose Carmela agitando il ventaglio.
Zia Giovanna portò un bel vaso, acquistato a Caltagirone molti anni prima, per sistemarvi i fiori.
Il normanno non poté fare a meno di notarlo.
-Eh, ma questa ceramica calatina è inferiore alla nostra!-
-Certo che è inferiore! – esclamò zia Giovanna un po’ piccata- lo sappiamo. Chisto me lo lasciò mio padre buonanima e io lo conservai.
Arcangelo era emozionato e non diceva una parola. Andava da una stanza all’altra, camminando lentamente per non essere d’intralcio, e poi si sedette al balcone. Fu raggiunto da Maria Assunta che lo avvolse in una sussurrata conversazione.
All’interno, allora, gli altri si misero a parlare con maggiore libertà rievocando il tempo andato, la giovinezza che si indorava nel ricordo.
-E allora, Assuntina, lo facciamo questo brindisi o no? – chiese zia Concetta, alzando la voce.
Maria Assunta rientrò nella sala, resa scintillante dal lampadario in vetro di Murano acceso per l’occasione.
-A voialtri aspettavo!- e si avvicinò alla credenza chinando il busto slanciato per prendere il vassoio con i bicchieri già disposti in numero giusto.
-E, a chisto, ce lo togli tu il tappo!- fece zia Giovanna, porgendo ad Arcangelo una bottiglia di vino spumante.
-Attento al lampadario!!- raccomandò la madre.
-Evviva! Evviva i ziti !- avevano fatto il coretto. Tutti batterono le mani.
Il prosecco venne tracannato. I fidanzati un po’ storditi, un po’ emozionati, si diedero un bacio.
Ci fu un altro applauso.
-Ma a mia piacerebbe tanto assaporare una goccia di Strega, se non sono sfacciato! – fece, in un impulso di spontaneità, il normanno che aveva notato la bottiglia dietro la vetrinetta.
- Subbito! potevate dirlo prima!!
Zia Giovanna mise la bottiglia nel centro del tavolo e prese i bicchierini di cristallo lavorato.
-Ricordo che quando mi feci fidanzato con Carmela, mi offersero il liquore Strega!-
-Ma certo, è di buon augurio!- sostenne zia Concetta.
Fu versato l’alcolico giallo nei bicchierini. Commentarono sul gusto allo zafferano. Dissero che erano già brille.
Il normanno intanto girava e rigirava tra le mani la bottiglia. Osservava l’etichetta godendosi il ricordo.
XII
Era una domenica mattina. La camionetta di Gualtiero, un collega anestesista, venne a prenderlo sotto casa. C’era anche Lovati, il vecchio veterinario.
Dovevano percorrere la Montanara e raggiungere Castel del Rio. Lovati ci teneva a mostrare dei vecchi fucili che erano custoditi nella soffitta di un casolare abbandonato. Sotto i mattoni del pavimento.
Dante aveva il porto d’armi e collezionava fucili di un certo pregio, ereditati dal nonno. Antichi, con incisioni all’altezza del grilletto e della pietra focaia. Possedeva anche delle carabine, berette di diverso calibro, una spingarda usata dai cacciatori del Po, un winchester e una Smith e Wesson.
Era autunno, il fogliame del bosco si era tinto di colore infuocato. Una di quelle giornate ottobrine, malinconicamente dolci come lo è il suono del flauto traverso.
Il vecchio Lovati fece strada, dopo che l’auto fu parcheggiata lungo una salita. L’interno della casa era malandato. Si vedevano ragnatele, assi appoggiate ai muri scrostati, una zoccolatura alta con la tinta grigia persa.
Il veterinario salì la scala dell’edificio quasi diroccato e scese con a tracolla e in braccio le armi che depose su un tavolo impolverato e bucherellato.
-Ecco lo sten!- indicò Dante notando la mitraglia col caricatore.
Quei fucili, utilizzati dai partigiani o dagli sbandati rifugiati sull’Appennino, erano stati nascosti in una nicchia ricavata sotto il pavimento.
Erano ormai dei vecchi ferri ossidati, privi di un valore intrinseco. A parte una carabina, che aveva mantenuto un buono stato di conservazione, il resto era senz’altro di scarso interesse.
-Busòn mi ha detto di rimetterli al loro posto e di lasciare tutto come l’abbiamo trovato- il veterinario risalì la ripida scala per risistemare le armi.
Uscirono. Chiusero con due catenacci arrugginiti la vecchia porta stinta e sbrecciata.
Respirarono l’aria fresca del mattino.
Intorno c’era una piccola radura, ombreggiata agli orli dalle fronde dei faggi. Dietro uno stalletto si poteva scorgere l’imboccatura di un sentiero angusto.
