Al Santo giova l’idea del paradiso fatto a piedi.
La sua fede proclama i sandali aerei. Le piante
gli urlano contro tinte a ripetizione. In me gira
voce che non propriamente il bianco sia simbolo
della purezza: non esiste, o è mera radiazione
evoluta a colore. Coltivo un sintomo di speranza
nel verde, rosso, giallo: dimmi tu quale altro
viene meglio di quegli altri che si alzano da terra
con indubbia frequenza. So che l’arcobaleno
è una prospettiva festosa dello spettro che appare
roso. Roso è dovuto alla goccia che degrada il sereno.
Il sereno fiorito nell’alba in quanto speranza? Rosa.
Rosa è delle piante che non conoscono il grigiore
e chiudono la notte il loro corsivo elegante. Insomma,
stretti fino al sole. Ma al Santo giova l’abito da sera
e sostiene da sole luna e l’altra opera della fede:
la credenza vuota. Prega che abbia un senno almeno
il satellite. Non l’estro luminescente, ma lo spirito
è un labirinto privo di segnaletica e lui,
sul precipizio dei feretri, crede nella parola
a stento quanto la campanula al verde: musica in censo.
Chiedo al ministero dei canonici, alle bugie ferrate
ed alla confraternita delle candele almeno un lumino
per il Santo Fumino di cui sopra il paradiso a venire
che non richiede altra fede oltre l’alare,
l’attizzatoio, la semplicità del cerino, il soffio
oltre il costato e la fiamma a perdifumo.
Inoltre, l’inverno è fuori di sè, geloso non più di tanto
perché dentro cova un fuoco insperato: cambiare
consonante con una effe di legno, presa
di sana pianta da una selva selvaggia e aspra
e forte, che nel pensier rinovi il vero contenuto.
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