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Viaggio incolume


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Pubblicato il 08/01/2018 12:00:00

 

 

Io canto nel tuo nome perché tu

da un luogo lontano tu mi senta richiamare

– evoca lui nell’occaso ammarato – perché giunga

alla tua bocca questa goccia e una sete pendente

ci racconti il vecchio mondo, la terra

già perduta nell’essenza ma sempre solvente

inalterata perfezione. Come i versi

necessari degli uccelli, degli alberi mistici

imbevuti di foschie, con un atto

della mano sulla fronte magari potrà

provocando un sorriso con lusinghe

agghindarla, quando è tempo di partire

con parole abbracciarla, ricordando

coniugato sul suo viso come sarà

sotto i suoi piedi un cammino, le sue mani

che maneggiano fiorami e sopra le vette

una parvenza di silenzio; oh ragazza

che un enigma vai tessendo con nembi

d’inchiostro sotto il dono di stagioni, che non sai

mai terminare né iniziare, né forse sommare

al tuo precipuo cambiamento, confida

nella vita in ciò che sogni e certo un mattino

così vicino, tratteggiando il tuo profilo

mentre dormi, lei ti ammalierà

per una volta ed una ancora, e tu

dal passato saprai sorriderle.

 

 

*

 

 

Lei solleva la sua mano e gli sussurra «io

ti aiuterò in questo scricchiolio di ponte

in cui ogni passo è incerto ed ogni cielo

è come un alterno di stoltezza e di clamore»;

perché da questa notte così buona lei

ha imparato contro il male a bestemmiare,

a insegnargli ad occhi chiusi a immaginare

le poche nevralgiche illusioni come nuove,

contando nel suo sonno tutti i sogni che in corto

frangente si erigevano a fortezza; con il miele

che conosce avrà condotto lontano

le fervide utopie di storie appese

dentro al vento come abiti a seccare, o dentro

l’autunno come ali per volare, nel risveglio

solo ali per amare o per inazzurrarsi

pur restando sempre soli, altere

per raggiungere i suoi baci pertanto

disabili nei sogni che ha guardato

concedersi alla vita che ci è data. Non sarà

questo suo corpo che comprende l’avara

invenzione che ostinata ci scolora, ma

uno sguardo che accecato tutto vede e tutto

scorda eccetto ciò che è sconosciuto, che divina

tutto ciò che ha preservato per questo

presente claudicante nel suo ufficio

di morire e poi rivivere ogni giorno.

 

 

*

 

 

Lui sente come monta questo magma in notti

fuorviate ed allentate dai liquori, sotto cieli

buccellati da pianeti che gemono a fasce

sopra praterie e vivenze, l’assioma

lungo mesi inabitati e il lauto gravame

delle copule animali; lei sorpresa

sbigottita ad ascoltare il cronico e sordo

disaccordo della terra, con tutto

nei suoi pressi che respira e che lieve

s’irriga dentro un orcio necessario; i rosa

fenicotteri salpati durante

l’afflato zigrinato delle piogge, le doglie

che si odono cadere e sui legni l’arare

degli insetti senza un nome, l’armare

delle chele di scorpioni che sotto la coltre

hanno trovato un abituro, silenzio

delle nottole notturne che arieggiano

in volo questa cupida inflessione;

allora lei comprende come tutto

nel cogito esiste in una stessa dimensione,

un essere del tutto comprensivo e come

controvento l’aspra notte stia dicendo «vedi

la vita non lontano sta figliando, c’è

il suo aroma sulla costa e dentro l’aria, c’è

il suo azzardo con scintilla quasi umana, c’è

quel lezzo del melmoso alligatore che in ispidi

giorni sta ingoiando la sua preda e tutto

esiste in uno stesso movimento, in questo

inane inamidato spaziotempo, l’hai

sentito appena fuori dalla porta da sempre

socchiusa su un enclave o solo soglia

di un asserto scaturito dal futuro.»

 

 

[ da Viaggio incolume, Passigli Editori ]

 


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