Largo o lancia del sonno,
perla di colpo quella notte in orli;
l'Oceano albero ferreo
mutava le lucidità d'ibrido Padre-Madre
cui nulla riesce.
Porto l’origine come fuscello
e i giacenti animali fluiti
radice dal tuono a memoria,
balenato in terraferma nudo.
La porto spoglia in riti del verde,
carnatura dei convalescenti
nostri corpi divorati da vita,
fragili issatisi amanti
nell’illusione di illimpidire.
Mio domicilio scevro, sopravvento,
sprofondo sino alle reti
che l'imminente senno resuscita
senza pescare che uno stormo
identico, rivalso sguardo,
fresco ancora rivolto
a indurre in luce, fomentare
senza costa un memento
irrorato da uccelli.
Quei due lustri in fronte si fissano,
ci slegano lì ricomparsi;
si volta la bambina che non ride,
sporadica, nata da sponda,
dal fianco severo e spaiato
dal suo cetaceo abnorme e dal sale
deposto ma che tutto fu verbo,
pasto fra le sue labbra.
Gorgonia separata
dal ricordo solo ci guarda;
così in due lustri che ci annullano,
in storie d'altri pettini in giorni
scomposti e perfetti così in tempie
per lei disgiunte, per quell'acqua che ci dice
chi era o eravamo sull'Oceano
e nelle mani della trasparenza:
solo ragni lasciati nel suo cielo,
immaginato sostegno.
Le chiedo sullo sfondo se qualcuno
si trova in un disabitato canto,
se qualcuno come noi lontano
così adula, smuove emblema,
così tace specchio sofferto
la bambina separata da Oceano,
da fede nel fondo dell'istmo,
da cinture sue impulsive in natante
semplice come l'auspicio,
deluso fino alla sottratta
chimera dei suoi primi pesci;
pani rubati iniziali
sino al fato a digiuno, esaurito.
Lei non pianse, trattenne non rivelando:
d'altro canto d'altro mondo un rivo,
uno striscio di sposi in pescagioni
dove rivederla nel rimpianto, in disperata purezza;
dove lune in alghe finivano,
vascello i venti e i ventagli elenchi,
dove il mobilio d'aria fu inutile,
e un ultimo uccello appressando,
staccando collana veloce,
ci vide corsi e costretti un giorno,
chinati nel disegno esausto
a assistere in tutto quel breve
fiato di un tempo grande non riaperto,
vicendevole in persi al ritirarsi
in una macchia d'Eden bambino in fine:
non riuscire, privo del Mare.
Vattene bambina poesia
da questa lacrima alta,
colma di colpo che non scorre,
che in terra è ferma e nuda ancora
accampata fra gli scomparsi;
è un edificio disarmato, acqua,
sola e equanime a enunciare che valse,
se ora è questa noce viva e cruda e pazza
che s'apre ricreandosi liquida,
divaricando salvo almeno l'inizio,
mansione nel ricordatore sfinito:
la bambina titano e il Pacifico,
redento, lancia del sonno,
dal piede vasto al vuoto buio polposo
d'astri insistenti e dolcissimi,
telo mondato all'infinito; per lei solo
se aveva nome Opala e del mare
mordeva mela o foce la stella,
idoleggiando inconsapevolmente
le ossa, il lunatico branco,
portando di balene il tintinnabolo
fino a cantarsi sola, e assopirsi;
quante volte fra il sale e la notte
in disinvolture ultramarine
obbligarci mancate sentinelle,
come di sventurato angelo.
[ da Selva creatura leggera, Passigli Editori, finalista al Premio Marineo e vincitore del Premio Minturnae ]
QUARTA DI COPERTINA
Selva creatura leggera si muove catarticamente attraverso accavallate realtà, che tutte convergono nel vissuto come in un caleidoscopio che a volte avvicina e a volte allontana, colorando con forza o dolcemente sfumando il molteplice paesaggio che ne forma la cosmogonia. La dualità che appare subito evidente è il raffronto complesso tra il luogo reale della Selva vergine del Costa Rica (dove l’autrice ha abitato a lungo) e la selva dei ricordi originali e degli inediti simboli sorti da questa singolare e travagliata esperienza.
In queste selve perennemente osmotiche, celate e svelate da un’ancestrale alternanza di apparizioni e perdite, il tempo e la natura risuonano con tutta la loro universale potenza, nell’insanabile contrasto con una modernità che sembra condannare all’estinzione la loro inviolata bellezza.
La testimonianza di una purezza primigenia e della sua silenziosa scomparsa si esprime nei contrari precipizi di oscurità e di corporea letizia, che nei testi si alternano in sequenze fotografiche attraverso l’uso di punteggiatura e inarcatura come volano dell’espressione.
Un libro sorprendente e notevole, che fonde reale ed irreale attraverso suoni e visioni autenticati da una peculiare ricerca linguistica e ritmica, i cui versi appaiono sempre sul punto di traboccare in altri che li rammentano o li attraggono, coniugando l’attitudine onirica ed ermetica dell’autrice con la ricca polisemia delle parole e la versatilità dei concetti.