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Luminosa Signora

Narrativa

Alfonso Lentini (Biografia)
Mauro Pagliai Editore

Recensione di Franca Alaimo
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Pubblicato il 29/04/2016 12:00:00

 

 Lettera veneziana d’amore e d’eresia

 (Postfazione di Antonio Pane)

 

“Se fossimo compiuti, ci basterebbe una sola parola. Una sola. Se invece ne usiamo moltissime è perché non abbiamo ancora trovato la parola assoluta, quella che esprime e riflette la totale compiutezza”. Mi sembra di dovere partire da questa affermazione per dire qualcosa di ragionevole su questo libro di Alfonso Lentini, Luminosa Signora, così camaleontico, così originale da sottrarsi ad ogni inquadramento in un determinato genere letterario. 

È vero che il sottotitolo recita: Lettera veneziana d’amore e d’eresia, eppure il testo si sottrae a dei tòpoi fondanti del genere epistolare, come per esempio l’intestazione e la determinazione temporale; e, inoltre, l’accostare termini come “amore ed eresia” lo fa slittare verso una sorta di quète du Graal; che sembra avere come meta quella parola assoluta a cui egli allude nel brano precedentemente citato.

Ma la parola assoluta esclude metafisicamente, se non teologicamente, le altre: di fronte al Verbum iniziale, di natura divina, che in sé include il tutto nominabile,  si contrappone il linguaggio umano che questo Tutto frantuma in minuscoli segmenti del discorso, così da trasformare la Verità  in una moltitudine di ipotesi, in uno strappo irreparabile che  rasenta l’eresia.

Lo strappo si concretizza in quella ferita, solco fra due lembi che mai più si toccano, che guasta il volto di quell’io narrante, identificabile non soltanto con l’autore, e infatti i pochi eventi narrati non sono del tutto conciliabili con la sua biografia, ma con un’intera generazione: quella post-sessantottina; e, infine, anche con ogni umana creatura.

La ferita post-sessantottina, narrata attraverso la figura emblematica del padre, grande sognatore e narratore di utopie, riguarda ancora una volta il tradimento perpetrato ai danni di quella Parola Assoluta, spesa da una generazione fantasiosa ed eroica per la conquista dell’ “uguaglianza” e la realizzazione del sogno impossibile di  “far coincidere l’uno con il molteplice”.

Il fallimento, essendo determinato dalla friabilità stessa del reale, si emblematizza in quella ferita immedicabile, che può essere anche l’inizio di un desbordamento, di un delirio finale o  follia, così  come accade al padre del narratore che muore in un’isola  della laguna veneziana. È lui che incarna la follia del sogno, dell’utopia, della fede ideologica.

La Parola poetica, che  si illude di rifondare il reale e di eternarlo, rappresenta anch’essa un’utopia che attraversa il mondo da sempre. Per questo motivo la luminosa signora è raccontata ora secondo gli stilemi del dolce stil novo, ora secondo una sovrabbondanza metaforica tipicamente seicentesca, ora secondo l’emblema  per eccellenza romantico della Luna, non per niente scelta dal Leopardi come la sua “eletta figura”, come direbbe Cristina Campo; ma anche come un’adolescente contemporanea che si veste e si comporta spregiudicatamente e che possiede perfino un cellullare, così come la raffigura spesso anche il poeta Barberi Squarotti.

Chi è, dunque, questa misteriosa e luminosa Signora  che dà titolo al testo, se non la Parola poetica che tenta di portare all’Uno tutto il reale? (“Scrivendo non faccio che copiare. Copio il suo corpo, così come lo vedo in sogno”). Quella Parola incantata che sta “fra l’essere e il non essere”, così come la città di Venezia, in cui gli eventi di questa trama  insieme “storica” ed evanescente, questi personaggi veri ed utopici hanno la loro ambientazione?

Nella luminosa signora  si rispecchia la realtà destinata alla morte, eppure trasportata in una dimensione eternante. E però essa, che è sempre viva, oltre i singoli, oltre i tempi della Storia e delle storie, non può rispondere alla Domanda più importante: perché tutto muore? E se la morte ha a che fare con la parola umana, quale altra parola dovremmo inventare? La domanda è reiterata, disperata, al limite dell’eresia, perché presuppone, come scrive Stefano Lanuzza, “una dubbia divinità o prova certa del fallimento della creazione” (“Siamo ipotesi di esistenza, modelli di creta o di gesso”).

E soltanto una volta, e soltanto nel sogno, sembra che la Signora risponda alla Domanda: “Avreste dovuto raccontare, costruire una lingua, che so, un qualsiasi sistema di segni o figure. Mantenere un filo. E invece. Invece avete permesso che arrivassero. Avete consentito che portassero via le montagne, sradicandole dal suolo come fossero cespugli. Avete permesso che chiudessero a chiave le aquile, riponessero i lupi nei cassetti, le scimmie negli armadi”. La Signora, insomma, dice quello che potrebbe dirgli il padre: che sarebbe necessario fare rivivere certe utopie per ricostruire le montagne, cioè l’altezza dei grandi ideali, le vette dell’utopia. E risponde lei perché la scrittura poetica e l’immaginazione  utopica sono un po’ la stessa cosa.

L’altra risposta è quella del narratore che al silenzio distruttivo della Morte oppone l’incantevole personaggio del suonatore di silenzio, che, mentre sta dirigendo i suoi orchestrali, ad un tratto, con uno scatto della mano chiusa a pugno, li fa tacere, immergendo il pubblico in un silenzio incantato, cristallizzato, ma popolato, pieno di suoni immaginari e bellissimi.

Mi rendo conto che questa che sono venuta tracciando sia solo una delle tante letture che di questo libro fervido e cangiante si potrebbero fare. Ma, al di là di ogni interpretazione soggettiva, ciò su cui ogni lettore dovrebbe soffermarsi è la raffinatissima elaborazione stilistica del testo, più prossimo alla poesia che alla prosa. I periodi frantumati, in cui sono disseminati simboli, metafore, immagini fiabesche somigliano a dei versi. Alcuni di essi ricordano per levità e la trasparenza della loro tessitura  verbale  a dei vetri soffiati, a delle perfette ragnatele che catturano colore e luce. Uno per tutti: “Una barca scivolava sulle increspature e il barcaiolo ritto in piedi sollevava con il remo lembi d’acqua come se girasse pagine trasparenti.”.

Gli echi letterari sono tantissimi: Mann, Vittorini, Montale, gli Stilnovisti, ma mi ha sorpresa di più, forse perché inusuale, il riferimento ad un episodio del romanzo di Curzio Malaparte “La pelle”, in cui, per esattezza nel capitolo settimo, a Napoli, in occasione di un banchetto a cui sono stati invitati ufficiali alleati e signore americane, viene servita la Sirena, pesce dell’acquario della città, che ha l’aspetto di una bambina bollita.  A pag. 48 del suo libro, infatti, l’autore, sfrondandola, però, d’ogni elemento macabro,  descrive una sirena allevata  “in una grande vasca di vetro”, bella come un cherubino “con il sorriso ingenuo e compiaciuto”:  immagine fascinosa  di una leggendaria età di miti e di sogni, così come ce la restituisce un altro scrittore  siciliano: Tomasi di Lampedusa.

Alfonso Lentini ci consegna, allora, un trattato di poetica che è anche una sorta di  “manuale” di sopravvivenza etica allo sfascio degli ideali e delle utopie che ha devastato il mondo contemporaneo. E lo fa all’interno di una trama surreale che ha l’allucinazione di un sogno, il movimento lento di uno sprofondamento dentro una dimensione a-temporale.

 


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