A Lovati venne voglia di scendere per andare a raccogliere due castagne.
-E’ un’annata d’oro – disse – i marroni sono belli grossi!-
- Zuvnòt! Me a stégh cun Dante! – affermò Gualtiero.
Il dottore si avviò con un bastone trovato nella legnaia, cantilenando “ Vi presento il prode Vicchi, mangiatore di radicchi …Egli sta a Castel del Rio, il paese suo natio…”
Dante e Gualtiero si spinsero verso l’estremità del poggio. Nell’erba c’era la guazza mattinale e qualche foglia secca.
Sulle nubi, che si addensavano in cielo , si stagliò un piccolo stormo di beccaccini.
Dante istintivamente fece l’atto di imbracciare il fucile. Si sbilanciò di poco sul terreno sconnesso ma perse l’equilibrio. L’arto sottilissimo si piegò come quello di un fantoccio. Il resto del corpo lo seguì simile a un sacco inerte senza che Gualtiero potesse impedirlo. Cominciò a rotolare lungo la china schiacciando sterpaglia e foglie.
-Dante!!!-
Gualtiero si buttò lungo la traccia lasciata dal corpo che continuava a rotolare.
-Bruno!!!-
Per fortuna un cerro bloccò la caduta. Il corpo si fermò.
Gualtiero gli fu addosso. Dante era svenuto. Gli arti si erano piegati come fossero snodabili.
Lovati fu lì all’istante.
Fu avvisato il Pronto Soccorso. Attesero l’elicottero.
XIII
C’era festa. Festa in paese quella sera. Faceva talmente caldo che le granite e i gelati nei bicchieri diventavano liquidi in due battiti di palpebre..
“Rosa fresca aulentissima, ch’appari in ver l’estate…”
Tre attori sui trampoli toccavano con la testa i balconi e le finestre delle vie. I legni e i fiati accompagnavano il trio alternando alla musica la recita. Si udivano soprattutto i tamburi.
Quella poesia di Cielo D’Alcamo era un ricordo vivo per le nuove e le vecchie generazioni .
Il pensiero andava alla bellezza, alla schermaglia allusiva tra i due amanti
Tutto si confondeva , si frammentava nel ricordo, nella serata estiva, nella vita che scoppiava tra la piazza e la strada. Gli odori dei fritti e dello zucchero caramellato si mescolavano a quelli dei fiori, alle miscele degli interni, tra vetuste abitazioni che avevano da raccontare il passato.
Laureato in filosofia, Vito era stato eletto assessore. Assessore alla cultura.
Adesso lui organizzava le rappresentazioni teatrali, i concerti, le danze sotto il cielo.
Ricomporre le categorie aristoteliche tra i tavolini di un bar o davanti al caffè della società operaia era rapimento come la descrizione dell’ oboe o l’esecuzione dell’Aida nel sagrato della Matrice Vecchia.
Lui avrebbe voluto un liceo musicale per un paese in cui si era formato il corpo della banda.
Fu Vito che, in quella sera di caldo estivo, chiese a Maria Assunta di entrare nel gruppo delle majorette.
XIII
Era rientrato in ospedale dopo una lunga convalescenza. Svolgeva mansioni ambulatoriali. Ma faticava a impugnare la penna per le ricette e doveva tenerla con due mani. Si stancava di più. Aveva amnesie.
Quando tornava a casa si sedeva in poltrona nello studio e ascoltava musica classica nelle cuffie.
Adele lo doveva chiamare più volte, obbligarlo a interrompere perché andasse a tavola.
Gherardo piangeva più spesso.
Una volta che il bambino gli aveva messo una mano nella tasca della giacca Dante lo aveva allontanato in malo modo.
Gherardo si era rifugiato tra le braccia di Adele che l’aveva rassicurato tenera.

Niente. Aveva deciso. Sarebbe andato in cascina ad allevare i colombi assieme al padre pensionato. Là, in campagna, alla Bruciata. In quella casa di contadini dove crescevano erbacce alte come un pagliaio e c’era il pozzo nel cortile con i secchi, la carrucola e il raffio. Là dove il sole in estate spaccava la terra e veniva voglia di aprire le crepe.
Adele aveva tentato di dissuaderlo dicendogli che se ne sarebbe pentito.
Ma lui era caparbio.
La campagna gli piaceva. Era il luogo in cui avrebbe stretto il suo patto segreto. In cui non si sarebbe sentito infelice .
Allora il padre si era rivolto a certe amicizie e gli aveva procurato un posto da impiegato al museo della civiltà contadina presso Campotto.
