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Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

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Du côté de chez Swann

Romanzo

Marcel Proust (Biografia)
LaRecherche.it

Recensione di Anna Maria Vanalesti
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Pubblicato il 14/11/2013 12:00:00

 

[ 14 novembre 1913 - 14 novembre 2013, cento anni dalla prima pubblicazione con l'editore francese Grasset di Du côté de chez Swann ]

 

Iniziando la lettura del primo libro della Recherche dobbiamo essere consapevoli che stiamo entrando in una cattedrale, la prima forse che la letteratura del Novecento ha visto innalzare, splendida e misteriosa, solenne e altissima, in nulla inferiore alle grandi cattedrali dell’architettura medioevale europea. Ne parlò Luc Fraisse nel suo saggio L’Oeuvre cathédrale (Paris 1990) e lo stesso Proust dice nelle ultime pagine del Temps retrouvé, che uno scrittore che volesse scrivere un’opera sull’idea del tempo, dovrebbe prepararla “minutieusement.….le costruire comme une église” Dobbiamo quindi entrarvi da iniziati, spogliandoci di ogni pregiudizio critico, riconoscendo religiosamente che questo capolavoro non ha precedenti e non ha epigoni. Ognuno di noi pronunci dunque la frase di rito “Odi profanum vulgus et arceo” e si incammini in questo tempio della parola, che ha fatto crollare le fondamenta del romanzo tradizionale e ha destabilizzato tutte le regole e i canoni della narrativa. Qui domina sovrano il tempo, unico protagonista di un infinito racconto che ha, come solo strumento, la memoria e come oggetto centrale di studio il cuore dell’uomo. La mappa da seguire per percorrere il tracciato interno di questa cattedrale è piuttosto complicata, un intrico di figure che si sovrappongono in ogni persona che incontriamo, una trama invisibile di situazioni reali e immaginarie che si intrecciano di continuo, sotto lo sguardo indagatore di chi scrive, simile ad un navigatore solitario per un oceano senza confini. Come osservò Carlo Bo nella sua illuminante prefazione al primo volume dell’opera proustiana, nell’edizione dei Meridiani, Marcel “partito per raccontare le esperienze della propria vita, si è trovato a poco a poco a investire altri domini e a trasformare la realtà in una filosofia dell’esistenza”. Non era privo di bagaglio nell’intraprendere quel viaggio in mare aperto, aveva con sé le sue letture, l’inattaccabile tradizione del romanzo naturalista, la conoscenza del mondo dell’arte pittorica, specialmente attraverso la frequentazione di Ruskin, il critico d’arte inglese che per un lungo periodo Proust considerò suo maestro, dopo aver letto il libro di Robert La Sizeranne Ruskin et la religion de la Beauté. Sentiva di poter condividere il concetto espresso da Ruskin della bellezza come entità a se stante, essendo un assetato di valori assoluti e nella prefazione alla Bible d’Amiens, di cui fece nel 1904 una splendida versione, mostrò tutta la sua approvazione di quella teoria. Ma ciò durò solo fino a quando si rese conto che Ruskin, apparentemente oppositore degli esteti, era lui stesso un esteta, anzi un idolatra, pronto a sottomettere l’etica all’estetica. Proust, dotato di una sensibilità raffinatissima, che certo gli proveniva dalla sua diversità, si preparò attraverso una ricca esperienza di letture, al suo grande lavoro. Il metodo della lettura, le “giornate di lettura”, come egli stesso le descrive, furono già la prefigurazione del suo modo di raccontare e del suo stile di narratore. Quella tendenza a distaccarsi da tutto e da tutti, quando leggeva, quella capacità di uscire dal flusso degli avvenimenti circostanti, per vivere in un mondo e in un clima chiusi nella profondità del suo animo, quella trasformazione continua che operava della nozione di realtà, erano già i sintomi di quella che sarebbe stata la sua febbre di scrittore proiettato a far rientrare nelle pagine di un’opera vastissima, la sua ricerca del tempo perduto, per innalzare sulla precarietà e la fallacia della vita, le colonne di una costruzione imperitura, destinata a durare per sempre.

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