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Un segreto ancora

Poesia

Bachi Dardani
Edizioni Melangolo

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 27/01/2017 12:00:00

 

L'esistenza come luogo di smarrimento e perdita, nella sensazione di sentirsi superati tra le dinamiche di un presente imposto (dunque non nostro) e mancanze di un mondo che affonda nella ordinarietà di giorni sempre uguali perché senza orizzonti, è questa la linea dove si muove la poesia di Bachi Dardani, trentenne genovese che vive ormai da tempo a Milano. Eppure, e non potrebbe essere diversamente per le dinamiche interne che la agitano, è una poesia ascrivibile alla luce nel filtro di uno sguardo e di un anima proteso comunque ad una riconoscibilità di orme e di forme a dire delle cose e degli esseri la reciproca unità. Poesia allora non della solitudine ma della condizione , di un temperamento che dipartendo da uno stato di trattenimento fa della propria oscurità ("Lo so che non ha senso disperare,/che è certo") scandaglio, motivo e luogo di una presenza a preservare in qualche modo "quel poco di vero, d'umano" ("dinosauro ruvido e ferito/ che all'alba estingue" e che alla sera nemmeno più reagisce) in noi ancora identificabile. L'affondo allora è nel buio, nella monotonia di giornate come detto connotate dall'odio e dal rancore cieco di città e civiltà in rovina, da teste piegate nel fango di un notte che sempre sopravanza (in cui il cielo è solo possibile sfiorarlo), di un lavoro dominato da dinamiche che non ci contemplano se non nei circuiti di procedimenti che azzerano, di schermi che divorano ogni legame- senza il tempo nemmeno per domandarsi se tutto ciò nella nausea che "umilia e morde" non sia "un miraggio" alla propria morte (tra scadenze e propositi, tra massificazioni e idolatrie lo spreco della vita).Il rischio di cui Dardani è ben consapevole é, nella consuetudine ed oscenità dei desideri, il rifiuto che porta allo spegnimento , dunque al gioco riuscito del demone cui tenta la contrapposizione di una dignità vigilata, ostinatamente nell'esercizio del dolore perseguita, nel segreto che ancora chiama a viverlo pur nella resistenza di sillabe stentate nell'incubo che tutto possa finire. E che lo spinge oltre la finestra, oltre lo sguardo sulla città visto dall'alto e di "andare là fuori nel mondo". Qui tocchiamo le ascendenze poetiche di Dardani che a noi paiono quella di una certa linea ligure che procede ben al di là dei natali; parliamo di un Montale ( il cui "Mediterraneo" in parte ritroviamo in "Risacca") e della sua vita al cinque per cento e di Sbarbaro soprattutto nei motivi e negli andamenti quasi ovattati nel giro del pensiero, stordito a tratti tra notti e forme informi entro un sonno che non sa se vincersi nella speranza del sogno. Così è un dialogo antico quello di Dardani, per certi versi (ma non sempre) vicino ad un novecentismo che lo libera nel canto (in particolar modo nella sezione d'apertura I miei segreti) e poi nei testi a seguire, entro una difficoltà di parola segnata appunto da uno sforzo etico di resistenza al magma che proprio all'inespressione volge (l'alternanza è infatti tutta in un versificare tra lirismo puro e andamento prosastico del dettato), da una memoria, ancora, che si fa forte delle generazioni che ci hanno preceduto (dei genitori e quelle della guerra ad esempio nei racconti dei nonni) e dell'amore ragione e spinta di vita (lui "nato solo/per il solo destino d'uomo solo") a rinfervorare e a indicare "in fiori come splendono le notti". Nella sostanza però non potendo uscire da un tempo che "non corrisponde più niente al suo niente", nel pantano di un'abitudine a vivere "segregati in aiuole/ di plastica, involucri in vetro" (in cui tutto pare già perso e lui non esserci comunque nel disgusto di sfide che si tramutano nella metafora di una fine che uno ad uno prende tutti nelle sue gole), pure qualcosa può aprirsi, un'aria fresca che viene forse da lontane dimenticanze che ci raggiungono, nella custodia e nella cura che viene da un 'educazione che ognuno dovrebbe avere alla cultura e all'arte, a illuminare il cuore e dare un nuovo suono al mondo coperto dalle croste di un silenzio rabbioso. Il giorno può vincersi a un nuovo senso che non sia solo nella spenta conclusione di chi con vanità esercita il potere, o nella compassione come da corsia dove tutto finisce ma compiersi anche come nel lontano esistere del mare che fonde e rifonde i propri frammenti, le cose, gli oggetti, le creature che si caricano e si mischiano, a uscire nell'aroma e polpa dovuta ("Estate"); nell'assentire insomma al valore di una vita che sempre riprende nel giro "che tutto ci muta e ci passa" ("I fiori"). In questo invito, sull'esempio di una scogliera che tenacemente resiste agli assalti, nell'esortazione finale a non perdersi nella "inquietante solitudine d'intorno" per cercare di ricucire dai "tratti/turbati" una "storia/stenta infranta", si conclude un libro ancora nella piena del proprio tormento ma orgogliosamente libero nelle consapevolezze delle proprie ferite. In questo il suo autore allora già esattamente uomo.

 


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