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Laura

di Giacomo Sansoni
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Pubblicato il 11/05/2019 16:39:20

 

Ero Laura. Io ero l’aura, un’aura leggera, refolo di vento: ero vento. Una ballerina. Laura la ballerina. Laura la tanghera, maga dei balli sudamericani, salsa, bachata, bomba e tanti altri, che musica fatica a contenere. Ero strumento musicale, corda simpatetica, in sintonia con la musica. Quando ballavo ero sola, con il mondo dentro. Sotto la luce di un faro, della stessa natura della luce, ero luce, energia che trova forma, attingente a forze primigenie soggiacenti a ferrei canoni di simmetria e bellezza. La metafora si veste della valenza che i fisici attribuiscono all’equilibrio delle particelle quantiche, quark di “bellezza”. Quando ballavo ero bella, ero stringa quantica di luce incarnata, senza corpo, ero corpo malleabile e duttile, nelle immaginose mani dello spirito…Solo un anno fa. Solo un anno fa, ero giovane. A vent’anni si è giovani. Ora ho un anno. Un anno di parto nuovo. In un anno si può morire e rinascere molte volte. Io ero Laura la farfalla, che batteva le ali e faceva il vento che muoveva i cuori e faceva il cuore leggero. Ero Laura che, come seme d’acero o pappo di cicoria m’avvitavo al vento, che col cuore, muovevo gambe e testa, e avevo gambe e testa nel cuore e testa e cuore nelle gambe. Poi, una puntura all’anca, quando già pensavo di dimenticare, una fitta più cocciuta, poi ancora più forte all’altra gamba, alla schiena, ancora, ancora, senza remittenza, finché mi si è palesato il corpo. Con ostinata imposizione, ho dovuto scoprire d’avere un corpo. Prima non sospettato, tutto era istinto, cuore, cuore sensitivo, non fisiologico, scevro dalla meccanicità, governato solo da passione, turbamenti, emotività, commozioni, suggestioni, entusiasmi, pathos, che transitava per un corpo che era plastilina docile, mai risentita, nelle mani dell’anima… quando ero ancora Laura. Poi il corpo. Punture sempre più accanite, inflessibili, insistenti, costanti, al bacino, alla schiena, alle gambe e una lentezza incomprensibile del transito delle volontà; volontà che prima non passavano per il pensiero. Prima avevo un corpo da poche pretese, perché giovane? Ma, mio Dio, ora ha solo un anno in più! Da dove allora questo peso che mi logora? Ancora più esile e diafano è il mio corpo. Farfalla? Farfalla inchiodata, ora! in una bacheca d’entomologo. Eppure sento, forse penso, che le ali s’agitano ancora. Ho un corpo che tende a disabitarsi, che s’espropria, e mi è difficile rivendicarlo ora, che è diventato terreno per le lotte di tutti: landa per accamparvi guerre, provarvi armi, però mio è il dolore, solo mio il dolore: quello di carne e quello della carne dell’anima. Per quale redenzione, questo dolore e anche il dolore per questa carie irrisolvibile delle parole? Parole che non hanno ancora il calco preciso nella cera persa, di tutte le emozioni i turbamenti, gli sbigottimenti e le paure e risolvono l’irrisolvibile a monosillabi d’accoramento. Perché tanto menarca di spirito s’è compiuto, perché così grave la gravità, ora. Di che natura questo blocco? quantico, psicologico, fisiologico, neurologico o biochimico? Biochimica, l’insegnamento che, all’università sto seguendo con fatica e non valgono i suggerimenti di mio padre che mi sprona. Mio padre e mia madre, che da tempo si sono ammalati di me. Mio padre cultore della materia, che è arrivato alla professione di medico, con monumentale sacrificio e passione. In questi attimi, che sono giorni e ore, tempo senza tempo mi sento gravare del peso specifico, acuito dai miei sensi di colpa per la dichiarata ritrosia nello studio delle chimiche, vanto di mio padre, anche se so che potranno essere il campo di battaglia, periglioso, ma