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Il bosco, il mondo, il caos. Come un romanzo

Narrativa

Stefano Lanuzza
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Recensione di Franca Alaimo
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Pubblicato il 03/06/2016 12:00:00

 

Il bosco come spazio di trasgressività

 

All’interno della destrutturazione del genere narrativo, dai primi tentativi della prosa volgare in Italia a quella logico-temporale del flusso di coscienza, per tappe intermedie; e, successivamente, per exempla più vicini, si inserisce il singolarissimo impasto linguistico de Il bosco, il mondo e il caos. Come un romanzo di Stefano Lanuzza, uno di quei pochi autori contemporanei che esercita la scrittura come gesto del tutto libero dal “pervasivo codice del dominio e delle sue predeterminate garanzie di senso”, così come da ogni scopo mercificatorio.

Come in un morality play medievale, il protagonista della narrazione è affiancato da una serie di figure allegoriche, quali la Malinconia, la  Bellezza, la Verità, la Morte che ci avvertono del carattere simbolico del bosco nel quale egli si aggira. E come nelle storie medioevali del ciclo bretone lo scopo è la ricerca del Graal, che però“non è in un tempio, ma nel bosco. Questo accoglie un laico castello fatto di muri coperti d’edera e di glicine. Il castello rappresenta la forza creativa e simboleggia, soprattutto, un’iniziazione trascendente e ‘immortalante’”. Il riferimento è chiaramente dantesco (Inferno, canto IV, vv. 106 -150), tanto più che vi abitano spiriti pre-cristiani i quali hanno coltivato la cultura con il solo scopo di acquisire una conoscenza della realtà e dell’uomo lontana da ogni prospettiva escatologica, cosa che per Dante costituisce un limite, mentre per Lanuzza è lo stigma di una vocazione laica, autonoma e pura.

Il bosco, già presente nel titolo della silloge Bosco dell’Essere editata nel 2000 (e, perciò, da leggere quale trait d’union fra scrittura poetica e prosastica, emblematico della fluida continuità della quête intellettuale dell’autore), è indicato, da subito, come uno degli elementi naturali (insieme al mare ed al falco ed alla casa di pietra) del paese natale dell’autore (Villafranca Tirrena): “Nato tra un bosco e il mare in una casa di pietra abbracciata dal glicine e lambita dal volo d’un falco solitario”. Così ha, infatti, inizio Il bosco, il mondo il caos. Come un romanzo.

In realtà il collocamento di quest’opera in prosa all’interno del genere romanzesco, come suggerisce l’autore, non è così ovvio.  Pur essendo rintracciabili, infatti, gli elementi fondanti del genere (un protagonista principale, che è lo stesso autore; una serie di comparse o “attori” comprimari; una collocazione temporale per lo più deducibile da una serie di  notizie sparse;  una serie di cornici spaziali ed un plot con una sequenza di nodi drammatici), la varietà degli esiti espressivi (aforismi, frammenti saggistici, lacerti autobiografici, riflessioni storiche, citazioni, definizioni, abbozzi d’articoli di taglio giornalistico, formulazioni di poetica e molto altro ancora)  potrebbe costituire una peculiarità ostante, a meno che non si voglia fare confluire tutto questo in una innovativa tipologia di romanzo, come racconto di un’avventura strettamente intellettuale.

A ciò indirizzano gli attori comprimari, connotati di un forte significato allegorico, la meta-spazialità (“spazio del viaggio nel bosco non è quello topografico, ma dell’esistenza”, pag. 9), l’accumulo delle esperienze e, come prima si accennava, i rapporti di ordine filosofico-conoscitivo che si vengono a stabilire fra bosco, mondo e caos. Il caos, intanto, appartiene ai primi due, ma con una netta diversificazione di senso. Se, infatti, il caos  s’identifica con il disordine e l’errore che governano il mondo, quello che appartiene al bosco (Ordinato… caos del bosco, pag. 3) ricorda  la visione positiva di certi autori degli ultimi anni del Novecento come Rodolfo Wilkock secondo il quale caos è “il momento di illuminazione in cui si percepisce la verità finora celata, e, mentre con rammarico si constata che perde senso ogni valore fino a quel momento seguito, ci si può immergere in una nuova esistenza”;  o come Guattari e Liu Sola, per i quali il caos “è un disordine piacevole e volutamente cercato, una incontrollata proliferazione di linguaggi, di comportamenti”  e perciò “un dispiegamento liberatorio di energie”, “la moltiplicazione dei punti di vista e della possibilità di scelta individuale della propria esistenza, che germogliano, come la vita stessa, dalla distruzione e dal rovesciamento dell’ordine preesistente” (Dizionario dei temi letterari, vol. I, pagg. 363, 364, Torino, Utet, 2007).