Passava le ore a guardare le foto appese al muro che riprendevano re Vittorio Emanuele mentre stringeva la mano agli scariolanti che avevano alzato gli argini del Po. E, quando arrivavano i visitatori, mostrava il plastico che riproduceva i lavori di bonifica.
Con le idrovore poco distanti da lì.
XIV
Gherardo, nel mettere il tovagliolo sulle ginocchia, pensa a Guarino Veronese e al ruolo del praeceptor. Ritiene di aver applicato le più elementari norme della pedagogia instaurando un clima di dolcezza e di cordialità con e tra i propri studenti.
La madre gli serve il riso dopo averlo cosparso di parmigiano. Guarda il figlio con occhi ansiosi.
Gherardo si fa il segno della croce e porta i primi chicchi alle labbra.

Anche nei giorni di festa Dante si tratteneva in campagna. A Adele non piaceva andare. Faceva o troppo caldo o troppo freddo. Una volta che avevano dormito là, Gherardo era tornato con la fronte piena di punture di pappataci.
Adele preferiva la città. Le sue strade acciottolate. La pulizia. L’atmosfera frizzante delle chiacchiere nei bar e nei negozi.
Le bastava anche soltanto andare in stazione. C’erano treni ogni mezz’ora. Diretti a Rimini, Bologna, Ravenna e Milano.
Gherardo sapeva tutto. Degli orari, degli altoparlanti, del deposito bagagli.
Erano le undici e mezza di una domenica mattina. Adele e Gherardo sedevano da circa mezz’ ora sulla panchina di legno a ridosso del muro della stazione, contando le corse e gli annunci.
Arrivò il regionale per Ancona. Si fermò col solito stridio di freni sul binario. Quel rumore acuto, sgradevole, che entra nella memoria affettiva di chi fa uso del mezzo.
Dal treno scese il portalettere. Con la valigia e la borsa di cuoio nella quale era stato infilato di traverso qualcosa di lungo, avvolto in una fodera.
-Mamma, c’è Vito!- disse il bambino, indicando con un cubo di plastica che aveva portato con sé.
-E’ vero! – rispose Adele guardando.
Venne verso di loro.
Aveva l’aria stanca. Passata la notte in una cuccetta, i bocconi di pane e formaggio ancora nello stomaco, l’odore nauseante della carrozza ferroviaria sempre addosso.
I pantaloni di lino chiaro sgualciti come la camiciola con le maniche rimboccate.
-Oh! Oh! Ciuf! Ciuf! Ih! Ih!... Oh! Oh! Ciuf! Ciuf! Ih! Ih!..- ripeteva Gherardo.
- Che bel ritmo , hai fatto! Te ne sei accorto?- Vito si rivolse al bambino per salutare.
- Che cos’è? – chiese Gherardo.
- Hai ripetuto dei suoni in ordine!- rispose Vito.
Gherardo lo guardò.
- Ti piace la musica? – chiese il portalettere.
- Sì…- rispose il bambino incerto.
- Ma, lei, suona?- domandò Adele.
Lui appoggiò la valigia sull’impiantito della stazione, tolse la tracolla di dosso e tirò fuori lo strumento.
Lucido nelle chiavi, il legno scuro.
- Che bello! – esclamò Adele – E’ un clarinetto?
- No – fece il portalettere- è un oboe.
- E, lei, lo suona?
- Sì, certo .
Gherardo era incantato.
-Le dispiacerebbe farci sentire qualche nota?- chiese Adele.
-Sì, volentieri, ma usciamo da questo frastuono.
Si allontanarono dalla confusione. Nei giardinetti c’era una panchina. Adele e Gherardo si sedettero. Lui rimase in piedi, appoggiò la punta del mocassino al sedile, portò alle labbra l’imboccatura e accennò al “Larghetto” di Vivaldi.
- Commovente…- commentò Adele alla fine
- L’oboe è il più espressivo tra i legni – disse il portalettere – sa esprimere il candore, l’innocenza… oppure il dolore dell’essere debole …
-Sarebbe bello andare al parco e ascoltare là- propose Maria Adele.
-Dove? Alle Acque? – domandò sopra pensiero lui.
-No, al parco Tozzoni. C’è una bella radura. Ci si potrebbe sistemare un’orchestra. Come nel 700!- affermò lei col tono tenero di una ragazzetta.
-Non ci sono mai stato – affermò il portalettere.
-Andiamoci, mamma!- incoraggiò Gherardo.
- Va bene! –soggiunse Maria Adele- Domenica prossima. Per l’orario ci metteremo d’accordo in settimana.

La domenica successiva piovve. Dante passò il pomeriggio nel sottotetto della casa di campagna a sentire il ticchettio delle gocce, aggiustando alcune gabbie.
Adele bruciò la crostata nel forno.
Gherardo uscì con i nonni materni che lo portarono al cinema.
