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Maschere Rituali / 1

Argomento: Antropologia

Saggio di Giorgio Mancinelli (Biografia)

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Pubblicato il 19/03/2017 05:39:22

MASCHERE RITUALI / 1

“O terribile, o indifferente!
La tua musica,
voce senza suono,
è fluire privo di meta:
ascolti nel tuo essere il richiamo
d’una infinita distanza.
O danzatore, o divinità,
o bello invisibile,
la Tua danza gentile, sempre a tempo
ha purificato la vita dell’Universo
in un bagno di morte.
Nessuno lo sa, ma nel tuo sangue
danzano le onde dell’Oceano,
palpita l’ansietà della foresta.
Nella tua mente fioriscono
sublimi visioni:
sono venuto avanti di secolo in secolo
di caduta in caduta, in silenzio
da forma a forma
una vita dopo l’altra:
dalle tenebre abissali,
alla luce senza confini.” (‘Moto’ di R. Tagore)

Non ho trovato di meglio dell’eccelso Tagore per introdurre questo studio dei ‘moti’ che caratterizzano l’iconografia popolare all’interno dei cicli storici umani e nella loro funzione di ‘dottrine tradizionali’. In quanto ‘darsana’ (dal sanscrito ‘vedere’), cioè quei simboli che riassumono numerosi significati della grande Tradizione Universale, qui ripresa nella sua accezione di ‘ciò che si rivela’, la Tradizione può essere concettualmente ‘vista’, non senza limitarne l’essenza, come “manifestazione della conoscenza dell’uomo attraverso l’uomo stesso”. Cioè, nella sua totale adesione alla coscienza umana costituita che la rende comprensibile e quindi comunicabile attraverso la realizzazione di simboli che sono di per sé strumenti di linguaggio comunicativo che oltrepassa il tempo e lo spazio, e che quindi attraversa le coscienze e le generazioni.

“La conoscenza tradizionale però – scrive Mauro Minervini dalle pagine di ‘Storia del Simbolo’ (Accademia 1969) – è paragonabile a un organismo vivente: di questo, infatti, è possibile la descrizione strutturale che consente la sua espressione vitale, ed eventualmente, la sua modificazione e riproduzione. (..) Nasce così, la necessità di un linguaggio (altro) che consenta il ‘trasferimento’ di questo ‘corpo simbiotico’ all’interno della forma del ‘comunicare’, cioè di ‘oggettivare’ una sorta di consapevolezza che non sia solo strumento operativo, ma che renda visibile il nucleo di una presa di coscienza, la ‘consapevolezza’.che la conoscenza assoluta di per sé, non è sapere, bensì dimensione di evoluzione e sperimentazione.”

«L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità.» (Oscar Wilde)

Tutti o quasi, abbiamo speirmentato oggigiorno quanto sia relativamente aumentato l’interesse nel viaggiare a testimonianza di un sempre maggiore interesse di conoscenza delle civiltà diverse dalla nostra e, in particolare, di ciò che ancora sopravvive di molte civiltà più antiche che giorno dopo giorno vanno scomparendo. Molti sono i segni dell’attualità di questi interessi soprattutto fra i più giovani che in qualche modo impreziosiscono l’apparente curiosità culturale, che va dalla storiografia dei popoli, alla filosofia orientale, alle religioni delle origini, fino alle lingue scomparse ecc.; non di meno all’attenzione per le scoperte archeologiche, la ricerca della musica e degli strumenti del passato, delle usanze e dei costumi dei gruppi etnici ‘primitivi’ dediti alla pastorizia e al nomadismo.

Sempre più numerosi sono infatti gli studi relativi alla etnomusicologia, legata come si sa ai riti e alle tradizioni arcaiche di quei popoli tanto diversi da noi europei, soprattutto nell’uso apotropaico della voce e della musica legata ai ‘riti di passaggio’, al travestimento rituale, all’uso delle maschere, alla cosmesi utilizzata nella body-art e nel tatuaggio. Una ricerca-studio quest’ultimo che si è rivelato vivo e affascinante e che è divenuto di grande attualità. Direi che oggi l’interesse è maggioritario, essendosi definitivamente sdoganato dai lacci del passato, ancor più uscendo fuori dalla ristretta cerchia degli studiosi, e permettendo infine di far conoscere a un più vasto pubblico di cultori, tutto quello che la ricerca antropologica e quella etnologica, avevano fin qui trascurato.

