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Ad un passo dal buio (Cap.1: una falena)

di Stefano Verrengia
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Pubblicato il 02/02/2019 10:38:01

AD UN PASSO DAL BUIO

 

CAPITOLO 1: Una falena.

 

“Amico mio, non ti nascondo che mi trovo in un momento di completa disperazione. C’è qualcosa, qualcosa nascosto come uno squalo sotto la superficie dell’acqua, un mostro affamato che riesco a vedere solo perché è così stupido da mostrare la pinna prima dell’attacco, ma è talmente veloce che non potrò fuggirlo. Mi trovo in questa situazione, in questa condizione di discesa disperata, questo cadere, ruzzolare irrefrenabile verso il precipizio, come fossi una pietra che ruzzola per la pendenza fino alla scarpata.”

Marco Macorich prese il calice di vino e lo tirò giù tutto di un sorso. Poi guardò attentamente l’amico in attesa di una sua risposta.

“Marco, comprendo perfettamente il tuo momento … avere una situazione come la tua è pesante come avere un macigno sulle spalle, anche se in apparenza può sembrare diverso per chi non l’ha provato. Ma sono sicuro che supererai anche questa triste condizione e ti riprenderai, tornando ad essere quello che eri. Non puoi pensare, credere che la malattia di tua madre ti lasci incolume, senza alcuna cicatrice interiore. E’ umano e destabilizza, come è ovvio che sia. Come tutti sanno, e come è banale dire, questa è la vita … la vita non guarda in faccia a nessuno, che sia benestante, ricco, povero o un barbone disgraziato.”

Marco Macorich alzò la mano frettolosamente cercando di attirare l’attenzione del cameriere. Nonostante si muovesse guizzando con la mano come un pesce fuor d’acqua, il cameriere non poteva intravedere l’uomo e la sua mano fra quella folla presente al locale quella sera.

“Vedi Stefano, come fanno? Come fanno a non accorgersi di tutto questo? Come fanno a non soffrire, patire, disperarsi gli esseri umani dopo un evento così tremendo? Come si illudono gli altri, quali meccanismi utilizzano per illudersi, per continuare a credere e a sperare che tutto ciò abbia un senso? Noi siamo amici da vent’anni e non posso nasconderti nulla, proprio nulla! Ho fatto strani pensieri Stefano, strani, stranissimi pensieri!”

“Di che pensieri stai parlando?” Disse l’amico che scivolò con le braccia poggiate sul tavolo verso Macorich, come se volesse fargli comprendere che aveva la sua completa attenzione.

“Sarà stato un attimo, un momento di follia, ma ho comprato una corda …”

“No Marco, questo non va affatto bene! Devi assolutamente andare in terapia e farti aiutare!” Asserì immediatamente, con rabbia, Stefano.

Marco Macorich si guardò attorno, vagando con lo sguardo nel vuoto.

“Me ne vado a casa, ho bisogno di stare un po’ da solo.”

Dopo queste parole si alzò di scatto e se ne andò, con una faccia buia come la notte, senza salutare il suo amico, in maniera molto maleducata. Si incamminò lentamente verso casa, gettando lo sguardo sulle onde che si frantumavano contro gli scogli sul lungomare. Si sentì assalito da una tale tristezza e disperazione e non riusciva a trovare una motivazione profonda, vera, per liberarsi di questo suo malessere così radicato, viscerale.  Passò vicino ad un pub che conosceva e lo fissò per un attimo. La luce brillante dell’insegna lo attirò come una falena a caccia di luce. Rimase come impietrito per un attimo e poi si avviò verso il pub. Aprì la porta d’ingresso ed entrò, andandosi poi a sedere in un tavolo libero. Non c’erano molte persone in quel pub, anzi, al contrario dell’altro locale dove era stato prima con il suo amico Stefano si può dire che erano veramente poche le persone presenti. Era passato dal caos e dalla moltitudine di schiamazzi, urla, balli e bicchieri in festa a tavoli silenziosi, con persone sole o piccoli gruppi che parlavano con un tono di voce molto pacato. La luce soffusa del pub sembrava influire sull’umore delle persone lì presenti, o le persone presenti avevano scelto quel pub proprio per la sua luce soffusa, a tratti tetra, e la calma.