Una volta vagliati titolo e sottotitolo di Il bosco, il mondo, il caos. Come un romanzo, sarebbe inopportuno distogliere l’attenzione dalla copertina e trascurare l’analisi di un’immagine che si integra perfettamente con la sostanza  del testo. Si tratta del celebre ritratto di Don Manuel Osorio de Zuñiga, dipinto da Goya nel 1788. Il bambino, vestito di rosso, tiene legata ad una cordicella una gazza, fissata avidamente da tre gatti. Alla sinistra del bimbo una gabbietta meravigliosamente traforata contiene alcuni volatili: una tortora, sei uccellini giallo-neri e cremisi e dei cardellini. E poiché nel linguaggio simbolico gli uccelli che si alzano verso il cielo rappresenterebbero l’anima e l’innocenza (nelle favole si racconta che chi comprende il loro linguaggio conosce il mistero della vita), ed i gatti le forze del male, si potrebbe pensare ad una illustrazione dei confini che separano il fragile mondo infantile da quello degli adulti, o anche ad una allusione alla natura doppia dei bambini, innocenti nella loro crudeltà, sapientissimi nella loro immaginosa ignoranza.

Lo stesso Stefano Lanuzza definisce il ritratto “un quadro metafora dell’infanzia”  che gli ricorda quello più recente di Savinio (Autoritratto da bambino, 1927) e scrive:  “‘Fisica’ di Goya e ‘metafisica’ di Savinio: in tali due estremi la condizione dell’infanzia, sospesa tra realtà e fantasia, corpo e sogno, tragedia e beatitudine, incertezza e orrore, un sesso e un altro sesso. Perché i bambini di Goya e Savinio, i bambini in genere, sono spiritualmente ermafroditi: nella stessa condizione dell’artista per il quale – scrive Savinio – “la vita adulta è la continuazione naturale dell’infanzia” (pag.20).  Appena prima l’autore aveva definito l’infanzia come una “pregrammaticale lingua morta”, “un’incommensurabile riserva di lessici e urlo muto”:  identificandola tout court con quella stessa della poesia alla quale non interessa né imitare il linguaggio della storia o la dialettica ideologica, ma raccontare “la favola tremenda dell’infanzia”. E conclude: “Nessun dubbio nella scelta fra adultità e infanzia: una mente libera sceglierà, per una volta senza dubitare, il proprio cuore giovane. Qualcuno capisce come non si possa restare fedeli che a questo e soltanto a questo?”

E, dunque, il bosco che risuona di voci non-umane, di presenze “in-nocenti” ed “in-fanti”, di creature libere e violente come quelle dei rapaci, che obbedisce ciecamente al ritmo delle stagioni, che è kòsmos e libertà, armonia e follia creativa, dove vivono insieme le annunciazioni di vita e di morte, isola di solitudine, se pure all’interno del mondo, è “la Grande poesia: un bosco, che non fa parte dell’usuale paesaggio della comunicazione”.

Ricomponendo i frammenti sparsi nell’opera dell’autore, si potrebbero ricavare: un compiuto trattato di Estetica della Poesia; un saggio storico sui rapporti politico-economici fra Oriente ed Occidente; uno svelto taccuino di viaggi; un’autobiografia, sia pure sviluppata attraverso pochi punti nodali; una mappa delle letture dell’autore e delle sue preferenze nel campo dell’arte figurativa;  una sintesi dei più recenti ed efferati fatti di cronaca; una raccolta di aforismi, ed anche più di questo.

In ogni caso il fare, l’essere, il morire sono sottratti a qualsiasi senso ultimo; prima c’è il Nulla e dopo c’è solo il Nulla. Si comincia la lettura del libro a pagina 3 e, già dopo poche righe, la data di nascita 20-XI  richiama quella della morte, nello stesso giorno e nello stesso mese, di Tolstoj: il quale porge al ragazzo che nel frattempo ha sostato confuso e incerto  nel “Bosco dell’Essere” l’invito a “svignarsela”. Là egli va per liberarsi “dalle panie del sistema di cose quanto dei propri luoghi stanziali e dell’abitudine dell’‘abitare’ […] fino al rischio dell’esilio (pag. 14), “mano nella mano con un Angelo dalle ali scure” (pag. 16), che infine lo abbraccerà “avvolgendolo fra le coperte d’un letto fatto d’aria” (pag. 89).

Anche in questo libro come in tutti gli altri, non esclusa la sua produzione pittorica, Stefano Lanuzza celebra la trasgressione in compagnia di un falco. Il bellissimo rapace lambisce la casa di pietra dove ha inizio la vita dell’autore (pag. 3); e con esso, nell’età della giovinezza,  egli  intesse un rapporto d’amicizia. “Attraverso i boschi dei siciliani Nebrodi abitati dalla volpe rossa e dal notturno gatto selvatico, lo porti verso il monte Soro nei posti dove può procurarsi il cibo”, scrive a pag. 105 di Bestia sapiens (2006), dove come esergo viene citata una poesia di Montale dedicata ai falchi, e nella pagina che affianca l’Antefatto campeggia un disegno del volatile ad ali spiegate.

Che altro è il falco? Le risposte potrebbero essere molteplici e perfino fuorvianti, mi avverte lo stesso scrittore cui ho chiesto di rispondere alla domanda: esortandomi a pensare al falco come a una “kantiana cosa in sé”, a guardarlo “come-esso-è”: “una forma estetica perfetta”, che ha sempre stimolato la sua fantasia.

 


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