«Nascondi chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.( W.Shakespeare ‘Macbeth’: atto III, scena II)

Una ricerca di più ampia comunicazione culturale, quindi, che ci permette oggi di comprendere, il ‘modo’ di essere e di esprimersi di quei popoli erroneamente ritenuti ‘primitivi’ – in particolare riferito a quei popoli di cultura orale – che non hanno lasciato scritti o manufatti che solo relativamente a pochissimi oggetti sono giunti fino a noi. È evidente , poiché ogni forma espressiva è sempre stata in diretto rapporto con la vita sociale, in ogni tempo e paese, che questa ricerca vuole porre all’attenzione solo alcuni aspetti di alcune società più arcaiche, nel rispetto delle rispettive culture a cui si è chiamati a partecipare.

È proprio nella prospettiva di un linguaggio accomunante che questa ricerca assume una più ampia dimensione, uscendo allo scoperto di un programma precostituito per diventare essa stessa sollecitazione, riflessione e stimolazione di una maggiore conoscenza, che va dalla poesia alla musica, dalla pittura alla decorazione, all’abbigliamento e alla cura e agli ornamenti del volto (mascheramento) e del corpo (tattoo). All’aprirsi degli spazi convenzionali della musica come ricordo e percezione, il linguaggio come forma di comunicazione, il ‘messaggio’ come veicolo di scambio e di comprensione.

“Va con se che non esiste modulo comunicativo che descrivendo la vita dia la vita –scrive ancora Mauro Minervini nella sua opera citata – perché comunicare è propriamente oggettivare, quindi separare, dividere, porre un elemento di osservazione alla coscienza che è quindi strumento-funzione diversa dall’osservare/applicare con metodologia, ogni epistemologia, ogni ermeneutica. (..) È assolutamente indispensabile che ciò sia stato sperimentato dal passaggio ‘iniziatico’ a stadi progressivamente evolutivi attraverso il mondo dell’io e possiede la certezza che si tratta di un processo squisitamente educativo, di rimozione delle false identità e di emergenza rigeneratrice. In termini tradizionali, solo chi hsa sperimentato la ‘rinascita’ può ‘socraticamente’ operare l’atto rigenerativo”.

Lo studio della ‘maschera’ e della sua diversa utilizzazione porta inevitabilmente a una analisi della personalità dell’individuo e dei problemi atavici che si porta dietro in ogni sua manifestazione sia rituale, che teatrale ecc. . Quegli stessi problemi che Ernesto De Martino – nel suo ‘Il Mondo Magico’ – definisce “ancestrali incertezze” che danno luogo al dramma della ‘crisi della presenza’, riconducibile all’Età Magica. Un’Età in cui l’uomo subì il rischio di essere annuillato dalle forze naturali, in quanto incommensurabili e incontrollabili. Quello stewsso dramma che si presenta ricco di stimoli e di tensioni soprattutto nelle espressioni pittografiche e scultoree che dal passato sono rappresentate in costante evoluzione, tali da poter essere equiparate “.. in termini tradizionali” a forme di ‘rinascita’ in cui operare “l’atto rigenerativo”.

Il tema dell’uso della ‘maschera’ è di fatto uno dei più interessanti nello studio dell’antropologia culturale anche se, nella civiltà moderna ha perduto molto del suo significato originario. Rispetto all'antropologia culturale l'etnologia ha tradizionalmente fatto un maggior utilizzo della comparazione tra le diverse culture delle popolazioni attualmente esistenti nel mondo. Per quanto, come rileva Franco Monti (…..): “Come travestimento psicologico la maschera è sempre attuale e i suoi molteplici usi investono ogni attività dell’uomo di ogni epoca, dalla nascita alla morte.”

«Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.» (L.Pirandello, ‘Uno, nessuno centomila’)

Nella sua identificazione con le forze universali, siano esse divine o demoniache, la maschera rende più incerti i confini che separano l’essere umano dalla natura o dall’animale che rappresenta, così come dallo spirito che si trova a perpetuare e che la rende simile alla divinità. Nell’ordine iconografico individuale che la distingue la ‘maschera’ non descrive figurativamente l’essere che la teme, che combatte o che muore, bensì è essa stessa il ‘timore’, la ‘guerra’, la ‘morte’ senza trasgredire, o almeno non necessariamente, il soprannaturale di chi la indossa.

Il suo compito peculiare è di rappresentare l’essere mitico: eroi o antenati tribali, spiriti del male o spiriti protettori, o anche la divinità, pertanto chi ha la facoltà di costuirla oggettivamente o la disegna sulla sabbia, o chi la raffigura plasmandola nell’argilla o nel legno ecc. al pari di chi la indossa, subisce un’alterazione della personalità che lo esalta nella sua funzione: una presa di coscienza alterata che scaturisce nella determinante affermazione: “io non sono più io, sono un altro”, comunque “diverso da ciò che in realtà io sono”.

Per quanto portatore o attore, colui che fabbrica la maschera, o più semplicemente la indossi, pur essendo cosciente di non incarnare ciò che appare alla vista altrui, tuttavia rientra nella sfera del sacro e se ne sente responsabilmente partecipe, subisce cioè una metamorfosi interiore che ha del soprannaturale. In qualità di intermediario tra l’essere umano e la divinità superiore (o anche la sola diversità) che rappresenta, questi parla una lingua complessa, spesso simbolica, di cui solo gli ‘iniziati’ riescono a comprendere il messaggio che nella sua funzione ‘altra’ essa trasmette. La sua appartenenza rientra in una diversa sfera di percezione che lo mette in contatto con le forze misteriose che regolano l’universo ancestrale, primigenio.

Ne è un esempio la credenza raccolta fra i Papua delle Isole Kiwai (K-Way) in Nuova Guinea dove: “..i fanciulli e le donne in giovane età credono fermamente che gli attori mascherati per l’occasione del culto dei defunti, siano realmente gli spiriti dei defunti. Gli anziani della tribù fanno tutto il possibile per raffozzarli in questa credenza raccontando loro anche menzogne travestite da narrazioni di leggende e fiabe. Resta però il fatto che gli stessi anziani prendono molto sul serio quello che a prima vista sembrerebbe un gioco infantile, affermano che gli attori non sono gli spiriti dei defunti, sebbene i loro spiriti siano presenti alla cerimonia.”

All’origine di qualsiasi mascheramento sta dunque la determinata necessità per l’essere umano il sentirsi partecipe delle forze soprannaturali che animano il mondo e di poter collaborare, in qualche modo, con esse; sfruttarle e sublimare così le proprie facoltà istintive in grado di stimolare e/o sollecitare funzioni necessarie alla sua sopravvivenza, cioè mitigare e/o superare proprio quelle paure profonde implicite della sua presa di coscienza. Va anche detto che la ‘maschera’ implica un alto livello di autosuggestione che permette, a chi la indossa, di esternare una qualche virtù segreta in grado di trasmettere agli iniziati di un intero gruppo etnico, il particolare messaggio che essa ‘simbolicamente’ custodisce.

Si spiega così il perché le maschere abbiano tutte un’espressione e un aspetto diverso per ogni occasione rituale. Addirittura alcuni popoli hanno improntato la loro vita sociale e politica su rituali magici che regolano la propria esistenza, rappresentati spesso da una o più maschere presenti nella propria cultura. Molte delle quali, utilizzate da quei popoli allo stato di natura, raramente hanno solo funzioni decorative; più spesso sono legate a rituali che accompagnano le diverse manifestazioni sociali relegate al culto degli antenati, alla diffusione della propria esistenza di gruppo, ad avvenimenti particolari, ed accompagnati da musica e danze, o anche, ma più raramente da canti.

