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Il fango sotto la neve

di Giovanni Chesi
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Pubblicato il 22/11/2018 19:06:20

Fino Mornasco era dottore e sapeva di esserlo. Per questo non si era lasciato troppo impressionare dalla telefonata sconvolta della sorella, che l’aveva pregato di correre in città. Pareva infatti che papà avesse il solito malore. <Questa volta ci rimane secco> aveva detto senza mezzi termini. Ma Fino sapeva bene che si trattava dell’ennesima crisi d’asma e che si sarebbe risolta con una breve visita al pronto soccorso proprio durante il suo viaggio. Il vecchio non voleva saperne di smettere di fumare e questi erano i risultati. Camerlata era una ragazza semplice e poco istruita, una piccola cameriera che conduceva la propria vita fra superstizioni e lotteria. Si spaventava sempre per un nonnulla.

 “Questa volta ci rimane secco”… non gli erano nuove queste parole. Certo, erano le stesse che proprio lei aveva usato per richiamarlo a casa quando mamma ebbe l’infarto. Subito gli saltarono alla mente le insinuazioni di alcune malelingue secondo le quali la madre in realtà era già morta quando Camerlata gli annunciò il suo malore. Sciocchezze. Camerlata non aveva motivo di mentirgli. Fino era un uomo sensibile, è vero, ma… .

L’arrivo del treno, stridente e improvviso, spense i suoi pensieri. Il dottor Mornasco era particolarmente insofferente al rumore agghiacciante sferrato dalla frenata brusca di un treno in corsa. Si sentì paralizzato e indifeso e, se non fosse che in mezzo a tutta quella gente aveva una dignità da difendere, avrebbe istintivamente nascosto la testa sotto le braccia, cercando di schermare le orecchie al meglio e chiudendosi a guscio, come una chiocciola in pericolo.

All’aprirsi delle porte, gettò via stizzito la sigaretta appena iniziata, raccolse la valigetta ed entrò. Percorse il vagone alla ricerca di un posto, ma sembrava tutto pieno e le persone entrate prima di lui gli soffiavano senza pietà i pochi buchi superstiti. Finalmente gli capitò sott’occhio l’oggetto del desiderio. Un posto libero. A fianco ce n’era un altro, occupato, ed entrambi si affacciavano su altri due sedili, occupati. Erano tutti invasi da ragazzi di colore, con le cuffie alle orecchie e i jeans strappati. L’istinto di sedersi e occupare quel posto prima che fosse troppo tardi subì una brusca frenata. Gli sembrava infatti che quella gente emanasse un odore nauseante. Ma non è che puzzassero, era proprio l’odore tipico dei negri… che da un po’ di tempo erano insolitamente tanti da quelle parti… c’era da fidarsi? Ma improvvisamente Fino Mornasco scosse la testa, quasi in un brivido. Quei pensieri non gli appartenevano! Fino Mornasco era dottore e sapeva di esserlo. Non era mai stato razzista in vita sua, nemmeno prima di ottenere il diploma di ragioneria con il massimo dei voti, quando ancora era uno sbarbatello. Consapevole della sua vera identità, si fece forza e si concentrò sul sedile libero. Era di un colore che in origine doveva essere stato blu scuro ma che si era sbiadito fino a un giallognolo celeste. Il poggiatesta era lercio, portava testimonianza di infestazioni di dermatite e capelli sporchi e nevicate di forfora che probabilmente risalivano all’inaugurazione del treno. Ma la cosa più terribile era un’area sullo schienale di un giallo ocra più intenso, proprio dove avrebbe rischiato di appoggiare la pelle nuda del collo. Si trattava senza dubbio di una macchia di un passato più recente. E Fino poteva quasi immaginarne la genesi. Un gruppo di giovani sbandati, ancora ubriachi dopo una nottata di follie, di prima mattina invade il vagone. Il treno parte ma uno di loro si sente male. E trattandosi di un animale, senza rispetto né dignità, vomita dove gli capita, e in particolare su quel sedile, il suo sedile. Fino Mornasco poteva quasi vederla quella chiazza putrida di succhi gastrici misti a pezzetti di cibo masticato, una specie di panettone liquido spalmato lì, dove voleva accomodarsi. E gli salì a sua volta un conato di vomito. Ma di nuovo si contenne e si stupì di se stesso. Aveva affrontato situazioni ben peggiori di quella! Il dottor Fino Mornasco, prima di laurearsi in scienze dei beni culturali con il massimo dei voti, era stato più volte in campeggio in Corsica e a Malta. Quante avventure passate assieme a Rovello Porro, compagno di studi e di vita! Ormai perduto nel vorticoso oblio degli impegni e della pigrizia. Fatto sta che non sarebbe certo stata quella macchia a spaventarlo. E mentre lo metteva in chiaro a se stesso, notò che dal bordo del sedile spuntava una piccola etichetta. Recitava:

ANTIMACCHIA

ANTIBATTERICO.

Fino Mornasco pensò che, se quel tessuto era antibatterico quanto antimacchia, non si sarebbe sorpreso di rialzarsi da lì con la peste.

<Scusi, si siede?> Un vecchio impertinente gli era comparso alle spalle. Voleva rubargli il posto, il posto che Fino aveva trovato con tanta difficoltà e che comunque aveva visto prima lui. Si accomodò immediatamente, sfoderando un ampio sorriso al nonnino e curandosi bene di non appoggiare la schiena. Il vecchio proseguì senza lamentarsi.

Ma un attimo dopo il dottor Mornasco si sentì terribilmente in colpa. Potete chiedere in giro a chi volete, di lui dicevano tutti che era persona gentile ed educata. In tanti gli dovevano molto, questo era indubbio. Al punto che Fino si mise l’animo in pace e cominciò a sbottonarsi lentamente la giacca. Aveva avuto le mani gelide sin dall’inizio del viaggio, ma ora un piacevole tepore le confortava. Faceva freddo là fuori, ma almeno c’era la neve. Chissà se l’avrebbe ritrovata anche in città. Probabilmente no. È la neve che dà senso al freddo, pensava Fino. Il segreto della neve consiste nel rendere magico, o quantomeno accettabile, qualunque cosa su cui si posa. Quando il cielo si imbianca di nebbia polare e dopo una notte sospesa sorprendi il mondo ammantato di nuvole estive, che importa se là sotto la terra profonda brulica di schifo? Che importa se l’humus laggiù è tutto trapanato da un labirinto di tunnel dove vermi di ogni forma e dimensione strisciano e si mangiano a vicenda?

Ma cos’è, chi è questa ragazzina così giovane, così… bella? Si vuole mettere proprio lì, di fronte al dottore. I ragazzi di colore erano scesi all’ultima fermata e lui in fondo l’aveva notato, ma sovrappensiero e gli restava solo un ricordo di un vago sollievo. Lei si sedette subito e quasi senza pensarci. Era vestita in modo indecente. La pancia mezza nuda in inverno e quei pantaloni a vita bassa… erano una cosa che non si poteva vedere. Eppure Fino non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Lei non ci faceva caso. Aveva le cuffie e si guardava distrattamente intorno, come rapita da qualcosa sopra le teste dei passeggeri. Si tolse rapidamente la giacca. Sarebbe stato evidente anche senza la vistosa scollatura a livello del seno che la ragazza era stata benedetta da Madre Natura. Ma per Fino era inammissibile andare in giro conciati così, soprattutto in… quelle circostanze. Ma i genitori, possibile che non si accorgano di nulla? Poi succedono le tragedie e si sente parlare di aggressioni e di stupri…  ma in questi casi una parte di responsabilità ce l’hanno anche le vittime, è innegabile! E mentre la sua mente si perdeva in tali astrazioni, i suoi ormoni gli gonfiavano il pene e gli accendevano il volto piano piano. Presto ai pensieri si sostituirono immagini. Voleva affondare le mani in quelle tettone succulente e strizzarle fino a sentirla urlare di piacere, voleva svestirla di quei volgari pantaloni da tuta e scoprire, celata da mutandine di pizzo rosa, la dea Vagina e a quel punto impugnare il suo cazzo turgido, penetrarla e sbatterla su quel sedile come il telecomando quando non funziona. E la sentì ansimare ed eccitarsi di sorpresa quando senza preavviso le afferrò le chiappe per girarla e metterla a novanta.