“Cosa ti do?” Disse il barista a Macorich.

“Una pinta di Aventinus, se ce l’hai.”

Il barista rispose con il pollice all’in su, per confermare a Macorich di poter esaudire la sua richiesta senza sprecare altro fiato, come se fosse un eccessivo sforzo poter dire “si”. La birra fu pronta in pochi istanti e l’uomo si alzò e si recò al bancone per prenderla, per poi sedersi nuovamente al suo tavolo. D’un tratto, una donna seduta ad un altro tavolo si alzò con la sua pinta di birra e si sedette vicino a lui, sulla sedia al suo fianco, e poggiò la sua pinta sul legno silenzioso di quel pub tetro. 

“Marco Macorich?”

“Si …” rispose intontito, confuso, non riuscendo a comprendere con quale maleducazione una persona potesse sedersi al suo tavolo senza chiedere neanche il permesso.

“Alice Keller … non ti ricordi di me?”

La guardò con attenzione, cercando di ricordare chi fosse questa bella donna seduta al suo tavolo. Non poteva negare a sé stesso la bellezza di questa donna, che brillava di una strana luce per essere in un pub così tetro. I suoi capelli biondi brillavano tendendo al rosso colpiti dalle luci fioche dei lampadari, i suoi occhi di color ghiaccio, nonostante la penombra, colpivano profondamente e magnetizzavano lo sguardo.

“Alice … eravamo insieme in terza media?”

“Esatto, bravissimo!” Esplose la donna, che fece girare le poche persone presenti nel pub come se fosse scoppiata una bomba. Lo stesso barista, fece una faccia indignata e al contempo arrabbiata per questa frase quasi urlata della donna. “Ricordi quando facemmo i compiti di italiano a casa mia?”

“Si, certo, certo che ricordo. Studiavamo Giacomo Leopardi, se non ricordo male …”

“Si!” Disse Alice, quasi strozzando la sua voce, accorgendosi che stava, ancora una volta, per disturbare quelle anime silenziose e tristi in quel cupo pub. “Quanto odiavo Giacomo Leopardi, una noia mortale! Come fa una persona dotata di così tanto talento ad essere al contempo così patetica?”

Un lieve sorriso sorse sulla faccia di Marco Macorich, che successivamente guardò la sua birra come un prete il calice di vino dorato durante l’eucarestia.

“Non ti nascondo che, a volte, mi chiedo quanto dovessero essere belle Silvia, Laura e Beatrice per aver mandato sotto sopra menti di quel calibro … anche se hai tempi una donna bella era una donna che aveva meno baffi delle altre.” Detto ciò, sorridendo, fece un altro leggero sorso e si sporcò di schiuma i baffi. Alice lo guardò intensamente, poi prese un fazzoletto dal porta fazzoletti e lo avvicinò alla sua bocca, sussurrando “hai tutta la schiuma sui baffi”. Poi gli levò via la schiuma sorridendo.

“Posso farti una domanda intima?”

“Certo.”

“Sei fidanzato, sposato … in poche parole hai trovato l’amore?”

“No. Tu, invece?”

“No, tutti stronzi, voi uomini.”

“Ah si, e come mai pensi che siamo tutti stronzi?”

“Perché lo siete … puoi negarlo?”

“Su molte cose siamo sicuramente diversi, senza ombra di dubbio, ma anche noi uomini potremmo dire che voi donne siete stronze.”

“Per quale motivazione?”

“Potremmo parlarne per ore … “

“Hai da fare?”

“No, domani non lavoro neanche, quindi posso far l’ora che mi pare.”

“E allora perché non ce ne andiamo da qui e andiamo a casa tua per parlare in intimità?”