Ne sono alcuni esempi rituali ‘eclatanti’ spesso inaccessibili per la coercizione che esercitano sugli individui che vi prendono parte, con effetto di autosuggestione talvolta violenta, come il Voudou haitiano e la Macumba brasiliana ed altri di tipo impositivo che tuttora avvngono in alcune parti dell’Africa con effetti devastanti sulla psiche degli individui. È soprattutto nei riti di iniziazione che l’autosuggestione occupa una posizione predominante, codificata in una iconografia che vede nella ‘maschera’ e negli ‘strumenti magici’, come anche nel particolare utilizzo di trucchi cosmetici e totem fatti oggetto di sottomissione, con riti sacrificali e danze devozionali che rendono l’insieme coreografico una stupenda e spesso orrenda atmosfera soprannaturale.

Data l’essenza ’magica’ del rito anche il travestimento in ‘maschera’ richiede di dover osservare alcune regole precise e atti rituali inderogabili, per lo più, autorizzati dai capi riconosciuti della tribù di appartenenza e dagli stregoni che solitamente presiedono all’investitura dei neofiti, e sopraintendono a ogni rituale in cui la maschera faccia la sua apparizione. Ogni maschera, quindi, instaura un rapporto preciso con l’uso al quale è destinata e va osservata sul piano socio-culturale epsicologico ancor prima che di travestimento a scopo d’intrattenimento festivaliero.

Rileva Giovanni Vignola nel suo “Riti magici di ieri e di oggi”: “Quando lo stregone o gli officianti di un qualunque rito magico si accingono all’esecuzione del rito stesso, si presentano sempre dipinti o mascherati. Il fenomeno è altresì verificabile presso tutte le cerimonie reliose a qualunque rito o credenza esse appartengano. Se l’officiante , il sacerdote, lo sciamano, il bonzo, il muezzin o il pastore (cristiano), non avessero uno o più segni distintivi che li rendono diversi dagli altri e che li fanno idonei alla funzione che sono chiamati a svolgere; cioè che li autorizzano e li abilitano a farsi intermediari fra due mondi diversi, la cerimonia (il rito, la funzione ecc.) non soltanto cadrebbe nel ridicolo ma perderebbe la sua intrinseca efficacia.”

Astraendoci da una precisa locazione geografica, la ‘maschera compare nella storia del genere umano fin da epoche remote, messa in diretto rapporto tra l’esigenza magico-religiosa e il vivere quotidiano in quella che possiamo definire una ricerca di evasione propria delle diverse esperienze esistenziali dei gruppi, e comunque nell’identificazione con le forze della natura e nei connubi uomo-animale e uomo-divinità, offrendo loro l’opportunità del riconoscimento e/o del completamento dello spirito che in essa è contenuta. In effetti la prima impressione che una ‘maschera’ suggerisce è che dietro e/o dentro di essa non si nasconda un essere umano come tutti gli altri, provvisto di naso, di occhi, di bocca ecc. ma una creatura quantomeno ‘diversa’, fantastica o mostruosamente suggestiva ma anche, in quanto immagine di estrema ‘bellezza’ artistica che ci riempie di curiosità ma anche di timore.

Scrive Paolo Rovesti nel suo voluminoso studio sulla “Cosmesi dei popoli primitivi” e sui “Cosmetici perduti” in cui si apprende come, sul filo di tradizioni ancestrali: “Ogni popolazione nelle diverse parti del mondo, ha sempre sentito un insopprimibile bisogno di bellezza considerando il proprio corpo quale supporto di costante creazione artistica, come appunto accade nell’odierna riscoperta della cosmesi come la body-art e il tatuaggio spesso conformi all’uso della maschera che, a sua detta, devono tener conto della ricerca etnologica se non vuole perdere il senso del suo valore estetico.”

