Da dietro le tende filtra, insieme ai raggi del sole
un frullio d’anime gentili,
piccoli uccelli sfuggiti all’ala nera delle cornacchie
che dominano i cieli di Roma.
Sto immobile, timorosa di spaventarli e farli fuggire
e li prendo per un segno di speranza,
un omen inaspettato per questa fine di un decennio
doloroso, in cui quanto mai avrebbe potuto
ferire ha ferito, fuori e dentro, fuori e dentro,
con feroce precisione da serial killer.
D’altronde voi direte, quando mai manca la ferocia,
quando mai tace il digrignar di denti?
E questo anche è vero, amici miei lontani
che non ci siete mai, amici miei inesistenti, amici miei
sognati, questo anche è vero. Ma capita a volte,
a volte, dico, che il rumore si taccia.
Che da qualche profonda cavità del cuore
s’innalzi un canto, un canto melodioso, melodioso, sì,
per celebrare queste piccole rinascite
che ogni tanto arrivano in dono
dalla Natura che c’è Madre, a noi orfani,
e senza parere ogni volta dice: «ce la farai, ce la faremo
sopravvivrai, sopravvivremo:
la morte, la ferocia, è un sottoprodotto.
Occorre essere necessariamente solari.»
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