Marco Macorich la guardò con occhio affamato. Era palese che quella donna avesse ben altre intenzioni rispetto al semplice parlare. Si alzò e, galantemente, pagò la birra di entrambi. Lei si mise il cappotto e successivamente il cappello di lana di colore azzurro, intonato con i suoi occhi, ed una sciarpa nera, che a tratti poteva confondersi con il nero del cappotto. Lui mise addosso il suo cappotto beige, alzò il colletto per ripararsi dal freddo, in quanto non aveva portato con sé la sciarpa, sbadatamente, essendo quasi sempre con la testa fra le nuvole. Uscirono dal pub e lui mise la mano nella tasca destra del giubbotto, cavandone fuori un pacchetto di sigarette Marlboro. Ne tirò fuori una come un poeta tira fuori la penna dal suo tappo. Poi guardò Alice. Alice era, senza ombra di dubbio, una donna di una bellezza particolare. Era ben diversa, ai tempi delle medie, nella sua ancora acerba corporatura, priva delle prelibatezze dell’età adulta, della sinuosità statuaria che una donna può possedere con le sue forme. Adesso, adesso era diverso. Anche se vestita, poteva facilmente correre con gli occhi sulle sue curve come su delle montagne russe. I seni prorompenti potevano facilmente intravedersi anche attraverso il maglione invernale che portava. La guardò con occhio avido, e non si sentiva così da tempo, da molto tempo. Fu come un toccasana l’averla incontrata. La guardò cercando di non esser scoperto, mentre lei era attenta a guardare il telefonino messaggiando con qualche sconosciuto, o sconosciuta.

“Hai l’accendino?” Le chiese.

“Si, aspetta che lo cerco nella borsa.” Alice mise le mani in borsa rovistando come un cane nella terra, a caccia dell’osso.  “Eccolo.” Disse prontamente.

“Grazie.” Disse Macorich. “Ne vuoi una anche tu?”

“Si grazie, non ho voglia di girarmi il Pueblo.”

“Cos’è il Pueblo?”

“Tabacco.”

“Ah, fumi tabacco … come ti trovi?”

“Molto meglio che con le sigarette, ma a volte mi scoccio nel prepararmela e non fumo. La pigrizia è sempre un buon deterrente contro i vizi, o il peggior vizio.”

Lui aprì il pacchetto e lo porse verso di lei, come farebbe un promesso sposo con l’anello di fidanzamento, ma senza inginocchiarsi. Lei prese la sigaretta, la portò alla bocca e l’accese con l’accendino preso dalle sue mani. Poi si incamminarono verso casa. Alice prese di nuovo dalla tasca del suo cappotto il telefono e lo guardò, iniziando a digitare ininterrottamente, con la sigaretta in bocca fumata dal vento. Lui fumava, gettando uno sguardo sul suo telefono senza farsi scoprire, poi rivolgendolo verso il mare rigonfio che divorava con le sue onde gli scogli del lungomare. Alice lo aveva stranamente stregato. Il suo modo di fare così infantile, così colmo di vita e gioviale, alleggerivano i pensieri nella sua mente, come se fossero legati a dei palloncini ricolmi d’elio pronti a salire verso l’alto fino al loro inesorabile scoppio, ripiombando giù senza speranza. Infatti, non appena la osservava di nascosto mentre lei fissava il telefono, subito i suoi pensieri spiccavano il volo fin quando non ripiombavano giù in preda ai timori, le paure e le angosce. I suoi lineamenti erano così delicati, con quelle sue guance rosse e all’apparenza calde, che il suo viso gli sembrava una mela succosa da assaporare. Fece un altro tiro di sigaretta e poi, terminata, la gettò a terra e la schiacciò.

“Alice, come ti senti?”

“Bene. Perché, tu cos’hai?”

“Ho mischiato troppi alcolici e mi sento un po’ alticcio …”

“Cos’hai bevuto?”

“Vino, birra e qualche shot.”

“Ti viene da vomitare?”

“No, fortunatamente no.”

“Ti ricordi quando alla festa di Carlo abbiamo bevuto per la prima volta il Bacardi breezer?”

“Certo, come no, ci sentivamo dei veri ribelli, dei pirati pronti ad andare contro tutto e tutti per aver semplicemente bevuto un Bacardi. Ci sentivamo dei veri duri, ad aver violato le regole dei nostri genitori che ci vietavano di bere qualsiasi alcolico e che ci minacciavano di non fumare altrimenti ci avrebbero messo in castigo. E noi, cosa abbiamo fatto? Abbiamo bevuto ed abbiamo fumato, abbiamo fatto tutto quel che ci è stato detto di non fare. Noi esseri umani siamo fatti così, non ci possiamo far nulla. Ogni qualvolta ci viene detto di non fare qualcosa è per noi il momento giusto di farla.”