doveroso, per poter comprendere il senso delle mie deficienze fisiologiche, con cui intuire, indagare, dio voglia, il principio di un definitivo sgravio. Ora piange, mio padre. Piange quando crede che non lo senta. Mai come adesso mi è vicino, lui che ha surrogato il suo ammanco matroclino, vietato dalla genetica, con attenzioni, palpitazioni, non inferiori alla fertilità d’amore filetico di mia madre. AH!, se mio padre, potesse sezionarle, su un tavolo operatorio, le sue chimiche, spronarle come imbizzarriti cavalli al galoppo, verso una intuizione risolutrice. Sono fortunata, per averli così come sono, i miei genitori, compresa mia sorella che fa finta che niente sia successo, perché anche lei non vuole credere che sia successo qualcosa e quell’anima ausiliatrice del mio ragazzo, a cui non ho chiesto niente e non dovevo chiedergli niente, che non era troppo, anzi poco, il tempo, da quando c’eravamo scelti. Anima ausiliatrice, il mio ragazzo, arrivato quando ogni aiuto vero è aiuto di Dio. Il mio ragazzo sacrifica ogni ora al mio dolore, al mio dolore che è diventato il suo dolore. Cosa rara. Ragazzo raro, d’altri tempi. Non so quanti avrebbero avuto tanto coraggio. Coraggio che ha fatto difetto a quasi tutti i miei amici. E gli amici a volte occorrono di più. Il dolore, peso arcaico, anche a volerlo dividere non si divide, si raddoppia, si triplica, si itera all’infinito e, tante più braccia sono a sostenerlo, tante più braccia sono a logorarsi. Che altri si avvincano al tuo dolore, anche questo è un dolore, ed è anche un conforto. Quanto più si è persi nel bisogno, si vorrebbe che si generasse una completezza, ricreare un’alleanza persa, offrendoci nudi all’amore, sperimentare complementarietà vere e, come rivi spersi per anni e verste, riconfluire in unico fiume, stesso alveo d’amore e dolore, fino alla foce dei giorni. I miei genitori, con me s’arresero al pellegrinaggio sanitario: percorremmo per lungo e per largo l’Italia. Conobbi una infinita fauna sanitaria. Cattedratici arcigni e sussiegosi, che assetavano ogni seme di slancio umano; altri falsamente pietosi, qualcuno coscienzioso, qualcuno umano, uno, chissà all’ombra di quale pregiudizio, sentenziò nel ballo un mio blocco psicologico. Nel mio grande sogno, che ha cittadinanza in tutti i sogni, notturni e diurni, la mia prima ed ultima coreografia mentale, responsabile nell’inconscio, di queste pastoie? Si che sono cavernose e non ancora di comodo dominio le empirie della vulcanologia, intuite da Freud, ma come tanto corrosivo magma in me. Per qualcuno, magari lo fosse, fu malattia reumatica. Acronimi di patologie insospettabili, poi la sentenza, procrastinata, per paura: SLA. SLA. La morte nel guscio? Farfalla entro il concrezionando scafandro, sempre più ferreo, con la mente sempre più allertata, addolorata, viva di una morte che non sa concedersi, quanto più necessaria lo diventa? Voglio essere ancora Laura! Entro il mio esoscheletro di sofferenza io ancora ballo, dentro, ho ancora sogni, ricerche da fare, amore da dare, figli da mettere al mondo. Ho ancora braccia, forse ali!, ho frattali coreografie entro le piume, dentro, posso ancora volare. Il cuore regge, il corpo non tace, l’anima non trova pace e l’anima che duole, dal corpo vuole conforto e, se l’anima non conforta, il corpo non resuscita, se il corpo non conforta, l’anima non resuscita. Il corpo, il corpo… Mio padre, umile coscienzioso clinico, sa che, il corpo, è bene tenerlo, pronto in attesa, per un miracolo sempre possibile. Per questo mi assoggetta a pratiche fisioterapiche, sempre più passive, perché viva la fiammella e s’intraveda, un giorno, dal buio, una flebile lucina, che arda e diventi fuoco, falò di speranza. Se non si spera non si può sperare e per avere speranza, bisogna sperare. A scuola, quanto è dura e ostica questa