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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

Capitolo I

di Linda Amelia De Pandis 

Proposta di Maria Musik »

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Pubblicato il 24/08/2008 18:58:07

Introduzione.
Questo è il capitolo I di un libro mai finito. Il racconto (presumibilmente scritto intorno al 1977) è autobiografico anche se, data la sua naturale riservatezza, l'autrice cambiò tutti i nomi dei personaggi.
Ve lo propongo, come pubblicazione postuma ed in versione "non corretta", per ricordarla a sei mesi dalla sua morte.

<<Per chi ne ignori l’ubicazione non è facile identificare la casa di cura “Villa Valeria” fra gli edifici circostanti, una serie di palazzi dall’anonima funzionalità che suggeriscono immagini di borghese benessere e di cauta opulenza.
Simili gli uni agli altri, avviluppati nella obbligata cornice di verde, fiancheggiano strade stranamente silenziose percorse da adolescenti che scompaiono entro gonne fluttuanti e da signore filiformi ed esangui che ostentano pantaloni falsamente scoloriti incollati ai fianchi smilzi. Le une e le altre portano in giro la loro annoiata malinconia facendosi trascinare con elegante noncuranza da grossi cani decorativi.
Uomini giovani e meno giovani (non esistono vecchi nei quartieri-bene!) tutti chiusi, come in una divisa, nei loro giubbetti di renna o di vitello si dirigono rapidi verso le automobili aggrappate ai margini dei marciapiedi meno esigui o prepotentemente arrampicate su quelli strettissimi, quasi simbolici, dove due persone non possono passare contemporaneamente senza infastidirsi cosicché chi è costretto a scendere getta sull’altro fredde e rapide occhiate di educata sopportazione.
Poco distante, sull’arteria principale si ritrova la Roma consueta, arrogante e rumorosa, tormentata da un traffico inquinante e caotico, ma intorno a “Villa Valeria” aleggia la rassicurante tranquillità che è legittimo attendersi nei pressi di una quotata clinica di lusso.
Davanti all’alta porta a vetri, intenzionalmente costruita in modo da suggerire l’idea dell’albergo più che quella di un luogo di dolore, Anna indugia un poco: fissa, senza leggerlo, il prestigioso nome della clinica in lettere dorate mentre la mano si contrae sulla maniglia cesellata e nella mente si fa strada l’idea di un rapido dietro-front.
Varcata la porta, infatti, dopo un prevedibile rituale, verrà il momento della verità ed Anna potrà sapere se il verdetto di morte pronunciato due giorni prima per sua madre sia veridico ed entro quali limiti di tempo la sentenza debba avere il suo compimento.
Mai, prima d’ora, la donna aveva sperimentato l’orrore che contraddistingue la verità quando essa non è – come siamo soliti pensare – forza liberatrice, ma si pone quale suggello definitivo di una situazione umana.
Se, (ed Anna oscuramente lo teme) risuoneranno ancora una volta le parole che le sono state gettate in faccia dal radiologo “neoplasia… probabile metastasi”, se non c’è stato errore nella diagnosi del luminare frettolosamente raggiunto mediante calde sollecitazioni d’un amico medico, se, dunque, l’opacità del polmone sinistro di sua madre rivelata dalle lastre ha una sola, infausta interpretazione, cominceranno ore, giorni di menzogna e tutti - i suoi fratelli, gli altri familiari, gli amici, i medici, lei stessa - saranno irretiti in un gioco pietoso e crudele insieme.
No… meglio, per Anna, lasciare il diaframma della vetrata tra sé e la verità, meglio, molto meglio arrestarsi finché si è in tempo, abbandonare le luci dell’atrio per rifugiarsi nella penombra del dubbio.
È decisa: non strapperà l’ultimo velo, anzi vi si avvolgerà come un nascituro nella placenta materna.
Ecco: ora si girerà, correrà verso la macchina e sarà salva.
Ma nell’automobile c’è lei, Marta, che attende fiduciosa accanto a Claudio, il figlio minore.
Anna ne intuisce il trepido sguardo e ne scorge le spalle una volta femminilmente opulente, ora fragili e ricurve.
Da alcuni giorni, per difendersi dal dolore che non offre tregua, Marta si rannicchia su se stessa ed appare ai figli stranamente vecchia e fragile, ma bastano un motivo di interesse o qualche attimo di respiro che le rughe si spianano e brilla negli occhi la luce di una vitalità irriducibile, di un antico, malizioso compatimento per gli inutili affanni di una generazione che ha perso il senso delle radici profonde che legano l’uomo alle cose che contano.