L’osservazione trova conferma anche nel Vignola (op.cit.) che dice: “Si può studiare il tipo di civiltà o un periodo della civiltà stessa attraverso la produzione e l’uso delle maschere, come si fa per la produzione di utensili, vasi, pitture, incisioni ecc.; poiché questo studio ci mette a contatto diretto con la vera, l’intima immagine del mondo.” A questo proposito è sufficiente accennare al passaggio della ‘maschera’ di tipo apotropaico o sacro-rituale di ieri, alla maschera tragica e/o comica del teatro antico, a quella carnevalesca, caricaturale ecanzonatoria di oggi, per comprendere che c’è stata una dissacrazione del soggetto, un certo dissolvimento del significato originario che la ‘maschera’ rappresentava.

Col passare dei secoli si è persa molta della ritualità che la sosteneva ad esempio nei culti mortuari di alcune religioni in cui la ‘maschera’ era legata a quel mondo estremo e sotterraneo degli spiriti, e più alto in quello del soprannaturale, la cui funzione principale era quella di creare una sorta di ‘contatto’ con l’al di là. Infatti, nel suo significato arcaico, la ‘maschera’ rappresentava di solito un antenato o un eroe, il totem tribale o lo spirito delle entità naturali come la Terra, la Pioggia, il Sole ecc. che, nel caso della ‘morte’ assumeva una necessaria ‘trasformazione unificatrice’ tra l’individuo manifestante e lo spirito del defunto. Una sintesi dell’invisibile che si trasfondeva nel visibile oggettivo, come, ad esempio, avveniva in Quetzalcoatl degli Aztechi o in Amon-Ra il sole degli Egizi, realizzazione di una delle più grandi aspirazioni umane di avvicinarsi alla divinità.

F. Otto in (…) rileva come “..l’uomo che porta ritualmente la maschera subisce l’impressione della grandezza e della dignità di coloro che non esistono più. Egli è se stesso ma allo stesso tempo è altro. L’ha sfiorato la follia, qualcosa del dio furente, qualcosa di quello spirito dell’esistenza doppia che vive nella maschera. È lo spirito del divino morto che ritorna, ma non come larva, come ombra, come spettro, come potenza.” E che il morto entri come tale nel regno ‘vivente’ del divino lo confermano le tombe preistoriche dove sono stati trovati scheletri dipinti con ocra rossa che è poi il colore riconosciuto delle divinità in quasi tutte le religioni, come anche di quella cristiana.

A conferma di ciò se ne trovano notizie presso le popolazioni più antiche egizie e greche, etrusche e romane dell’Italia arcaica, parallelamente a quelle orientali cinesi e giapponesi che spesso hanno fatto uso della ‘maschera funeraria’ in occasioni rituali e religiose, allo scopo precipuo di essere guidati nell’al di là mantenendo intatta la visibilità dei propri lineamenti e la ‘bellezza’ che li distingueva durante il primo fatidico incontro con la divinità che l’accoglieva fra le proprie braccia e nelle solitudini dei paradisi celesti:

“Poche cose nella vita hanno un carattere di eternità quanto la bellezza con la sua perenne armonia” – scriveva a sua volta un saggio confuciano, constatando con ciò che l’esigenza estetica nasce come istinto cosciente verso l’armonia, di dare un aspetto e una forma migliore alle cose, di disporle a proprio gusto e piacimento nella ricerca di quel mondo che già vive dentro di sé e nella propria natura di essere.”

«La nostra paura più profonda
non è di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda,
è di essere potenti oltre ogni limite.
E’ la nostra luce, non la nostra ombra,
a spaventarci di più.
Ci domandiamo: ” Chi sono io per essere brillante, pieno di talento, favoloso? ”
In realtà chi sei tu per NON esserlo?
Siamo figli di Dio.
Il nostro giocare in piccolo,
non serve al mondo.
Non c’è nulla di illuminato
nello sminuire se stessi cosicchè gli altri
non si sentano insicuri intorno a noi.
Siamo tutti nati per risplendere,
come fanno i bambini.
Siamo nati per rendere manifesta
la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non solo in alcuni di noi:
è in ognuno di noi.
E quando permettiamo alla nostra luce
di risplendere, inconsapevolmente diamo
agli altri la possibilità di fare lo stesso.
E quando ci liberiamo dalle nostre paure,
la nostra presenza
automaticamente libera gli altri.» (Nelson Mandela)

(Continua)

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