XV
Il funerale è stato fissato per le tre del pomeriggio. La Messa verrà celebrata in San Cassiano.
Gli insegnanti, i compagni raggiungono l’abitazione per le condoglianze alla famiglia.
Gherardo trova difficile stringere la mano alla signora, accostare le sue guance a quelle di lei.
Pallidissima, sotto sedativo, lei ha l’espressione della resa disperata.
Il marito lo sguardo dell’assente o dell’allucinato.
Una moltitudine silenziosa esprime il proprio cordoglio nelle forme consuete.
La città sembra fermarsi per un tempo imprecisabile.
Il cielo è diventato grigio e cumuli di nubi vi si addensano.
XVI
Zia Giovanna guardava storta la nipote. Immusonita. Gli occhi le si erano fatti di un verde palustre.
Quando Assunta si preparava con la gonnellina rossa e la pettorina bianca abbassava la testa sul cucito. La salutava appena mentre apriva la porta.
A Maria Assunta piacevano le prove della banda.
Stare in gruppo. Formare un corpo. Ascoltare le indicazioni dell’insegnante.
Marciare a ritmo. Insieme. Voltarsi e rivoltarsi.
La festa della Vergine Assunta era una meraviglia. Il gruppo delle majorette precedeva il corteo. Poi veniva la banda con i legni e gli ottoni. Quindi il prete, la statua della Madonnina sulle spalle delle pie donne e dei confratelli con i cappucci bianchi e la tunica in velluto rosso scuro. A seguire, le autorità. Infine la popolazione.
Assunta piegava le gambe. Alzava e abbassava la mazza.
La gente si sporgeva dai balconi. I coetanei le sorridevano.
Perché zia Giovanna era contrariata?
Temeva che Arcangelo non gradisse la cosa. Lei non capiva bene il discorso dello” stare insieme”.
Più insieme di due fidanzati che si amavano che cosa ci poteva essere?
Ma la disciplina che comportava il decoro della ceramica, la disciplina della farmacia, a volte, si facevano treni piombati.
A volte lei si sentiva stranita dentro un bozzolo e le pareva che anche per lui fosse così.
A lei piaceva l’atmosfera delle prove. Quel “ricominciamo”, quel “riproviamo”. Quel vedere ritrovato l’accordo e il suo proseguire.
C’era la festa del Patrono, la festa di Maria Bambina, la festa della Madonna del mare, la festa al Santuario… Non era soltanto la tradizione, la sua continuità.
Significava dare il senso, riconoscersi.
Era sempre stata rinchiusa in casa. In un’atmosfera di tristezza. L’andirivieni al cimitero, le messe di commemorazione. Gli armadi con gli abiti neri. Le visite ai lutti.
Il mondo delle zie con le loro solitudini. Per vedovanza, per scelta o appartenenza.
Aveva bisogno di prendere fiato. Di soffermarsi. Di dare spazio ai sogni.
XVII
Ci erano andati quel pomeriggio al parco Tozzoni . A Palazzo Tozzoni, Vito e Maria Adele. A vedere gli scaloni, le sale, le cucine. Il salotto rosso con le poltrone dallo schienale alto, le tende, le tappezzerie opulente. I quadri enormi, le cornici d’oro. E i lampadari con le candele.
Per sognare un ballo. Pensare ai ventagli, ai vestiti stretti in vita, ai brusii, ai bigliettini passati sui vassoi d’argento. Alla musica.
-Che bello l’Ottocento! – affermava Maria Adele.
-Sì, anche i romanzi! – concordava Vito.
-Qual è il tuo preferito?-
-Mah, forse “I Miserabili”. Da ragazzo mi aveva colpito molto la figura di Jean Valjean perché cambia identità e continua ad essere perseguitato.,… ”
- Come non dimenticare quei discorsi? Innalzavano a nobili vette. Io naturalmente amavo le sorelle Bronte. Frasi come…:” E’ il mio spirito che si rivolge al vostro spirito come se fossimo passati nell’aldilà…”
- Sì, il Romanticismo ha dato centralità all’anima, alle tensioni metafisiche, ai sentimenti più puri…
- Somigliano tutti questi palazzi dei signori – interruppe Adele.
- Erano accomunati dalle stesse abitudini, dallo stesso tenore di vita. Anche nel mio paese c’è un palazzo simile. Anzi, mia madre discende proprio dalla famiglia che vi abitava.
-Ah sì? – esclamò Adele – e, tu, come mai sei qua, allora?
Vito non le rispose. Osservava in una teca il bastone da passeggio di Umberto I, donato dalla famiglia reale al nobile Tozzoni. Che aveva soccorso sua maestà il giorno dell’attentato.