Anna ama sua madre così com’è, con le brevi collere improvvise e con gli slanci imprevedibili, la ama quando espone le rapide intuizioni sul mondo contemporaneo o cita vecchi proverbi ereditati da una nonna favolosa vissuta a cavallo tra l’800 ed il ‘900, proverbi che sanno di erbe selvatiche e di camini fumosi, che evocano l’immagine di una famiglia patriarcale legata ancora all’essenzialità del pane, del fuoco, della preghiera.
Perché lei possa sorridere ancora bisogna tentare ed Anna spinge la porta, entra e si dirige verso il bureau. L’impiegata conferma che il professor Lavia è già in clinica, controlla l’appuntamento, dà le indicazioni necessarie per raggiungere l’avveniristico reparto di medicina nucleare.
Intanto Marta è scesa dall’automobile appoggiandosi al figlio: sale faticosamente i gradine ed entra. Siede su una poltroncina di pelle per riprendere fiato e valuta con un’occhiata quanto la circonda: i salotti dalle tinte calde e delicate sparsi nel salone, i fastosi lampadari, i quadri e le statue che adornano i vari ambienti:
Anna sa che Marta si preoccuperà per la parcella del professore e cerca di dirottarne i pensieri in altra direzione. Claudio asseconda la sorella e sorregge la madre parlandole sottovoce, con il consueto tono pacato che piace tanto a Marta, orgogliosa della naturale eleganza di questo figlio dall’ombrosa sensibilità, che sa farla sorridere con il suo umorismo misurato e gradevole e riesce ad intenerirla con gesti d’insospettata affettuosità.
Del resto, per Marta i figli sono le cifre all’attivo di una vita tormentata e densa di lavoro: pensa sempre a loro con compiacimento, cosa che non le impedisce di allarmarsi quando vede affrettarsi verso l’ascensore il secondogenito, Livio, che le sorride.
“Anche tu?” chiede, ma Livio le dice, con apparente noncuranza, che è uscito dall’ufficio per espletare alcuni incarichi e ne ha approfittato per raggiungerla.
La falsa serenità sembra placare i timori di Marta ed il gruppetto familiare si ritrova nel sottosuolo, davanti all’efficiente segretaria del professor Lavia che li invita a fornire i dati relativi alla paziente per le schede destinate al cervello elettronico del centro medico.
Anna ha paura che possa crollare il castello di precauzioni costruito intorno alla madre perché non intuisca la vera natura del reparto.
Scruta preoccupata la segretaria di Lavia: per telefono le era sembrata umanamente partecipe del problema di nascondere alla malata la reale situazione, ma ora non è possibile avvertire altro che la burocratica ineccepibilità e la formale cortesia di cui la donna si cinge come di una corazza per difendersi dall’urto quotidiano con la sofferenza.
Anna decide, perciò, di non correre rischi e conduce la madre nella seconda sala d’attesa, lontana dalla segreteria. Mentre Claudio e Livio chiedono e danno le informazioni necessarie, cerca disperatamente d’intavolare con Marta una qualsiasi conversazione perché non senta i dialoghi che si svolgono intorno a lei fra i frequentatori abituali del centro.
“ Vado a chiedere se c’è molto da aspettare” dice, come colta da improvvisa insofferenza e fa scivolare fra le mani della segretaria la lettera indirizzata dal medico curante al professore perché possa leggerla prima della visita.
Torna accanto alla madre.
“Che organizzazione!” esclama con finta ammirazione.
“Così pare. Speriamo...” replica Marta nel cui animo i preliminari non mancano di suscitare apprensione. Mentre si sforza di rispondere a tono alla madre – “Stanno preparando la pratica… il professore è in visita ai reparti, hanno detto, ma scenderà da un momento all’altro…” - i pensieri si sovrappongono, le paure vecchie e nuove si sommano.
“Non è vero” – grida una voce dentro di lei – “non è vero… hanno sbagliato… non è un tumore e se lo è non può essere incurabile… Mio Dio, ci deve essere qualcosa da fare, fai che si siano sbagliati…”.>>

N.B. Il libro non fu mai finito perchè i medici non si erano sbagliati.

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