biochimica, che mi pesa studiare, eppure anche per essa potranno raggiungermi le mie speranze. Però che impresa e quanto m’è duro alzarmi la mattina e, quando s’aprono gli occhi, vorrei che il sonno me li rimangiasse, che l’oblio, la piccola morte del sonno mi strappasse dalle grinfie del dolore, che trovo sveglio e inflessibile, ad attendermi sul cuscino, come una pioggia indefessa, crudele sull’anima nuda. Vorrei non ritrovare la battaglia quotidiana, sempre con le stesse inefficaci vecchie armi. Ogni giorno dono gli occhi all'alba perché si compiano le scritture. Con difficoltà mi preparo e mi lascio condurre, da mia madre, in aspettativa dal lavoro, all’università. La città non collabora. La città è un animale, con grinfie da belva, pungiglioni, baratri, fossati, insensibilità, organizzate crudeltà, irriguardose cattiverie. Per recarmi alle aule devo prendere un ascensore guasto da mesi e, alla mia sconsolata ripetuta domanda “per quanto ancora” ho, in risposta uno sconsolato distendere di braccia, un crollare remissivo della testa, un accenno a bizantine burocratiche pastoie. Per me il tempo è come le polimerasi, con proprietà esonuclesica, che digeriscono, da un lato i nucleotidi che polimerizzano dall’altro. Io non ho tempo. Per me il tempo è una polimerasi, è un tarlo, patrimonio in precipitosa svalutazione. Il tempo che può dilatarsi o restringersi a fisarmonica, come in un sensuale tango, in una triste milonga, o iterato fado, è una preclusa distensione agostiniana dell’animo, il tempo è amore strappato, che non torna, è attesa di fiume nel deserto, uccelli senza più nido, barche di carta corrose dal mare… è il dolore di un instancabile stillicidio. Ah quanto vorrei distenderlo, il tempo, stirarlo come carta, piegarlo in barchette e aeroplani, navigarci, volarci senza peso. Però devo tornare all’università agli studi, ai dolori sui duri banchi delle aule, che non valgono cuscini ad addolcire e, ogni ora delle lezioni, altrettante ore di ascolto del corpo e mi duole il corpo, le idee, l’anima e le stelle. Eppure occorre resistere. Dopo molto tempo arreso e non computato, che l’ascensore fu sistemato e, in giorni appena bonificati, vidi un ragazzo in carrozzina che non riusciva a superare il gradino troppo alto, per l’imperfetto allineamento al piano, tutti fuggiti, gli studenti, senza pensieri, sciamati, come api alla primavera. Con uno sguardo di complicità, senza parole lo confortai, non so come l’avrei aiutato e, con l’ausilio delle stampelle e, non offese braccia, non senza fatica, fui io che lo feci uscire. Fuggiti tutti alle loro preoccupazioni, entro una sfera salva gli studenti sani. Sani in un mondo malato. Gli studenti apprestandi al giuramento di Ippocrate ed Esculapio. Che tristezza Che tristezza! A cosa servono i tests d’ingresso alla facoltà, per valutare cosa? Quali predisposizioni, quale propedeutiche qualità? Quali attitudini tecniche? Quelle per prepararsi ad aggiustare le macchine uomo? Perché, invece, non indagare la sussistenza di un basilare abitus altruistico, d’apparentamento, d’immedesimazione, d’attitudini all’ascolto predisponenti al sano approccio con il malato, sempre diverso, non alla malattia codificata e protocollata. Con piena coscienza che tutti si è, probabili pazienti, poi medici, professori, clinici, luminari e dii su questa terra, che non ha cielo. Ah! Se dio vorrà, come saprei toccarli i miei pazienti. Un giorno che ero sottoposta ad un esame strumentale, da parte di una giovane dottoressa e, il test si protraeva, un vecchio barone, a non più di 50 cm da me, che ero, con i denti appesa sopra un abisso d’apprensione, reclamando l’apparecchiatura, disse irato, alla collega “Ma la vuoi finire co’ sta’ cazzo di paziente?” Avessi avuto padronanza, non mi trovassi in quel succube disarmo, avrei dovuto replicargli “ma sto’ cazzo di barone la vuole smettere di rompere le palle”. Niente insegna la vità? C’è gente che la attraversa tutta e nulla apprende, che una volta assurta al cocuzzolo di un monte, senza averne fatta a piedi la strada, pensa che mai si dovrà discendere per tornare nel consorzio umano. Triste chi non ha mai sperimentato un dubbio, un tentennamento, una debolezza, una paura, un’ansia, una sofferenza. Sento quasi di dire grazie alla bestia che mi sbrana ogni giorno, che s’accanisce e che divora le fibre delle mie certezze, però sprona il cuore a tessere una nuova, sensibile e tenace rete di nuove risorse ed è come la polimerasi, che da un lato polimerizza e dall’altro digerisce, però forse polimerizza più che digerire. Eppure solo io lo so che continuo a ballare, dentro le coreografie del pensiero. Ho vent’anni, non so se e quando la scienza potrà riattribuirmi la leggerezza o un gentile peso. Intanto io sono qua che amo, con un cuore che forse non invecchia, sogno con un’anima che si intorbida, ma non precipita, spero con una speranza che è un grande e ostello per tutte le speranze, che distendo alle volontà della mia pervicace cocciutaggine. Intanto studio, cerco di capire, mi capisco, tengo aperte le vie che partono da me e arrivano a me, cerco quelle pervie al transito delle volontà, dei desideri, cerco di capire quali strade fanno l’uomo, che è un dio, non ancora caduto, un dio caduto e non ancora risorto, un dio avvinto al dolore. Quali leggi, ancora da comprendere, energie da slegare, tengono la trama inconsutile, fragile e fulgida nel crinale prossimo della felicità. Intanto altra per adesso non ne conosco di felicità e torno a quella che sola mi faceva felice, quando ero Laura e, per tornare Laura mi affido, senza peso, con confidenza piena alla musica, che mi libera e, con tarantolata catartica, mi scarcero, mi torco, m’indemonio, mi dispero e mi perdo ed è un perdersi per ritrovarsi, ed allora sì…si…Si…Prendimi musica, prendimi adesso, prendimi dentro, prendimi spesso; prendimi all’anima dove si sfina, quando al dolore s’inchina; prendimi da sopra, di lato o dal basso, fa che ogni affanno diventi lasso; afferrami con forza, guardami in faccia, fa che il sorriso vi ritrovi traccia; prendimi di giorno, afferrami la notte, fai che non abbia più lotte; prendimi adesso, afferrami spesso, a quest’assedio togli possesso; afferrami musica, svelenami suono, diventami amica, con intento buono; come seme d’acero, avvitami al vento; di questo tarlo, ch’è dentro il corpo e la testa, fanne acqua che fugge lesta; prendimi musica, reinventami suono, di nuova creazione fammi dono; le serpi che in seno son nodo gordiano, le districhi flauto indiano; il sangue che è grumo sassoso, la musica sciolga quasi fosse maroso; disperato tamburo, che il cuore opprimi, affama l’amarezza e ogni ingiustizia reprimi; violino con il tuo sibilo di rasoio, taglia la malinconia che attanaglia; sole che, di spine amare, nel cielo ardi, con musiche rare, mitiga le angustie, dei giorni che squarti; musiche di vento, senza periglio, siano a sera fresco giaciglio; malinconica viola che di seta intessi, nei recessi il nido amaro, fa che sia culla per il sogno raro; oboe, padrone del suono che ingrossa, prima che il giorno arrossa, cova ogni riscossa; suono di tromba o sibilo d’ottavino, come filo il palloncino, tieni l’anima che già vola; musica!..musica!..musica!...prima che giunga la pace algebrica, salvami da queste forze sovrumani, che soffocano la verità babelica, e queste dita inani, che intrecciano i fili arcani della bianca tela dei silenzi immani.

 

 

 

Premio Letterario Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, V edizione 2019, Opera terza classificata nella sezione B (Racconto breve inedito) ]

 

 


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