Adesso sembrava quasi intimidito. Le piccole rughe sulla fronte un accumulo.
Rispondeva di sì e di no.
Forse pensava ad altro.
XVIII
Maria Assunta aveva raccolto quelle note, distribuite nei vicoli, come caramelle cadute dal cielo. E già imparava qualcosa della fanfara, delle marcette.
Zia Giovanna le aveva detto che il padre di Vito, Gaetano, chiamato da tutti “ il professore” anche se non si era mai laureato, era stato in gioventù un gran dissoluto come il nonno, ambasciatore in Eritrea, che chissà quante mogli di ufficiali aveva conosciuto.
Non c’era fimmena che sapesse resistere al suo linguaggio diretto ai sensi, al suo fare insinuante.
Che stesse attenta Assuntina! Tale il padre, tale il figlio!

Maria Assunta un giorno fece il bagno in zona “barche grosse”. Aveva il materassino e Vito vi passava sotto. Le afferrava i piedi e la faceva cadere in acqua. E ridevano.
E poi si erano asciugati sugli scogli davanti al sole che gettava il suo barbaglio infuocato .
Lui le aveva ricomposto il fiocco nel laccio del bikini. E le aveva raccontato la storia di Alfeo.
E poi giocava a rimbalzello con i sassi tondi e piatti.
Due, tre rimbalzi. Tre, quattro rimbalzi sulla superficie liscia e arrossata del mare.
E un gabbiano attraversava la striscia del cielo col suo verso acuto.

XIX
Non occorre un’omelia particolarmente efficace per suscitare il pianto. L’evento inatteso scuote tutti con la forza di un movimento tellurico.. E non ci sono parole da dire. Solo emozioni da contenere.
Gherardo si tiene vicino ai colleghi col capo abbassato.
Maria Adele, il busto eretto dietro la penultima colonna , sente che la sonata di Bach slarga qualcosa in petto.

“Avara pena, tarda il tuo dono/ in questa mia ora/ di sospirati abbandoni./ Un oboe gelido risillaba/ gioia di foglie perenni,/non mie, e smemora;/ in me si fa sera/:l’acqua tramonta/sulle mie mani erbose./ Ali oscillano in fioco cielo,/labili: il cuore trasmigra/ ed io sono gerbido,/ e i giorni una maceria”.
Maria Adele l’aveva riletta. Riaperti i testi di letteratura. Riafferrato il filo dell’aquilone.
Portati i libri di poesie, i romanzi in ufficio. Sistemati nel sottobanco come a scuola. Da leggere nei momenti morti.
-Sei cambiata!- le disse un giorno Mara a bruciapelo.
-In che senso?- chiese Maria Adele .
-Sei più silenziosa! Più assorta. E poi, sempre con quei libri…
-E’ il potere dei ricordi, il percorso che ritorna…-rispose Adele.
-Te l’avevo detto io! –sottolineò Mara¬- con la tua laurea...non dovresti essere qui …ma, Dante come sta? Sempre alla Bruciata?
-Non riesce a riposare bene la notte. Prende le gocce e si alza tardi al mattino. Così la giornata si capovolge- informò Adele con tono malinconico.
-Ma… lo sapete che ieri sera c’era Vito che suonava per la festa della Ripresa!- annunciò Mara con eccitazione.
-Cioè?- chiese Paola.
-Ma sì! Quella festa che si fa da un po’ di anni in cui sfilano i costumi antichi dei quartieri! C’era anche lui accanto ai tamburi… l’hai visto, tu, Adelina?
-No, non sono andata- rispose Maria Adele intenta a digitare qualcosa.
-Certo che, a guardarlo bene, è proprio un bel ragazzo. Quanti anni avrà? - fece Mara.
-Mah, io direi una trentina…- intervenne Paola – comunque, è vero e, se avessi qualche anno in meno, un pensierino lo farei…
- Ti mette addosso qualcosa –Mara faceva la voce stridula –è come se ti buttasse…sì,… il fuoco, a destra e a sinistra quando parli con lui !
-Adesso non esageriamo! – ridacchiò Paola – così moriremmo tutte! – e continuò a ridere.
-Sì, invece –insistette Mara – è come… è come…se ti facesse una magia… non so come dire.
-E’ il fascino latino- disse Paola con aria saputa -Ma tu, Adele, lo sai dove abita?
-No- fece Adele guardando un punto nel vuoto.
-Ah, pensavo che te lo avesse detto… Non siete usciti qualche volta?
- Sì, ma non abbiamo parlato di questo – rispose Adele asciutta.
- Ho sentito il direttore un giorno dire che sta a Modena da certi parenti – notificò Mara.
Mara e Paola continuarono a confabulare. La mattinata trascorse greve.
