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Le serenate del Ciclone

Romanzo

Romana Petri
Neri Pozza

Recensione di Maurizio Soldini
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Pubblicato il 22/04/2016 12:00:00

 

Vera e propria saga familiare il romanzo Le serenate del Ciclone, che Romana Petri dedica alla memoria del padre, Mario, detto appunto il Ciclone, famoso cantante lirico e attore, dal fisico titanico e dal carattere forte. Un uomo mitico, come è normale che spesso sia per un figlio, ma in questo caso per un quid in più, un uomo caratterizzato da quella fortezza che è spesso virtù di chi ha la consapevolezza di avere avuto un qualche dono di natura, in questo caso dote artistica e non solo, ma che sa quanto sia dura farsi da solo, soprattutto se le origini sono umili e se il contesto sociale è quello che è. Non basta, infatti, nella vita, essere dotato, come nel caso di Mario Petri, che pure ha in dono diversi talenti naturali, quali una bellissima voce e un fisico atletico. Ma ha anche una particolare sensibilità, che lo porta ad avere la curiosità tipica della conoscenza, che lo inducono sin da giovane a divorare libri su libri, di filosofia come di letteratura, in particolare romanzi e nella fattispecie quelli della grande tradizione letteraria russa con a capo Dostoevskij. Come dicevo, nella vita non basta dimostrare di essere un talento. Qualcuno ti apprezza pure, ma poi in determinati punti nodali c’è il rischio di incappare in persone non cristalline. Da ogni punto di vista. E in quel frangente l’invidia, il rancore, e vizi privati ma anche pubblici, ti inchiodano. Ti crocifiggono. E tu muori. Professionalmente, ma anche dentro. A Mario Petri succede proprio questo. E nonostante il plauso di maestri e artisti e personaggi della caratura di von Karajan, che incoraggiano e lanciano Mario, ci sono in particolare due personaggi, un uomo e una donna, che faranno sì che lui si debba incollare la croce per ben due volte, all’inizio e alla fine della sua carriera. Fine della carriera che sarà determinata, se non in tutto, ma in grandissima parte, proprio da un giovanotto rampante, che poi sarebbe divenuto famoso, un direttore d’orchestra, che non solo ebbe il suo momento di gloria proprio in virtù di una magnifica esibizione di Petri nel Maggio Fiorentino, che in parte andava a riscattare una performance musicale del direttore d’orchestra allora definita “bandistica” da parte della critica, ma perché questi non mantenne la parola di quanto avesse promesso in tema di future collaborazioni, ma soprattutto dimostrando la codardia dell’uomo che fugge dalle sue parole date, dalle sue promesse, e anche dalle gratitudini. Questo è quello che si apprende dalla narrazione. E anche altro. Perché anche se non esplicitamente dichiarato, la storia evidenzia come il disagio esistenziale di Mario, scaturito dalle vicende suddette, contribuirà in modo forte a quella sopravvenienza di malattie acute e esiziali, che nel caso di Mario si appaleserà in un battibaleno, con l’improvvisa rottura di un aneurisma dell’aorta addominale, che insieme ai dispiaceri accumulati, lo porterà a uscire una volta per sempre dalle scene di questo mondo, prima del tempo, prematuramente, a soli 63 anni. Fuori dalle scene, fuori dalla scena.

Ma c’è qualcosa di più forte della morte. E è quel senso di presenza nell’assenza che determina il permanere al di là della morte. È così che il riscatto, per quanto possa valere, ma secondo me vale, lo ritroviamo nella capacità di immortalare con un estremo omaggio nella parola a chi è legato a noi da un filo particolare. Romana Petri fa proprio questo. Narra le vicende - e lo immortala - del padre, il suo maggiore mito, attorniato da altri miti, come Kid, il fraterno amico del padre, mito privato, ma da tanti altri miti, anche loro privati, ma molti altri privati e nello stesso tempo pubblici, che avevano fatto parte dell’esistenza di un padre e anche di una figlia, che ora si ritrova a tessere le fila di una narrazione, realistica e mitica nello stesso tempo, di una mitologia che ancora fu possibile nel Novecento e che oggi ancora si dà nel XXI Secolo. Quella mitologia che riempiva le notti insonni di Mario e di Romana di racconti sul presente intrecciati dall’Iliade e dall’Odissea e dall’Eneide.

Il romanzo si snoda per 590 pagine fitte dove il racconto parte dalla realtà più cruda della quotidianità nella quale si accavallano vissuti racconti emozioni tra vita e morte tra piaceri e dispiaceri tra gratificazioni e umiliazioni per elevarsi talora all’epos e talaltra al mito senza pur tuttavia perdere di vista la commedia delle umane sorti, che non ci mettono poi tanto a virare in tragedia. La morte è comunque il tragico dell’esistenza. L’ineludibile e inesorabile. Ma a questo tragico esiste comunque il rimedio che non è un ripiego. E la cura per sopperire al tragico dell’esistenza la troviamo nella nostra possibilità di raccontare, di mettere in parole l’antidoto alla morte. Alla fine per sempre. Che paradossalmente diventa il fine che dà inizio.

Va dato atto a Romana Petri di essere molto abile nella scrittura. In questo romanzo come nelle precedenti prove. Il suo eloquio è naturale, scivola liscio, sia che usi il dialetto, per rendere più realistica la dimensione della provincia umbra, dove abitano le sue origini, e dove si giocano le prime fasi - e le ultime - del romanzo, sia quando usa con leggerezza e padronanza un italiano per niente appesantito dalla letterarietà e così vicino a un linguaggio quotidiano che non teme di incorporare gli idioletti che hanno fatto parte di una zona, di un quartiere, di un certo ambiente e di una certa epoca, nel qual caso a Roma a cavallo tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento.

Una nota del tutto personale. Il romanzo mi ha appassionato a maggior ragione dacché mi sono ri-trovato per buona parte del racconto nelle stesse zone di Roma,  tra Salario e Montesacro e dintorni, dove sono nato e cresciuto, per di più nello stesso periodo storico nel quale avvengono le vicende narrate. E il linguaggio usato e “parlato” è lo stesso col quale sono cresciuto in quel di Montesacro.

Ma al di là del fatto che il romanzo riguardi la storia di una famiglia e di un padre in particolare, e che taluni lettori, come me, possano trovare dei ganci che in qualche modo ci facciano aggrappare con tutti noi stessi per tornare empaticamente a vissuti in cui ci si possa facilmente riconoscere, ritengo che Le serenate del Ciclone sia un romanzo, che riguarda la più alta letteratura per il fatto che chiunque si può riconoscere nel narrato se letto con gli occhi il cuore e la mente di chi tra le righe di questa saga va a cogliere la metafora della vita in universali. Vita che ci riguarda in tutte le sfaccettature narrate, nel bene come nel male, fino a farci cogliere il senso dell’esistenza.

Le serenate del Ciclone, infatti, è il romanzo che fa della letteratura una questione di intreccio coeso con le questioni esistenziali. Il realismo che abita nelle pagine del romanzo è talmente forte che non si può fare a meno dell’immedesimazione fino alla realizzazione di quel processo catartico che smuove al sentire per agire. E è proprio dal sentire, dal sentimento, dalla passione, che parte Romana Petri, per approdare a figure di canto che riescono a com-muovere anche il lettore. Non mi vergogno a dire che in molti passaggi del romanzo, letto d’un fiato, nonostante il volume di pagine, ho provato vera commozione e che nelle ultime battute di questa storia mi è spuntata anche una lacrima.

 


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