Queste immagini gli riportarono alla mente il ricordo di quando per la prima volta una fantasia erotica gli mise le ali. Aveva quindici anni. Quella mattina aveva deciso di saltare scuola ed era rimasto a letto. Non aveva detto niente a nessuno. Si svegliò con il canto di Camerlata nelle orecchie. Veniva dal bagno, assieme a uno scrosciare d’acqua. Poi quest’ultimo cessò, ma non la voce di lei. Sentì una maniglia cigolare. Camerlata passò distrattamente davanti alla porta aperta della sua camera. Era completamente nuda. Dopo un attimo di esitazione, imbrigliato da mille sensi di colpa ma trascinato da qualcosa di più forte, lentamente Fino si avvicinò alla soglia. Sgusciò poi in corridoio con le movenze di un agente segreto fino ad arrivare a intravederla nella sua stanza. Camerlata era una ragazza di una bellezza molto fine. I piedi erano più piccoli di quelli del fratello ma avevano gli stessi lineamenti morbidi. Le cosce erano immacolate e carnose al punto giusto, sode e invitanti quanto il sedere, che si muoveva a destra e a sinistra al ritmo della musica che le risuonava in testa. Sopra quelle sfere gemelle e accoglienti si ergeva la delicata parete della schiena, sulla quale saliva ripida la scala vertebrata, seminascosta in cima dai lunghi capelli biondi. I seni erano piccoli e non ancora maturi. Ma agli occhi del giovane Fino non c’era momento migliore di quello per assaggiarli, divorarli. Corse in bagno non appena Camerlata ebbe finito di rivestirsi e fu il momento di una delle masturbazioni più indimenticabili della sua vita.

Ma ecco apparire alle spalle della Venere del treno lui, l’individuo più ripugnante e deprecabile delle ferrovie dello stato, il famigerato Pertusella. Fino rimase investito in pieno dallo tsunami di disagio e cattive intenzioni che lo precedeva. Il Pertusella era un vagabondo che sembrava vivesse sul treno. Se percorrevi quotidianamente quella tratta, non potevi evitare di incontrarlo almeno un paio di volte a settimana. È vero, Fino di fatto non l’aveva mai visto fare niente di male, ma ci avrebbe scommesso mezzo stipendio che si drogava e che non si guadagnasse da vivere con la sola elemosina. Fatto sta che non appena lo vide apparire abbassò lo sguardo. Cosa che faceva sempre d’altronde, e con una velocità tale che, pur avendolo incrociato decine di volte, non aveva un’idea ben precisa dell’aspetto del Pertusella. Di certo sapeva solo che puzzava, che era sempre vestito di stracci rossi, o comunque di colori vivaci, e che aveva una barba incolta, probabilmente rossa pure quella. E una voce sgradevolissima da ragazzino viziato. Ma un evento drammatico avrebbe drasticamente migliorato questa descrizione. Il Pertusella infatti gli rivolse la parola e il dottor Mornasco commise l’imprudenza di alzare lo sguardo. Non poteva più sottrarsi. Precisamente, il dottore fu apostrofato con queste parole: <Oh scusa, ce l’hai una sigaretta? Una sigaretta, per favore!> Lo disse a voce alta e con un’espressione che era una via di mezzo fra la supplica e la protesta, come se si aspettasse dall’interlocutore una lamentela del tipo <No dai, così mi chiedi troppo!> Costretto a posare gli occhi su di lui, Fino notò con sorpresa che il Pertusella era giovane. La sua faccia era così sudicia che uno spazzacamino a fine giornata a confronto sarebbe sembrato pronto per una serata di gala. Era grosso e goffo, con le labbra a pezzi e gli occhi stanchi. Alle spalle portava un sacco enorme, rosso. Fino sforzò un sorriso e ostentò tutta la sua educazione: <Mi spiace, non fumo>. In realtà questa era una bugia che poteva benissimo risparmiarsi. Non tanto perché non si dicono le bugie… più che altro per il fatto che si trattava di un’informazione del tutto non necessaria. Se anche fumava, aveva tutto il diritto di non avere con sé sigarette, e se anche ne aveva, non era certo tenuto a privarsene. Sarebbe bastato un semplicissimo “no”, oppure… <Scusa, mi fai sedere per favore? Dai fammi sedere, sono stanco!> Questa richiesta a Fino Mornasco sembrò al di là del bene e del male. A parte il fatto che era assurda, c’erano altri due posti liberi! Uno vicino a lui e l’altro accanto alla ragazza. E poi con tutta la gente in quel treno… proprio a lui?? Ma un brivido si arrampicò rapido sulla schiena di Fino al pensiero di avere quel bidone umano come vicino di posto. Col sorriso tramutato in una smorfia di schifo, gli rispose fra i denti un “prego” e si alzò.