Poi, dalla scuola elementare telefonarono a Maria Adele: Gherardo non si era sentito bene ed era meglio accompagnarlo a casa.
Fu una buona occasione per interrompere il rimbombo dei discorsi.
XX
Al vecchio Rubino piaceva l’opera lirica. Sua madre gli aveva trasmesso questa passione perché, da giovane, aveva alloggiato per un certo periodo a Parma e si era innamorata del velluto rosso e delle cantanti liriche., del mondo realizzato nella bomboniera del Regio.
Durante la stagione invernale il normanno si concedeva il lusso di andare al Teatro Massimo per assistere a “La cavalleria rusticana” , al “Rigoletto”, alla “ Turandot”.
La sua preferita era “Il barbiere di Siviglia” che ascoltava anche in bottega e ne sapeva a memoria il testo.
Ma adesso il venticello della calunnia calava pesante.
La moglie quasi gli impediva di ascoltare. Si sentiva schiacciata dall’atmosfera del paese. L’aria si era riempita di veleno e i discorsi non avevano più la simpatia di prima. Le parole erano gialle come le epatiti, i riferimenti erano gli stipiti delle porte che in “casa Rubino dovevano essere alzati”.
Assuntina non diceva niente e loro non le dicevano niente.
Ma era la gente che diceva.

Le zie avevano predisposto l’ultimo piano mansardato. Stanze ampie, ben arieggiate, con il soffitto a volta, affrescato nelle tonalità del verde e dell’azzurro. E i balconi con le ringhiere in ferro battuto e ritorto.
Era necessario, però, sostituire agli impiantiti di cemento, sbreccati, le mattonelle in ceramica con i disegni destinati un tempo alle famiglie gentilizie.
Zia Giovanna le voleva tutte come quelle di palazzo Alfieri.
Il normanno era d’accordo. E il forno dell’azienda Rubino fu attivato per cuocere le piastrelle che avrebbero recato i decori eleganti. Da signori.
Per un matrimonio che si voleva imminente.
Anche il tetto venne rifatto con una copertura a travi spesse, lo strato di assi e le tegole avvitate perché il vento non le portasse via.
Furono installate le impalcature.
E il rumore dei martelli si diffuse lungo la via per giorni e giorni.
Arcangelo metteva tutto dentro l’obiettivo per mostrare il prima e il dopo.
Ai mobili avrebbero pensato in seguito. Ma dicevano, scherzando, che per due persone che si vogliono bene sarebbero bastati un tavolo e due sedie.
XXI
Michele Pelizzi percepiva lo studio della letteratura come un monotono acquisire informazioni intorno a questo e a quell’autore.
Gherardo aveva detto che si doveva provare entusiasmo per le opere dei poeti, aggiungendo alla parola entusiasmo il suo significato etimologico: in Dio.
Il ragazzo un giorno gli aveva chiesto perché Leopardi avesse scritto “Il canto notturno ” e “ La ginestra”, che senso avesse piangere sulla vita e poi continuare a vivere.
E Gherardo gli aveva spiegato che la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza e anche l’ironia, l’umorismo e tante altre cose difficili quanto necessarie per la consapevolezza.
Ma era successo solo qualche volta e chissà dov’erano planate le sue parole.
Gherardo continuava a darvi importanza e sentiva di crederci, ma sapeva che l’età degli studenti non favoriva un vero ascolto.

Michele aveva visto la madre prendere le gocce troppo spesso. E farsi sempre più debole e triste. Il marito, quando inforcava il centauro, voleva che quelle due braccia bianche rimanessero attorno alle sue costole.
La moglie, allora, aveva preteso il divorzio.

Quando il collega di matematica riferisce questo a Gherardo, lui si sente svuotato. Sperso sul sagrato enorme e bianco in cui va formandosi il corteo.

Nella casa di campagna dei nonni, sulla facciata di mattoni rossi, c’era una cassetta appesa con due finestrelle a volta. Era la dimora di due colombi.
Gherardo, da bambino, li aveva osservati molte volte e aveva impresso nella mente quel volo insieme. Quelle ali sbattute e arruffate. Prima dell’ uno, poi dell’altra e viceversa.
Non li avrebbe mai immaginati divisi.
D’estate nelle ore più calde, con la scala interna a pioli, raggiungeva il solaio e si affacciava da un foro sotto il culmine del tetto.
Guardava in giù.
E li sentiva tubare.
XXII
Gherardo un pomeriggio, alla cascina, dopo che il padre aveva sparato su barattoli e bottiglie allineate sui ceppi, gli fece ascoltare, registrata in un nastro, “La Colomba”, tratta da “ Gli uccelli” di Respighi e gli parlò dell’oboe.
