Nella calura ardente come forno crematorio
di un martedì sottratto alle noie invernali di assiderati
sets aziendali, mi libro fuori dal “mondo seduto”,
senza nessuna remora allergica,
tra gli arbusti sempreverdi della mia giovinezza,
nutrendo bulimici corvi
ridendo alle farfalle bianche d’insonnia,
alternando poesie ed integratori al lampone.
La mia assenza da Buddha smagrito
nella ricerca smarrita d’un elemosina d’amore
si materializza, elettrica, tra le braccia della tua sofferenza,
del tuo terrore d’essere inadeguata
ai conflitti logoranti d’un certificato medico reiterato.
E tu, bambina fradicia di lacrime
versate nelle notti mortuarie dei locali milanesi alla moda,
ascolti i miei canti ti addormenti, gattina feroce,
al suono aspro dei miei schiamazzi metrici,
senti i battiti dei miei tasti sulle zone erogene del tuo cervello;
dici che io, unico, ferramenta pazzo,
possiedo una copia del lucchetto arrugginito della tua anima.
Pur se smarrito, vichingo infranto su barriere coralline,
mi fingo cicatrice, deturpo, coi miei versi claudicanti
da mendicante ubriaco, la bellezza androgina dei tuoi seni,
e sgrano in selvatica solitudine questo rosario di denti,
i tuoi, che appesi al collo delle mie sconfitte, addentano,
con vorace parsimonia, i miei cento cuori.
[Riserva indiana, 2007]
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