“Quel giorno vomitai per la prima volta” disse ridendo Alice. “Ho bevuto tre Bacardi breezer solo per fare un dispetto a mia madre, solo per dimostrarle che non l’ascoltavo, che avrei fatto di testa mia, superando ogni suo limite imposto semplicemente mettendo due labbra su una bottiglia. Quelle labbra sulla bottiglia furono come un bacio, un bacio col Diavolo, con tutto quel che non va fatto.”

“La trasgressione, la voglia di trasgressione è un sentimento, un desiderio assurdo. Se ci mettono un muro davanti, non sappiamo far altro che abbatterlo, a meno che quel muro non sia per proteggerci e non per dividerci, prima di tutto da noi stessi. Nessuno può fuggire sé stesso né il desiderio di scoprirsi in tutta la propria interezza, completezza … siamo arrivati, questo è il mio portone.” Disse d’un tratto Marco Macorich, interrompendo il suo discorso. Prese le chiavi ed aprì il portone, facendo entrare galantemente prima Alice. Alice stava per salire le scale quando l’uomo la fermò, prendendola per la spalla.

“Aspetta, abito al quinto piano … non vorrai mica salire tutte queste scale a piedi … prendiamo l’ascensore.” Premette così il pulsante dell’ascensore, che si fece rosso. Dopo pochi attimi la porta si aprì ed una luce eccessivamente forte colpì il viso di entrambi, una luce troppo forte per il buio al quale fino a quel momento erano stati abituati. Entrarono e lui premette il pulsante per andare al quinto piano. La porta dell’ascensore si chiuse ed insieme ad essa le tenebre dell’entrata del palazzo. I due si misero l’uno rivolto verso l’altro, entrambi si guardarono con sguardo di fame e desiderio. Si guardarono intensamente, per alcuni secondi, prima di scaraventarsi l’uno contro l’altro con tale foga che sembravano due nemici al fronte più che due esseri umani infiammati dal desiderio. Marco Macorich iniziò a togliere il cappotto ad Alice, continuando il bacio appassionato. La porta dell’ascensore si aprì e Alice si rimise il cappotto, come rientrando in sé stessa. I due si guardarono e risero. Alice pulì le labbra di Marco spalmate di rossetto, tale che sembrava un lupo dopo aver pasteggiato nella carne di una lepre. Uscirono dall’ascensore e si avventurarono alla porta. Lui aveva sempre odiato il posto dove abitava per varie ragioni. Una delle ragioni per le quali odiava la sua casa era sicuramente il lungo corridoio che doveva percorrere per arrivare alla sua abitazione, lo faceva sentire come distante dalle sue quattro muro, dal luogo dove avrebbe dovuto ristorarsi, rilassarsi e riposare. Un’altra motivazione era l’orribile vicinato al quale aveva sempre dovuto porgere ipocriti sorrisi. Viveva in un quartiere popolare di Roma, il quartiere di Torre Spaccata. Sicuramente non la zona residenziale che aveva sempre desiderato durante la sua infanzia e durante la sua adolescenza, per poter avere a che fare con persone educate, gentili, anche se ipocritamente educate e gentili. Il suo vicinato era composto di tossici, persone agli arresti domiciliari, spacciatori, famiglie disagiate e famiglie logorate dalla povertà. Aveva sempre riconosciuto a questa tipologia di persone, nonostante il disagio che provasse nel dover parlare con quest’ultime persone, un’onestà a volte ingenua che era, senza ombra di dubbio, piacevole. Questa onestà rendeva l’aver a che fare con le persone una cosa semplice, a volte piatta, ma di certo queste umili persone non cercavano vie traverse per poter instaurare un dialogo con gli altri. Andavano dritti al sodo. Si vergognava della sua situazione, della sua condizione esistenziale di quel momento.


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