-Perché non lo mandi a scuola di musica?- propose Dante a Maria Adele- Ci sono dei bravi insegnanti in città.
Gherardo aveva cominciato a prendere lezioni di piano dalla signora Artemisia che abitava in un vecchio palazzone sulla via Emilia.
-Il pianoforte è uno strumento completo che può stare anche fuori dall’orchestra – gli diceva.
Era una maestra severa.
Da lei Gherardo imparava che le note risalgono al Medioevo e che la musica come la poesia è il linguaggio dell’anima.
Ma non gli piaceva il solfeggio e forse nemmeno l’immobilismo delle lezioni. Si sentiva irrigidito dentro quella stanza, pensava all’impossibilità di spostare lo strumento. Mentre il portalettere andava in giro col suo legno e lo suonava dove voleva.
-Mamma, voglio suonare l’oboe! – disse una sera mentre si lavava i denti.
Maria Adele gli comprò un flauto di plastica e chiese a Vito di dargli lezioni.
Vito, tutti i sabati e le domeniche pomeriggio, lo portava lungo il Santerno, vicino a un vecchio scanno per le lavandaie, e lo faceva suonare.
Perché la musica corresse sull’acqua del fiume e arrivasse al mare.
XXIII
-Quella borsa è un prodotto d’artigianato? – domandò Adele a Vito un giorno. Entrambi avevano preso l’autobus delle due alla fermata davanti all’ufficio postale.
L’occhio le era caduto ancora sulla bisaccia che spenzolava dalle spalle magre del portalettere.
-Non ci crederai – le rispose lui- ma questa borsa proviene da Massaua. E’ un regalo del nonno, ambasciatore là quando l’Italia possedeva le colonie.
Avevano adocchiato due sedili liberi sulla piattaforma del bus che vibrava ..
Il portalettere si tolse la tracolla e la mostrò a Maria Adele.
Era stata realizzata con pellame di qualità. In un angolo, in basso, erano incise le stelle dell’Orsa e alcuni caratteri arabi.
-Me la diede completamente nuova. Nessuno l’aveva mai usata, prima … lui sapeva come interpretare il pensiero di chi gli stava intorno. Diceva agli africani: “Noi siamo gli invasori!”.
Maria Adele pensò che probabilmente si trattava di un dono ricevuto in cambio di un favore.
-Dentro vi custodisco gli insegnamenti del nonno che ho fatto miei – disse Vito con aria tra il grave e il candido.
- Ne potrei conoscere qualcuno?- chiese sottovoce Adele.
- Sì – rispose Vito disponibile- … si deve precedere gli altri nel bene e… per essere liberi, coltivare ciò che si ama…la bontà e la bellezza ci permettono di crescere…
-E tu, precedi gli altri nel bene?- domandò Adele, colpita.
-A volte… credo di sì, ma non ne sono sempre sicuro…
L’aveva guardata in un modo penetrante e lei si era sentita ridotta in scaglie.
-Perché non vieni anche tu sul Santerno a sentirmi suonare?- le chiese inaspettato.
- Sì … potrei anche … ma che cosa ti attrae, perché vai sul fiume?-
-Perché è inarrestabile… - affermò lui.
- Ah … come il divenire - disse Adele .
- Come le emozioni- disse Vito.

XXIV
Arcangelo era salito con la 127 verde lungo la strada a tornanti che portava alla Felicìta. Voleva godersi il cielo e la vista delle colline, il frinire delle cicale .
Sarebbe andato tra le piante e avrebbe accarezzato le scorze dei limoni, la peluria delle pesche, mentre il sole premeva con la sua vampa forte.
Stava raccogliendo dei fichi quando l’odore acre del fumo gli pizzicò le narici. Allora raggiunse l’orlo del terrazzamento e guardò in basso verso il pendio da dove saliva la nube. Qualche pastore ogni anno appiccava fuoco in un angolo della montagna perché la cenere concimasse il terreno dove brucavano le pecore.
L’incendio si propagò per un’area di notevole estensione.
Arcangelo vide le fiamme avvicinarsi in direzione della casa e le sentì crepitare sui rami degli alberi, sulla mignola degli ulivi. Allora cominciò a riempire i secchi dalla fontanella per buttare l’acqua sul perimetro degli orti. Lo fece tante volte e corse e corse talmente che le gambe gli facevano male e il cuore gli batteva troppo forte.
La situazione si era fatta difficile col vento levatosi all’improvviso.
Ma lui non si dava per vinto. Pensava che se non sapeva difendere la sua roba, non sarebbe stato degno di godersela.
Dopo diverse ore, i coniugi Rubino con alcuni amici e parenti cominciarono a cercare il figlio.