Era una buona azione di cui non era per nulla contento. Si sentiva un debole. E un misto di rabbia e rassegnazione tese i suoi nervi. I quali inesorabilmente si ruppero quando lo sguardo gli ricadde sul Pertusella. Quel barbone schifoso si era messo sdraiato, poggiando i piedi sul posto libero e la testa sul suo, mentre il sacco rosso era stato accomodato vicino alla ragazza. La frustrazione di Fino condensò in feroce indignazione. Che però non ebbe modo di trovare sfogo. In quell’istante, infatti, uno scontro frontale fra treni frenetici in frenata interruppe la sua vita di botto. L’aria rimbombò di un boato bollente e spettacolare, che nessuno avrebbe ricordato. I vagoni veloci cozzarono fra loro come piatti in un’orchestra. Un trionfo di lamiere si accartocciava con la facilità di una bottiglietta di plastica aperta, i vetri si infrangevano uno dopo l’altro e vite si spegnevano come sigarette sotto una scarpa. E poi finalmente tutto si fermò e sulla scena piombò un silenzio surreale. Pezzi di treno e pezzi di corpi erano sparsi per tutta la campagna circostante, mentre sopra il binario divelto una discarica di ferro era tomba e cimitero insieme.

A una certa distanza, il dottor Fino Mornasco osservava lo spettacolo desolato. Il Pertusella, la Venere del treno, il vecchio, i ragazzi di colore, Camerlata erano tutte immagini sbiadite sull’orlo dell’oblio. Tutto quello che gli restava cui pensare era il suo corpo, o meglio lo schifo che era stato catapultato lì, sulla neve ghiacciata. Non riusciva a staccarsi da quella cosa. Ma non ce la faceva a guardarla. Era un irrecuperabile pezzo di carne, più simile alle bistecche crude impilate sugli scaffali dei supermercati che ai resti di un uomo. Ma Fino Mornasco se l’era sempre cavata, sapeva che non poteva finire così. Si fece forza e affrontò la situazione. A osservarlo bene, effettivamente non restava che un pezzo del tronco e una gamba, carbonizzati e ripieni di metallo e vetri. Poco oltre si intravedeva un arto, forse uno dei suoi. Ecco cos’era quel senso di inquietudine. Di ogni sua goccia di sangue sentiva il richiamo e ne era attratto, come una madre che segue la voce lontana del bambino. Ma ben presto l’amabile resto gli diede la nausea e a stento trattenne un conato di vomito. Era davvero troppo disgustoso, anche immaginando di riassemblare tutti i pezzi non poteva nemmeno pensare di tornare in quel corpo.

Si avviò mesto verso i resti del treno. Ma… tutto questo non aveva senso! Lui che era, uno spirito? Un’anima??! Fino Mornasco era dottore e sapeva di esserlo e sapeva che l’anima e l’inferno e il paradiso erano favole per bambini e che di fatto non c’era motivo che lui esistesse, che pensasse ancora. E stava per perdersi in una risata nervosa, ma all’improvviso scomparve e non tornò più.               


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