La bugia regge appena nella sera che
miagola fra l'ombelico flanella e la sterzata
del vento, manovrina acconciatrice che fa
dal piatto scirocco una quiche di tramontana.
Ti ho scusato nel sonno: sai quando si parla
e si trema contemporaneamente con la
bocca schiusa come il lenzuolino di bava
dal sedere della lumaca? Ti ho scusato,
aspettato, compreso, poi ho riso.
Perchè io sono una sorpresa imburrata
da contegno, io sono di merletto e di
arance, e forse sto meglio in piedi fra
i fianchi renosi di due otri nel netino
bollente, vicina di palmiformi e barcucce
sbucciate dai porti indolenti.
Io sono il pomeriggio leone dietro il
foro boario, un balconcino esplosivo,
incisivo antisismico nella struttura
ex latte. La bugia regge un nonnulla.
Si, ho provato a mettermi la tua
faccia, i tuoi glutei, perfino quel
maglione srotolato dal ferro furioso
di una macchina - nord.
Ma io non ti somiglierò mai.
Ho troppo sole nella gola,
tutto il ventre proiettato a sud,
afoso cannone, e della nebbia
ho ricordi confusi, due, tre
volte all'anno, non più.
E mi dispiace.
Mi addolora questo pomeriggio
che mi porta la verità come il
conto nella mano sudaticcia
di un cameriere ecrù.
Ho già pagato.
Io sono grido di gabbianella
e per quanto mi asciughi il
becco dal sale e a te mi
pieghi, apocrifa lavanda
senza apostoli, mando sempre
bagliori di lancette e mezzogiorno.
Ovunque mi denudi compare, macchia
sempreverde, la crosta nerastra
che mi cucirono sotto la pelle, marchio -tattoo-
targa di fabbrica deserto, encausto
al fianco sodo di una capessa bestiame.
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