Lo trovarono accanto al fico d’India del muretto, lungo la vecchia mulattiera.
Forse aveva ricevuto un colpo in testa da un ramo che si era schiantato al suolo.
XXV
Un giorno di luglio alla cascina facevano una gara di tiro a segno. Gherardo volle invitare Vito. Gli piacevano i cerchi concentrici rossi e neri delle tavole di legno allineate sul limitare delle stoppie.
E il fragore degli spari.
Dante andava avanti e indietro con frenesia per le cavedagne , piegando l’arto come fosse quello di un fantoccio.
-Papà, questo è Vito! –
Dante gli strinse la mano con un- Ah…-era distratto dal setter che gli correva a fianco.
Si concentrò sulla gara osservando i tiratori che preparavano le carabine.
Poi, rivolto al portalettere:-Ha mai provato a sparare?-
-No, anche se in casa ci sono i fucili ereditati da mio nonno-
-Da suo nonno?-
- Sì, anzi dai miei nonni. Quello paterno li portò dall’Africa, quello materno li usava per la caccia-
-Ah, allora forse abbiamo qualcosa in comune – disse Dante, mostrando un sorriso che sembrava privo del bianco.
Intanto la gara era iniziata. I tiratori si avvicendavano seguendo le indicazioni dell’arbitro.
La competizione si fece accesa perché, in parallelo al poligono di tiro, un gruppo di dilettanti con le carabine prendeva di mira barattoli e bottiglie sui ceppi.
Il setter abbaiava saltando furioso e Vito lo richiamava per evitare che Gherardo lo seguisse.
Vito aveva raggiunto la linea dei ceppi quando i dilettanti sembravano a riposo.
Ad un certo punto, non si seppe mai come, partì una rosa di pallini: venne deviata da un sasso, da qualcosa posta sulla traiettoria.
Forse si sarebbe potuto fermare tutto.
Gherardo saltellava su una balla di paglia e si voltò, quando sentì le grida e poi le carabine tacere.
Vito aveva la testa riversa sull’erba bruciata.
Per lui il sole era diventato nero e la cornea uno smeriglio.
XXVI
Il campanile mandò i primi rintocchi.
Davanti alla Matrice Vecchia la portiera della vettura funebre era stata alzata. La gente usciva piano dalla chiesa nel caldo torrido delle tre.
Furono sistemate le corone con le onoranze. La bara venne adagiata nell’automobile.
Il normanno e la moglie, stretti e fragili negli abiti scuri, presero posto dietro la macchina funebre che si avviò lenta e silenziosa verso il cimitero.
Don Alfio cominciò a recitare il Requiem e tolse di tasca il Rosario…
Una fila di bianche lumache compose il corteo.
I fiati partirono in sordina con l’ ”Adagio” di Albinoni.
La salita, lungo i lastroni neri di pietra lavica, alimentò il senso della penitenza.
Zia Giovanna dava il braccio a zia Concetta. Maria Assunta, accanto a zia Cetti, faticava a trovare la regolarità del respiro. Il rosso colava dal dito.
Sentiva di subire un’avversità intollerabile. Come il rumore della cazzuola sul cemento fresco.
L’oboe non c’era.
XXVII
Maria Adele, dopo quel giorno della gara di tiro a segno, aveva saputo che Vito era andato in America per curare la vista. Ma poi non aveva più avuto notizie di lui..
Una sera aperse la cassapanca dove custodiva ancora il fondo di chitarra, con il cuoio fiorito di muffa in corrispondenza delle Pleiadi, e decise di buttarlo nella spazzatura perché non sarebbe stato buono neanche come surrogato.
Dante iniziò a ricercare negli archivi aspetti inediti di storia contemporanea e Gherardo iniziò a insegnare. Quando ebbe voglia di rivedere lo scanno sul Santerno non riuscì più a ritrovare il luogo esatto, il punto in cui sostava con in mano la canna del flauto.
La vegetazione aveva ricoperto tutto e in modo diverso.

Sul finire della giornata, dopo le esequie di Michele Pelizzi, Gherardo pensa alla lezione dell’indomani. Desidera parlare agli studenti dei marosi di Montale e del dovere di resistenza. Di come e cosa la letteratura insegna.
Maria Adele si affaccia alla ringhiera del balcone per guardare il profilo discontinuo dei monti e le ali aperte degli uccelli.
Si ricorda del portalettere.
Di quando le aveva detto che si deve precedere gli altri nel bene e coltivare ciò che si ama…


“Avara pena tarda il tuo dono/ in questa mia ora/ di sospirati abbandoni/ un oboe gelido risillaba/ gioia di foglie perenni,/…” (S.Quasimodo “L’oboe sommerso”)





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